quarto capitolo revisionato
"Young man control in
your hand
Slam your fist on the table and make your demand
Take a stand fan a fire for the flame of the youth
Got the freedom to choose
You better make the right move"
Youth-
Matisyahu
4. Youth
Il passo spedito di Jay imprimeva le
orme dei suoi pensieri sull’asfalto, una nuova euforia
avvolgeva i suoi piedi, spingendolo ad avanzare senza arrestarsi un
attimo.
Quel gioco di sguardi avvenuto con quel tipo strano al bar lo aveva
incoraggiato e chissà per quale motivo,
d’improvviso, ebbe l’impellenza di confrontarsi con
suo padre. Più di qualsiasi cosa lo muoveva il suo rinnovato
coraggio pescato dal fondo dello stomaco che ormai, stanco del dolore,
aveva scelto di mutare l’oppressione in risolutezza. Non
voleva più essere una vittima, odiava vestire i panni
del martire. Aveva desiderato con ogni cellula del suo corpo quel
ragazzo e già questo
confermava ancora la natura che avrebbe dovuto sfoggiare con fierezza,
senza
più nascondersi o averne paura.
Chaz, seduto in cima agli scalini dell’ingresso esterno di
casa sua, si beava dell’unica giornata serena che il cielo
aveva concesso, rollandosi una sigaretta in pieno relax. Dopo aver
leccato la superficie liscia della cartina ed essersi assicurato che la
colla avesse aderito bene, alzò gli occhi e vide Jay
dirigersi frettoloso verso casa. Intrappolò la sigaretta
spenta tra le labbra e dopo aver richiamato la sua attenzione sorrise,
incuriosito dall’espressione furente dell’amico.
Jay non si voltò – aveva altre
priorità – non
avrebbe permesso a niente e a nessuno di ritardare
quell’incontro e rispondendo distrattamente
continuò a camminare come fosse un caterpillar pronto a
tutto. «Sono di fretta. Non posso. Ci vediamo dopo.»
Chaz non insistette, preferì assecondarlo, ma
osservò la figura gracile e coraggiosa del suo amico
più caro allontanarsi.
Posò i suoi grandi e luminosi occhi neri
sull’orizzonte, quantificando mentalmente la strada che Jay
stava percorrendo, contando i secondi che dividevano il ragazzo che
amava dall’incontro inevitabile che glielo avrebbe
restituito o a brandelli o vittorioso.
L’esito era incerto, ma la certezza che invece dimorava nel
cuore di Chaz era una ed una soltanto: in qualsiasi condizione ne
fosse uscito, lui ci sarebbe stato.
***
Superò l’ostacolo che il giorno prima non gli
aveva permesso di tornare a casa: spalancò la porta
d’ingresso e fece rumore, deciso ad imporre la sua presenza.
Ignorò qualsiasi dettaglio per non distrarsi da
ciò che doveva fare ed entrando nel salotto riccamente
arredato vide suo padre con il viso affondato nel giornale.
Piantò i piedi sul pavimento, con le gambe divaricate,
per assorbire da quella stabilità la sicurezza che in quel
momento gli serviva più di qualsiasi altra cosa e guardando
con
risolutezza la figura incurante di suo padre parlò senza
lasciar trasparire alcuna incertezza: «Ho passato il test.
Ho preso una A».
Continuò a leggere imperterrito, come se
l’avvento di suo figlio fosse un elemento di disturbo
da ignorare.
«È ora che io e te parliamo, papà. Da
uomo a uomo…»
«Considerando ciò che hai confessato ieri, dire
“da uomo a uomo”, è una presa in
giro».
Jay strinse gli occhi incassando il colpo – proseguire per
poi arrivare fino in fondo era diventata un’urgenza oltre che
una questione di orgoglio – così, senza
lasciarsi piegare
dalle facili ironie con le quali il padre aveva chiaramente intenzione
di affrontare il discorso, continuò:
«Papà, dobbiamo parlare del mio futuro, che ti
piaccia o no.»
