That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.007
- Di Centauri, Frati e Cacciatori
Un chiarore soffuso si levò da Oriente, emerse dietro la
corona di colline e squarciò le tenebre, dipinse di un rosa
irreale campi e villaggi e, come una benedizione, risvegliò
la valle, liberando il cuore degli uomini dai demoni
dell'oscurità. Per ultima, anche la tetra montagna di Am
Monadh fu baciata dal sole nascente: i roghi, che avevano bruciato i
suoi fianchi per gran parte della notte, erano stati spenti prima
dell'alba da una pioggia improvvisa e ora, come lacrime versate per il
sangue immolato, le ultime gocce scendevano dagli alberi a purificare
le ferite della Madre Terra. Il vento, lieve, spazzò via il
lungo silenzio atterrito, promettendo alle creature della foresta la
pace di un nuovo giorno: la lunga notte d'odio e sangue era finalmente
terminata, gli animali, rincuorati, iniziarono a lasciare i propri
rifugi. La vita riprese il suo normale corso...
Banrigh fu scossa da un brivido e si fermò su una sporgenza
di roccia a strapiombo sul fiume: il sudore, mischiato alle gocce di
pioggia, scendeva tra i suoi capelli e andava a bagnarle la schiena;
riprese fiato, reso corto dalla ripida salita, e, per la prima volta da
quando l'aveva sottratta alla morte, abbassò lo sguardo
sulla bambina che stringeva a sé: mentre correva, ne aveva
sentito il calore e il pulsare ritmico del cuore, attraverso il
mantello in cui la madre l'aveva avvolta, ma si era imposta di non
guardarla. Era stata una decisione saggia: come vide quel ciuffo di
capelli corvini e gli occhi chiari appena socchiusi, infatti, la
memoria del Centauro tornò agli orrori della notte
precedente e a lungo Banrigh non riuscì a soffocare il
proprio turbamento. Si trovava a poca distanza dal campo di battaglia,
quando aveva sentito sibilare il dardo che aveva trafitto Cormacc il
Mago; poco dopo, aveva visto con i propri occhi Sheira nic a'Thon, la
Sacerdotessa della Fiamma Verde, perdere le forze, accasciarsi a terra,
tra gli alberi, e morire. Banrigh non aveva potuto fare nulla,
incredula e inorridita era rimasta immobile, mentre ovunque, attorno a
lei, infuriava il massacro, il fumo si levava in spire soffocanti e
l'oscurità rossastra era squarciata dalle urla degli uomini
e dal lamento della foresta. La Strega le aveva chiesto aiuto,
consapevole di essere in punto di morte, eppure Banrigh si rifiutava di
credere che la grande Magia dei Daur si rivelasse inutile proprio in
quel frangente: fin da piccola, ascoltando le storie degli anziani, il
Centauro aveva immaginato che i Maghi fossero invincibili, quasi
immortali; da adulta, aveva avuto prova del loro leggendario potere
quando Cormacc MacArtgal aveva salvato il suo Keiron. Per questo non
riusciva a credere che Sheira potesse morire nel dare alla luce un
figlio, o che il Mago, trafitto, non fosse forte e potente a
sufficienza da rialzarsi, mettere in fuga gli uomini e portare in salvo
il bambino... Solo quando aveva sentito le urla e i passi minacciosi
avvicinarsi, Banrigh era uscita dall'apatia, aveva capito che doveva
andarsene o sarebbe stata a sua volta in pericolo, si era chinata sulla
bambina, l'aveva stretta tra le braccia e si era lanciata al galoppo,
senza più voltarsi. Non aveva pensato a nulla, non aveva
riflettuto su cosa fosse giusto e razionale fare, né alle
conseguenze delle proprie azioni, si era solo imposta di fuggire, il
più lontano possibile.
Ora che sorgeva un nuovo giorno, però, ora che la corsa
l'aveva portata lontano dall'orrore, nel folto della foresta, Banrigh
si rese conto delle difficoltà: per la piccola e per i suoi
fratelli, ammesso fossero ancora vivi, il pericolo era tutt'altro che
scampato, quella notte, infatti, il patto sancito tra i Centauri e i
Daur, al loro arrivo nella radura, era stato violato; anche se usata
solo per difendersi, la Magia aveva contribuito a portare morte e
distruzione nella foresta, pertanto, persino i più
tolleranti tra i suoi simili non si sarebbero più fidati dei
Maghi, non avrebbero rischiato altri lutti, non avrebbero permesso ai
ragazzi di restare. A nessuno di loro. Poco importava se, senza una
madre a nutrirla e accudirla, il lungo viaggio verso le Terre della
Confraternita sarebbe stato fatale a quella neonata, anzi... Banrigh
conosceva i più intransigenti del suo branco, da tempo
cercavano una scusa per allontanare i Daur dalla radura, sapeva
addirittura che alcuni di loro, i più esagitati, non
desideravano soltanto cacciarli via ma, in nome di un odio tra le due
razze risalente alla notte dei tempi, avrebbero colto l'occasione
più propizia per tentare di ucciderli. Banrigh, a sua volta,
rischiava conseguenze già solo per aver appoggiato
l'ingresso dei Daur nei territori di Am Monadh, anni prima... ora,
addirittura, stava vagando per la foresta con quella bambina tra le
braccia: la legge in tal proposito era chiara, qualsiasi intromissione
nella vita degli Umani era inaccettabile, gli altri, al suo posto,
avrebbero evitato la piccola fin dall'inizio, anche perché
il Destino, privandola dei genitori nell'attimo stesso in cui era
venuta al mondo, l'aveva chiaramente condannata a morte. Gli anziani
non avrebbero ascoltato, tanto meno accettato, giustificazioni al suo
comportamento, avrebbero potuto condannarla a morte insieme alla
bambina, i suoi figli esiliati dalla foresta... Forse, se avesse
accettato di rimediare al proprio errore senza opporsi, se avesse
abbandonato la piccola in riva al fiume, così che la natura
facesse il suo corso, nelle vesti di un lupo o di un orso affamato, il
branco si sarebbe accontentato di cacciarla, senza fare del male anche
ai suoi figli: ma questa era solo una speranza, non ne poteva avere la
certezza.
Un brivido le attraversò la schiena, una selva di pensieri
confusi le riempì la mente: il suo cuore si
ribellò all'idea della bambina inerme, nelle fauci di un
lupo, d'altra parte non voleva morire, né voleva vedere i
propri figli trattati come traditori e reietti. Guardò il
fiume, l'acqua trascinava rami secchi e detriti con estrema violenza,
si chiese perché rischiare, forse era tutto inutile, forse i
ragazzi erano già morti e non c'era più nessuno
che potesse occuparsi di lei: se l'avesse lasciata cadere da
quell'altezza, in quelle acque vorticose, la bambina avrebbe sofferto
molto meno che straziata dai denti di un lupo, sarebbe finito tutto,
subito, nessuno del branco avrebbe mai saputo la verità...
lo doveva ai suoi figli, ne andava del loro futuro... lo doveva al suo
piccolo Keiron...
… Al mio Keiron salvato dai Maghi...
In un lampo Banrigh rivide Sheira accovacciata a terra, accanto al
più piccolo dei suoi figli, gli teneva la mano, mentre
Cormacc impiastrava le erbe sul suo corpicino debole e febbricitante...
ripensò alla propria felicità, quando gli occhi
d'ambra di suo figlio si erano aperti e le sue piccole dita avevano
stretto con forza la sua mano. Invece di lasciarla cadere nel fiume,
nel disperato tentativo di salvarsi, Banrigh si trovò a
serrare ancora di più la presa sulla piccola Strega, come
aveva stretto a sé Keiron, quel giorno lontano, e come
avrebbe trattenuto i propri figli, se qualcuno avesse cercato di
strapparglieli via.
