Capitolo
16
n/t:
Eccoci arrivati nel bel mezzo della
storia. Ringrazio
chi recensisce e
spende due parole anche per un appunto, o una critica. J
Vorrei chiarire qualcosa sullo stile,
visto che più persone mi hanno chiesto spiegazioni sul modo
contorto in cui a
volte sembra essere tradotta questa fanfiction: è vero, la
formattazione e lo
stile di scrittura possono risultare un po’ confusionari, nel
momento in cui vengono
tradotti. Nei punti più oscuri, infatti, ho cercato di
sciogliere i concetti
senza cambiare troppo l’originale. Ma generalmente, trovo che
una delle
particolarità di questa fanfiction sia proprio il modo in
cui è scritta: il
continuo scambio tra pensieri e descrizioni – soprattuttocosa
che si verifica,
ad esempio, con il personaggio di Anna: può risultare
confusionario- ma non è
una delle qualità principali del personaggio del film?
Comunque, la mia regola principale è: attenersi
all’originale il più possibile
per far passare la “voce dell’autore”.
Per altre domande, sono sempre qui. Adesso, scusate la digressione, e
buona
lettura.
"Qualcuno
ha visto Britta?"
"Non
da—beh, tre giorni almeno. Prima del
funerale, sicuramente."
"Mi
pare di averla sentita dire che aveva nuove
prospettive a cui guardare."
"Nuove
prospettive? Che razza di idiota—nuove
prospettive? E che prospettive migliori di quella di lavorare per la
Regina di
Arendelle ci sono, hm?"
"Parecchie,
se lo vuoi sapere. La Regina porta
sfortuna. L’inverno prima, e ora la principessa—ohi!"
"Chiudi
immediatamente la bocca, o ti colpisco
anche l’altra mano, capito? Lavora quell’impasto, e
smettila di spettegolare, a
meno che non voglia ritrovarti tu alla ricerca di
nuove prospettive. Dirò
a Kai della scomparsa di Britta. Dio solo sa quanti pesi la Regina
abbia già
sulle spalle."
"Ci
dispiace dover partire in—circostanze così poco
auspicabili, Regina Elsa." Uno dei gemelli le dice. A malapena lo
sente.
"La cerimonia è stata davvero bella, testamento adeguato
alla memoria
della principessa."
No,
pensa
lei, fiacca, gli occhi concentrati
su un filo scucito dell’orlo del guanto nero—non
indossava quel paio da tre
anni, da quando li aveva usati in una situazione simile—no,
Anna l’avrebbe
detestata. Avrebbe preferito una banda, forse; dei canti. Qualcosa di
rumoroso.
Una celebrazione, non un funerale.
Uno
dei gemelli tossisce, a disagio. L’altro gemello. Si
strattona il colletto. Qualcosa in lei urla sospetto!
Ma per la maggior
parte non le interessa per niente. Chiede lui, "E’ riuscita a
seppellire
il corpo?"
Distoglie
lo sguardo, per fissarlo sull’erba annerita
tra le pietre del cortile. Un’aspra gelata era calata,
all’ improvviso,
inaspettatamente, e le dispiaceva—ma in realtà no.
Non sul serio. E, alla fine,
non aveva impedito a Kai di dirle, con gentilezza, Abbiamo
bisogno della
cerimonia, vostra maestà. Alla gente serve un senso di
chiusura, e non si può
più aspettare.
"No,"
afferma, lentamente. Le sue parole
sono strane, e distanti, e in alcun modo collegate a lei. Pensa al
corpo, che
giace pacifico in una delle stanze del castello. Avrebbero voluto
drappeggiare
un velo nero sulla porta della stanza di Anna, e lei li aveva fermati.
"No, non l’abbiamo fatto. Ancora qualche giorno, forse."
"Beh,"
l’altro gemello, il primo gemello,
pensa, pensa, "So di parlare per mio fratello e me
quando dico che
non ci sembra—appropriato, lasciarla qui
da sola con tale responsabilità
dopo—"
"Partirete
adesso. Immediatamente," Elsa esclama,
alzando lo sguardo di botto. Li guarda negli occhi, la schiena fragile
rigida e
dritta come vecchio vetro, le vertebre che sporgono come schegge. Non
ha
nemmeno la forza di scusarsi per le proprie parole. "So che al re
premeva
promuovere la pace tra Arendelle e le Isole del Sud, ma in tali
circostanze non
farò di queste promesse. Posso solo chiedervi di rispettare
la mia volontà e di
informare il vostro re che ogni missiva verrà ignorata per
tutta la durata del
mio lutto."
E’
il discorso più lungo che fa da tre giorni, quattro,
tanto che la rende esausta, completamente. Conclude con un piccolo
cenno del
capo. Non riusciva a ricordare quanto fossero strette le relazioni
commerciali
con le Isole del Sud; non riesce a costringersi a preoccuparsene. I
fratelli la
esaminano, uno con l’aria scaltra, l’altro,
arrabbiato. Il cortile è ancora
bardato di nero.
"Beh,"
afferma uno di loro alla fine, dopo
una lunga, orribile pausa, "farebbe meglio a dire a nostro fratello di
riprendere la via di casa, allora, se non desidera ulteriori contatti
con gente
delle Isole del Sud."
