undicesimo capitolo
"You're in my
blood like holy wine
You taste so bitter and so sweet
Oh I could drink a case of you, darling
And I would still be on my feet
I would still
be on my feet"
A
case of You- James Blake
11. A case
of you
Il gran carnevale al quale Jay sentiva di assistere consisteva in una
enorme scatola riempita dalle più buffe ed esilaranti scene
mai neanche lontanamente immaginate.
Il mondo gay – quello che sarebbe
dovuto diventare il suo, nel quale
sguazzare senza l’ombra di alcun imbarazzo – era proprio
lì, davanti ai suoi occhi.
Le piccole ali d'angelo ben fissate sulle schiene degli
spogliarellisti dell’Escape parevano così stonate
da risultare buffe sui corpi depilati dei ragazzi che, sculettando,
mostravano fieramente la lussuriosa mercanzia a tutti i presenti
dispensando baci e occhiate a chi si soffermava adorante sotto i cubi
trasparenti sui quali si ergevano i lunghi tubi d’acciaio da
lap dance che, come colonne di un tempio, sostenevano il soffitto di
quel dubbio luogo mistico.
Gemiti, urli, musica e scontri non casuali facevano da sfondo agli
animi festosi che senza alcun pudore fuoriuscivano dalle espressioni
erotiche e divertite degli astanti i quali, ai margini del locale,
osservavano come cani da caccia le possibili prede che riempivano la
pista da ballo, e ruotando i bicchieri pieni di alcool che tintinnavano
percossi dai cubetti di ghiaccio richiamavano l’attenzione
dei disattenti che, presi dall’euforia, passavano oltre nel
tentativo di raggiungere il pasto ghiotto al centro della sala.
C’erano i lascivi, gli egocentrici, gli uomini adulti in
cerca di qualche giovane ragazzo da portare a letto e poi,
c’era Jay.
Schiacciato sulla poltrona in pelle all’interno del
privè osservava ogni piccolo particolare, indeciso se
seguire l’istinto e scappare o rimanere, cercando il
più possibile di integrarsi tra quella gente. Guardava
pensieroso la calca ebbra che come un’unica falange saltava
e ballava a tempo di musica seguendo il flusso ininterrotto delle
vibrazioni dei bassi che parevano far tremare anche l’anima
stessa.
Un sorso di vodka, un altro e un altro ancora, scandivano il
susseguirsi
inarrestabile dei suoi pensieri che – come sempre, del
resto – avevano
bisogno di essere accompagnati da quel pizzico di leggerezza dato
dall’alcool per poter librarsi nell’aria con
incoscienza, privati delle catene razionali che lo avrebbero spinto ad
alzarsi per rifugiarsi altrove, magari, in un posto più
tranquillo.
Cose che per il resto dei presenti apparivano eccitanti, divertenti e
dilettevoli, per Jay erano l’essenza stessa della tristezza:
come se il mondo gay si fosse chiuso tutto in una stessa bolla per non
dover vivere all’esterno, bisognosi di unirsi tutti insieme
per sfogare l’omosessualità che nella vita reale,
al difuori di quelle mura, erano costretti a contenere sotto la propria
pelle.
La considerazione ignobile che aveva Jay di quel posto non coincideva
con l’idea di chi lo accompagnava: Lizzie ballava
distrattamente seduta sul divano difronte a lui; avrebbe voluto
scuoterla per dirle di svegliarsi e di cercare di comprendere
l’infelicità celata dall’apparente
divertimento, ma sapeva che se l’avesse fatto
l’avrebbero guardato tutti come se stesse blaterando cose
incomprensibili.
Chaz, invece, appariva totalmente in armonia con quella specie di
ecosistema ricreato artificialmente per i poveri animali gay.
Animali: era esattamente questa l’impressione che Jay ebbe
per tutto il tempo, come se avesse davanti dei fenomeni da circo
intenti a mostrarsi in numeri studiati al fine di rendersi abbastanza
gay da poter coincidere con l’immagine stereotipata
dell’omosessuale.
«Che tristezza!» lo sussurrò quasi,
sperando che nessuno avesse sentito.
Difatti nessuno pareva averlo notato, tranne Izaya.
«Cos’è che ti fa tristezza?»
«Sono tutti gay!»