«Non credo di volerlo fare…»
«Adesso!» Il respiro di Jay si fece sempre
più affannato, tanto da
costringerlo a ruggire l’ultimo avverbio che avrebbe dovuto
risvegliare il padre dall’indifferenza, ma non fu
così: proseguì con ciò che stava
già facendo,
ignorando quello che fino a pochi giorni fa era il figlio del quale
essere orgoglioso.
Jay sentiva di camminare in bilico sul filo del rasoio: dalle parole di
quell’uomo dipendeva il suo destino; così scelse
le sue con più attenzione, sperando di fare meno danni
possibile. «Papà, credo che tu, a prescindere da
ciò che pensi di me, dovresti ponderare bene quello che
fai» esitò per un
istante.
«Scacciare tuo figlio non
ti fa onore,
né agli occhi miei né a quelli di chi ti conosce.
Dimostrami che sei diverso da quello che credo». Di sorpresa
scostò il giornale svelando tutta la
collera e la delusione che vivificavano il suo volto.
I lineamenti marcati, normalmente addolciti dall’espressione
bonaria del suo essere, erano diventati più duri del solito
e la manifestazione di disappunto prese forma trasformandogli il viso
in una maschera rigida priva di emozioni.
Jay si sentì morire al cospetto di quegli occhi. Non era
più suo padre, lo sentiva, ormai era diventato un perfetto
estraneo e di certo non uno dei più amichevoli.
«Tu parli di quello che potrebbe pensare di me la gente, tu
credi di poter venire qui ed insegnarmi come ci si comporta? Sei un
ragazzino viziato e senza spina dorsale, prenditi la
responsabilità delle tue azioni, non puoi nasconderti ancora
dietro le mie spalle…»
«Proprio perché non voglio farlo sono qui adesso,
davanti a te. Non voglio giustificarmi, non lo sto neanche facendo, sto
solo dicendo che mi sembra assurdo il tuo comportamento».
Si fermò d'improvviso e cercando di riprendere le fila del
discorso che sentiva sfuggirgli dalla mani, non poté frenare
la
disperazione e l'incredulità che prese forma in una supplica
lasciata in sospeso:
«Papà, sono
tuo figlio…»
«Mio figlio è morto il giorno stesso in cui ha
tradito la natura che gli ho donato con orgoglio.»
«La natura che mi hai donato è quella che ti ho
confessato…»
«È una natura che mi fa ribrezzo»
urlò quelle parole con una forza tale da far indietreggiare
Jay. Lo sdegno era così palpabile da poterlo mettere in
ginocchio con un solo soffio, eppure lottò per non
cedere, nonostante il cuore avesse vacillato.
Si sentiva sanguinare da ogni singolo organo che lo teneva in vita,
avrebbe voluto piangere, ma lasciò che gli occhi serrati
fermassero
le lacrime che avevano appena inondato il suo sguardo. Si morse il
labbro inferiore per darsi il coraggio necessario a
trattenere tutto il dolore nel petto ed il padre, notando
quell’impercettibile cambiamento, infierì ancora:
«Vedi? Ti comporti come una donnetta. Parlare da uomo a uomo
non è così facile. Vedi lacrime nei miei occhi?
Io sono un uomo, sono forte, non sono come te».
Jay non si vergognava delle sue lacrime né tanto meno
pensava che piangere non fosse abbastanza virile, così
lasciò che cadessero, mostrando con orgoglio i
segni del suo malessere senza più nasconderle. «Se
pensi
che le lacrime siano segno di debolezza, sei un
debole tu per primo. Non piango perché mi maltratti, piango
perché sono disgustato da te e dal tuo
comportamento…» finì la frase
accrescendo la rabbia
nel tono della sua voce che, però, venne sepolta da uno
scatto
d'ira del suo interlocutore: «Come osi?» Lo
schiaffo
arrivò così inaspettato che Jay non
fece in tempo a difendersi. Si ritrovò chino sul pavimento
senza
riuscire più
a pensare. Confuso, atterrito, umiliato.