Elsa
rimane inespressiva; non è difficile.
"Non
l’avete visto?"
"Nemmeno
l’ombra, da quando ci siamo ritrovati. Strano,
come sia svanito nel nulla, proprio prima del funerale."
Elsa
non lo corregge; è una strana affermazione, come
se poi Albert avesse potuto essere la causa della caduta di Anna, visto
che nello
stesso momento era stato disteso mezzo morto sul tavolo della sala da
pranzo; visto
che, da allora, a malapena era stato abbastanza lucido da pronunciare
la parola
acqua.
"Non
vi ha accennato niente riguardo all’
andarsene?"
"Per
niente. Ma alla fine, come ho detto: i
sentimenti di mio fratello sono così volubili. Forse
semplicemente—alla fine si
è annoiato."
"Forse,
infatti." Elsa picchietta una per
una tutte le dita contro il pollice. Conta fino a cinque. Non vuole che
lo
sappiano, ha mantenuto Albert un segreto per tutto quel tempo. "Se lo
vedrò, lo informerò della vostra partenza. Vi
auguro un buon ritorno a casa."
I
gemelli si inchinano, perfetti gentiluomini, ma li
vede solo con la coda dell’occhio—si è
già voltata, e sale su per le scale, di
ritorno al castello.
"Kai!"
"Sì,
che c’è, Gunda? Sono molto occupato in
questo momento—"
"Non
tanto occupato da ignorate una cosa del
genere, non lo sei eccome! E’ che parlavo con alcune delle
mi’ aiutanti in cucina,
e hanno detto che ormai Britta son tre giorni che non si vede."
"Britta?
Davvero?"
"Sì.
Ha detto che era in cerca di 'nuove prospettive.'"
"E’
molto—strano."
"Ho
sempre pensato che fosse una cosina volubile;
non mi sorprenderei se si fosse messa in testa di fuggire con uno
stalliere. Ma
dobbiamo tenere sotto controllo gli spostamenti del personale,
quindi—"
"Sì,
sì; inizierò le ricerche immediatamente. Grazie,
Gunda."
"Come
ho sempre detto—cancelli aperti uguale più
problemi—"
"Grazie,
Gunda. Ora, non hai un pranzo da
preparare?"
"E
che importa, eh? Come se qualcuno si degnasse
di mangiare, da un paio di giorni."
Kristoff
osserva ogni singola persona che se ne va e
cerca di capire che relazione aveva con lei. Alcuni, come la regina,
sono
facili; altri, come l'alta donna pelle e ossa che piange a dirotto e
tira su
col naso e si asciuga il volto e in generale si rende ridicola, erano
più
difficili. Non ne ha idea, osservandola scendere a testa china
giù per la
collina. Non ne ha proprio idea.
Sven
è premuto stretto nello spazio tra la sua ascella
e il fianco, lo sorregge, e gli mette decisamente troppo caldo. Tira su
col
naso, pulendoselo col braccio libero, e osserva il prete andarsene; il
vecchio
è l’ultimo a lasciare il posto, ridicolo con quel
cappello a punta e gli
occhialetti rotondi, mentre consegna il suo corpo alla terra—
E’
solo.
Sven
gli dà un colpetto sulla guancia. Kristoff si
acciglia di più. Non cambiava espressione da tre, quattro
giorni—forse di più,
non ricordava. Osserva la sommità arrotondata della collina,
l'erba di una
sfumatura morta di marrone che scricchiola sotto i suoi piedi. Il gelo
di Elsa.
Significava che non potevano seppellire il corpo. Pensa che l'abbia
fatto di
proposito, e si chiede se l'avrebbe fatto anche lui al suo posto.
Con
lenti passi determinati si avvicina alla famiglia
di pietre tombali. A due, tre metri di distanza, stacca il braccio
dalle corna
di Sven ed esclama, lentamente, la voce roca per la rabbia e il
silenzio
prolungato, "Tutto ok, amico."
Sven
sbruffa triste e si accoccola in attesa.
Kristoff
avanza lentamente, metodicamente, un piede
davanti all’altro. Si toglie il berretto e lo torce tra le
mani tanto per avere
qualcosa da fare. Non ci sono nient’altro che il vento e i
gabbiani a tenergli
compagnia, il sole che splende sulle acque blu del fiordo, vuoto e
tranquillo.
Riesce
a raggiungere la roccia. Si sfila il guanto
destro coi denti, esponendo le dita tozze all'aria estiva,
più fresca del pelo
che riveste i guanti, e le passa sulla pietra nera, avvertendo le linee
e le
curve delle rune che riportavano scritto il nome di lei sulla
superficie. Poi,
all'improvviso, si lascia cadere sul suolo secco, ruvido.
Più un sedersi
aggraziatamente, mente a se stesso, in fretta, sentendo una fitta su
per la
schiena; qualcosa per cui lei l'avrebbe preso in giro. Appoggia la
testa contro
la lastra di marmo e trae conforto dal fatto che il suo corpo sia
lontanissimo
da lì. Sven si avvicina e si accovaccia accanto a lui.