«Siamo nel locale gay più famoso di Soho, Jay.
Sarebbe strano se non ci fossero.»
«Come se esistessero locali per etero».
Il viso di Izaya diventò serio, aveva compreso perfettamente
il pensiero di Jay, non sarebbero servite altre parole e
scrutò il viso fanciullesco di quel giovane e saggio uomo
che pareva soffrire alla sola vista di quella che percepiva come una
gabbia. «Capisco che vuoi dire, ma non è
così
negativo. Sono solo ragazzi che si divertono.»
«Ho confessato a mio padre chi sono per poi dovermi chiudere
nelle mura di un merdoso locale per quelli come me».
Izaya sorrise teneramente avvertendo la rabbia,
l’insofferenza e il disagio che avevano animato le parole
sfrontate di quel novellino fin troppo provato dagli eventi per poter
prendere le cose con la sua stessa leggerezza.
Posò gli occhi su Chaz sperando di poter trovare qualcosa da
dire per stuzzicarlo e farlo arrabbiare, tanto per trovare un
diversivo. L’espressione del ragazzo era tesa e seria ed
Izaya, trovando
il cavillo giusto, iniziò a solleticargli le corde della
permalosità: «Dai, Chaz! Non avere sempre questa
faccia da funerale. Quasi non ti riconosco più.»
Appena finita la frase chiese segretamente perdono al ragazzo,
scusandosi tra sé e sé per il trattamento che
aveva scelto di riservargli; ormai sembrava una vittima sacrificale:
ogniqualvolta aveva bisogno di alleggerire l’atmosfera usava
la suscettibilità di Chaz come antidoto.
L’amo era stato gettato e, come previsto, il ragazzo non
tardò ad abboccare: «Mi viene difficile avere
altre espressioni in tua compagnia.»
«Mi stai dicendo che ne hai altre? Stento a
crederci».
L’attenzione di Jay, a quel punto, si proiettò
interamente sul viso dell’amico e come sperato da Izaya
quell’apparente attacco ebbe gli effetti auspicati.
«Chaz ha molte facce, quella che preferisco non è
questa, ma quando ha il broncio è comunque il mio
Chaz.» La frase di Jay, nella sua semplicità,
scatenò un
duplice effetto: devastante per uno, benefico per l’altro.
Izaya si morse le labbra e sentì di provare per la prima
volta nella sua vita la morsa vigorosa e demolente della gelosia. Si
maledisse per aver servito a Chaz, su un piatto d’argento,
una soddisfazione così grande, ma deciso a procedere con la
sua condotta continuò a provocarlo: «Si vede che
sei abituato, Jay. Ogni tanto gradirei vedere quel bel visino acceso da
un bel sorriso.»
«Non uso dare le perle ai porci» sibilò
l'esca, ritornando al mittente le sue provocazioni.
«Ma che cazzo avete? Sembrate due zitelle»
protestò Jay ammonendo con lo sguardo Izaya che,
scioccamente – forse anche in modo un po’ infantile – si
beò di quel rimprovero riconoscendo in quelle parole una
vena d’intimità che solo chi ama riesce ad
apprezzare.
Lizzie, che nel frattempo aveva continuato a dondolarsi sul divano
accompagnata dalla musica, raddrizzò la schiena fissando
tutti con severità:
«Siamo qui per divertirci, non cominciate a litigare. Oggi
è il compleanno di Jay.» Succhiò il
cocktail dalla cannuccia, spostò
l’attenzione su Chaz e buttò lì in
mezzo una domanda a caso con il proposito di cambiare discorso:
«Sei venuto altre volte qui o è la prima
volta?»
«Sì, ci sono venuto, due o tre volte,
forse».
Jay sgranò gli occhi incredulo: non conosceva quel piccolo
particolare della vita di Chaz e spostando
energicamente il bicchiere sul tavolo –
facendone cadere un po' del contenuto – si chinò in
avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
«Tu sei un traditore.»
«No. Sono solo più bravo di te a farmi i fatti
miei. Non ho bisogno di informare il mondo delle mie tendenze
né sono costretto a dire ciò che faccio nelle mie
serate libere.» La risposta di Chaz – nella sua schiettezza – stizzì
Izaya,
tanto da sconvolgere la compostezza del suo animo; se avesse potuto
dire tutto quello che gli passava per la mente avrebbe certamente
alzato un bel polverone, ciononostante il desiderio di rispondergli per
le
rime non coincideva affatto con l’ambizione di
regalare a Jay una serata diversa e tranquilla.
