6.efp
6.
The nearness of you
-
It's not the pale moon
that excites me
That thrills and delights me, oh
no
It's just the nearness
of you -
(Glenn Miller – The
nearness of you)
Elena
Due minorenni con la gonna talmente invisibile da far voltare
mezza clientela, quella con il cromosoma Y, e da farmi domandare se ci
sia qualcosa di sbagliato in me per non aver mai indossato niente del
genere, né adesso né tantomeno a
quell’età. Un ragazzo con le unghie lunghe ed i
capelli più unti del doppio cheeseburger con bacon e
cipolle, quello per gli stomaci più temerari. Un altro
sedicenne che apparentemente è convinto di dover sostenere
una conversazione con le mie tette.
Trovare
un rimpiazzo per Vicky si sta dimostrando un’impresa
più ardua di quanto potessi mai immaginare.
Perciò,
quando la rossa dai capelli scompigliati e lo sguardo impertinente mi
dice di aver lavorato quattro anni in un Irish pub di Philadelphia, mi
sembra perfino troppo bello per essere vero.
“Come
sei finita qua in Virginia, se posso chiedere?” le domando
dopo aver dato un sorso di assaggio al Whiskey sour perfettamente
equilibrato che ha appena preparato.
“Penso
di aver avuto bisogno di un posto nuovo, dove ricominciare,”
risponde poggiandosi all’indietro contro il ripiano del
bancone. Devo avere lo sguardo piuttosto interrogativo,
perché, accennando un mezzo sorriso, mi spiega,
“Colpa di una storia finita male. Non è per quello
che la gente di solito decide di cambiare aria?”
Forzo
un piccolo sorriso, impreparata alla piccola stretta che per un attimo
mi ha contratto il petto.
“Immagino
di sì,” scrollo le spalle, “Non saprei
dirlo.”
“Posso
chiedere cos’è successo con la ragazza che
c’era di prima?” mi chiede increspando
appena le sopracciglia.
“L’ho
sorpresa nella dispensa con le gambe intorno a mio fratello.”
Sgrana
gli occhi azzurro chiaro e li sposta subito su Jeremy, che sta passando
a distribuire ordinazioni tra i tavoli. Si fa sfuggire un sibilo basso,
a metà tra il malizioso e il divertito. “Beh, non
posso biasimarla.”
L’occhiataccia
che le lancio, però, la fa subito scoppiare a ridere.
“Rilassati,
posso assicurarti che tuo fratello non è il mio tipo nel
modo più assoluto,” si affretta ad aggiungere. Un
altro mezzo sorriso le spunta sulle labbra quando il suo interesse
viene colpito da qualcos’altro alle mie spalle. “La
tua amica, però … è davvero
carina.”
Presa
alla sprovvista dal suo commento, mi volto verso il punto,
all’altra estremità del bancone, da cui le mie due
migliori amiche stanno cercando di attirare la mia attenzione. O
almeno, è quello che sta facendo Caroline, che agita un
braccio in aria neanche dovessi individuarla nel parterre di un
concerto. Bonnie, invece, distoglie immediatamente lo sguardo con un
lieve scatto della testa. Corrugo la fronte, confusa. “Torno
subito.”
“Chi
è quella?” mi chiede timidamente Bonnie non appena
le raggiungo. E’ solo perché la conosco
così bene che noto, sulla sua pelle color caramello, una
leggera, altrimenti impercettibile, colorazione quando la rossa lancia
un altro sguardo nella sua direzione.
“Si
chiama Sage, sto pensando di assumerla.”
“Chi
diavolo se ne importa,” ci interrompe subito Caroline, che
sta chiaramente fremendo di impazienza. “Possiamo passare
alle cose importanti? Me.”
Si indica con entrambe le mani ed un sorriso le illumina il volto.
“Non
ci crederai. Beh, in realtà sì, è
ovvio che ci crederai, perché è logico che, se
c’è qualcuno che se lo è meritato,
quella non avrei potuto che essere io, insomma, riuscire a tenere le
fila di tutto, essere chiamata agli orari più assurdi, a
volte penso che davvero non so cosa potrebbero fare senza di me,
sarebbero persi, te lo dico io, e poi tutto quel lavoro che ho fatto
per la mostra doveva ripagarmi in qualche modo, del rest-”
“Care,”
la ferma Bonnie, richiamandola con uno sbuffo.
La
pausa forzata se non altro permette alla bionda di riprendere un attimo
fiato.
“Sono
stata promossa!” annuncia euforica accompagnando la notizia
con un battito di mani emozionato.
“Non
è davvero stata promossa,” aggiunge Bonnie
cercandomi per un’occhiata d’intesa, che suggerisce
quanto bene conosciamo la nostra amica. “Ma le piace
crederlo.”
“Non
essere la solita guastafeste! Sono assistente esecutiva
adesso!” la rimbecca l’altra.
“Hai
avuto un aumento di stipendio?”
“No,
ma …”
“Continuerai
a fare esattamente quello che facevi prima?”
“Sì,
ma …”
“Visto?
Non sei davvero stata promossa,” sospira Bonnie.
Caroline
la liquida con un movimento sbrigativo della mano, come se stesse
scacciando una mosca fastidiosa.
“Congratulazioni,
Care,” le dico riuscendo a stento a trattenere una risatina
divertita.
“Grazie,
lo sapevo che tu
avresti capito.” Scocca un’altra occhiata in
direzione di Bonnie tanto per dimostrare la propria
superiorità nei confronti del suo solito scetticismo, e
prosegue gongolante. “Quindi, per festeggiare, siete tutte
invitate a casa mia … sì, insomma, da Stefan.
Domani sera. Il giardino è magnifico in questo periodo
dell’anno, ed è l’occasione perfetta per
quel barbecue che tanto avevo in mente da tempo. So che è
con poco preavviso, ma pensi di farcela a venire?” mi domanda
speranzosa.
Getto
uno sguardo verso Sage, che sta ancora aspettando una mia risposta
definitiva.
“Sì,”
dico, “Penso di sì.”
“Grandioso!”
cinguetta Caroline.
Saluto
le mie amiche e vado a mettermi d’accordo con la mia nuova
barista, che sembra più che entusiasta di essere stata
assunta.
Approfitto
di un momento di calma per rimettere un po’ in ordine dietro
al bancone. Sistemo i bicchieri e passo velocemente una spugna umida
lungo i ripiani. Mi blocco di colpo, però, mentre sto
svuotando e ripulendo i filtri della macchina da caffè,
congelata da un pensiero improvviso.
Caroline
non ha fatto menzione della possibilità che anche Damon sia
presente domani sera.