Kristoff si sfila
l'altro guanto, posandolo assieme all'altro—e al
cappello—nel proprio grembo,
prima di passare le dita tra il manto irsuto dell'amico. E' di
conforto, e
piacevole, ma non placa il dolore che prova in petto.
Guarda
il fiordo.
"Sì,
Ina?"
"Hm?
Oh! Padron Kai, signore, buongiorno—Non
stavo bivaccando, giuro—"
"No,
no, va bene, non ti preoccupare. Ahem. Eri—una
buona amica di Britta, non è così?"
"Britta?
Oh, sì, suppongo. Voglio dire, Ci
parlavo un po’, e veniamo dalla stessa parte della
città. Voglio dire, non ci
parlavo spesso, se è quello che volete sapere, signore."
"Beh,
sì, lo ero. L’hai vista, di recente?"
"Oh,
no. Sono tre giorni, almeno."
"Capisco.
Sai chi potrebbe averci parlato per
ultimo?"
"Probabilmente
Sander."
"Lo
stalliere?"
"Sì,
signore. Culo e camicia, quelli due là."
"Grazie,
Ina."
Elsa
è fiera di essere riuscita a salire le scale e a
raggiungere l’ingresso, acceso dal sole pomeridiano, prima di
avvertire il
vuoto schiacciante del proprio petto, che minaccia di consumarla;
è una piccola
vittoria personale, pensa, afferrandosi il colletto del vestito di
velluto e
appoggiandosi alla lastra piombata della finestra più
vicina. Il giorno prima, non
era riuscita a oltrepassare le scale, e il giorno prima ancora, la
soglia della
propria stanza. Si prende un momento per calmarsi, grata del fatto che
l’ingresso sia deserto, i servi tutti impegnati; non grata
del fatto che fosse
costretta a prendersi sempre più di questi—
Momenti.
Non
poteva permettersi dei—momenti.
La
crisi passa, e rimane a fissare la porta della
stanza della sorella. Sa che l’avrebbe trovata nello stato in
cui era stata
lasciata quel mattino; aspetta, scioccamente, per un momento, due, che
Anna ne
esca, correndo come una furia. Ma è chiusa, ed è
serrata. Elsa flette le mani, distoglie
a forza lo sguardo, osserva il paesaggio fuori, Arendelle che
lentamente prende
vita dopo le campane e la processione della cerimonia. Riluttante,
incredula, ancora,
che una cosa così sciocca—stupida—sia
potuta accadere.
Si
sfila i guanti, in fretta, all’improvviso, ricordandosi
con un respiro brusco quanto li odiasse, quanto le annebbiassero i
sensi e la
facessero sentire in trappola. Le dita, pallide come la luna, quasi
traslucide
alla luce del sole, la salutano, e divora avida la sensazione della
pelle nuda
quasi con gelosia. Poi, mordendosi un po’ il labbro, appoggia
la punta
dell’unghia contro il vetro.
Con
una violenza che quasi la travolge facendola finire
a terra la finestra si annebbia coperta da una lastra di ghiaccio, ed
Elsa
sposta gli occhi spalancati da essa alle proprie dita ai guanti, prima
di rinfilarseli,
sopprimendo una specie di singhiozzo disperato. Si costringe a restare
calma,
ma il panico le attanaglia a poco a poco la gola, mentre si
volta—oltre la
porta della stanza di Anna—oltre la propria—diretta
al corridoio dei ritratti.
I
suoi genitori la fissano accusandola con lo sguardo
mentre lo attraversa diretta alla biblioteca. Chiedono, muti, rigidi,
chiedono—
Come
hai potuto?
"Sander?"
"Sì,
arrivo, imbecilli, cosa volete adesso—Padron
Kai! Padron Kai, signore! Scusate, pensavo fosse—"
"Nessun
problema—anche se di certo non mi sarebbe
piaciuto affatto essere chi stavi aspettando."
"Nah,
non è che li avrebbe uccisi—"
“Bene.
Mi fa piacere saperlo. Ora, hai visto Britta di
recente?"
"Brit?
Non da quando abbiamo litigato, no."
"Litigato?"
"Sì,
signore. Ha detto che conosceva un tipo che
la portava lontano da questo posto, e che non avrebbe dovuto pulire
vasi da
notte mai più, e io ce l’ho detto—ho
detto, quindi preferisci ‘sto tizio a me—"
"Ti
ha detto chi era, Mastro Sander?"
"Hm?
Oh. No, non l’ha fatto. Manco un nome. State
dicendo—state dicendo che nessuno l’ha vista?"
"Non
da un po’."
"Oh."
"…Beh,
ragazzo mio, devi—su col morale. Di sicuro
la troveremo presto."
"Sì,
signore. Se posso esservi d’aiuto—"
"Ti
informerò immediatamente."
Elsa
fissa la scrivania.
Condoglianze—tante,
troppe. E ancora, negoziati che
non aveva ancora visto, lettere sigillate, note spesa—guarda
fuori dalla
finestra, e, quel giorno per la prima volta, sente davvero, e tanto, la
mancanza
dei genitori.