Non posso... e soprattutto... non voglio farlo...
Banrigh chinò il capo e lo mosse stizzita, per scacciare
quei pensieri contrastanti, gli zoccoli irrequieti colpirono violenti
la terra, sembrava voler pestare le emozioni che la turbavano, non
riusciva a compiere una scelta razionale, tra la legge della sua gente
e ciò che le imponeva il cuore: anche se, come tutti i
Centauri, riusciva a leggere gli arcani corsi e ricorsi del tempo e
riusciva a svelare i piani del Destino, si sentiva smarrita. Il
turbamento che provava era inevitabile, prevedibile, lo sapeva, la sua
gente si teneva alla larga dagli umani anche per questo,
perché interagire con loro significava doversi addentrare
nel terreno del caos, dell'irrazionalità, del dubbio. Il
Centauro respirò a fondo, si voltò, si
allontanò dal baratro per poi tornare indietro,
ripeté quell'andirivieni alcune volte, vittima
dell'incertezza, infine riprese a percorrere il sentiero, il passo via
via più veloce: no, non era una questione di sentimenti, la
sua, non si trattava neppure di una scelta, Banrigh violava la legge,
razionalmente e giustamente, perché, quando i Maghi avevano
salvato il suo Keiron, il Centauro aveva contratto un debito che andava
saldato, a qualsiasi costo. Molte delle conseguenze che la
spaventavano, inoltre, potevano essere evitate, se fosse stata rapida:
raggiunta la Sorgente, senza farsi scoprire, la bambina e i suoi
fratelli sarebbero usciti per sempre dalla sua vita e lei, rientrata
nel branco, avrebbe giustificato la prolungata assenza confessandosi
spaventata e turbata dalla lunga notte di violenza e orrore. Non
sarebbe stata neanche una bugia. Convinta, Banrigh riprese a correre,
senza farsi più distrarre da dubbi e ripensamenti. Per tutta
la notte aveva evitato i sentieri frequentati dalla sua gente e gli
altri percorsi più accessibili, in cui avrebbe potuto
imbattersi in qualcuno degli uomini disperati, dispersi nel bosco; ora
che si era fatto giorno, doveva muoversi con maggiore
rapidità e discrezione, per questo, per raggiungere la
Sorgente, decise di intraprendere la via delle rocce, più
corta e più ostica, per ampi tratti perpendicolare al fiume,
talmente scoscesa che persino gli animali più agili
evitavano di avventurarvisi. L'aveva scoperta presidiando il fiume e la
conosceva nei minimi dettagli, superare le sue mille insidie era
un'impresa ardua per chi l'affrontava con le mani libere, figurarsi per
lei che teneva anche un bambino tra le braccia: il Centauro
rischiò varie volte di scivolare e fu costretta a esitare
spesso, incerta sul bivio migliore da seguire, data la scarsa
consistenza e resistenza del terreno intriso di pioggia, ma non si
perse mai d'animo. S'impose di resistere alla fatica, al caldo, alla
fame, pur di recuperare il tempo perduto, di correre forsennatamente
negli ampi tratti pianeggianti immersi nella boscaglia. Affaticata,
Banrigh riprese via via il controllo delle proprie emozioni, arrivando
persino a elaborare un piano per aiutare i ragazzi a raggiungere le
Terre: giunta nella radura, presso la Sorgente, avrebbe consegnato loro
la bambina e indicato la strada che, circa diciotto anni prima, i
genitori avevano percorso per sfuggire alla Confraternita, li avrebbe
persino accompagnati per un tratto, se fosse stato necessario, avrebbe
spiegato al ragazzo più grande i trucchi per convincere le
“Madadha", le lupe, ad allattare la bambina durante il
viaggio.
Riprese fiato presso una cascatella, si rifocillò con bacche
e acqua fresca, e a un tratto la neonata vagì per la prima
volta, all'inizio timidamente, poi scoppiando a piangere disperata: la
Magia imposta dalla madre per calmarla doveva essersi esaurita e la
bambina, dopo ore di viaggio e di digiuno, era affamata. Quei lamenti
erano pericolosi, Banrigh lo sapeva, rischiavano di attirare le
attenzioni non richieste dei predatori e di eventuali sentinelle ma,
purtroppo, il Centauro non conosceva la Magia per calmarla
né, in quella zona della foresta, sapeva di lupe con
cuccioli cui chiedere di allattarla. Quanto a lei, aveva perduto
l'ultimo dei suoi figli da poche settimane, ma pur potendo avere ancora
del latte, non avrebbe dato a un estraneo, nemmeno per saldare un
debito, ciò che era destinato al suo piccolo. La custode del
fiume cercò una soluzione al problema poi, pur consapevole
dell'inadeguatezza di ciò che stava per fare,
cercò del miele, bagnò le labbra della piccola
con acqua e nettare, la lasciò succhiare, la deterse e la
riavvolse nel mantello. Sedati per un po' i lamenti, Banrigh riprese la
sua corsa, finché la vegetazione variegata si
serrò in un bosco compatto di soli faggi e il sentiero che
lo attraversava iniziò a digradare lievemente, seguendo la
linea più morbida di quello sperone della montagna: il
Centauro si fermò ed emise un sospiro liberatorio, quello
era il fitto bosco che terminava in una piccola radura circondata da un
semicerchio di querce e, ai piedi della ripida parete di roccia che la
chiudeva, sgorgavano le acque della Sorgente, protetta alla vista come
una gemma custodita in uno scrigno. L'ultimo tratto di strada era
coperto dalle fronde ombrose degli alberi, non avrebbe più
sofferto il calore del sole, né avrebbe corso il rischio di
scivolare e spezzarsi l'osso del collo. Gli zoccoli affondarono nel
morbido tappeto di foglie che preannunciava l'autunno ormai prossimo:
era trepidante, si guardò intorno, la natura
lassù non aveva subito le offese della notte, ma tutto,
dagli uccelli che giungevano dalla valle in volo, agli alberi che
ondeggiavano al vento, alle farfalle che danzavano nell'aria,
raccontavano da lontano l'orrore vissuto, il sangue che aveva
imporporato il fiume, la morte violenta che aveva danzato nella
foresta. Motivata e fiduciosa, Banrigh si lanciò al galoppo:
quando il cielo si oscurò, attraversato da un'ombra nera,
levata sopra gli alberi per pochi istanti e subito sparita, il bosco
ammutolì in un silenzio gravido di sinistri presagi e il
Centauro sentì un brivido gelido percorrere tutto il suo
essere. Le era parso di udire delle voci umane al comparire dell'ombra,
ma tentò di non farsi impressionare, doveva essersi trattato
solo di suggestione, dovuta alla paura e alla stanchezza, l'ombra
doveva essere solo una nube che preannunciava un temporale, motivo in
più per affrettarsi a raggiungere il semicerchio di querce.
Voleva tornare a casa, Banrigh. Voleva riabbracciare i propri figli,
lasciarsi quella notte d'orrore alle spalle. Riprese a correre,
caparbia e convinta. Fiduciosa. Inconsapevole di ciò che il
Destino aveva deciso per lei.