Il
ricordo dell’ultima volta che abbiamo parlato, il giorno
dell’inaugurazione della mostra a villa Lockwood, mi porta in
gola un sapore amaro. Da quel giorno è passata
più di una settimana, durante la quale Damon non
l’ho più né visto né
sentito. Come Caroline mi ha fatto casualmente sapere, sono consapevole
del fatto che negli ultimi giorni non sia stato a Mystic Falls, ma in
California, dove è tornato per questioni di lavoro.
Tuttavia,
ciò non mi impedisce di immaginare che il suo non essere
passato neppure per un saluto veloce sia un indicatore piuttosto chiaro
del fatto che la mia confessione di voler ristabilire un buon rapporto
con lui sia caduta completamente nel vuoto.
Forse,
non dovrebbe neanche importarmene. Ma invece, mio malgrado,
è così, soprattutto se penso a quanto sia stato
ingenuo, e sciocco, da parte mia poter sperare, anche solo per poco,
che alcune cose potessero essere riaggiustate e tornare a come quando,
tra noi, tutto era più semplice. O se non altro
così sembrava.
“Non stai
parlando sul serio.”
Damon
continuò a darmi la schiena, intanto che finiva di tirare
fuori e rimettere in ordine alcuni dischi nella sezione dei vinili, ma,
seduta sopra la postazione di legno che fungeva da cassa, riuscii lo
stesso ad osservare le sue spalle alzarsi e abbassarsi in
quell’atteggiamento di noncuranza che avevo ormai imparato a
riconoscere così bene.
“Puoi
scommetterci che parlo sul serio,” replicò
risoluto.
“Damon!”
proruppi con sconforto crescente di fronte alla sua incredibile
testardaggine, “Sono disperata! Non so se ti rendi conto
della gravità della situazione: la festa di compleanno della
migliore amica è tra meno di un’ora ed io non ho
niente da regalarle perché me ne ero completamente scordata.
Tu devi aiutarmi.”
“Dille
semplicemente che ti sei dimenticata e vedrai che
capirà,” mi rispose voltandosi giusto un secondo
per farmi intravedere il suo sorrisetto sprezzante, prima di tornare
allo scaffale successivo e a farmi avere una conversazione con la sua
nuca.
Colma
di frustrazione, scossi la testa e feci dondolare le gambe con
impazienza.
“Non
Caroline,” dissi convinta, “E’ una che
prende il suo compleanno molto seriamente. Tu non la conosci.”
“E
neanche ci tengo a farlo. Quella lì sembra una vera rottura
di palle da avere intorno.”
Con
un sospiro, gettai un’occhiata fuori. Una pioggia novembrina
leggera ma costante continuava a scendere in rivoli contro la porta a
vetri e contro l’unica piccola vetrina che la affiancava,
entrambe già con le serrande mezze abbassate per indicare la
chiusura del negozio al pubblico. La gialla luce artificiale che
illuminava la stanza, sembrava rendere le strade all’esterno
ancora più buie di quanto non fossero.
“Damon,”
tentai nuovamente, con più calma, decisa a tutti i costi a
farlo ragionare, “Tutti i negozi sono già chiusi.
Non ho tempo. Non ho altre alternative.”
“Elena,”
replicò, girandosi verso di me ed imitando la mia stessa
voce pacata, una cosa così fastidiosa che mi
strappò un’alzata di occhi verso il soffitto,
“Puoi fare tutti gli occhi cerbiattosi che vuoi. Non ho
nessuna intenzione di farti un cd di Avril Lavigne,”
ribadì con una smorfia disgustata.
“Scordatelo.”
“E’
la sua preferita, non devi mica ascoltarla tu.”
Si
avvicinò a passi decisi, e solo all’ultimo momento
mi resi conto che adesso aveva qualcosa tra le mani. “Tieni,
se proprio vuoi piuttosto regalale questo.”
Mi
rigirai tra le dita il cd che mi aveva appena messo in grembo, un solo
nome scritto con il pennarello nero sopra ad una custodia spoglia.
“Arcade
Fire? Mai sentiti.”
“Ovvio,
è uscito da poco. [1]”
“Lo
getterebbe via alla prima occasione,” scossi la testa per
bocciare la sua opzione, ma lo riposi ugualmente sopra la mia borsa con
l’intenzione di prenderlo per me. Difficilmente, in tutto
ciò che Damon mi aveva passato sottobanco nelle ultime
settimane, c’era stato qualcosa che non mi fosse piaciuto.
Sospirai. “C’è nessun modo in cui posso
sperare di convincerti?”
A
quelle parole, mi sembrò di intravedere nel suo sguardo una
piccola scintilla maliziosa. Posò le mani sulla superficie
di legno, ai lati delle mie gambe, e si sporse fino a portare il volto
a pochi miseri centimetri dal mio.
Il
mio cuore fece una piccola capriola per la sorpresa. Le sue labbra
erano all’improvviso così vicine da farmi
avvertire il suo respiro sulle mie.
“No,”
scandì lentamente, appena prima di far incurvare un angolo
della bocca verso l’alto in un ghigno divertito.
Quel
suo mezzo sorriso però scomparve, quando anche io mi protesi
in avanti, riducendo ancora di più le distanze. Non si
ritrasse, ma un moto di incertezza balenò nei suoi occhi
azzurri.
“Per
favore?...” domandai di nuovo in un soffio.
“Oh,
fanculo,” bofonchiò tra i denti mentre, scuotendo
la testa, si allontanava di scatto e mi girava intorno per andare a
mettersi davanti al computer posto al mio fianco.
“Se
lo dici a qualcuno,” mi minacciò, facendo guizzare
velocemente lo sguardo su di me, “neanche quei tuoi begli
occhi da Bambi ti salveranno la prossima volta.”
“Non
lo farò,” lo rassicurai convinta. Dovetti
sforzarmi per trattenere il sorriso che rischiò di sfuggirmi
quando mi ritrovai a domandarmi se mi avesse per caso appena fatto un
complimento.
Rimasi
ad osservare il suo profilo illuminato dalla luce azzurrognola dello
schermo, soffermandomi sul modo in cui ne accarezzava gli zigomi e il
profilo della mascella e gettava una strana sfumatura sui suoi occhi,
rendendoli di un blu quasi irreale. C’era semplicemente
qualcosa in lui … non mi meravigliava che così
tante ragazze ne fossero attratte.
“Vuoi
venire con me stasera?” azzardai a domandargli tutto
d’un tratto.
“Dove,
alla festa di una che ascolta Avril Lavigne?”
replicò con una vaga smorfia che da sola bastava a far
trapelare quanto ritenesse assurda quella proposta. “E poi,
ho già altri piani.”