E
c’era anche, pensa, lentamente, battendo un ritmo
irregolare sul legno della scrivania, la questione
dell’accoltellamento di
Albert di cui occuparsi. La sua lista dei sospetti era assieme
sorprendentemente corta e incredibilmente lunga; corta,
perché conteneva due
ipotesi, fianco a fianco. La prima, Viktor e Tomas, assieme; la
seconda, qualunque
cittadino di Arendelle.
Corta,
ma lunga.
Elsa
si tormenta il labbro. Non riusciva a concepire
dei fratelli che si facessero cose del genere. Era impensabile,
inimmaginabile—chi
avrebbe fatto una cosa del genere a un familiare?
Per quanto lo si
potesse odiare—per quanto si potesse desiderare darlo in
pasto ai lupi e
lasciarlo a marcire—
Sussulta
al solo pensiero. Scuote la testa.
Ma
stiamo parlando della sua
famiglia.
Avverte
un dolore crescente all’interno della testa.
Si
strofina le tempie con le dita guantate, chiude gli
occhi. Doveva occuparsi personalmente della questione, ma con Albert
ancora
convalescente e addormentato—e lei, che non sapeva se al suo
risveglio sarebbe
stato mentalmente lucido—
Credi
che avrebbe potuto amarmi?
Stringe
i denti. Fa quasi un verso sprezzante. Amore.
Le
prudono le dita.
Il
panico la invade, di nuovo, e inghiotte un respiro
profondo, si alza dalla sedia e barcolla fino alla finestra. Armeggia
con la
chiusura, e poi la spalanca, respirando i profumi pomeridiani del
mercato e del
mare e di Arendelle.
Pensa
che tutto sia un incubo, per forza. Stringe le
mani a pugno e stringe gli occhi e pensa, forsennatamente, svegliati,
svegliati,
svegliati.
L’ultima
volta che aveva parlato con la sorella, aveva
detto mi raccomando. L’aveva spedita in
mezzo alla natura selvaggia in
base a un qualche piano per intimidire i principi delle Isole del Sud e
aveva
detto mi raccomando.
Certo,
una
parte sleale di lei pensa, Certo, ti
fidavi di Kristoff.
Sa
che è ingiusta. Quello che era successo—era stato
un incidente, e lo sa, ma il pensiero affiora comunque. Si chiede,
vagamente, osservando
le bandiere nere che profilano il ponte e ascoltando i
rumori—meno vivaci del
solito—su dal mercato—si chiede Kristoff dove sia
andato, dopo la cerimonia di
quella mattina.
Pensa
che Anna era stata la colla, e senza di lei, tutto
stava cadendo a pezzi.
Con
un improvviso movimento frenetico si volta, il
respiro affannoso, e percorre i quattro, cinque, sei passi che la
separano
dalla porta. Chiude a chiave, e poi si scaglia contro
l’impiallacciatura
verniciata di fresco, e scivola fino a terra, abbracciandosi le
ginocchia, lasciando
uscire un singhiozzo profondo. Il tessuto del guanto si soleva
leggermente, lasciando
intravedere un sottile lembo di pelle del polso.
Oh,
se solo Anna avesse potuto vederla in quel momento.
"Hai
sentito?"
"Sentito
cosa? E’ un’affermazione così vaga, non
puoi uscirtene con—attenta! Stavi per rovesciarmi
l’acqua sugli stivali!"
"Hai
sentito di Britta? Padron Kai la sta cercando
ovunque—sembra che sia scomparsa."
"Pfft.
Non mi meraviglierei se avesse alzato i
tacchi. Diceva sempre che avrebbe voluto andare a visitare i paesi
lontani, e
che avrebbe sposato un principe come nelle favole—"
"No,
ho sentito che c’era davvero qualcuno, questa
volta! Mi ha parlato di un tipo di nome Tom, che si aggirava da queste
parti, e
la stava corteggiando."
"Oh,
povero Sander. Gli si spezzerà il cuore,
quando lo verrà a sapere."
"Dovrebbe
ringraziare il cielo di essersi
liberato di lei."
"Non
dire cose del genere."
"Dico
quel che mi pare! E quindi, ringraziare il
cielo!"
Kristoff
osserva gli uomini che affollano le navi nel
porto sotto di lui; una scivola via dal molo, spiegando i propri
colori—una
specie di uccello, levato in volo dietro uno stemma
indecifrabile. Il
suo avanzare fuori dal porto è lento e ipnotico, scomparendo
brevemente dalla
vista quando passa sotto al colle su cui lui si trova, ormai in mare
aperto. Non
ha mai avvertito il canto di sirena che possiede l’oceano;
erano le montagne
che tenevano davvero stretto il suo cuore. Eppure, osserva la nave
finchè non
si vede più, e poi Sven dice, "Dovremmo tornare al
castello, e vedere
come sta la Regina Elsa."
Kristoff
risponde, senza sbattere le palpebre, "Non
torneremo, Sven.”
"Che
vuoi dire con non torneremo?
"Voglio
dire, che senso ha! Che senso ha, perché diavolo
dovrei tornare laggiù, huh? Fin da quando mi sono fatto
coinvolgere in questo
stupido casino, non ho incontrato altro che guai e adesso davvero
BASTA."