***
Non poteva crederci, il vecchio cappellano di Glower non riusciva a
capacitarsi di essere scampato alla morte: barcollando, fradicio di
pioggia, le vecchie gambe intorpidite dal freddo e dalla posizione
scomoda tenuta a lungo in mezzo ai cespugli, Gregorius uscì
dal nascondiglio, in cui aveva trovato riparo dalla ferocia dei lupi e
dalla furia del demonio, e si fece il segno della Croce, cercando nella
Fede la forza di camminare, scovandola in realtà nella paura
che ancora lo attanagliava. Si guardò intorno, aspettandosi
di essere di nuovo attaccato: quel bosco doveva essere l'anticamera
dell'inferno, non c'era altra spiegazione per quello cui aveva
assistito, serpenti che si svegliavano in piena notte e attaccavano,
creature mostruose, generate dall'empio amplesso di uomini e cavalli,
il demonio incarnato in un giovane capace di dominare la
volontà delle bestie. Gregorius chinò il capo,
supplice, ringraziando il Cielo, rabbrividendo ancora al pensiero degli
sguardi di brace dei lupi affamati, dei denti delle serpi che erano
scattati a straziare i corpi dei suoi fedeli: li aveva visti morire,
tutti, tra le sofferenze più atroci, chi ucciso da un veleno
tanto corrosivo da poter essere solo il seme immondo di Satana stesso,
chi sbranato da creature sanguinarie... Quanto al signore di quei
poderi, poi... il monaco chiuse gli occhi, sperando di non rivedere
più la testa mozzata del signore di Glower che rotolava a
terra, ai suoi piedi, e il nobile sangue che gli schizzava addosso,
impiastrandogli il volto e la tonaca. Aveva avuto paura, il vecchio
uomo di Dio. Ed era scappato, inseguito dalle belve. Accerchiato dai
lupi, si era rifugiato, non sapeva neanche come, tra i cespugli.
Lì, si era attaccato al Crocefisso di sua madre, pregando
tra le lacrime fino a perdere la voce, fino a fondere le sue vecchie
mani ossute nel metallo e nel legno del simbolo della vera Fede. Fino a
perdere i sensi. Non sapeva per quanto fosse rimasto incosciente nel
bosco, quando si era svegliato, però, era tutto finito. E
lui era ancora vivo.
Fece di nuovo il segno della Croce e, senza smettere di camminare,
cercò ed estrasse dalla tasca della tonaca il piccolo
crocefisso di avorio cui si era aggrappato tutto il tempo, donato da
sua madre, lady Eibhlin, nel loro castello di Morvedh (1), ormai una vita
prima, quando era partito dai territori di Kernow diretto al monastero
di (2)
Dún Ceartáin, in Irlanda, per volere di suo
padre. Non l'aveva più rivista. Mettendo la mano in tasca,
però, le dita del monaco avevano toccato anche qualcos'altro
e ora, bramose, s'immergevano di nuovo nel tessuto ruvido della tonaca,
per assicurarsi che quella parte dei suoi ricordi non fossero soltanto
frutto di un sogno: sua madre, la paura provata, la gratitudine verso
Dio, tutto svanì dalla sua mente appena sentì
l'oggetto rotondo e tiepido tra le dita. Un brivido di eccitazione
corse a scaldargli le membra intorpidite, la mente contorta da pensieri
che di spirituale avevano ben poco, proprio come la notte precedente,
quando non era stato capace di trattenersi ed era andato a frugare tra
le mani della Strega, il tempo di trovare ciò che cercava.
Ora avanzava distratto nel bosco, senza curarsi di benedire con i
sacramenti i corpi degli uomini massacrati nella notte, straziati da
oscene ferite, esposti alle intemperie e al dileggio delle bestie
selvatiche: sistemato il crocefisso sul petto, mentre il sole penetrava
tra le fronde e riluceva iridescente sulle gocce che imperlavano le
foglie, aveva estratto l'oggetto dalla tasca e ora teneva gli occhi
fissi sulla sua levigata perfezione, la mente lontana dai doveri di un
Uomo di Dio. Si fermò, alzò la mano,
lasciò che il sole colpisse la purezza della pietra verde
incastonata alla semplice verghetta di ferro: estasiato e, al tempo
stesso, spaventato, rigirò l'anello tra le dita, fino a
illuminare i segni incisi all'interno della fedina. Erano chiamate
“Rune” ma erano l'alfabeto del demonio, come aveva
appreso dal priore di Dún Ceartáin, fin dal suo
arrivo in Irlanda.
«Ancora loro... sempre loro...
come sospettavo... le bestie della Confraternita...»
Il sole filtrava tra le fronde e Gregorius tremava, stretto nelle sue
vesti lerce di fango e foglie marce: presto sarebbe tornato al
castello, solo, affamato, ferito, avrebbe raccontato a Milady e al
primo Consigliere quello che era accaduto, la disperazione avrebbe
pervaso il maniero, dal ricco palazzo del signore di Glower e dalle
sudice casupole della più miserabile plebaglia, ovunque si
sarebbero levati i pianti e i lamenti del lutto... Il terrore per una
successione difficile e per una nuova, probabile, guerra avrebbe
spezzato anche l'animo dei più coraggiosi. Il monaco,
però, era già lontano da tutto questo, non aveva
interesse verso gli abitanti del castello in cui viveva e serviva come
predicatore e confessore da vent'anni; i suoi occhi avevano
già smesso di vedere la foresta straziata e i suoi orrori,
correvano invece alla verde terra di Kernow che gli aveva dato i
natali; le sue membra non erano più vecchie e stanche, erano
quelle gracili di un ragazzino di quattordici anni... persino il nome
che risuonava nelle sue orecchie, mentre qualcuno lo chiamava, non era
Gregorius, ma Madron. Uguali a se stessi, restavano solo la paura,
l'odio e la rabbia.
*
A Madron era stato
imposto dal padre, signore di Morvedh, un nome che prometteva fortuna e
felicità; in realtà, fin da bambino, il
primogenito di Lord Gorlas era sempre stato cagionevole di salute, al
punto che, ormai adolescente, tra i guerrieri e i consiglieri di suo
padre, continuava a sembrare solo un moccioso; persino e soprattutto se
messo a confronto con Bithek, l'unico altro figlio maschio,
illegittimo, di suo padre, di appena un anno più grande. In
continua lotta con i vicini bellicosi, persa ogni speranza, dopo anni
di tentativi, di avere un altro figlio maschio dalla pia moglie,
incerto sull'effettiva possibilità di ottenere una
discendenza forte da quell'unico erede legittimo, Gorlas ruppe ogni
indugio e, come regalo per il suo sedicesimo compleanno, disse al
figlio che era inadatto a ereditare nome, titolo e averi, e che il
convento di Dún Ceartáin, nell'ovest
dell'Irlanda, lo avrebbe accolto tra i suoi confratelli. Bithek il
bastardo, a sorpresa, si sentì nominare erede del titolo e
di ogni sostanza del casato al posto del fratello minore. Madron non
desiderava possedere le terre e sapeva che Bithek, così alto
e forte, sarebbe stato un erede più adatto, inoltre amava
studiare e vivere tranquillamente, non immaginava per se stesso un
futuro da condottiero; nonostante tutto questo, però, non
voleva neanche prendere i voti, né vivere la vita che suo
padre aveva scelto per lui: non aveva alcuna vocazione, non voleva
passare la vita a pregare al freddo e al gelo, in piena notte,
né elemosinare un tetto e un pasto caldo facendo il
mendicante di villaggio in villaggio. Soprattutto, non voleva essere
allontanato da lì, dalle persone cui voleva bene, da sua
madre in particolare, l'unica tra tanti a soffrire apertamente della
decisione presa dal marito.