“Oh,”
mormorai, scacciando via la mia delusione, “Ok.”
Il
suo telefono prese a vibrare contro il ripiano sul quale era posato.
Mentre Damon lo prendeva in mano per controllare chi fosse, scorsi il
nome Sarah lampeggiare sullo schermo. Lo riposò e lo lascio
suonare, ma un altro moto di delusione ritornò prepotente
quando non potei fare a meno di domandarmi se fosse proprio
“Sarah” il suo piano per la serata.
“Ecco
tutto il tuo concentrato di pessimo gusto,” aprì
lo sportellino del cd, lo infilò dentro una custodia e me lo
porse con un sorriso leggero, “Divertiti stasera.”
Si
infilò la giacca di pelle e finì di chiudere il
negozio.
Prima
che me ne andassi mi salutò, come da qualche tempo aveva
preso abitudine di fare, posandomi un veloce bacio sulla fronte. Mi
fece sentire così piccola che, per la prima volta, desiderai
che non lo avesse fatto.
Sono già in ritardo, naturalmente. Ma, a dispetto di questo,
continuo a tirare fuori vestiti dall’armadio e a cambiare
idea sui diversi abbinamenti. L’ultimo cambiamento
è stato scartare una camicetta nera senza maniche a favore
di una maglietta di raso color verde scuro, che ricade morbida sulla
gonna a vita alta dal fondo nero e stampe di rose bianche e che se non
altro si abbina alla stessa tonalità di verde che compare
anche nel disegno [2]. Non ne sono ancora del tutto convinta,
però, dal momento che nessuno degli accessori che uso di
solito, sparsi sulla scrivania, sembra andarci bene.
Mi
accuccio sul fondo della cabina armadio ed inizio ad aprire i vari
cassetti, cercando in fretta e furia qualcosa che possa soddisfarmi.
Mi
blocco quando la vedo, una fine catena d’argento con un unico
ciondolo nero di ossidiana. Mi ero quasi dimenticata che potesse essere
lì. La prendo titubante e lascio scorrere la catenina tra le
dita, con la goccia nera, le dimensioni di una mandorla, che spicca
contro il palmo della mia mano.
Mi sento
stringere il cuore per tutto ciò che mi fa ricordare.
C’era un periodo in cui non la toglievo praticamente mai. E
non posso indossarla, lo so che non posso. Però questo non
mi impedisce di provarla, solo per un momento, per vedere
l’effetto che fa.
La
allaccio dietro al collo, lottando un po’ con la massa di
capelli, e mi alzo per osservarmi nello specchio. Si posa a meraviglia
sullo scollo dal taglio orizzontale, e non resisto alla tentazione di
passarci sopra le dita.
Ma
non posso indossarla. Anzi, proprio in questo frangente a maggior
ragione, dovrei rimetterla esattamente dove l’ho appena
trovata.
Il
suono del campanello mi fa sobbalzare improvvisamente. Non sto
aspettando nessuno ed il primo pensiero che mi passa per la testa
è che si tratti di Jeremy che finalmente si è
deciso a tornare.
Non
ha passato una notte a casa da dopo l’incidente con Vicky e,
se si escludono quei pochi monosillabi necessari per le interazioni di
routine quando siamo al lavoro, a malapena mi rivolge la parola. La mia
è una speranza che però se ne va tanto
velocemente così come è apparsa,
nell’arco di tempo che impiego per scendere le scale alla
massima velocità che il tacco delle decolleté mi
permette. Non appena tocco l’ultimo gradino, mi rendo conto
che Jeremy ha le chiavi e che, se solo lo volesse, non avrebbe alcun
bisogno di suonare.
Non
è Jeremy. Ma ho ugualmente un tuffo al cuore,
perché gli occhi nocciola che mi trovo davanti sono gli
stessi, così come il ciuffo ribelle sulla fronte che non
vuole mai stare al suo posto.
“Ehi,
principessa.”
“Papà,”
sorrido.
Getto
le braccia al collo di mio padre come se non lo vedessi da anni, invece
che da neanche un mese. Mi faccio stringere a mia volta, a lungo,
crogiolandomi nel familiare calore.
“Stavi
andando da qualche parte?” mi dice dando
un’occhiata al mio abbigliamento, dopo che infine mi sono
decisa a staccarmi e lasciarlo entrare. “Non voglio
trattenerti.”
“E’
solo una serata da Caroline,” scrollo le spalle mentre
entrambi ci sediamo sul divano. Mi sfilo le decolleté nere e
rannicchio le gambe. “Può aspettare. Hai
intenzione di fermarti qua qualche giorno?”
Scuote
la testa abbassando per un attimo lo sguardo sulle sue mani. Porta
ancora la fede.
“No,
intendo ripartire stasera.”
Si
è trasferito a Petersburg un paio di anni fa, quando ha
iniziato una programma di riabilitazione in una clinica. Anche dopo,
non è mai tornato davvero ad abitare qua. Immagino sia
semplicemente più facile.
“Lo
sai che puoi restare quando vuoi, questa è anche casa tua
…”
Invece
di rispondere, mi getta un lungo sguardo ed una domanda che da sola
dice tutto.
“Jeremy?”
Forzo
un sorriso. Mio fratello non è esattamente il tipo che rende
le cose semplici, quando ha deciso di non volere qualcuno attorno.
“Devi
solo dargli un po’ di tempo.”
“Va
bene, lo capisco,” risponde annuendo, con il rimpianto che
comunque traspare dalla voce. “Se sono qua, è
perché volevo parlarti di una cosa.”
“Di
che si tratta?” domando incuriosita.
“Qualcosa
a cui ho pensato molto negli ultimi mesi.” Tira fuori una
cartelletta rilegata dall’interno della giacca e me lo porge
con un sorriso. “E’ l’atto di
proprietà del Mystic Grill. E’ tuo.”
Sposto
lo sguardo da lui ai documenti che tiene in mano, sconcertata. Ma non
mi muovo né rispondo, anche perché non sono
ancora certa di aver davvero capito bene.
“Mio?
…”
“Tuo,”
annuisce. “Lo è in pratica da un po’
ormai, ho solo pensato che fosse tempo di renderlo ufficiale.”
Mi
allungo per prendere i documenti, anche se quando inizio a sfogliarli
ho le dita ancora un po’ incerte. Ma è
lì nero su bianco, il locale che aveva aperto con mamma e
che è sempre stata una parte così importante
della sua vita è adesso completamente, in tutto e per tutto,
a nome mio.
