°(Quattro)°
Il mattino seguente mi svegliai lentamente, senza alcuna fretta, come
una farfalla che esce dal suo bozzolo. Nessun raggio di sole
impertinente o uccellino che si schiantava contro la finestra erano
stati la causa del mio risveglio prematuro, e forse fu proprio
perché l’avevo deciso io che aprire gli occhi fu
quasi piacevole. Mi stiracchiai pigramente, sbadigliando alla vecchia
pendola a cucù incastrata fra il vecchio armadio di legno e
la vecchia scatola di vecchi peluche. Non si poteva negare che la mia
Tana fosse ben fornita di pezzi d’antiquariato...
Mi alzai di buono, anzi, di ottimo umore e mi ritrovai a infilarmi i
jeans del giorno prima fischiettando sottovoce
“Livin’ la vida loca”: quel giorno ero
proprio in vena di follie, avevo voglia di vivere la mia vita in modo
pazzo, proprio come nella canzone. Anche se forse, prima di tutto, la
mia vita dovevo viverla...
Lanciai un’occhiata alla finestrella rotonda semi aperta
dalla notte appena trascorsa, e di rimando il cielo grigio e arrabbiato
sembrò scrutarmi con dolorosa attenzione.
Un brivido freddo mi attraversò la schiena, per cui corsi ad
mi infilarmi l’ennesimo maglione, rosso, sopra agli altri due
che già indossavo. Adoravo il blu, praticamente avrei
indossato solo quel colore, e invece quasi ogni maglione, t-shirt, o
camicia che possedevo erano bianche, arancione o nere.
Un’altra piccola ingiustizia della vita. Ma in fondo, che
m’importava dei colori?
Stavo per scendere a fare colazione, ma prima gettai
un’occhiata frettolosa alla sveglietta azzurra (almeno
quella!) e mi bloccai in mezzo alla stanza. Era troppo presto? O troppo
tardi? Non avevo idea di quando si svegliassero abitualmente i miei
fratelli... E se li avessi incrociati per le scale, o in camera di
mamma? Che spiegazione avrei dato loro? Preferii non pensarci.
Con cautela, mi avvicinai in punta di piedi alla porta e la socchiusi
di qualche centimetro, rimanendo in ascolto. Nessun rumore. Mi azzardai
ad aprirla un po’ di più e ad affacciarmi fuori
con la testa. Silenzio più assoluto. Erano tutti a letto, a
quanto pareva...
Il mio stomaco diede in un debole ruggito di protesta per la fame e
l’eco che si propagò giù per le scale
sembrò un boato nella calma sonnacchiosa della prima
mattina. Mi premetti la pancia con le braccia per soffocare i brontolii
e mi apprestai a fare una capatina in cucina alla ricerca di qualcosa
da mettere sotto i denti.
Durante la mia lenta e attenta discesa, ogni gradino scricchiolante,
ogni fruscio fuori dalla finestra mi facevano sobbalzare e tendere
spasmodicamente le orecchie alla ricerca della fonte di quel rumore,
immobilizzato; dopo qualche secondo mi tranquillizzavo e riprendevo a
scendere, scalino dopo scalino, col cuore in gola e uno strisciante
panico posizionato più o meno dietro la nuca.
Dopo il doppio del tempo che ci avrei messo per arrivare a piano terra
senza nessuno in casa, finalmente, nella luce acerba del mattino che
filtrava dalla porta a vetri, la porta bianca mi si parò
davanti. La aprii, titubante, e mi avvicinai subito al frigo, bianco
anch’esso. Quando lo spalancai, per un momento la luce
interna mi abbagliò, tanto che dovetti chiudere gli occhi
per qualche secondo prima di riprendere a distinguere qualsiasi cosa.
“Vediamo, vediamo...”, rimuginai fra me e me
procedendo nell’esplorazione. C’era qualche
confezione di latte aperta, diverse lattine di Redbull, comprate
apposta per i miei fratelli probabilmente, frutta, verdura, merendine
e... ah, la torta di ieri! Ancora intatta. Mamma doveva essere riuscita
a difenderla bene. Un’immagine molto fantasiosa di mia madre
con un mitra in mano e l’elmetto in testa di guardia al
frigorifero mi fece sorridere. Ce l’avrei anche vista,
mettere a rischio la propria vita per proteggere glassa e candeline!