Ha l’affanno, e tira il pelo di Sven, ma la renna non emette
un lamento, si
limita a guardarlo addolorato e scuote la testa. Kristoff lo lascia
andare, in
fretta, e si scusa con una pacca, imbarazzato, mentre cerca di
calmarsi. "Era
più facile," continua, scontroso, accovacciandosi per
tirarsi su, infilandosi
i guanti, "quando eravamo solo io e te."
Vuole
toccare la pietra un’ultima volta, ma una pietra
è solo una pietra, e non lo fa. Invece arranca lentamente
sull’erba morta. Si
ferma in cima alla collina, voltandosi verso la sagoma abbandonata
della renna.
"Andiamo,
amico."
Cala
la notte.
Un
uomo cavalca una renna, sulle montagne.
Una
Regina tiene la porta serrata.
Il
sorgere del sole non cambia le cose.
Albert
si sveglia.
Per
un lungo, terrificante momento, percorre la stanza
in cui si trova con gli occhi spalancati, perché non si
ricorda minimamente come
ci sia arrivato—o dove fosse persino il
luogo in cui si trovava—o—beh, le
lenzuola erano lisce, e il letto morbido, ma non era questo il
punto—
C’è
una guardia in piedi accanto alla porta, che
sonnecchia con la testa appoggiata al muro accanto a essa.
"Salve,"
Albert gracchia, lentamente, tirandosi
di nascosto le coperte fino al mento, sia per pudore che come debole
protezione.
La guardia sobbalza, lo nota, si acciglia; la mascella si muove come
quando si
sta per sputare. Tutto sommato, tipica reazione; Albert, abituato, non
si
sconvolge.
La
guardia grugnisce. "Sera."
Albert
lo guarda, alzando un sopracciglio, dall’altra
parte del copriletto, blu scuro come il baldacchino, e ornata da grandi
strisce
di motivi intricati, rombi e fiori, la parte inferiore dei muri, nello
stile
che stava iniziando ad associare esclusivamente ad Arendelle; grazioso,
eppure—incredibilmente
soffocante a volte—
La
mente corre, un po’ fiacca, mentre cerca di riunire
le immagini sconnesse che vagano nella vastità dei suoi
pensieri incoerenti—gli
occhi di Giovanna D’Arco—la fitta acuta di una lama
che si torceva, due lame—una
fialetta—i gemelli che dicono di doversi occupare della
principessa—
I
gemelli che dicono di doversi occupare
della principessa.
Chiede,
"Quanto tempo sono stato addormentato?"
"Quasi
cinque giorni."
Dannazione,
troppo—troppo tempo—"Okay.
Va bene. E
la—la Regina Elsa per caso è passata di qui?"
Ma
la guardia si chiude a riccio, e non risponde.
Albert pensa che quell’uomo sia stato messo lì non
tanto per assicurarsi che
avesse tutto quello che gli serviva, quanto per assicurarsi che stesse lì.
Si sforza di tirarsi su a sedere, che sia dannata la copertura delle
lenzuola, e
mentre lo fa avverte una profonda, acuta fitta lungo tutto lo stomaco.
Si
ferma, sentendo il sapore di terra—ma non
spiacevolmente—in fondo alla gola. La
pressione delle mani contro il materasso gli fa tremare le braccia. "Ho
bisogno di parlare con la Regina."
La
guardia non risponde.
Albert
si tira su aiutandosi con la testata del letto e
si strofina il viso con le mani. Guarda male quelle traditrici delle
sue
braccia, e pensa che dovrebbe esserci già abituato. A non
essere tenuto tanto
in considerazione. Si soffia via una ciocca di capelli ricci che gli
scendeva
sulla fronte e pensa, che sul piatto delle minacce, le sue proverbiali
quotazioni fossero molto basse—il che andava—andava
bene, era normale, se non
che, sapeva che sarebbe successo qualcosa alla
principessa, e doveva
avvertire la Regina—doveva avvertire Elsa—
Si
lascia ricadere le mani in grembo, e si chiede
perché siano giunti a quel punto, e poi pensa che
è Alfons il perché.
Gli
occhi scattano di nuovo verso la guardia, ma
l’uomo non sonnecchia più. Albert si riguarda di
nuovo le dita, stendendole
tutte e dieci, poi stringe le mani a pugno. Di chi si poteva fidare?
Inizia a
contare, un dito per ogni nome.
Lukas.
Marcel. Stefan. Josef. Rupert. Fredrik.
Poi—
Chi
è che li avrebbe effettivamente aiutati?
Marcel,
Josef, Rupert, e Fredrik erano via a
combattere. Abbassa quattro dita. Stefan non si sarebbe sporcato le
mani. Lukas
l’avrebbe fatto solo se pensava che la cosa gli sarebbe
tornata utile, alla
lunga, quindi—forse?
Albert
rimane con un solo dito ricurvo e fa una
smorfia.
Beh,
pensa, ostinato, guardando fuori dalla
finestra, mi occuperò di quell’ostacolo
quando sarà giunta l’ora—inizia
ad architettare un piano, che implica sgattaiolare fuori dalla
finestra, arrampicarsi
sul tetto, scivolare giù nei pressi della prima finestra
aperta, rientrare nel
castello, e correre in giro finchè trovasse la Regina.