“Voglio
che tu lo sappia, Elena,” prosegue, “non devi
sentirti obbligata in nessuno modo. Qualsiasi cosa tu decida di farne
… è una scelta solo tua e mi starà
bene.”
“Non
so cosa dire,” mormoro mentre continuo a farmi scorrere i
fogli tra le mani.
“E
ciò include la possibilità di venderlo, se vuoi,
e poterti trasferire e farti una vita da un’altra parte
…”
Alzo
la testa di scatto, quando quelle parole fanno sì che un
sospetto inizi a farsi strada nella mia mente.
“Hai
parlato con Elijah?” chiedo con diffidenza.
“Sì,
in realtà,” mi conferma, mentre mi osserva come
per cercare di capire se la cosa mi abbia disturbato. “Mi ha
aiutato con tutte le questioni legali, per finalizzare la
cosa.”
“Vuoi
dire che Elijah lo sapeva?” domando ancora più
stupefatta. Non mi piace la sensazione che quel pensiero mi provoca,
anche se cerco di nasconderlo. Mio padre però se ne accorge
lo stesso.
“Tesoro,”
si sporge verso di me e gentilmente mi sfila i documenti che sto ancora
tenendo tra le mani, per posarli sul tavolino da caffè di
fronte a noi e prendermi una mano tra le sue. “Non avercela
con lui. Sono stato io a cercare il suo aiuto e a chiedergli di non
dirti nulla, mi ha solo fatto un favore. Voleva essere una
sorpresa.”
“Lo
è stata …”
“E
io voglio solo che tu sia felice.”
“Lo
so.” Lascio che le mie perplessità si dissolvano,
toccata dal pensiero dolce che ha avuto. Il resto delle questioni
possono aspettare. Sorrido e lo stringo in un altro abbraccio.
“Grazie.”
“Sei
arrivata finalmente!” Bonnie mi accoglie con un sorriso
quando attraverso la soglia di casa Salvatore.
“Perché così in ritardo?”
La
seguo lungo l’ingresso, attraverso la sala e poi la cucina
dalla quale un’ampia porta a vetri conduce verso il giardino
sul retro.
“Mio
padre è passato a trovarmi all’ultimo momento,
doveva parlarmi di una cosa,” spiego.
Bonnie
si ferma sui suoi passi e mi rivolge uno sguardo apprensivo.
“E’
tutto a posto?”
“Sì
…” la rassicuro. “Devo solo fare una
telefonata. Vi raggiungo subito.”
Bonnie
torna in giardino e mi lascia un po’ di privacy. Per la terza
volta da quando sono uscita di casa, riprovo a chiamare Elijah.
Tamburello le dita contro il ripiano di marmo grigio sul quale sono
stati appoggiati alcuni vassoi con il fondo coperto di briciole e
qualche bottiglia vuota, mentre la mia chiamata finisce di nuovo dritta
alla segreteria.
Non
posso negare che tutto ciò stia iniziando ad innervosirmi.
“Ehi,
dove sei?” esordisco, decidendomi questa volta a lasciare un
messaggio. “Ho davvero bisogno di parlarti, è
importante. Appena senti il messaggio …”
Mi
interrompo quando, attraverso il vetro della porta finestra, intravedo
due figure sbucare sulla veranda illuminata. Una di queste è
Damon. Ha le maniche della camicia blu scuro arrotolate fino ai gomiti,
e lo noto perché le sue mani stanno attirando verso di
sé una donna che non riesco a vedere bene. Di lei, noto solo
uno scorcio di sorriso, mentre, sul limitare del cono di luce, Damon si
china per darle un bacio.
E’
un secondo, e sono già spariti oltre. Ma è
abbastanza da farmi salire in bocca uno strano sapore acido, che mi
affretto a ricacciare giù.
“…
chiamami,” finisco di dire alla segreteria di Elijah.
Riattacco
e mi dirigo verso il giardino, che per l’occasione
è stato illuminato da tante piccole luci appese nel buio
sopra le nostre teste. Su alcuni tavoli sono stati disposti sia bevande
che stuzzichini, e nell’aria l’odore pieno di
brace, carne e verdure grigliate si mescola a quello più
dolciastro del gelsomino in fiore. Lo spazio non è molto
grande ed i presenti lo affollano quasi tutto, ma è
innegabile che Caroline sia riuscita nell’intento di renderlo
accogliente e confortevole. C’è qualche suo
collega, qualche contatto di lavoro di Stefan, persino un paio delle
sue amiche del college.
Damon
mi saluta da distanza, con un accenno di sorriso ed un cenno della
testa. Ricambio entrambi, prima che torni a parlare con i suoi
interlocutori. Adesso riconosco la donna che è con lui, la
stessa con cui l’avevo visto parlare
all’inaugurazione per la mostra dei Fondatori. Ha una figura
magra, ma slanciata e armoniosa. Damon fa scivolare una mano a cingerle
la vita.
“Lo
stai fissando.”
Sussulto
e mi giro di scatto verso Bonnie che alza le sopracciglia in un modo
equivocabile.
“Non
è vero,” ribatto, “Io stavo solo
…”
“Tieni,
aiutatemi con questo.”
Caroline
si frappone facendo capolino tra noi e mettendoci in mano un vassoio
ciascuna, per me spiedini di pomodori e mozzarella e per Bonnie alcuni
vol-au-vent dai ripieni di diversi colori.
Sai
chi è quella?” domando a Caroline in un sussurro
mentre poso il vassoio sul tavolo.
Non
ho bisogno di specificare. Caroline alza per un attimo lo sguardo in
direzione di Damon e torna a radunare il cibo rimasto in alcuni piatti
semi-vuoti per fare spazio a quello appena arrivato.
“Addie,
Annie … qualcosa del genere.”
“E’
una cosa seria?”
“E
chi può mai dirlo con Damon,” sospira scrollando
le spalle. Scruta con lo sguardo l’altra estremità
del tavolo ed ha un sobbalzo. “Oddio, sono finiti i
tovaglioli!”
E’
sparita prima che possa chiederle altro.
Bonnie
posa una mano sul mio braccio, richiamando la mia attenzione.
“Ma
quello è Elijah? Non pensavo sarebbe venuto in questi
giorni.”
Colta
alla sprovvista, mi volto di scatto, in tempo per vederlo incedere
verso il giardino insieme a Stefan, una mano in tasca e
l’altra che si muove appena per accompagnare le sue parole.
Si è tolto la cravatta, ma indossa uno dei completi di
sartoria che usa per lavoro, dal che deduco che deve essere venuto
direttamente qua.