Portarlo all’Escape non era mai stata – fin
dall’inizio – un’idea
basata solo sulla semplice e
superficiale speranza di fargli passare qualche ora senza pensieri,
anzi affondava le proprie radici in un terreno molto più
profondo: voleva eludere la possibilità di far abituare Jay
al bar.
Se verosimilmente il locale di Lizzie era l’unico luogo nel
quale Jay sentiva di stare a casa, Izaya sapeva che con buone
probabilità sarebbe potuto diventare un posto come
tanti –
poiché l’abitudine porta ogni essere umano
all’assuefazione e tutto quello che percepiamo come speciale
diventa ordinario in un battito di ciglia.
Aveva scelto di cambiare ambiente per non permettere agli affanni del
ragazzo di sedimentarsi nell’unico suo rifugio, intaccando
l’incorruttibilità di quelle umili mura
imbiancate. Il jukebox, i tavoli, il bancone avevano ancora molto da
fare e se
avessero perso la loro magia Jay avrebbe perso per sempre il loro
sostegno.
Con la risposta di Chaz ancora impressa nella mente, Jay
afferrò il bicchiere come se si trattasse di uno scudo, si
alzò di scatto e si
allontanò dagli amici con passo deciso, dirigendosi verso la
pista.
«Ma, dove vai?» urlò Chaz piegandosi in
sua direzione con l’intento di alzarsi, ma nulla
poté fare contro la stretta di Izaya che lo tratteneva
saldamente dal polso: «Lascialo andare».
Jay si fece spazio tra la folla, colpito frequentemente dai corpi
danzanti che convergevano sempre più massicciamente al
centro della pista. Era quello il suo obiettivo: si sarebbe comportato
come ogni gay presente in quel locale, ostentando sicurezza e audacia.
Arrivato al centro si fermò, piantando i piedi sul
pavimento come se una forza invisibile l’avesse incatenato
in quell’esatto punto; stringeva il bicchiere fissando
persone imprecisate davanti a sé.
L’odore persistente di sudore e il calore provocato
dall’euforia dei movimenti altrui sapeva di sesso. Il sesso
era la vena pulsante e principale che dava vita all’Escape,
ai corpi seminudi della gente intorno a lui. Gente: non erano nulla di
più, nulla di meno. Estranei accalcati che si scambiavano
effusioni appassionate e fuori luogo, e parevano non curarsi
dell’unico alieno che li fissava incredulo e confuso; avrebbe
dovuto mescolarsi a loro e sentirli familiari, avrebbe dovuto ballare e
permettere a qualcuno di toccarlo, magari. Il corpo inviolato di Jay
sapeva di unicità in mezzo alla calca: una luce bianca
avvolta da mille colori.
«Sei solo?» Una voce estranea richiamò
la sua attenzione.
Non riuscì a connettere subito, lo squadrò
disordinatamente per qualche secondo di troppo, senza proferire parola.
«Ti ho chiesto se sei solo!»
«Mi vedi con qualcuno?» chiese ironico.
Il ragazzo sorrise e avvicinandosi languido all’orecchio di
Jay parlò senza alzare troppo la voce: «Posso
offrirti qualcosa?»
«Non credo tu abbia qualcosa da offrirmi. Non cerco
niente, stavo facendo una passeggiata».
L’improvvisa risata affilata e acuta del ragazzo –
contro ogni previsione –
lo
divertì, tanto che il suo viso si rilassò,
producendo una smorfia quasi simile ad un sorriso di intesa.
«Sorridi, ragazzo. Non ti trattenere. Sei qui per divertirti,
no?»
«Il problema è che io non mi sto divertendo per
niente».
Un gruppo di ragazzi presi della danza coinvolsero Jay come vittima
di una mareggiata, trascinandolo ai margini della pista; si
divincolò in tempo, prima di ritrovarsi nuovamente
fagocitato da quel delirio.