“Questa è meglio farla sparire”, pensai
afferrando delicatamente il dolce e allungandomi a pescare una
forchetta e un coltello da un cassetto. Posai il tutto sul tavolo
bianco della cucina, chinandomi ancora sullo sportello aperto per
decidere che prendere da bere.
Un rumore soffocato che non riuscii ad identificare mi fece drizzare
improvvisamente. Silenzio. Forse me l’ero solo immaginato.
Alzai le spalle e mi rimisi a trafficare col frigo tendendo bene le
orecchie. Un altro rumore. Non potevo sbagliarmi, stavolta! Balzai
indietro con il cuore che mi batteva forte nelle orecchie e ascoltai,
ascoltai con tutto me stesso, teso come mai prima di allora.
Un colpo di tosse, proprio ai piedi delle scale, nell'atrio, e un'ombra
che si allungava sempre di più sotto la fessura della porta.
-Merda...-, mormorai voltandomi e precipitandomi fuori dalla cucina,
attraverso la porta di servizio. Ai piedi avevo solo un paio di calzini
ai piedi, e slittando qua e là sul pavimento stralucido,
corsi fuori in giardino, sull'erba ghiacciata, affiancato costantemente
dalla mia ombra che mi teneva testa senza alcuno sforzo. Col fiatone e
una paura gelida che non dipendeva dalla temperatura esterna attorno ai
meno 5°C, mi appoggiai al muro e vi ci scivolai contro, fino a
toccare terra, sfinito. Per qualche minuto rimasi ad osservare il sole
timido e stanco oltre la coltre di nuvole tentando di riprendermi,
mentre un solo pensiero mi scorreva nella mente: potevo essere visto.
L'unica incognita era da chi...
Il mio sedere stava diventando un blocco di ghiaccio, perciò
mi rialzai in piedi battendo i denti. E se fosse stata solo Simone,
scesa per un bicchiere d'acqua? La mia lotta interiore stava diventando
un affare di Stato per la mia mente, combattuta fra i due sentimenti
che si sfidavano a colpi di sciabole nella mia testa. Non so dire
quanto passeggiai avanti e indietro cercando di decidermi a favore di
una delle due idee che mi ronzavano dentro, ma se fosse stata estate,
il cemento sotto i miei piedi sarebbe diventato rovente!
Alla fine, la curiosità ebbe il sopravvento sulla paura,
poiché fu di certo la curiosità a farmi
strisciare di nuovo attorno alla casa fino all'ingresso sul retro.
Ancora quei brandelli di responsabilità e paura cercavano di
attirare la mia attenzione, mail desiderio di sapere chi c'era in
cucina li seppellì ben presto.
Senza rendermene conto, arrivai. La porta era chiusa male
come l'avevo lasciata. Non era mamma dunque, lei se ne sarebbe accorta
all'istante e l'avrebbe accostata con precisione... forse era
papà, o forse, forse...
Mi arrampicai sopra un secchio rovesciato per arrivare alla piccola
finestrella della cucina, ci sbirciai dentro e per poco non ruzzolai a
terra! Miracolosamente mi aggrappai al pressoché inesistente
davanzale, riuscendo a farlo nemmeno troppo rumorosamente e attesi,
cercando di cogliere qualunque rumore che lasciasse presagire che Tom,
che ora si stava sbafando tranquillamente la mia torta, avesse scoperto
la mia presenza. Poiché non sentivo nulla e mi stavo
stufando di rimanere mezzo accucciato e aggrappato per le unghie,
provai a rialzarmi per dare un'altra occhiatina. Sospirai di sollievo
quando constatai che il mio fratellone coi rasta non si era accorto di
niente, e mi accigliai, un po' meno contento, quando mi accorsi che
aveva praticamente finito tutto il mio dolce.