“Neanche
io,” le rispondo corrugando lo fronte, a dir poco stupefatta.
Elijah
si congeda da Stefan non appena nota che gli sto andando incontro.
Sorride, quando posa le mani sui miei fianchi per attirarmi verso di
sé.
“Sei
bellissima stasera,” sussurra contro la mia guancia. Faccio
leva con le mani contro le sue spalle per opporre una blanda resistenza
alle sue affettuosità.
“Ti
ho chiamato più volte.” Non riesco a nascondere
del tutto la punta di irritazione nella mia voce. “Stavo
iniziando a preoccuparmi. E pensavo che non saresti potuto venire prima
di un paio di giorni.”
Stacca
una mano dal mio fianco per tirare fuori il telefono dalla tasca e
scuote la testa mortificato.
“Scusa.
Non avevo notato che fosse spento. Sono riuscito a liberarmi prima del
previsto e volevo farti una sorpresa.”
“Non
è stata l’unica di sorprese, stasera,”
commento cercando i suoi occhi, per vedere se abbia già
capito. Ma Elijah mi rimanda uno sguardo interrogativo. “Mio
padre è passato a trovarmi poco fa, per parlarmi del vostro
piccolo accordo alle mie spalle.”
“Non
c’è nessun accordo, Elena,” sorride
divertito, come se avessi appena detto chissà quale
sciocchezza, “Voleva farti una sorpresa e mi ha chiesto di
non parlartene. Pensavo che ti avrebbe fatto felice.”
Mi
domando quando abbia iniziato a dare la precedenza a ciò che
desidera mio padre, piuttosto che preoccuparsi di ciò che
avrei potuto pensarne io. Ma capisco la buona fede dietro al modo in
cui ha agito e non posso fargli una colpa per aver contribuito a
qualcosa nell’intento di farmi contenta.
“E
così,” rispondo facendo scivolare le mani sopra le
sue spalle. “E’ solo che …”
prendo un profondo respiro, “ … dobbiamo parlarne.
Di tutta questa storia.”
“D’accordo,
parliamone.”
Lo
scruto attentamente e non vedo un briciolo di esitazione nel suo
sguardo.
“Adesso?”
replico confusa. Mi guardo un attimo attorno, verso il chiacchiericcio
a pochi metri da noi e la prospettiva di una serata tra amici. Questo
non è davvero il momento giusto per quel genere di
conversazione. Scuoto la testa e gli rivolgo un lieve sorriso.
“Ascolta, hai fatto un bel viaggio per arrivare fin qui, e
sono contenta di vederti. Possiamo sempre parlarne domani, o in
qualsiasi altro momento. Adesso, pensiamo solo a goderci la serata,
ok?”
“Come
vuoi.”
Si
china per darmi, infine, quel bacio che lo avevo fermato dal darmi
prima, un morbido, lungo tocco sulle mie labbra. Mi prende per mano e
torniamo ad unirci agli altri.
Per Caroline, essere
popolare non era solo un’aspirazione. Era un dovere, era una
missione. Ecco perché sapeva bene che buone
possibilità di riuscita passavano inevitabilmente attraverso
il cheerleading, i comitati per l’organizzazione dei balli,
il consiglio studentesco. E feste da paura.
Arrivai
a casa sua piuttosto in ritardo, l’orlo sfilacciato dei jeans
zuppo per l’imprevisto incontro con una pozzanghera sul
vialetto di ingresso e la sensazione di aver sbagliato indirizzo.
Quasi
tutto il mobilio della sala era stato spostato sul lato in fondo alla
stanza, da dove due casse diffondevano una versione remixata di
Let’s Get It Started e due tavoli attiravano un continuo via
vai di gente smaniosa di procurarsi da bere. Nello spazio lasciato
vuoto, alcune coppie stavano ballando sfregandosi i fianchi a ritmo
della musica, mentre da un altro angolo nel quale era stato accostato
il divano qualcun altro stava fumando propagando nell’aria un
odore di acre di sigaretta. Metà delle persone presenti, non
ero neppure sicura di averle mai viste.
“Le
piace fare le cose in grande, eh?” mi affiancò
Bonnie.
Mi
prese subito per mano e mi portò cercare qualcosa da bere.
“Puoi
dirlo forte.”
“Ehi,
ragazze!” Caroline ci venne incontro per abbracciarci
entrambe non appena ci vide.
Le
sue onde bionde, lasciate ricadere sulle spalle, sembravano ancora
più morbide del solito. Indossava un tubino a fantasia nero
e grigio dalle spalline sottili che le stava un po’ largo
sulle spalle ed il petto ancora troppo filiformi, ma era comunque
splendida a dir poco.
“Tua
madre è d’accordo con tutto questo?” le
domandai perplessa.
“Come
se gliene importasse,” scrollò le spalle.
“Tanto starà via almeno fino a domani notte, non
se ne accorgerà neanche. Tieni, prendete questo.
L’ho fatto io.”
Versò
un paio di mestolate di punch in due bicchieri e ce ne porse uno
ciascuno. Odorava di arance, zucchero e di una scia di alcol talmente
forte da procurarmi un’ondata di voltastomaco.
“Cosa,
non ti piace?” mi domandò Caroline squadrandomi
delusa.
“Lo
bevo dopo,” risposi, posandolo sul tavolo.
“Conosciamo qualche Sarah?”
“Beh,
vediamo …” Si portò pensosa un dito
contro le labbra. “C’è Sarah Connelly,
quella stronza che l’anno scorso mi ha soffiato
l’ammissione a Miss Mystic Falls. Oh, ma quest’anno
vedrete che non gliela darò vinta. Sarah Bradley, terzo
anno, sai quella che ride in modo strano …”
“Sarah
Evans,” aggiunse Bonnie, più esitante.
“Quella carina nel nostro corso di storia, capelli neri
…”
“Perché
ti interessa?” mi domandò Caroline perplessa.
“Io
…”
“Oh
mio Dio,” esclamò Caroline prima che potessi
elaborare. La sua mano afferrò il mio avambraccio e lo
chiuse in una morsa stringente. “Cosa ci fa lei
qui?” domandò con una nota isterica nella voce.
Sia
io che Bonnie ci voltammo per guardare che cosa avesse attirato lo
sguardo di Caroline.
Lexi
era entrata in sala ed aveva iniziato a distribuire sorrisi, il braccio
avvinghiato a quello di Stefan.
“Non
l’hai invitata?”
Caroline
scosse la testa ed il suo volto, anche sotto al trucco perfetto che
aveva addosso, mi sembrò improvvisamente più
pallido.
“Lo
sta facendo apposta. Lo sa. Guarda come se lo stritola,”
gracchiò.