Era
un piano molto confuso, e che dipendeva da un
sacco di variabili—e cioè, la conoscenza che
possedeva della pianta del
castello (nessuna); lo stato di salute (più o meno al
settantotto percento, si
direbbe); e l’energia (correntemente a quota zero).
Tutto
considerato, un piano orribile.
Albert
guarda di lato, e afferma, disinvolto, “Mi
dispiace tanto."
La
guardia sembra confusa.
Una
vita di lezioni delle Isole del Sud lo spingono a
fare un sorriso mesto.
Bene.
"Ho
sentito che stai cercando Britta?"
"Gerda?
Dovresti essere a letto, non ti sei
ripresa abbastanza da andare in giro—"
"Il
lutto non impedisce alla terra di girare,
Kai. Lo sai bene quanto me. Hai scoperto qualcosa?"
"Ancora
no, tranne per il fatto che c’è la
possibilità che abbia detto a qualcuno di
voler lasciare l’impiego al
castello."
"Bene,
mi metterò all’opera."
"Padron
Kai!"
"Oh,
cosa c’è ora?"
"Mi
dispiace interrompervi, signore, ma il
principe—è scappato."
"Cosa?!"
La
vista di Elsa si annebbia, le lettere della pagina
avanti a lei che si sfocano in un mare vorticoso di inchiostro nero
privo di
significato. Si ferma, inspirando brusca dal naso e appoggiandosi allo
schienale duro della sedia. Si pianta un gomito nel fianco, un dolore
fiacco,
fioco, che a malapena la tiene sveglia. Vorrebbe non essere rimasta
alzata
tutta la notte a leggere Tristano e Isotta.
Chiude
gli occhi—
E
un minuto dopo viene svegliata con un sussulto da un
rapido bussare continuo contro la porta bianca, seguito, subito, da,
"Regina
Elsa? Regina Elsa, sono io—voglio dire, Albert,
sono—per favore, posso entrare?"
Sembra avere il fiato corto. Prova con la maniglia, ma lei non
l’aveva ancora
aperta.
Deve
essere un sogno, quindi ride, fragile, incredula.
Vorrebbe dire, Non faccio entrare le persone.
Pausa.
Poi, soffocato, "Okay, allora devo solo—"
Elsa
scuote la testa, pizzicandosi l’interno del
braccio per svegliarsi, solo che il sogno non
svanisce in nebbiolina; è
ancora in biblioteca, tra una pila di libri mezzi aperti e lettere
mezze lette,
la finestra aperta, i suoni della città portati dal vento
più allegri, molto
più allegri, del giorno prima, un fuoco inesistente nel
caminetto. Sbatte le
palpebre e spalanca gli occhi, osservando la porta, giusto in tempo per
vederla
tremare sotto il peso di un impatto dall’altra parte, una
volta, due—
E
poi si spalanca di botto, serratura e maniglia rotta,
e sbatte contro il muro. Una nave, in una bottiglia di vetro sulla
mensola, cade
a terra e si frantuma, spezzandosi, in una cascata di vetro. Elsa
rimane a
bocca aperta, troppo stanca per essere altro che scioccata. Albert
è in piedi
sulla soglia, ha l’aria indispettita e si massaggia la
spalla. È molto pallido,
dalla tunica larga che usava sotto la camicia si intravede
l’osso della
clavicola; un velo di sudore gli imperla la fronte. Ritorna in
sé
immediatamente. "Ma sei—ma sei pazzo?
Avresti potuto farti male!"
"La
porta era chiusa—"
"Certo
che era chiusa!" Poi scuote la testa,
aggrottando le sopracciglia. "Quando ti sei—"
"C’è
qualcosa di marcio in tutto questo," e
mentre lo osserva lui fa un respiro profondo, vacilla, e poi crolla
appoggiandosi alla cornice della porta. "I miei fratelli stanno
architettando qualcosa, e sicuramente ha a che fare con te, e tua
sorella—"
Elsa
sbatte le palpebre. Si lecca le labbra. "Mia
sorella è morta."
Albert
aggrotta immediatamente le ciglia, una smorfia
marcata. Apre la bocca, la chiude. La apre di nuovo. Elsa continua,
perché deve,
"Papi ti ha ordinato di restare a letto almeno per una settimana, e
penso
davvero che ti stia spingendo troppo oltre—"
"Hai
controllato il corpo?"
Si
interrompe, qualcosa di bollente che si muove nel
fondo dello stomaco. "Scusami?"
"Hai
controllato il corpo?"
"Smettila.
Ti prego—basta, smettila di parlare."
"Come
è morta?"
"Albert."
"Come?"
"Scivolata."
Elsa si stringe le mani in
grembo, fastidio e rabbia che iniziando a risalirle in gola. "In un
dirupo."
"E
ci hai creduto?" Albert la deride,
sbuffando. "Sembra più qualcosa di cui io
sarei capace quando sono ancora sobrio—"
"Non
sono dell’umore per le tue battute non divertenti, Albert!"