Si arruffò i capelli come era solito fare in momenti di
difficoltà e dirigendosi con passo lento e incerto verso il
bar tentò di sbirciare nel privè. Non
riuscì a localizzare i suoi amici, così decise di
prendersi qualche altro minuto di solitudine prendendo posto su uno
sgabello
davanti al bancone, poggiando i gomiti su di esso.
Fissava un punto davanti a sé perdendo lo sguardo tra le
bottiglie allineate, reggendosi la testa tra le mani.
Il broncio ridisegnò i suoi tratti, offrendo
all’uomo che lo scrutava a poca distanza uno
spettacolo curioso ed estremamente divertente. «Ti va di bere
qualcosa con me?»
Jay alzò il sopracciglio senza voltare del tutto lo sguardo,
come se volesse non dare a nessuno la soddisfazione di avere la sua
totale attenzione.
«Sto già bevendo» rispose poggiando le
labbra roventi sul bordo del bicchiere, ritrovando un sottile conforto
nel contatto con il ghiaccio.
«Vedo. Ma vorrei offrirti ancora qualcosa.»
L’uomo appariva distinto, maturo, di bell’aspetto e
con un’accuratezza nei modi quasi ipnotica. Sorrideva
impercettibilmente accompagnando le parole che pronunciava
con gesti eleganti e attraenti. Nonostante fosse riuscito a stuzzicare
l’interesse del ragazzo non riuscì, allo stesso
modo, a togliersi l’etichetta dello sconosciuto da
evitare –
perché era esattamente così che lo vedeva Jay: un
estraneo elegante, distinto, ma pur sempre un estraneo da tenere
lontano.
«Non sei di molte parole, ragazzo.»
«Abitualmente non parlo con chi non conosco.»
«Sei diffidente, ho capito!» esclamò,
prendendo posto accanto a lui. «Voglio solo bere qualcosa con
te, non ci sto provando.»
«Vai a raccontarlo a qualcun altro» lo
canzonò con sarcasmo.
L’uomo rise di gusto, stuzzicato dal modo diretto con il
quale Jay provava a levarselo di torno, ma più lo
respingeva più si sentiva attratto. Raramente aveva
incassato dei rifiuti ma quella volta sentiva di aver
ricevuto il più attraente della sua vita.
Jay non lo guardava, stava con le labbra attaccate al bicchiere
fissando le mensole in cristallo del bar. Le
ciglia lunghe curvate verso l’alto svelavano occhi di
ghiaccio così intensi da emergere nel buio della sala: occhi
irresistibili e sguardo fanciullesco, incurante, sfrontato.
«Io sono Bradley, puoi chiamarmi Brad» si
presentò porgendogli la mano. Il ragazzo la fissò
come se si trattasse di un serpente a sonagli e
indugiando per qualche istante l’afferrò
velocemente. «Hah… Jay, mi chiamo Jay.»
«Ho la sensazione che tu ti sia presentato con un nome
falso» disse Brad, corrucciando la fronte.
«No, affatto. Il mio nome è Jay.» Bevve
ancora un altro sorso, sperando capitasse qualcosa che fosse in grado
di mettere fine alla conversazione.
Brad era attraente ed educato – se l’avesse
conosciuto altrove
avrebbe avuto un’impressione di lui molto più
piacevole – ma le luci
dell’Escape trasformavano l'immagine di chiunque, li facevano
sembrare felini pronti all'attacco..
Le sue rassicurazioni non servirono a molto perché il suo
modo elegante di placcarlo aveva qualcosa di poco raccomandabile,
così Jay si voltò dando le spalle al bancone;
cercava con gli occhi qualcuno.
Cercava Izaya.
«Sei un novellino, vero?»
«No, vengo spesso qui…»
«Non è vero!» esclamò
ridendo, come un giocatore eccitato da uno scacco matto inequivocabile.
Jay tentò disperatamente di apparire naturale, come se quel
luogo gli appartenesse e, soprattutto, come se fosse perfettamente in
grado di gestire un tentato approccio. Quell’uomo lo metteva
in soggezione benché i suoi modi fossero gentili. Il fondo
dei
suoi occhi celava qualcosa di poco rassicurante.
«Sei un pesce fuor d’acqua, Jay. Se vuoi ti porto
in un posto più tranquillo».