Sia
io che Bonnie voltammo di nuovo la testa in contemporanea, in tempo per
vedere Lexi salutare Caroline con la mano e Stefan sorridere
impacciato.
“Non
guardate!” ci richiamò subito la nostra amica con
un filo di voce, esasperata. “Ho bisogno di bere.”
Afferrò
il bicchiere che io avevo posato poco prima e lo buttò
giù in un solo sorso.
“Ehi,
Forbes.” Un ragazzo muscoloso e dai corti capelli neri si
avvicinò alle sue spalle e le posò le mani sui
fianchi. Tyler Lockwood, figlio unico della famiglia più
ricca di Mystic Falls. “Posso darti il tuo regalo di
compleanno speciale?” le disse a bassa voce vicino
all’orecchio, intanto che faceva scivolare le mani un
po’ più verso il basso, completamente incurante
che sia io che l’altra mia amica fossimo ancora lì
presenti.
Caroline
alzò gli occhi al cielo, visibilmente infastidita.
“Dio,
Tyler, te l’ho già detto, non ci vengo
più a lett-” si bloccò a
metà della frase, lo sguardo fisso altrove. Nel giro di un
attimo, la sua espressione cambiò completamente.
“Anzi, sai cosa? Portami a ballare. Ma avrò
bisogno di un po’ più di alcol.”
“Tutto
quello vuoi,” sorrise Tyler, mentre Caroline lo trascinava
via per la mano in un posto più centrale e gli si
avvinghiava gettandogli le braccia al collo. Guardai di nuovo alle mie
spalle e, confermando i miei sospetti, la faccia di Lexi era adesso
completamente incollata a quella di Stefan.
“Non
sarò una sensitiva,” mi disse Bonnie con un
sospiro, “Ma chissà perché ho il
sospetto che tutto questo non andrà a finire bene.”
La
sensazione di Bonnie, che in quel caso mi sentii di condividere in
pieno, non si rivelò poi tanto sbagliata.
Ad
un certo punto, Caroline era semplicemente sparita dai nostri radar. E
l’ultima volta che l’avevamo vista, più
di mezz’ora prima, non solo era su una poltrona intenta ad
infrangere il voto – giurato alla fine delle vacanze
– di non farsi mai più mettere la lingua in bocca
da Tyler, ma avrebbe tranquillamente potuto essersi bevuta da sola
tutto il punch che lei stessa aveva preparato.
Dopo
aver deciso, con Bonnie, di dividerci per cercarla, mi diressi al piano
di sopra.
Lungo
le scale, scavalcai almeno un paio di coppie, troppo impegnate a
pomiciare per prestarmi attenzione. Nessuna di loro includeva Caroline.
Solo
quando fui quasi in cima, udii finalmente la voce della mia amica,
anche se piuttosto flebile.
“Non
mi sento molto bene.”
“Ci
penso io a farti stare meglio.”
“Tyler,
non …”
Caroline
era schiacciata contro il muro accanto alla porta della propria camera.
Tyler le stava addosso, una mano premuta contro la sua schiena e il
volto che scendeva verso la sua scollatura.
“Andiamo,
Forbes, smettila di prendermi sempre in giro,” lo udii dire
di fronte ai, pur deboli, tentativi di Caroline di opporsi alle sue
attenzioni.
“Ehi,”
lo ammonii, sentendo l’indignazione ribollirmi dentro.
“Ti ha detto di lasciarla in pace.”
Tyler
si staccò da Caroline e si voltò ad osservarmi
come se fossi una mosca sulla parete. Caroline, invece, chiuse gli
occhi e abbandonò la testa all’indietro per
sorreggersi contro il muro.
“Non
sono affari tuoi.”
Mi
avvicinai alla mia amica e le passai un braccio intorno alla vita per
aiutarla ad appoggiarsi contro di me.
“Non
lo vedi che è ubriaca?”
Tyler
sogghignò. “E tu sei un’esperta di
questi casi non è vero?”
Un’onda
di calore mi infiammò le guance ma, con mio stesso stupore,
la prima replica che mi saltò alla mente fu uno di quei
“fottiti” che Damon amava così tanto
dispensare. Stavo quasi per sputarlo fuori, forse ancora più
velenoso di quanto già non suonasse nella mia mente, ma
qualcuno mi privò della soddisfazione.
“Tyler.”
Stefan comparve alle spalle del ragazzo. Il suo tono era duro almeno
quanto lo sguardo che gli rivolse. “Smettila.”
I
due si guardarono per alcuni lunghissimi istanti. Poi Tyler
scrollò le spalle con noncuranza.
“Chissene.
In ogni caso, non ne vale la pena.”
Tyler
mi passò davanti e se ne andò lungo le scale
senza gettare un secondo sguardo né a me né
tantomeno a Caroline.
“Mi
dispiace,” biascicò Caroline prima di crollare con
il capo sulla mia spalla.
“Sta
bene?” domandò Stefan corrucciando lo sguardo con
fare apprensivo, intanto che si avvicinava a noi di qualche passo.
“Penso
che abbia solo bisogno di stendersi un po’.”
“Lascia
che ti aiuti.”
Stefan
passò le mani intorno alla vita della mia amica e, senza
alcuno sforzo, la sollevò per prenderla tra le braccia. Mi
sembrò di intravedere un piccolo sorriso formarsi sulle
labbra di lei, quando si ancorò meglio con le braccia
attorno alla sua nuca.
“Hai
un odore così buono …”
mormorò Caroline nel suo collo, cosa che suscitò
un moto di sorpresa nello sguardo di Stefan.
“Grazie
…” rispose lui, esitante, e la strinse un
po’ di più.
Gli
indicai la camera di Caroline e, con attenzione, la fece sdraiare sul
copriletto a stampa di gigli rosa che si abbinava al colore tenue delle
pareti. Si inginocchiò accanto al letto tenendosi in
equilibrio sui talloni e le spostò con delicatezza dal volto
una ciocca di capelli rimasta attaccata sul suo lucidalabbra,
indugiando nella carezza qualche secondo più del necessario.
Ad
un primo sguardo, forse, poche persone avrebbero potuto pensare che lui
e Damon fossero fratelli. Non avevano gli stessi occhi, lo stesso naso,
lo stesso profilo. Ma c’era di sicuro qualcosa, in quel suo
gesto verso Caroline, che inevitabilmente mi ricordò
così tanto Damon da farmi mancare un battito del cuore.
“Grazie,”
gli dissi mentre socchiudevo la porta della camera di Caroline per
tenere fuori un po’ del rumore.