Il dolore di quello schiaffo fu così forte da lasciarlo
paralizzato sul pavimento. Non sentiva più i pensieri
scivolargli
nella mente, ma percepiva distintamente il bruciore acuto che aveva
pervaso la sua guancia.
«George, ma cosa diavolo sta succedendo?»
Apparse alla porta sua madre che non appena vide il figlio
accasciato sul pavimento si arrestò, astenendosi dal
soccorrerlo. I suoi occhi erano sconcertati, tuttavia non
intervenne. «Scusate, vi lascio
continuare…» fece
per andarsene ma la sua attenzione fu catturata dal richiamo disperato
di Jay.
Non l’aveva chiamata, le sue labbra non avevano emesso alcun
suono, aveva solo teso leggermente la mano in sua direzione.
Emma l’aveva percepito, aveva sentito il suo stesso sangue
appellarsi a lei.
Quella di Jay era una richiesta di aiuto: aveva sempre potuto contare
su sua madre, l’aveva sempre protetto, anche nei momenti
più duri e sperava potesse essere ancora così.
La madre vide gli occhi chiari e supplicanti di suo figlio tra le
ciocche scomposte dei capelli neri che, intrisi di lacrime, gli
nascondevano parzialmente il volto. Quel pezzo di laguna verde le
chiedeva aiuto in
silenzio, disperatamente. Si rivolse a lei con così tanta
angoscia da diventare assordante, quasi insostenibile, tanto che Emma
non ne poté più. Non rispose al richiamo,
voltò lo sguardo altrove lasciando la stanza senza
proferire parola.
Lo aveva abbandonato, rifiutato definitivamente, ormai era chiaro e
l’evidenza di quel fatto squarciò
irrimediabilmente il cuore di Jay, condannandolo a un pianto
inconsolabile e rassegnato. Si alzò lentamente e a fatica
fissando il vuoto con gli
occhi inanimati e spenti, avvertendo un peso greve e soffocante sulle
spalle; asciugò gli occhi con le maniche della maglia ed un
lamento involontario e sconsolato uscì dalle sue labbra,
provocando una risatina di scherno di George che, sistemati i polsini
della camicia, si avviò alla poltrona che l’aveva
visto scattare rabbioso verso suo figlio.
Jay si mise dritto, cercando di conservare quel minimo di
dignità che gli restava. Voleva chiudere il discorso sebbene
volesse, più di tutto, scappare.
Con gli occhi fissi sul pavimento articolò le parole
lentamente, senza più fingere di non provare dolore:
«Cosa avete intenzione di fare con me?»
«L’unica cosa che ti darò,
d’ora in poi, è un tetto sulla testa. Potrai
tornare a casa, ma dimentica l’università,
dimentica i privilegi che i miei soldi ti hanno
assicurato fino ad oggi. Tu, ormai, non fai più parte di
questa famiglia,
dovrai cavartela da solo…»
«È già qualcosa.»
lo interruppe, pronunciando quelle parole a fior di labbra.
Sentiva il freddo intrappolargli le vene, gli unici impulsi che gli
suggerivano di essere ancora in vita erano i brividi che, ormai,
avevano
sopraffatto ogni recesso del suo corpo. Passò la lingua tra
le labbra avvertendo il sapore metallico e rugginoso del sangue,
gettò un altro fugace sguardo al padre che, nel frattempo,
aveva ricominciato a leggere e si avviò verso la porta
d’ingresso.
Prima di uscire scorse sua madre in cucina: pareva triste o, forse,
cercava solo di crederlo; così decise di farsi bastare i
tentativi che
aveva appena sfoderato a vuoto, mise la mano sulla maniglia ed un flash
veloce gli ricordò gli occhi di quel ragazzo che tanto
l’avevano incoraggiato.
Si sentì uno stupido.
Come avrebbe potuto sperare di riuscire a vincere la delusione
facendosi sostenere dallo sguardo di uno sconosciuto?