La mano di Brad si azzardò verso il braccio di Jay ma prima
che potesse afferrarlo un’altra mano sopraggiunse sicura,
ostacolando il contatto tra i due. «Il ragazzo è
con me». La voce di Izaya rombò in salvezza di Jay
che, senza
nascondere l’entusiasmo per il suo arrivo, sorrise felice.
Brad, dopo aver appurato la veridicità di quelle parole,
alzò le mani in segno di resa. Guardò
per
l’ultima volta il viso di Jay e a malincuore dovette cedere e
rinunciare: «Ci rivedremo.»
«Sicuro, Brad!» rispose con altezzosità,
forte della presenza di Izaya.
Non appena l’uomo si fu allontanato, Jay dovette scontrarsi
con una situazione ben peggiore. «Perché stai
facendo lo stupido?»
«Izaya, cos’è? Sei geloso?»
«Non è per gelosia che ti sto parlando. Ti abbiamo
aspettato nel privè almeno un’ora, che cazzo di
fine hai fatto?»
«Ho ballato, ho chiacchierato, ho bevuto qualcosa. Ho fatto
quello che fa qualsiasi altro ragazzo» rispose arrogante,
consapevole della sua stessa falsità.
Forse, era proprio una reazione che cercava. Aveva mollato tutti nel
bel mezzo della serata con la speranza che
qualcuno, di sua spontanea volontà, venisse a cercarlo, e
proprio mentre la situazione stava per diventare ingestibile era
apparso Izaya: l’unico in grado di proteggerlo.
«Muoviti, usciamo». Il più grande lo
afferrò dalla maglia trascinandolo fuori dal
locale. Non l’aveva mai visto particolarmente adirato, ma
questa
volta sembrava avvolto da un’incalzante ed energica nube nera.
Jay rise tra sé e sé trascinato dalla forza
vigorosa del ragazzo che lo stava portando in salvo per
l’ennesima volta.
***
«Ti ho lasciato andare via senza oppormi ma, cazzo, Jay!
Un’ora. Sei sparito per un’ora senza degnarti di
farti vedere un secondo». Il freddo accompagnava le parole di
Izaya producendo candite e pompose
nuvole di fumo che a contatto con il fiato caldo del ragazzo si
libravano nell’aria fredda di una notte singolare che pareva
sospesa nel tempo, come se lo scorrere delle lancette si fosse
fermato o, forse, era la vicinanza di Izaya a rendere tutto
così eternamente immobile.
Jay rimase in silenzio adorante, amando ogni sprazzo di fumo, ogni
parola pronunciata da colui che l’aveva cercato, afferrato e
portato via. Ormai non ascoltava neanche più le sue
proteste, ma scrutava
idolatrante ogni piccolo particolare: le labbra rosse accalorate dalla
rabbia, le mani grandi e forti che si muovevano trascinate dalla
veemenza delle sue parole, gli occhi lucidi e fiammeggianti.
«Mi stai ascoltando?»
«No, cioè, sì. Ti sto
ascoltando».
Izaya alzò gli occhi al cielo abbandonandosi rassegnato su
un motorino parcheggiato accanto a lui. Jay si avvicinò
lentamente e per la prima volta
sentì l’impulso irrefrenabile di sfiorarlo, di
accarezzarlo, di rassicurarlo. Poggiò la mano pallida e
gelida sul viso deciso e accaldato del
ragazzo difronte a lui che, al solo contatto, alzò gli occhi
stupito: la prima carezza, il primo vero contatto fisico palese e non
fugace.
Jay sorrise a quegli occhi increduli con tenerezza matura e
consapevole. «Io ho scelto.»
Quella dichiarazione investì Izaya così forte da
zittirlo definitivamente; dal suo canto, Jay sapeva che procrastinare
non sarebbe servito più a niente. Il suo posto era tra le
braccia di Izaya e sapeva che se mai qualcuno
avesse osato portarglielo via l’avrebbe privato
dell’unico uomo che sentiva di amare.
La decisione si palesò chiara ed evidente, emergendo tra le
mille preoccupazioni e arrovellamenti –
invero, la certezza
di desiderarlo c’era sempre stata, ma gli eventi avevano
nascosto ogni cosa, costringendolo a chiedersi quale fosse la risposta
giusta alle sue domande.