E mentre fissavo con disappunto quella leccornia al cioccolato sparire
nello stomaco di quell'ingordo del mio gemello, mi domandai questa
cosa: Se qualche vicino troppo mattiniero avesse messo fuori la testa
in questo momento, cos'avrebbe visto? Un ragazzo alto e longilineo con
una gran massa di corti capelli neri in calzini che spiava nella casa
dei vecchi Kaulitz, mi risposi. Decisamente non sarebbe stata una bella
immagine. Senza contare che qualche nonnina più furba delle
altre con un bel po' di anni alle spalle avrebbe potuto tranquillamente
scambiarmi per un ladro o un malintenzionato, e chiamare la polizia. E
nemmeno questa sarebbe stata una buona cosa.
Il mio stomaco brontolò ancora una volta, protestando alla
vista dell'ennesima fetta che svaniva come per magia al semplice
lavorio di mascelle di Tom. Già, Tom... Lo osservai bene per
tutto il tempo che rimase ad ingozzarsi e finché non
sbadigliò e se ne tornò di sopra sbattendo la
porta, lasciando torta e bibita sul tavolo.
Non è che non l'avessi mai visto, avevo quei pochi ricordi
sbiaditi dell'anno passato assieme a lui e a Bill, e ovviamente mamma
comprava qualunque rivista che nominasse anche di sfuggita i Tokio
Hotel, per cui potevo quasi affermare di conoscere tutti i componenti
della band. Averceli in casa però era un altro paio di
maniche!
Soffiai fuori un po' di vapore verso il cielo, tanto per vedere come si
confondeva con le nuvole e solo in quel momento mi accorsi di star
tremando violentemente. Non mi sentivo più i piedi,
perciò saltai giù dal secchio e presi a pestare
per terra, tentando di tornare a far circolare il sangue nelle dita.
Non ce la facevo più, dovevo tornarmene dentro, al
calduccio! Mi avviai verso la porta e la socchiusi, avvertendo
già il familiare calore della mia Tana, quando qualcuno dai
capelli scuri mooolto arruffati si materializzò
stiracchiandosi all'altra entrata della cucina. Imprecai fra me e me
facendo immediatamente marcia indietro e correndo di nuovo al mio
secchio. Era Bill, ovvio. Ringraziai il cielo che avesse il risveglio
lento e fosse riuscito ad aprire gli occhi solo quel tanto che bastava
per centrare la porta, altrimenti mi avrebbe scorto di sicuro!
Sarei rimasto ore ad osservare i miei fratelli, ma il freddo intenso
partito dai miei piedi mi era ormai arrivato al cervello,
rendendo le riflessioni strategiche per tornarmene in Soffitta senza
farmi vedere decisamente più faticose.
“Allora, se io passo di qua c'è Bill. E se
entrassi dalla porta principale? No, no, è chiusa a
chiave... Quindi devo aspettare che si alzi mamma e... ma che dico, non
posso aspettare chissà quanto tempo, sto congelando
già adesso! Merda...”.
Come se non avessi già perso la percezione di quel paio di
orecchie ai lati della testa, una brezza freddo si mise a soffiare,
attraversando i miei tre maglioni e trafiggendomi la carne con mille
spine di ghiaccio. Ormai stavo improvvisando un esibizione di tip tap
per riuscire a scaldarmi almeno un po', e come pubblico avevo solo
l'urlo del vento e lo stridio dei rami dell'albero dietro casa...
Aspetta un attimo... L'albero?
Un'illuminazione a forma di lampadina mi si accese sopra la testa
mentre costeggiavo il muro scrostato della casa e sfrecciavo dritto
dritto alla vecchia quercia nodosa che si stagliava contro il cielo
ingrigito come una figura stilizzata per bambini.
Mi avvicinai guardandomi attorno con attenzione,
nell'eventualità che le solite vecchiette stessero guardando
proprio dentro casa, ovvio, e presi a tastare il tronco e i rami bassi
della pianta come se fossi cieco, appoggiando gradualmente il peso ora
su questo tralcio, ora su quella fronda. Aveva i suoi anni, quel
bestione, ma tutto sommato sembrava abbastanza sicuro...
Sbuffai, prossimo all'assideramento, maledissi almeno cinque volte il
mio stomaco brontolone, mi accucciai in modo d'avere più
spinta per raggiungere quel ramo che sembrava tanto perfetto e...
saltai!
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