Per settimane Madron
aveva riflettuto, aveva scelto le parole adatte, aveva cercato il
coraggio necessario ad affrontare suo padre, finché gli
aveva chiesto udienza e, pur tremando come una foglia e balbettando
più del solito, alla presenza dei consiglieri, del
cappellano e di suo fratello, gli aveva chiesto il permesso di restare
in quella casa, senza pretendere nulla, offrendosi al contrario di
tenergli in ordine i conti, di vivere come uno degli uomini che
stipendiava, non essendo all'altezza di potersi considerare
suo figlio. Lord Gorlas l'aveva fissato a lungo, all'inizio, poi, a
poco a poco, davanti a ogni parola stentata del sangue del suo sangue,
aveva abbassato gli occhi per non doverlo guardare, gli angoli delle
labbra piegati in un'espressione aspra e feroce. Prima che il giovane
finisse, giudicata sufficiente l'umiliazione subita a causa sua, aveva
chiesto a Piran, lo scemo di corte, che gironzolava per i cortili del
maniero sempre insieme al suo maialetto pezzato, di passargli la corda
legata all'animale e al notaio di prestargli piuma e pergamena, poi si
era alzato, si era avvicinato alla bestia e con il bastone gli aveva
toccato la schiena ruvida, nominandolo “secondo contabile e
scrivano”. Tra le risate generali, schiumante di rabbia, il
signore di Morvedh si era rivolto infine a Madron, rosso in volto per
la vergogna, e gli aveva sputato addosso che il posto richiesto era
appena stato occupato, poi avviandosi con passo spedito e nervoso verso
il fondo della sala, aveva ordinato ad alta voce al cappellano di
prendere accordi con il convento irlandese, così che Madron
partisse non più tardi del giorno di Santo Stefano. Madron
era rimasto sconvolto da quanto era accaduto, non solo per
l'umiliazione subita e la partenza anticipata, ma perché, da
quel momento, il padre impose al resto della famiglia di non
rivolgergli più neanche la parola. La partenza fu fissata
per il giorno di Santo Stefano, due mesi prima del suo diciassettesimo
compleanno, aveva dieci mesi per imparare tutto ciò che gli
era necessario alla vita monastica: di colpo, quel tempo passato
pressoché sempre da solo con i suoi libri di preghiere, in
silenzio, a parte quando recitava i salmi con il cappellano, gli parve
infinito.
C'era solo Kera a
illuminargli per alcuni minuti la giornata, una ragazzina poco
più piccola di lui, giunta dalle colline dei dintorni l'anno
precedente, poco appariscente, ma capace, con la sua risata schietta e
il suo buon cuore, di illuminare la vita delle persone che la
incontravano. Madron ringraziava tutte le sere il Signore per aver
mandato Kera a rendere i suoi giorni meno tristi e disperati, anche se
sapeva che doveva resistere e non pensare a lei, per non soffrire
ancora di più quando se ne fosse andato. Le sue intenzioni
erano buone ma anche inutili, sentiva il suo cuore riempirsi di
felicità solo perché lei cantava facendo il
bucato nel cortile, o perché entrava nella sua stanza,
lasciando sul tavolo un vaso pieno di fiori appena raccolti, o gli
sorrideva, mentre puliva via le tracce di inchiostro dalla scrivania su
cui studiava. Non ebbe mai il coraggio di dirle neanche una parola,
figurarsi tentare di baciarla o sfiorarle una mano, ma sapeva di
essersi innamorato di lei, perché si ritrovava a immaginare
la sua voce e il suo volto, in ogni istante, restando fisso sulla
stessa pagina, per ore e ore, perso in pensieri tutti suoi. Quando
Bithek e la sua orda di amici più grandi capirono che Kera
stava portando un barlume di felicità nella sua vita di
derelitto, iniziarono a dare il tormento a entrambi, prendendoli in
giro senza pietà: di solito si appostavano presso la stanza
di Madron e quando lei usciva la sbeffeggiavano, la sottoponevano a
scherzi crudeli o le riversavano addosso parole oscene e irripetibili,
tentando persino di metterle le mani addosso; quando invece
incrociavano lui, a capo chino, al seguito del cappellano, all'inizio
ridevano e dicevano battute sconce, poi iniziarono a mimare tra loro
gli atti impuri che un uomo fa con una donna, sghignazzando che solo i
veri uomini potevano farlo, mentre lui non avrebbe mai potuto,
perché non era neanche un vero maschio. Madron taceva
sempre, il volto in fiamme, sapeva di non poter fare nient'altro, aveva
paura per sé e per Kera, della reazione che avrebbe potuto
scatenare: era ancora scottato dai risultati dell'aver parlato
apertamente con suo padre. Inoltre sapeva che con suo fratello,
soprattutto quando era con quegli zotici dei suoi amici, ormai non si
ragionava più, non era la stessa persona con cui giovava da
bambino, e la nomina a erede sembrava aver tirato fuori tutte le sue
peggiori inclinazioni. Madron sopportò, ignorò,
sottovalutò per settimane e per mesi. Finché, sul
finire dell'estate, il giorno dell'equinozio d'autunno, tutto
precipitò.
I cieli del Kernow
avevano perso i loro colori fluttuanti per ammantarsi di una coltre di
grigia nebbia che saliva dal mare, rendendo di colpo la giornata breve
e oscura. Madron era stato con il cappellano, quel pomeriggio, a
ripetere a memoria i salmi che avrebbe dovuto cantare a Dún
Ceartáin, di lì a pochi mesi, non si era lasciato
distrarre nemmeno dalle urla di suo fratello e dei suoi compari che
erano salite dalle scuderie per tutto il tempo: non era strano,
esageravano sempre quando Lord Gorlas era fuori, a controllare e
raccogliere le rendite degli amministratori più lontani.
Stando agli stridii del maiale, sembrava che per quel giorno se la
fossero presa con Piran e Madron tirò un sospiro di
sollievo: sapeva di non doversene rallegrare, certo, ma se si erano
già sfogati con quel poveretto, c'erano buone
possibilità che, almeno per quel giorno, avrebbero lasciato
in pace lui e la piccola Kera. Uscito da solo dalla cappella, vide
Carrow, il figlio del fabbro, che vagava per i corridoi un po'
instabile sulle gambe, come fosse ubriaco, Madron accelerò
il passo, avendo cura di strisciare quasi contro la parete, dalla parte
opposta, ben intenzionato a non rivolgergli la parola, né a
guardarlo, per non dargli nessuna scusa per attaccar bottone. Quando
gli passò accanto, però, senza mostrare alcun
rispetto per quello che era pur sempre il figlio del suo signore,
Carrow non si era limitato a sputargli addosso una delle solite
cattiverie, ma gli aveva sbarrato la strada e l'aveva addirittura preso
per la collottola poi, ridendo sguaiatamente, gli aveva messo una mano
sulla bocca per farlo tacere e l'aveva trascinato per un braccio fino
ai sotterranei da dove si accedeva alle scuderie. Madron
provò a opporsi, ma quel giovane, temprato dal lavoro fisico
quotidiano nella fucina del padre, aveva una forza dieci volte
superiore alla sua. Un'intensa sensazione di indefinito pericolo colse
il ragazzo quando si ricordò che quel giorno non c'era
nemmeno Timotheus, il fabbro: Carrow aprì la porta della
scuderia, il maiale di Piran corse fuori a tutta velocità,
trascinandosi dietro un tanfo intenso di escrementi e carne bruciata, e
incespicò su Madron che, già malfermo sulle
gambe, rovinò a terra. Il carceriere scoppiò a
ridere, lo prese per un braccio, lo trascinò dentro e rapido
chiuse la porta dietro di sé. Infreddolito e spaventato, al
buio, il ragazzo non aveva compreso subito la situazione, poi i suoi
occhi si abituarono all'oscurità della stalla e con un tuffo
al cuore si era reso conto che non erano soli: suo fratello e almeno
altri due dei suoi peggiori compari, scarmigliati ed esaltati, a torso
nudo, sudati e ubriachi, si affrettarono a uscire dai loro nascondigli
e a rimettere un catenaccio alla porta, Madron cercò di
sgusciare via dall'uscita laterale che dava sul cortile, ma Carrow gli
fu addosso in un attimo, lo spinse con il viso contro il muro e gli
ficcò da dietro un panno lercio e maleodorante in gola,
perché non gridasse, poi, iniziò a legarlo con
una delle corde che assicuravano i cavalli alla parete.