“Non
c’è problema,” disse lui, rialzandosi.
“Sei Elena giusto? Mio fratello parla di te.”
Mi
girai quasi di scatto, un inaspettato sfarfallio sul fondo dello
stomaco.
“Davvero?”
Stefan
si strinse nelle spalle e affondò le mani nelle tasche dei
jeans. “Siete amici, no?”
Annuii.
“E’
un bene. Damon non ha molti amici. Intendo … quelli veri.
Non è uno che si lascia avvicinare molto facilmente. E a
volte può essere duro da sopportare,” il sorriso
con cui concluse la frase lasciava intuire che, a dispetto di
ciò che aveva appena detto, non gli pesava davvero
ʿsopportareʾ il fratello.
Fui
distratta da un timido colpetto sulla porta. Bonnie fece capolino nella
stanza e spostò lo sguardo da me a Stefan, a Caroline mezza
addormentata sul letto.
“Beh,
dovrei andare,” disse Stefan abbassando per un attimo gli
occhi sulla punta delle sue scarpe. “Forse … puoi
farmi sapere come sta?” mi domandò con un cenno
della testa in direzione di Caroline, un po’ tentennante, un
po’ speranzoso.
“Certo,”
gli sorrisi.
Stefan
se ne andò e richiuse la porta alle sue spalle.
Io
e Bonnie ci sedemmo ai due lati del letto ad una piazza e mezza. Non
appena ci fummo sistemate, Caroline, nel mezzo, appoggiò la
testa all’indietro contro la coscia di Bonnie e
passò un braccio attorno alle mie gambe.
“Era
davvero Stefan quello?” farfugliò mentre si
metteva più comoda.
“Pare
proprio di sì.”
“Sono
così felice di non avergli vomitato sulle scarpe.”
Mi
scambiai un’occhiata con Bonnie e ridacchiammo entrambe.
“Sai,
Care …” dissi appoggiandomi contro i cuscini,
“Qualcosa mi dice che probabilmente non gli sarebbe neanche
importato.”
Restammo
là, solo noi tre, mentre al piano di sotto la festa
continuava ad andare avanti.
Ripensai
molto a ciò che Stefan mi aveva detto.
Da
quel giorno a scuola in cui Damon mi aveva sorpreso in un mio momento
di sconforto era passato quasi un mese. Un mese durante il quale mi ero
ritrovata a passare insieme a Damon ancora più tempo di
prima.
Ogni
volta che avevo del tempo libero, ero in negozio da lui, a parlare,
guardare video stupidi o fingere di essere una cliente molto
affezionata ogni volta che Rose spuntava fuori, anche se non penso che
ci abbia mai creduto. Le sere, era lui che spesso passava dal bar, a
volte portando una pizza che condividevamo sul retro dopo averla difesa
dagli assalti di Jeremy.
Certo,
delle volte era sfuggente, come quella sera là.
Ma
l’idea di quanto fosse inusuale che Damon si lasciasse
avvicinare da qualcuno come aveva fatto con me mi fece intuire che,
probabilmente, ciò che avevo con lui era più di
una serata con una Sarah senza volto. E, in fondo, non avrei mai voluto
che fosse diversamente.
La serata è piacevole e vola via in un attimo. E, a dispetto
delle recenti novità, sono comunque contenta che Elijah sia
presente stasera e di aver potuto condividere con lui un momento
insieme ai miei amici.
Scopro
anche che Andie è una giornalista che sta cercando di
sfondare fuori dalla cronaca locale, che è intelligente, con
la battuta pronta e che, accanto ad una bellezza poco classica, ha
davvero un certo carisma. Lei e Damon sono così a loro agio
l’uno con l’altra che sembra si conoscano da anni.
E’
una cosa alla quale ho modo di testimoniare ancora meglio dopo che il
resto degli invitati se ne sono andati e siamo rimasti soltanto noi, i
padroni di casa e le rispettive ragazze, seduti attorno al tavolo
principale sotto al sicomoro che delimita il giardino di casa
Salvatore.
Sono
seduti vicini, con il braccio di Damon posato rilassatamente attorno
alle spalle di lei.
Stefan
si sporge per prendere il suo bicchiere di vino e con l’altra
mano circonda la vita di Caroline, che invece di scegliersi una sedia
ha preferito sedersi direttamente sulle sue gambe. La sua voce
è allegramente brilla quando inizia a parlare.
“Direi
che è ora di proporre un brindisi alla ragazza che ci ha
portato qui, che ha trasformato l’intera cucina …
anzi no, l’intera casa in un campo di battaglia che domani mi
obbligherà a pulire, e che sono così
maledettamente fortunato ad avere accanto a me.”
“Attento
con le parole, Stef, o potrebbe pensare che le intendi davvero. Poi di
questa qua non ce ne liberiamo più,” sogghigna
Damon attirandosi subito uno sguardo fulminante da parte della mia
amica, che però si ammorbidisce all’istante non
appena Damon alza il suo bicchiere verso di lei, “A Caroline.”
I
nostri bicchieri tintinnano tra loro, accompagnati da un altro
“A Caroline” collettivo che la fa visibilmente
andare in estasi.
Stefan
la attira ancora di più a sé, per darle un bacio
sulle labbra e mormorarle “ti amo”.
E’
una strana emozione quella che mi stringe il petto, nel vederli
così; nel ricordare di averli visti quando a malapena
avevano il fegato di rivolgersi la parola a vicenda e nel sapere che,
nonostante tutto, anche dopo più di sette anni insieme sono
ancora capaci di guardarsi come se si stessero innamorando per la prima
volta. Mi chiedo se sarà lo stesso anche per me.
I
miei occhi corrono verso Damon prima che riesca a trattenermi. Del
resto, è l’unico che li conosca da tanto tempo
quanto me, e forse sono solo curiosa di sapere se anche lui stia
pensando la stessa cosa. Un veloce quanto inopportuno batticuore mi
sorprende quando, nella penombra, anche il suo sguardo è
rivolto verso di me.
Elijah,
accanto a me, mi dà una gentile stretta alla mano sinistra
che mi sta accarezzando, mentre la tiene tra la sua. Mi volto per
dedicargli un leggero sorriso. Potrò non sapere come
sarà tra sette anni, ma il modo in cui mi guarda,
così caldo e amorevole, sul momento è come sempre
in grado di dissipare ogni mia irrequietezza.
“Elena,
è un anello di fidanzamento quello?”
Mi
giro di scatto verso Andie che mi ha appena posto la domanda.
“Sì,”
annuisco mentre lei si protende di più verso di me per
ammirarlo meglio. Damon è solo pochi centimetri alla sua
sinistra, ma mi rifiuto di guardarlo e scoprire la sua espressione.