«Tu ne sei certo, Jay?» pronunciò le
parole adagio, con la paura di alimentare ipotetiche incertezze.
«Se l’amore è fiducia, rispetto,
possesso e voglia di prendersi cura di qualcun altro
perché senti che nel mondo non esiste altro ruolo per te,
allora sì, sono sicuro. Perché mi sono
irrimediabilmente e profondamente innamorato di te.»
«Oh! Cazzo!». Fu l’unica cosa che
riuscì a dire, tanto che Jay
rise di lui senza preoccuparsi troppo di ferirlo.
Izaya aveva vissuto quei giorni con la certezza di non avere alcuna
possibilità: l’indissolubilità del
rapporto di Chaz e Jay l’aveva convinto che non ci sarebbero
state speranze, credeva di non poter competere, – sebbene non si
trattasse di una vera e propria competizione. Non per lui,
almeno – ma era sempre stato
certo del fatto che Chaz fosse troppo importante per Jay.
Izaya aveva ceduto le armi da un pezzo, anche se aveva tentato di non
darlo a vedere. «Spero che tu non abbia scelto cogliendo un
bigliettino a
caso da una scatola…»
«Mi offendo se dici così».
Izaya lo trasse a sé allargando le gambe per accoglierlo,
mentre, seduto ancora sul motorino, cercava di rimanere lucido per non
lasciarsi andare troppo alle illusioni, e dopo
aver poggiato il mento sulla sua spalla chiuse gli occhi,
respirando ogni istante di quel momento impagabile. Jay gli cinse la
schiena e sorrise teneramente sentendolo abbandonato su di
sé, – sembrava più
piccolo e docile –
così chiuse a sua volta gli occhi, e
immobili, stretti l’uno all’altro, assaporarono il
loro silenzio fatto di sospiri di sollievo.
Jay non l’avrebbe più dimenticato, ormai era suo,
lo sentiva scorrere nelle vene e la costante sensazione di conoscerlo
da sempre si fece più vivida, come se
quell’abbraccio l’avesse risvegliato da un sonno
durato una vita.
La barba incolta di Izaya sfiorò la pelle liscia e pallida
di Jay, con movimenti delicati e calmi cercava le sue labbra,
accarezzando con il viso ogni centimetro del tragitto che restava da
percorrere per raggiungere ciò che più desiderava.
Non appena le bocche furono abbastanza vicine da potersi assaporare, il
sorriso accennato di Izaya sciolse ogni esitazione accogliendo il
timido tentativo di Jay tra le sue labbra, catturando il suo fiato,
fino a prenderne possesso completamente.
Il bacio così tanto atteso ebbe luogo in una fredda serata
di Novembre, mentre i corpi accalorati dall’emozione e dal
desiderio infiammavano ogni piccolo spazio delle loro anime che, unite
eternamente da quel contatto intimo e soffice, compresero il luogo nel
quale avrebbero dovuto adagiarsi per sempre: l’una nella vita
dell’altra.
In quel preciso attimo due vite diventarono una e il resto del mondo,
i problemi, i tormenti e le attese si trasformarono in piccoli e
lontani
puntini insignificanti nella vastità incontaminata dei
sentimenti finalmente ammessi, accettati e svincolati da qualsiasi
paura che per troppo tempo avevano inibito ogni
possibilità di risalita e di unione.
Solo in quell’istante, Jay si sentì libero;
nonostante si stesse legando a qualcuno degustò il sapore
della libertà attraverso le labbra dell’uomo che
amava e che l’avrebbe protetto, amato e curato. Per sempre.
Angolo Autrice:
Ma ciao miei giovani guerrieri (?)
Ho aggiornato tardi, losoloso, però spero di essermi fatta
perdonare con questo capitolo.
Jay ha scelto ed è pronto ad affrontare le
conseguenze. Voi siete pronti?
Voglio ringraziare Elsker, Ladywolf, Aven, Bijou, Julie, Nahash, Ghost
e SNappy.
Se dimentico qualcuno siete liberissimi di menarmi a sangue.
Grazie a Castelli di Rabbia, ad evuzzola, a michyceli e a Moloko.
Grazie a tutti.
Al prossimo capitolo.
Un abbraccio.
Bloom
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