"Non
è—per una volta non era una battuta—i
miei
fratelli—"
"Se
ne sono andati. E adesso che l’hanno
fatto, vorrei lasciarmi tutto alle spalle."
"Il
che significa che non vuoi pensarci più."
"Ma
come osi."
"Come
oso io? Che, credi che chiuderti
dietro una porta risolva le cose? Cosa cerchi di concludere facendo
così?"
Elsa
si alza in piedi, così veloce che la sedia cade a
terra, ma la temperatura nella stanza rimane la stessa; ed è
soffocata, e ha
caldo, sotto alla stoffa del vestito, sotto ai guanti. Albert
è appoggiato lì, il
volto pallido e corrucciato e più serio di quanto lo abbia
mai visto, appoggiato
lì contro la porta, e sa che dovrebbe chiedergli chi
è stato a ferirti, ma
ha paura della risposta. I capelli gli ricadono flosci di lato, gli
occhi che
guardano il suo volto, i guanti, i pugni stretti, i guanti, il suo
volto—e sono
gli occhi di Albert. Gli occhi di Albert,
spalancati e stanchi.
"Hai,"
inizia di nuovo, con molta cautela, la
mano stretta contro la cornice della porta, per tenersi in piedi, e poi
si
sente, in fondo al corridoio, lo scalpiccio di passi agitati,
"controllato
il corpo?"
Scuote
la testa quasi impercettibilmente.
La
prima guardia svolta l’angolo; e riesce a
distinguerne altre due, alle spalle di Albert. Lui non si volta
nemmeno. Si
limita a guardarla e dice, cupo, "C’è la
possibilità che abbia aggredito
la sentinella assegnatami con un attizzatoio."
Si
raddrizza, debolmente, tanto pallido che le
lentiggini staccano sul volto a chiazze scure, e non oppone resistenza
quando
la prima guardia gli colpisce la spalla con violenza e gli stringe il
braccio.
Kai è lì, da qualche parte in mezzo alla ressa,
che chiede, ad alta voce,
" State bene, Vostra maestà?"
Gli
occhi di Elsa sono incollati a quelli di Albert.
"Non ti sto chiedendo di fidarti di me," esclama lui, a malapena
alzando la voce oltre il rumore della lotta, ma nella stanza
è quello che parla
a voce più alta. "Ti sto solo chiedendo di controllare il
corpo”.
C’è
qualcosa di più orribile accesa nel suo petto, adesso,
qualcosa che lui le offre, qualcosa che non vuole prendere in
considerazione
per timore che non sia vera.
"Fermi,"
esclama, stridula.
Kai,
facendosi strada a forza nella biblioteca per
assicurarsi che stia bene, con l’aria sfatta, la cravatta
fuori posto, sobbalza,
sorpreso. "Ma Vostra maestà, ha causato alla sua guardia una
commozione
cerebrale tentando di arrivare a voi—"
"Ho
ordinato a una guardia di restare nelle sue
stanze affinché fosse a sua disposizione, al suo risveglio;
non per tenerlo
imprigionato, quando l’avesse fatto."
Kai
comincia, "Vostra maestà, mi sono preso la
libertà di aggiungere alcune misure di sicurezza in
più—"
"Liberatelo."
C’è
qualcosa nella sua voce. Le guardie obbediscono.
Albert sussulta, ma cerca di nasconderlo, soffocando col gomito la
tosse forte.
Elsa gli si avvicina, quella terribile fiamma di candela accesa nel
petto, che
brucia e cancella la rabbia, il fastidio, la confusione, rimpiazza
tutto con la
speranza—
Si
ferma, abbastanza vicina da contargli le lentiggini;
da guardarlo negli occhi. Sussurra, piano, le mai strette davanti a
sé, "Ma
io lo faccio."
Lui
alza lo sguardo, da sotto i capelli ricci.
"Mi
fido di te."
"Che
cosa si suppone che debba farmene di tutti
questi pasti che nessuno mangia, hm?"
"Signora
Gunda?"
"Sì,
sì, che c’è? Non vedi che sono
impegnata a
stendere l’impasto di un pasticcio che di certo nessuno
toccherà?"
"Davvero
non avere notizie di Britta?"
"…No,
cara. Non ancora. Faremmo meglio a
occuparci della carne per la cena, eh?"
"Sì,
signora."
Le
pesanti tende oscurano le finestre, e mentre Elsa
apre la porta gli occhi ci mettono un po’ ad abituarsi.
C’è un letto, un
piccolo tavolino con lo specchio, un caminetto nero, spoglio.
Nient’altro che
una stanza per gli ospiti, in disuso dal giorno
dell’incoronazione; e solo
perché Kai sapeva che non avrebbe potuto sopportare avere il
corpo a solo una
camera di distanza—
Fa
un passo, ed entra. Albert sta in piedi, malfermo, appena
dietro, e gli offre il braccio senza dire una parola. Lui lo prende,
appoggiandosi
a lei. Fa un passo avanti, e immediatamente si sente l’odore
della morte— il
tanfo malsano, stucchevole, marcio. Tira in dentro un respiro,
improvvisamente.
Alza gli occhi.