***
Camminò in direzione di Chaz che lo stava aspettando
accovacciato sul ciglio della strada – vederlo lì,
in attesa
di notizie, lo rincuorò. Lo fissò con gli occhi
colmi di gratitudine percorrendo il tratto di strada sempre
più speditamente: lui era l’unico a cui
importasse realmente qualcosa.
L’amico sorrideva guardandolo avvicinarsi, ma
l’espressione mutò velocemente non appena vide il
viso di Jay sempre più vicino, più chiaro,
sempre più leggibile. Si alzò e spalancando le
braccia chiese a bassa voce – sebbene conoscesse
già la
risposta: «Non è andata bene, vero?»
Jay lo raggiunse senza proferire parola e si perse nel suo abbraccio,
cercando forza e conforto. Chaz lo strinse più forte che
poteva, sperando di potergli placare i singhiozzi: «Ci sono
io. Andiamo a casa mia, dai!»
Staccandosi improvvisamente si sforzò di
sorridere, si asciugò ancora le lacrime. «Sto bene
e ho anche una buona notizia per te, Chaz: non
dormirò più nel tuo letto». Nel
tentativo di celare il suo reale stato d’animo rise
forzatamente, non convincendo il ragazzo difronte che rispose al
sorriso con amarezza.
Conoscendo i genitori di Jay, non si aspettava di certo un candido:
“bentornato a casa, figliolo”; ma neanche
ciò che aveva davanti agli occhi. Scrutò il suo
viso con attenzione volendo percepire lo
stato d’animo racchiuso all’ interno dei segni
lasciati sul viso, lo prese per mano per trascinarlo a casa ma l'altro
non glielo permise. Si rese gelido e irremovibile.
«Che c’è, Jay?»
Seguirono istanti di silenzio in bilico tra l’incertezza ed
il terrore di perderlo. In quel momento di instabile quiete, la
coscienza di non poter essere all’altezza della situazione
schiacciò il cuore di Chaz in una morsa fatale, inducendolo
a chiedersi se sarebbe mai stato capace di proteggerlo. Temeva di non
esserne in grado. Lo strattonò con dolcezza per
risvegliarlo, per non dargli il tempo di far ristagnare il dolore
troppo a lungo, ma il ragazzo reagì al tocco arretrando.
«Che ti prende?» chiese con dolcezza e Jay,
guardandolo con furore, rispose urlando: «Sono-
incazzato- nero!!!» ruggì quelle parole con tutta
la rabbia che aveva in corpo,
stringendo i pugni tanto da farsi male. Chaz trasalì e
guardandosi intorno chiese scusa ai passanti che si erano voltati
spaventati.
«Cazzo, Jay. Datti una calmata!»
«Col cazzo che mi do una
calmata». Intraprese un
cammino insensato, serrando i denti, inseguito da Chaz che non sapeva
dove
stesse andando né che intenzioni avesse, perciò
sarebbe
stato impossibile lasciarlo solo.
Riuscì ad affiancarlo e seguendo il ritmo del suo passo lo
supplicò guardandolo in faccia: «Ho capito che sei
sconvolto, ma non puoi metterti a fare il pazzo in mezzo alla
strada.»
«Lasciami stare, Chaz, per favore. Sono troppo incazzato per
mantenere il contegno. Guardate gente…»
urlò pericolosamente spalancando le braccia, presentandosi
al mondo con rabbioso sarcasmo «Sono il figlio fallito di
George Hahn, l’uomo distinto che abita alla fine della
strada, e sono fro…». Chaz gli
tappò la
bocca prima che potesse continuare con lo spettacolo e guardando oltre
si augurò di scorgere
almeno un’anima che non si fosse accorta di lui.
«La vuoi piantare con questa scenata? Sembri un
bambino viziato».
Jay si divincolò dalla presa ponendosi di fronte a lui.
«Cos’è? Anche tu ti vergogni?»