«Lascialo libero di muoversi, è innocuo! E
sarà più divertente... voglio vederlo
ribellarsi...»
Bithek gli si
avvicinò, lo fissò per alcuni istanti, poi la sua
mano salì a togliergli anche il panno puzzolente dalla bocca.
«Non serve neppure questo... non ha le palle per ribellarsi,
e anche se lo facesse... chi gli presterebbe ascolto?
Ahahahah»
Scoppiò a
ridere, gli altri risero con lui, Madron, libero, tentò di
nuovo di scappare, svelto cercò di raggiungere la porta
laterale e mettersi in salvo, da qualsiasi genere di carognata suo
fratello avesse ideato per lui quel pomeriggio, ma quando
già era sulla porta la nuova risata di Bithek e la voce
rotta di una ragazza gli pietrificarono la mano sull'anta di legno.
«Cosa ti dicevo, puttanella? Guarda come se la dà
a gambe quel coniglio del tuo innamorato! Non gli interessa quello che
può capitarti... anzi... che ti è già
capitato... ahahah...»
Madron si
voltò, Bithek e gli altri stavano ridendo, tra loro c'era
Kera, a terra, in lacrime, con le vesti lacere e insanguinate, il volto
pesto e lividi ovunque riuscisse a posare gli occhi. La vide respirare
male, molto male, gli occhi vuoti, assenti. Due di loro la presero e la
ributtarono nella paglia, Bithek gli rise addosso, e gli diede le
spalle. Anche Carrow non si curò più di lui.
Madron non seppe mai cosa gli accadde in quel momento. Mai. Dove
trovò la forza di non crollare a terra, di non piangere, di
non urlare. Di non scappare. Attorno a lui erano solo risa e lacrime,
la luce tremula di una candela sullo sfondo, il tanfo acre di sangue e
carne bruciata, poi tutto divenne oscurità. Sentì
il legno stretto nella sua mano tremante, il peso del forcone, tale da
poterlo solo trascinare.
Risate, lacrime, urla, risate, urla, risate... Risate, risate...
Sentiva il dolore del
peso estremo, tale da spezzargli il braccio... Sentì il
dolore della spinta del suo corpo contro un altro corpo... Vide il
fiato che usciva dalle labbra incredule di suo fratello, prima
irridenti, poi esangui... Vide il sangue, tanto sangue, che gli
schizzava addosso... La luce di quei suoi occhi, accusatoria, mentre si
spegneva... Alcune mani lo presero, lo colpirono, lo schiaffeggiarono,
lo sbatterono contro la parete, alcuni corpi gli furono addosso, lo
pestarono, i cavalli nitrirono, spaventati dalla violenza e dal sangue,
dalle urla, uno scalciò contro il legno, la parete
vibrò, la vibrazione si propagò e la candela
cadde. La paglia si incendiò. Fu il caos: gli altri
fuggirono, si calpestarono a vicenda, furono calpestati dai cavalli in
fuga, nessuno si curò di lui, o di Bithek o di Kera. Madron
vide uno dei cavalli impazziti alzarsi in piedi, imbizzarrito e
ricadere giù, centrando con lo zoccolo la testa di suo
fratello e scappare. Poi non vide più nulla, non
sentì più nulla.
Si riprese quando un
brivido gelido corse sulla sua pelle nuda, subito dopo
arrivò il suono secco e il dolore feroce della scudisciata
sulle natiche peste. Urlò e sputò sangue e fumo,
con le poche forze che aveva si puntellò sui palmi per
sollevarsi, ma non ci riuscì, rovinò sulle sue
braccia, sotto gli improperi e le urla di chi aveva appena aperto le
porte dei ruderi della scuderia. Non capiva nulla, prima di tutto come
fosse ancora vivo. Non vedeva nulla, la sua testa era confusa, come
quella volta, un paio di anni prima, quando Bithek gli aveva fatto bere
idromele con l'inganno e la fantesca l'aveva trovato riverso a terra,
nel porcile. Con gli occhi appannati riuscì a riconoscere un
mucchietto di vestiti lerci che emergevano dalla paglia davanti a
sé, con orrore riconobbe il grigio tenue della casacca di
Kera: era lei quella cosa bruciacchiata e sanguinolenta che
intravedeva, inerte, ai piedi di Piran, seduto, completamente nudo e
ubriaco, contro la parete della stalla. Non capiva. Cercò di
alzarsi, ci riuscì, si voltò, nudo come un verme,
e si ritrovò davanti suo padre, preda della rabbia
più feroce che gli avesse mai visto, dietro di lui il
cappellano e diversi altri adulti che non riuscì neanche a
riconoscere, che si facevano il segno della Croce davanti al corpo
esanime di suo fratello. Lord Gorlas aveva la frusta in mano ed era
pronto a colpirlo di nuovo, gli urlava contro il nome di suo fratello e
lo strattonava, il ragazzo non capiva, non reagiva, l'uomo in lacrime
gli diede uno schiaffo in faccia tale da girargli la testa dall'altra
parte, poi il cappellano riuscì a fermarlo, e il lord se ne
andò urlando che avrebbe decapitato tutti quanti per
vendicare la morte del suo erede.
Quella sera, mentre le
donne si occupavano del corpo di Bithek, Gorlas convocò i
suoi consiglieri e il cappellano, Madron fu sottoposto a un
interrogatorio serrato, furono coinvolti tutti gli altri giovani
presenti, il quadro di quel pomeriggio di sbornia e depravazione fu
delineato in ogni singolo dettaglio, ma sembrava che il signore di
Morvedh non fosse soddisfatto di quella spiegazione, non riusciva a
credere che Madron, noto a tutti per la sua codardia, avesse ucciso
Bithek per una ragazzetta delle cucine. Ordinò al cappellano
di esprimersi su quanto era accaduto la sera stessa: il vecchio,
intorpidito dalla malattia e dall'abuso d’idromele,
controllò Madron, gli fece delle domande, scuotendo pensoso
la testa e recitando le sue litanie con spirito sempre più
afflitto, poi il ragazzo fu invitato a uscire e condotto nelle sue
stanze, dove restò solo con i propri pensieri fino a tarda
notte. Quando il capo della guardia salì a riprenderlo,
mancava poco all'alba: davanti al padre e ai consiglieri stremati,
Madron sentì il vecchio cappellano sentenziare che Piran era
il responsabile di ogni evento, pur noto a tutti per essere sempre
stato un buon cristiano, pacifico e timorato di dio. Non doveva essere
in sé quando aveva attirato con l'inganno Bithek e i suoi
amici, dividendo con loro il vino che aveva annebbiato le loro
coscienze. Il vino che la serva gli aveva chiesto di portare al giovane
erede di Morvedh. Era lei, perciò, la
“femmina”, la vera responsabile: nessuno ne
conosceva le origini, si presentava in ritardo e malvolentieri alle
funzioni religiose, e nessuna ragazzina, a meno che non fosse una poco
di buono, avrebbe mai tentato di attirare su di sé le
attenzioni di un giovane destinato a consacrarsi a Dio, al punto di
sporcarne l'anima con un delitto. L'oscurità di cui era
serva, aveva incitato i ragazzi coinvolti a esagerare nella lussuria e
nella violenza, diceva il cappellano, finendo con l'esserne lei stessa
vittima.