“Il matrimonio è a settembre.”
“E’
davvero meraviglioso. Non sapevo che steste per sposarvi,
congratulazioni!”
Elijah
si sistema meglio sulla sedia, senza lasciarmi andare la mano, e sotto
alle fievoli luci da giardino posso intravedere bene il sorriso
compiaciuto che gli distende il volto.
“Ero
ad Anversa quando l’ho visto. Non ho avuto un attimo di
dubbio. Così limpido e luminoso. E’ fatto per
lei.”
Una
specie di grugnito sommesso proviene dalla parte di Caroline, che
però si affretta a mascherarlo con un colpo di tosse, prima
di portarsi di nuovo il bicchiere alle labbra.
“Scusate,
non fate caso a me. Solo un po’ di gola secca.”
Con
la coda dell’occhio, vedo Damon prodursi in un lieve
sogghigno in direzione della propria cognata.
“Ho
davvero un debole per il romanticismo,” continua Andie
cordialmente, “Come vi siete conosciuti?”
Scambio
uno sguardo con Elijah che, con un piccolo cenno di assenso, mi invita
a rispondere.
“Mio
padre ha avuto qualche problema con l’alcol, ed è
andato in riabilitazione in una clinica di Petersburg un paio di anni
fa. Anche il fratello di Elijah si trovava lì.”
“Io
sono stato conquistato all’istante, ma questa ragazza
…” si avvicina la mia mano alle labbra e posa un
bacio sul dorso. Sorride con una leggera scintilla nello sguardo e, al
ricordo, anche io sorrido di rimando, “…
è stata difficile da far capitolare. Mi ci sono voluti sei
mesi per riuscire a strapparle un appuntamento. Ma sono felice di non
essermi arreso.”
“Si
sta facendo freddo, non pensate?” dice Caroline, passandosi
una mano sul braccio di fronte ad un’altra folata di brezza
notturna, decisamente più gelida. “Forse
è meglio se ci spostiamo dentro.”
Mi
getta un’occhiata eloquente, che mi fa capire che non pensa
sia una buona idea che Andie metta in moto il gioco del ʿe voi come vi
siete conosciutiʾ.
Ad
uno ad uno, dunque, ci alziamo, ed io mi attardo per aiutare Caroline a
sgombrare ciò che ancora è rimasto sui tavoli e a
portare il tutto in cucina.
Sto
finendo di ricoprire del cibo avanzato prima di metterlo nel frigo,
quando Damon compare dall’altro lato del bancone a isola, per
posare un altro piatto accanto a quello che sto incartando.
“Questo
era l’ultimo.”
Sono
praticamente le prime parole che mi ha rivolto direttamente in tutta la
sera, ma, del resto, è anche la prima volta che mi ritrovo
ad essere sola con lui. Dalla stanza accanto giunge il chiacchiericcio
degli altri che si sono spostati in sala, ma il fatto che Damon sembri
esitare ad andarsene mi dà la spinta giusta per parlare.
“E’
simpatica,” gli dico continuando a tenere lo sguardo fisso su
ciò che sto facendo. Metto più lentezza nel
richiudere i lembi della carta stagnola attorno al vassoio.
“Voglio dire è intelligente, e piacevole
…” oltre che indubbiamente affascinante, ma questo
me lo tengo per me.
“Lo
so,” si limita a rispondere, in un tono che non lascia
trasparire nulla.
“Sono
felice per te.”
“L’ho
appena conosciuta, non me la sto mica sposando.”
Mi
mordo le labbra e faccio finta di non aver notato la scelta delle
parole che ha usato.
“Non
penso che tu possa fare meglio di così,” prosegue
e questa volta alzo di scatto lo sguardo verso di lui per capire di
cosa stia parlando. C’è un mezzo sorriso divertito
sulle sue labbra quando con un cenno della testa mi indica
l’angolo attorno al quale sto continuando a piegare la
stagnola. Mi fermo immediatamente ma, prima che io possa replicare,
noto che il suo sguardo adesso si è spostato attorno al mio
collo, sul ciondolo che, tra la fretta e altre questioni per la testa,
mi sono infine dimenticata di togliere. Sono riuscita a tenerlo sotto
la maglia per tutta la sera, ma deve essermi sfuggito quando mi sono
sporta in avanti.
D’istinto,
porto le dita a coprirlo. Troppo tardi.
Qualcosa
si agita nei suoi occhi e le sue labbra si socchiudono per un attimo,
eppure, inaspettatamente, non fa alcun commento.
Solleva
gli occhi sui miei e non riesco ad evitarlo, il mio cuore perde un
battito quando ci ritroviamo solo io ed il così familiare e
contradditorio azzurro che si trova di fronte a me. Le voci
nell’altra stanza si affievoliscono un po’. Non
sarei in grado di guardare altrove neanche se lo volessi.
“Ti
va di … prendere un caffè insieme, uno di questi
giorni? Se questa cosa dell’amicizia e dei buoni rapporti
deve funzionare, abbiamo qualche anno da recuperare,” incurva
le labbra in un sorriso leggero che ha subito il potere di distendere
l’atmosfera e strappare un sorriso anche a me.
“Non
pensavo che fossi interessato,” dico sollevando un
sopracciglio, per tastare il terreno, mentre lascio andare la collana
che non mi ero accorta di stare ancora stringendo tra le dita.
Scrolla
le spalle.
“Tra
il dover tornare qualche giorno a San Francisco e il primo consiglio a
Richmond con il tuo fidanzato, ho solo avuto un sacco di cose a cui
pensare.”
“Certo
… ” annuisco, mentre un’improvvisa
contentezza mi scalda il petto. “Sarò felice di
poter prendere quel caffè.”
Mi
rivolge un altro cenno di assenso, prima di lasciare la stanza.
Finisco
di riporre anche l’ultimo vassoio con un vago sorriso sulle
labbra ed l’audace ottimismo che, forse, dopotutto, ci sono
ancora cose che possono di nuovo essere recuperate.
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Note: [1] Il
flashback è ambientato nel novembre 2004, e Funeral
è uscito nel settembre dello stesso anno, in Canada, poi
l’anno successivo nel resto del mondo. Questo per dire, anche
se forse non gliene fregherà niente a nessuno, che davvero
in quel momento gli Arcade Fire erano degli emeriti sconosciuti.
[2]
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A
parte il prezzo, naturalmente, voi fate finta che sia di Zara o simili,
perché dubito che la nostra Elena qua potrebbe mai
permettersi di spendere così tanto su una gonna.
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