«No, cioè, dico solo che un eterosessuale non si
mette a gridare: "sono un eterosessuale", come adesso stai facendo
tu…»
«Giri di parole! Solo schifosissimi ed inutili giri di parole
per non dire che hai paura, che ti vergogni di dire liberamente chi
sei.
Nessuno ti costringe a farlo ma a me... lascia fare quello
che cazzo voglio».
Chaz, lasciandosi cadere le braccia lungo il corpo, rispose cercando di
ridimensionare i toni: «Ok, Jay! Va bene. Capisco che tu non
voglia razionalizzare, ma ormai è andata così,
è inutile che ti incazzi. Non accusare me solo
perché sei furioso con i tuoi. Ti sei preso la
responsabilità delle tue azioni e del tuo essere, questo va
più che bene, ma non puoi pretendere la stessa cosa da chi,
come me, non ha voglia di buttare in pasto alla gente i propri fatti
personali. La pensavi così anche tu fino a qualche tempo
fa».
Jay proseguì sulla strada fermandosi di tanto in tanto,
confondendo ancora di più Chaz che nel tentativo di stargli
a passo si ritrovava continuamente sballottato dalla furibonda energia
dell'amico sempre più adirato.
«Sai da quando non la penso più così?
Da quando ho visto le uniche persone di cui mi fidavo voltarmi le
spalle. Il silenzio accresce la paura e
l’insoddisfazione» interruppe
l’illogico percorso sedendosi su un muretto in mattoni
collocato alla fine della strada. «Chaz,
l’omertà porta le persone a snaturarsi, come ho
fatto io, come hai fatto tu. Abbiamo passato gli anni più
belli della nostra adolescenza a nasconderci e per cosa, cazzo? Per
cosa? Per compiacere gli altri. E noi? Di noi se ne fregano
e mentre noi ci sforziamo a rinnegare il nostro
stesso essere loro si
vantano della specialità dei loro figli. Ipocriti, falsi e
bigotti. Babbei. Sempliciotti, omini boriosi pieni di prosopopea e
merda in corpo».
Chaz fissò muto il viso di Jay senza più
controbattere, non poteva più farlo: malgrado la rabbia
sembrava fin troppo lucido, come non lo era mai stato e sapeva che
in fondo aveva più che ragione, tuttavia non se la
sentiva di sputtanarsi
così come stava facendo l'altro: desiderava vivere
tranquillamente, come aveva fatto fino ad allora.
Jay lo guardò ancora irritato – non ce
l’aveva
affatto con lui, ma la voglia di scappare da quell’ipocrisia
era troppo forte – così, senza
più attendere
risposte, scese dal muretto con un salto e cominciò a
correre.
Chaz rimase imbambolato seguendo con gli occhi sconfortati la corsa
di Jay e gli chiese tra sé e sé, corrucciando le
sopracciglia, a bassa voce, quasi con tenerezza: «Ma
perché? Perché corri sempre, Jay? Sempre a
correre. Non ti stanchi mai».
Lo osservò dissolversi all’orizzonte e sorrise con
dolcezza. Sarebbe tornato, lo sapeva. Frenò
l’istinto di seguirlo, lo lasciò andare,
consapevole del fatto che tutto, tra loro, sarebbe ritornato come al
solito.
Le luci dei lampioni sulla strada si accesero accompagnando Jay verso
un orizzonte cremisi ricco di possibilità.
Come le luci sulla strada, il suo cuore si riaccese di speranza
e si sentì come se la sua anima si fosse liberata di un
piccolo mucchietto di detriti gettati con noncuranza da chi
più aveva amato. Corse controvento gustandosi
l’aria fresca e leggera della sera, godendo di quella
leggerezza d’animo inaspettata. Respirò a pieni
polmoni e capì ciò che doveva fare: avrebbe
rimosso pezzo per pezzo ogni peso dal suo cuore. Poco per volta,
senza pretendere troppo. Avrebbe contato su di sé e sarebbe
andato avanti. Sarebbe stato lui “la tempesta”.
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