Lord Gorlas, uomo
particolarmente religioso ma soprattutto superstizioso, sentendo
parlare di oscurità, interruppe la riunione, non volle
sentire altro, condannò Kera e Piran all'abisso, senza altri
indugi, quanto a Madron, ingiunse che partisse immediatamente per
Dún Ceartáin, e ordinò che fossero
recitate preghiere per un anno, nella speranza che la vita del
monastero e i salmi delle pie donne, purificassero quel maniero e
l'anima del figlio macchiata dall'atroce delitto commesso. Il
cappellano per scrupolo, chiese e ottenne di verificare l'eventuale
presenza del segno del diavolo sul corpo della ragazza, che fu denudata
davanti a tutti, fu così che Madron aveva visto per la prima
volta sul petto acerbo e tumefatto di Kera strani
ghirigoro di inchiostro nero: ne decoravano parte del corpo, il collo,
il ventre, le dita dei piedi e delle mani, là dove la
giovane portava sempre delle piccole bende. Il cappellano
alitò facendosi il segno della Croce “la nenia
infernale...” e subito costrinse le guardie a
portarla via, a legarla a un carro di buoi e a prepararsi a condurla al
pozzo. Era l'ultima occasione per Madron di intervenire e salvarla, ma
non lo fece: la sua mente ricordava le parole udite da sua zia, lady
Ailla, sua figlia era stata rapita e disonorata, la notte di Beltane,
in un bosco vicino al loro maniero, da una bestia immonda facente parte
della “Confraternita”...
I tatuati erano pagani,
dediti ancora all'antica religione, figli del demonio da tutti
riconosciuti per i segni che portavano sul corpo, simili a quelli di
Kera: facevano parte di una confraternita sacrilega, vivevano sulle
colline ai margini delle foreste, non si vedevano mai, agivano
nell'oscurità di cui erano servi e ogni tanto uscivano a
rubare nei granai e nei campi, o per rapire le giovani timorate di Dio
per i loro turpi sacrifici. A volte, per qualche motivo, alcuni di loro
venivano allontanati e cercavano, come Kera di vivere tra le persone a
modo, ma prima o poi dimostravano a chi era realmente consacrata la
loro anima. Madron comprese che era colpa di quella Strega se il suo
spirito era stato avvelenato, era stata lei, con le sue malie a far di
tutto perché si ribellasse alla volontà
paterna... Era stata lei a far impazzire suo fratello e i suoi amici.
Convinto di tutto questo, non solo non difese la giovane, ma
addirittura si offrì di accompagnare gli altri per vederla
calare nel pozzo oscuro, il luogo che quei pagani un tempo veneravano,
sotto un cerchio di pietre, che i suoi antenati avevano cercato di
abbattere. Giunti sul posto, la ragazza aveva urlato, anche Piran aveva
urlato, mentre gli altri li schernivano, li maledivano, li
ingiuriavano, e il cappellano cantava le sue litanie, Madron chiese e
ottenne di gettare su di loro la pece, poi accese al braciere
la fiaccola e infine, la gettò nello stretto pozzo. Solo
allora sentì la vicinanza di tutti gli altri, solo allora
non vide scherno o sospetto nei loro volti. La fiammata
risalì fino alla superficie, accompagnata dalle urla dei due
morenti. Madron aveva il volto inondato di lacrime, ma le sue labbra
continuarono a incitare come tutti gli altri al grido di
“morte, morte”... Quando guardò suo
padre, per la prima volta nella sua vita vide un cenno di
soddisfazione. Sua madre si tolse il crocifisso dal collo e glielo pose
dalle mani, per tutta la notte e il giorno seguente pregarono insieme,
finché all'alba, partì sul suo carro, diretto in
Irlanda.
*
Madron prese i voti
definitivi al compimento del sedicesimo anni in Irlanda, dove prese il
nome di Gregorius, suo padre impegnò quasi tutte le risorse
del proprio casato e impose nuove tasse ai suoi sudditi per erigere un
santuario alla Vergine, su una delle scogliere che dall'altopiano di
Morvedh si conficcavano a picco nel mare del Kernow. Il giorno della
consacrazione dell'edificio, Gregorius ottenne di poter far visita alla
sua famiglia, ma sua madre era già morta da alcune
settimane. Ammirò la piccola chiesa, con il piccolo
chiostro, sarebbe stata la sede di una comunità di monaci
irlandesi... Celebrò la funzione e legò quel
luogo al nome di sua madre, poi, prima di ripartire per la sua vita,
camminò a lungo sull'altopiano, vagò,
osservò ciò che restava dell'antica foresta,
abbattuta per volontà di suo padre, per scacciare
definitivamente gli spiriti degli antichi e non permettere
più le immonde feste di Beltane. Arrivò fino alla
pietra forata, le tre oscene pietre, intorno alle quali si celebravano
da secoli riti pagani, attratti dalla chiara simbologia fallica, erano
state abbattute, non si sarebbe più attraversata gattonando
per propiziare la propria fecondità, né per
sanare fanciulli, perché la grazia andava richiesta solo al
Signore... Pesanti non era stato possibile spostarle
né distruggerle, ma Gregorius sapeva che, prima o poi,
l'erba avrebbe coperto tutto quanto e il ricordo sarebbe sopito. Si chinò, raccolse
uno stelo d'erba, lì vicino, nascosta tra erba e terra,
c'era una delle tessera di pietra incisa con gli strani simboli che
aveva visto sulla pelle di Kera, l'alfabeto del diavolo, se ne
trovavano ancora tante nei dintorni... E tutti erano soliti gettarle
nel pozzo oscuro che si apriva nei pressi delle tre pietre. Gregorius la prese, si
incamminò di nuovo tra le pietre, osservò le rune
incise sulla pietra forata, raggiunse il pozzo,
sollevò la mano e gettò la tessera all'interno.
***
Aprì gli occhi, Cuilén. Supino, aprì
gli occhi al gorgheggiare degli uccelli e, come ogni mattina, davanti a
sé, vide solo tanto verde. Infagottato nella sua coperta,
spostò appena lo sguardo e vide il verde degli alberi anche
alla sua sinistra e pure alla sua destra. Tanto verde, certo, ma di una
tonalità stranamente cupa, non il solito verde brillante
riscaldato dal sole che gli accarezzava lo sguardo ad ogni risveglio.
Forse
oggi ci sono le nubi oltre le chiome degli alberi...
Quando voltò del tutto la testa, però, vide poco
sopra di sé un limpido raggio di sole che penetrava tra i
rami, illuminandoli di una luce tenue. Il bambino non capì
il motivo, ma notò subito che c'era qualcosa di strano. Gli
alberi erano strani, erano... anzi “non erano” i
suoi alberi: erano altrettanto alti, certo, e grandi, e... ma erano...
diversi...
Sto ancora sognando?
Il bambino si stiracchiò, percorso da un brivido di freddo,
si chiese dove avesse calciato via la sua pelle di orso, durante la
notte, e perché suo fratello non l'avesse rivestito, come
faceva sempre, visto che gli era rimasto addosso solo il mantello;
sperò che non fosse finita nel fuoco o suo padre, stavolta,
si sarebbe arrabbiato sul serio. Sbadigliò e
iniziò a strofinarsi con energia gli occhi, ancora impastati
di sonno poi, a fatica, si sollevò a sedere, sicuro di
essere finalmente sveglio, le mani appoggiate a terra, dietro di
sé.
«Ahi!»
Si sentì come... pungere... Guardò in basso e si
accorse di non essere sopra la paglia che gli preparava
Dòmhnall, per proteggerlo dall'erba madida di rugiada, ma
sulla terra nuda, o meglio, sulla terra ricoperta da aghi di pino:
nella sua radura c'erano molti alberi, sua madre gli aveva insegnato a
riconoscerli, ma non c'erano mai stati pini, non capiva
perciò da dove venissero tutti quegli aghi. Confuso,
Cuilén alzò gli occhi, si guardò
ancora intorno, stavolta non osservò le chiome ma i loro
fusti. E di nuovo non capì perché fossero
così diversi.