C’è
una sagoma sul letto, avvolta stretta stretta in
lenzuolo funebre bianco. Immobile. Si ferma. Nel corridoio luminoso
dietro di
loro Kai sta in piedi, confuso, insicuro, e la mano di Albert
è calda e
umidiccia, anche attraverso il velluto del vestito.
Ti ho sepolta ieri,
Elsa dice al cadavere, silenziosamente. Ti ho sepolta,
dice a sé
stessa per soffocare la speranza, ma mentre avanza, un passo, due, tre,
Albert al
suo fianco, non riesce a trattenersi, non—
Raggiunge
il letto, e fissa il lenzuolo. Per un lungo
momento non si muove. Albert chiede, "Vuoi —vuoi che
lo—"
"No."
Elsa allunga il braccio libero e
solleva il lenzuolo dal volto del cadavere.
Quasi
cade all’indietro; non sa più chi regge
chi—se è
Albert che la tiene, o è lei che tiene lui—e che
cos’è, che le scende giù per
le guance—
Sente
il proprio petto esplodere.
Sente,
come attraverso una galleria, i passi veloci di
Kai, poi le mani dell’uomo si muovono veloci attorno al
cadavere sul letto, e
un attimo dopo la guarda con gli occhi spalancati. "Non capisco."
"La
conosci?" Elsa sussurra.
"E’
Britta," Kai risponde, sconvolto. "Ma,
allora—la principessa?"
Ed
è Albert che lo dice.
"La
principessa è ancora viva."
La
prima cosa che nota è che ha la bocca come se
avesse ingoiato un’intera secchiata di feltro misto al vino
di Elsa non
annacquato neanche un po’, e forse anche del fieno, il tipo
di fieno sporco che
a volte rimaneva incastrato tra gli zoccoli di Sven—
La
seconda cosa che nota è che, ovunque sia quel posto,
rolla piano.
Gli
occhi di Anna si spalancano.
Sta
fissando la vasta distesa di tavole di legno scuro
e grezzo, in posizione fetale. Si rimette distesa sulla schiena, piano,
e il
piccolo spostamento fa vorticare il mondo. Chiude gli occhi, si copre
la bocca
con una mano, e aspetta che passi la nausea.
Quando
riesce a guardare le cose senza aver la
sensazione di stare per vomitarsi sugli stivali, apre di nuovo gli
occhi. E’ in
una cella piccola, tre mura di legno
e
una finestra circolare che perde acqua lungo tutto il muro.
Nient’altro che due
secchi e una brandina di stoffa. Rigira la testa. Sbarre di metallo, a
distanza
regolare, sono la porta, e le guarda arrabbiata a bocca aperta,
perché non può
essere—era—
Era
in prigione?
Ma
se non aveva fatto niente!
Si
siede, e deve fare respiri profondi e regolari
attraverso le narici dilatate per tenere sotto controllo il
voltastomaco. Le braccia
sembrano essere spaghi senza vita e le gambe anche peggio e non riesce
a
sbarazzarsi di quello stupido sapore di feltro, e dovunque si trovasse,
non era
giusto—se avesse mai dovuto essere imprigionata, avrebbe
voluto che fosse per
qualcosa di figo tipo rubare ai ricchi per dare ai
poveri o cose del
genere, ma tutto quello che aveva fatto era stato—
Tutto
quello che aveva fatto era stato—
Si
ricorda il volto di Kristoff, orripilato e
spaventato e urlante al di sopra di lei, prima di essere inghiottita
dalla
nebbia e poi addormentarsi.
A
mezz’aria.
Ok,
quindi tutto quello che aveva fatto era scivolare
in un dirupo e addormentarsi a mezz’aria, quindi come ci era
finita su una—su
un—
Si
alza e barcolla, coprendosi di nuovo la bocca e
ingoiando un’altra ondata di nausea. Inciampa vicino alla
finestra. Le dita, quando
si allunga, a malapena toccano le sbarre; salta, le afferra, e poi
prova a
issarsi, per sbirciare fuori, ma le sue braccia, sottili come spaghi,
non ci
riescono molto bene, e tutto quello che ottiene in cambio dei suoi
sforzi è una
bella ondata di acqua salata dritta in faccia mentre il posto in cui si
trova,
qualunque esso sia, si inclina pericolosamente di lato—
Oh.
Resta
appesa lì, alla finestra, le dita che appena
toccano terra, e ha voglia di urlare.
Ohcieloohcieloohcielo—
"Nave,
sono su—"
"Bene
bene. Guarda un po’ chi si è svegliata."
Rantola,
si volta, cade. Viktor—no, Tomas, più minuto,
è Tomas—sta lì in piedi, proprio
davanti alle sbarre. Si alza, spolverandosi la
gonna e cercando di darsi un contegno mentre avanza a grandi passi
verso di lui.
"Come vi permettete, signore! Fate tornare indietro
questa nave, adesso!
Immediatamente!"
E
poi sente, "Ingenua come al solito, vedo."
Il
cuore le sprofonda fino ai piedi. Tomas fa, "Moriva
dalla voglia di vederti."
Si
volta lentamente, lentamente, così lentamente, ti
prego, no, ti prego, no, ti prego, no—
Hans
sorride.
"Ciao,
Anna."
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