Che cosa è successo alla mia radura?
Non aveva risposte, Cuilén, allora, con
l'ingenuità dei suoi pochi anni, prese il mantello e se lo
tirò fin sotto il mento, si stese di nuovo, sicuro che ci
fosse una sola spiegazione possibile: stava ancora dormendo e sognando,
pertanto non c'era da preoccuparsi, suo fratello dormiva al suo fianco
e presto l'avrebbe svegliato, toccandogli delicatamente un braccio, o
scompigliandogli i capelli.
Ha
promesso di portarmi a provare il richiamo, oggi... e se l'ha detto,
Dòmnhall lo farà...
Si accoccolò sul fianco, chiuse di nuovo gli occhi,
spostò appena una gamba contro il proprio ventre:
sentì qualcosa di appuntito premere sulla sua pancia,
ricordandogli improvvisamente quanto bisogno avesse di fare
pipì. Si tirò su di soprassalto: anche l'altra
volta credeva di sognare e invece... No, sogno o veglia che fosse, non
voleva che finisse come l'ultima volta che suo padre l'aveva trovato a
bagnare il letto. Non voleva essere punito. Non quel giorno. Mentre si
alzava, confuso e come sempre preoccupato dalle reazioni paterne,
Cuilén percepì il fruscio di qualcosa che cadeva
a terra, in mezzo al soffice tappeto di aghi di pino; si
chinò, gli occhi lo videro, la mano lo afferrò,
le dita ne percorsero leggere la superficie liscia, su cui si
rincorrevano intagli precisi. Il cuore iniziò a battere
accelerato, quasi a volergli scoppiare via dal petto.
Che
cosa ci fa il richiamo per uccelli di Dòmhnall, a terra, se
questo è solo un sogno?
Il bambino non capiva, si strofinò ancora una volta gli
occhi e si guardò ancora intorno: era certo di essere
sveglio, era chiaro, quello non era un sogno confuso ma la
realtà, però non capiva perché tutto
fosse così strano. Ricordò i lamenti provenienti
dalla tenda della madre, le spiegazioni di Dòmnhall attorno
al fuoco, il richiamo fatto da suo fratello solo per lui: la sera
precedente era nato loro un fratellino... Un'idea spaventosa
iniziò a farsi largo nella mente del bambino.
No, non è possibile... ma se... invece...
«Dòmnhall!
Dòmnhall! Dove sei?»
Pronunciò il nome di suo fratello, una prima volta piano,
poi lo urlò, una volta, due volte. Non capiva,
Cuilén, mentre la terza volta il nome dell'amato fratello
usciva dalle sue labbra solo come un sospiro, tra le lacrime che
iniziavano a rincorrersi sulle sue guance infuocate. Si
guardò attorno, girò su se stesso, aspettandosi
di vedere apparire il fratello da dietro quei tronchi fitti, ma attorno
a sé c'era solo un silenzio irreale: quando l'avevano
sentito urlare, infatti, le creature della foresta erano ammutolite
tutte insieme e ora restavano in silenzio ad ascoltare il suo pianto.
Cuilén attese, incredulo, si pizzicò una gamba,
per essere sicuro di non dormire, lo ripeté ancora e ancora
e ancora, ma anche se i lividi sbocciavano fitti sulla sua pelle
tenera, non cambiava nulla, lo circondava un silenzio strano e
spaventoso e un mondo diverso da quello che aveva lasciato la sera
precedente: attorno a sé, c'erano solo alberi sconosciuti,
una penombra densa, qua e là rischiarata dalla luce che
filtrava a stento, non c'erano più la tenda di sua madre,
illuminata dalla luce della Fiamma Verde, o il sacco a pelo di
Dòmnhall, steso accanto al suo giaciglio, né i
resti del loro falò, o la voce spaventosa del fiume che
l'aveva sempre terrorizzato, giorno dopo giorno.
Non c'è più neanche l'erba umida di rugiada...
Perché? Dove sono?
Suo padre e suo fratello gli avevano insegnato a fare silenzio nel
bosco, per non far fuggire le prede e non essere individuato dai lupi,
ma Cuilén aveva troppa paura di essersi perduto,
all'improvviso le sue labbra iniziarono a piegarsi e a distendersi a
ripetizione nel nome di sua madre e di suo fratello, l'aria usciva in
grida disperate dal suo corpo, rubandogli tutto il fiato, fino a
lasciarlo sfinito, a terra, preda dei singhiozzi. Violenta lo colse la
paura di essere stato abbandonato nel cuore della notte da quel padre
che non lo amava e non l'aveva mai amato, disperato immaginò
che avesse deciso di lasciarlo in pasto ai lupi, perché ora
aveva un bambino nuovo che avrebbe preso il suo posto, il posto del
figlio che lo deludeva sempre: il terrore lo pietrificò, il
calore del sole che stava ormai scivolandogli addosso, filtrando tra le
fronde, nulla poteva contro il gelo che sentiva nel cuore. Con le
lacrime agli occhi guardò con più insistenza, ma
non c'era nulla da guardare, solo alberi e alberi... tutti uguali e
tutti ignoti, cercò tra i suoi ricordi, ma non era mai stato
portato dai suoi, durante la caccia o la raccolta, in un posto simile.
Per sicurezza, si avvicinò al pino nero sotto il quale si
era svegliato, accarezzò la sua corteccia, si
chinò a raccogliere i suoi aghi, chiuse gli occhi e
ascoltò il fruscio che facevano mentre cadevano, aveva visto
sua madre fare spesso così, come se gli alberi fossero
capaci di parlarle; rimase immobile, ascoltando il silenzio tetro di
quella foresta, in cui nemmeno gli uccelli cantavano più:
per quanto si concentrasse, però, nessun ricordo era
ricollegabile a quelle sensazioni. Cuilén capì di
essere perduto.
Perché Dòmnhall glielo ha lasciato fare?
Dòmhnall mi ha sempre protetto... e ha sempre rispettato le
promesse fatte...
Un'intera foresta si apriva tutto attorno a lui, tutta uguale, non si
vedevano neppure sentieri da seguire, né orme che
indicassero una direzione. Sua madre gli aveva detto molte volte che se
si fosse perduto nel bosco non doveva muoversi, doveva restare fermo in
un posto preciso, trovare un punto riparato e aspettare di essere
trovato. Non era mai accaduto ma sua madre glielo ripeteva sempre e
Cuilén ascoltava, perché era un bambino
ubbidiente. Quel giorno, però, mosse dei passi, nemmeno se
ne accorse, all'inizio: le sue gambe cercavano di portarlo lontano da
lì, dal pino ai cui piedi si era svegliato, dal mantello
che, caduto a terra, indicava dove avesse passato la notte.
Cuilén camminò, deciso a raggiungere un albero di
fronte a lui, ma più camminava, più si trovava
sempre nello stesso punto, come se una mano invisibile rendesse vani i
suoi movimenti. Si voltò e di corsa provò
un'altra direzione e ancora un'altra e ancora un'altra.
Provò e riprovò, ma pur mettendoci tanta energia
e caparbietà, alla fine si ritrovava sempre a pochi passi
dall'imponente pino nero. Qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte,
ora lo sapeva, era stato Dòmnhall a condurlo fin
lì: lo riconosceva, usava quell'incantesimo quando lo
portava con sé a raccogliere erbe o a cacciare, per
proteggerlo da cadute, aggressioni di animali selvatici o altri
incidenti, se si trovavano da soli in un luogo potenzialmente
pericoloso.
Perché Dòmnhall mi ha portato qui in piena notte?
E perché non torna da me, ora, quando lo chiamo?
Affamato, sfinito, spaventato, Cuilén si lasciò
cadere a terra, il viso nascosto tra le braccia, mentre calde le
lacrime gli segnavano il viso e le sue labbra ripetevano quel nome,
sempre più lentamente, sempre più silenziosamente.
«Dòmnhall...»
Si addormentò così, con la schiena appoggiata al
tronco del pino nero e il sole che gli scivolava addosso, scaldandogli
prima i piedi e in seguito, su su, tutto il corpo, fino agli occhi.
Quando sentì un rumore di legna secca calpestata e spezzata,
a pochi passi da lui, rinvenne spaventato, le pupille che si annerivano
velocemente, in allerta: guardò davanti a sé, ma
non vide nulla, il sole filtrava con un'angolazione tale, ormai, da
rendere il suo orizzonte stretto e oscuro. Sentì dei passi
pesanti frusciare sul tappeto di aghi di pino, passi che non avevano
nulla di umano. Si tirò in piedi, Cuilén, di
soprassalto, portando gli occhi a un'altezza sufficiente a uscire dal
raggio di sole e vedere qualcosa: di fronte a lui si ergeva una massa
oscura, pesante e greve, ma non riusciva a metterla a fuoco;
sentì subito il suo cuore accelerare i battiti, preso tra il
terrore e la speranza, quando si rese conto che al suo fianco c'era
anche un uomo. Trattenne un grido e provò a scivolare
rapidamente dietro il tronco del pino, per nascondersi, senza capire
che l'estraneo l'aveva già visto e, soprattutto, l'aveva
udito gridare. Il suo gesto improvviso e concitato, inoltre,
strappò alla massa informe un verso che gli fece rizzare i
peli in mezzo alla schiena, anche perché, nello stesso
istante, la vide avventarsi rapida e furiosa su di lui.
«Buono Heliantòs...
buono! E tu stai fermo, ragazzino... non aver paura...»
L'ombra umana riuscì a far arretrare la massa informe,
sfiorandogli, pareva, una testa munita di becco e dandogli qualcosa da
mangiare, poi tese la mano verso di lui; Cuilén, che al
tentativo di aggressione si era buttato a terra, si
raggomitolò su se stesso, nascondendo di nuovo il capo tra
le braccia, ma lasciando gli occhi sopra l'incavo, così da
vedere cosa stesse accadendo. Un bagliore argenteo impedì
all'uomo, proteso verso di lui, di chinarsi abbastanza da toccarlo,
vide la sua mano ritrarsi, come se fosse stata colpita da una
sensazione dolorosa: lo scudo di Magia che suo fratello gli aveva
eretto intorno stava facendo il suo dovere, e il cuore di
Cuilén si aprì, al pensiero che
Dòmnhall non l'avesse abbandonato, ma l'avesse, come al
solito, protetto. L'uomo, dopo un istante di esitazione, non si diede
per vinto, prese qualcosa dalla cintola, in controluce a
Cuilén parve fosse solo un rametto di legno, la
puntò verso il bambino e pronunciò delle parole
strane, che non assomigliavano a nulla che avesse mai sentito uscire
dalle labbra dei suoi genitori, quando evocavano il fuoco, o curavano
le ferite alle sue ginocchia sbucciate. L'uomo tentò
più volte, con parole diverse, invano, e Cuilén,
via via sempre più rassicurato dall'incapacità di
quell'uomo di raggiungerlo, prese coraggio e alzò la testa
per guardarlo. Ancora una volta il sole gli impedì di
metterlo a fuoco, vedeva soltanto che era molto alto, quasi quanto il
suo papà. All'ennesimo tentativo, però, la mano
dello sconosciuto arrivò su di lui, fino a sfiorargli i
capelli, proprio quando ormai Cuilén era certo di essere al
sicuro, cogliendolo di sorpresa; il bambino urlò,
cercò di alzarsi e fuggire, ma l'uomo, rapido, gli fu
addosso, lo prese per i polsi e lo bloccò, sollevandolo da
terra. Cuilén si divincolò, come facevano i
conigli che Dòmnhall prendeva al laccio, ma esattamente come
loro, la sua resistenza si rivelò presto inutile e
deleteria. Con il fiato reso grosso dalla paura e dall'agitazione,
sfinito, il bambino dovette arrendersi; immobile, riuscì a
mettere a fuoco i tratti del suo aggressore, attraverso lo sgaurdo
pieno di lacrime: era un uomo ancora giovane, dai lunghi capelli
corvini, il volto in buona parte coperto da una fitta barba
cespugliosa, un cacciatore, probabilmente, visti i pugnali che portava
alla cintola e le vesti macchiate di sangue.
«... Stai calmo... Non voglio
farti del male, voglio solo sapere il tuo nome...»
Cuilén girò il volto e non rispose. Voleva sua
madre, la voleva in quel momento, disperatamente. Si morse l'interno
della guancia per non scoppiare a piangere.
«So che sei spaventato...
Dimmi solo sì o no... Sei tu Cuilén, figlio di
Cormacc MacArtgal e di Sheira, figlia di Thon? »
Il bambino si voltò a guardarlo, udendo i nomi dei suoi
genitori, improvvisa avvampò in lui la speranza che
quell'uomo sapesse dove fosse la sua famiglia; doveva essere
così, nessun cacciatore che viveva in quei boschi poteva
sapere tante cose, lui stesso aveva saputo il nome dei suoi nonni solo
spiando suo padre che insegnava a suo fratello un po' di storia della
Confraternita. Cuilén, però, era anche un bambino
ubbidiente e sua madre gli aveva sempre detto di diffidare degli
estranei, perciò, nonostante la speranza, non poteva fare a
meno di chiedersi chi fosse quell'uomo e come facesse a conoscere il
suo nome e quello di suo padre. Aveva paura, come mai ne aveva avuta
prima, nemmeno quando Cormacc, suo padre, l'aveva gettato nel fiume.
Incrociando gli occhi dello sconosciuto, però, qualcosa in
quell'intenso colore grigio impose a Cuilén di fidarsi e non
avere paura; quando poi i suoi occhi scivolarono sul collo sporco e
sudato dell'uomo e notarono Rune simili a quelle che portavano i membri
della sua famiglia, Cuilén non riuscì
più a trattenersi, annuì, chiese della sua mamma
e scoppiò in un pianto dirotto. L'uomo non lo riprese per
quelle lacrime, come faceva sempre suo padre, anzi, gli
passò la mano forte e ruvida sui capelli, toccandolo
delicatamente, come se fosse qualcosa di estremamente prezioso.
Cuilén alzò gli occhi su di lui, il volto
dell'uomo si aprì in un sorriso di incoraggiamento.
«Mio Signore... non dovete
temere... Daghall il Nero è qui per voi, per portarvi a
casa... sano e salvo...»
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno già letto, aggiunto a
preferiti/seguiti/ecc, recensito questa ff. In questo capitolo e nel
prossimo presenterò due nuovi personaggi, Gregorius e
Daghall, che avranno un ruolo nel futuro dei ragazzi e del patriarca
degli Sherton, Hifrig. Riguardo alle note:
1) Morvedh
è l'antico nome cornico di Morvah, una
cittadina della Cornovaglia celebre per un sito dell'età del
bronzo Mên-an-Tol,
che abbiamo già incontrato in That Love (il luogo in cui
Fear e Alshain trovano antiche tessere con incise delle Rune e,
più recentemente, la grotta in cui Lord Voldemort ha tenuto
prigioniero Alshain). Anche tutti gli altri nomi sono tratti dalla
tradizione cornica, Kernow per esempio è l'antico nome della
Cornovaglia.
2) Dún Ceartáin
è il nome gaelico di una località, Gleann an
Ghad, nel nord ovest dell'Irlanda, anch'esso famosa per un cerchio
di pietra.
A presto.
Valeria
Scheda
Immagine
|