Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio
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Autore: thefireplanet    01/08/2014    1 recensioni
Ci sono dei pesi, quando sei regina, che non hanno niente a che fare con una maledizione. Ci sono dei doveri, quando sei principessa, che non hanno niente a che fare con l'essere una sorella. E la strada per il vero amore non è mai stata in discesa.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna, Elsa, Hans, Kristoff, Nuovo personaggio
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 16

 

 

n/t: Eccoci arrivati nel bel mezzo della storia.  Ringrazio chi recensisce e spende due parole anche per un appunto, o una critica. J Vorrei chiarire qualcosa sullo stile, visto che più persone mi hanno chiesto spiegazioni sul modo contorto in cui a volte sembra essere tradotta questa fanfiction: è vero, la formattazione e lo stile di scrittura possono risultare un po’ confusionari, nel momento in cui vengono tradotti. Nei punti più oscuri, infatti, ho cercato di sciogliere i concetti senza cambiare troppo l’originale. Ma generalmente, trovo che una delle particolarità di questa fanfiction sia proprio il modo in cui è scritta: il continuo scambio tra pensieri e descrizioni – soprattuttocosa che si verifica, ad esempio, con il personaggio di Anna: può risultare confusionario- ma non è una delle qualità principali del personaggio del film?
Comunque, la mia regola principale è: attenersi all’originale il più possibile per far passare la “voce dell’autore”.
Per altre domande, sono sempre qui. Adesso, scusate la digressione, e buona lettura.


"Qualcuno ha visto Britta?"

"Non da—beh, tre giorni almeno. Prima del funerale, sicuramente."

"Mi pare di averla sentita dire che aveva nuove prospettive a cui guardare."

"Nuove prospettive? Che razza di idiota—nuove prospettive? E che prospettive migliori di quella di lavorare per la Regina di Arendelle ci sono, hm?"

"Parecchie, se lo vuoi sapere. La Regina porta sfortuna. L’inverno prima, e ora la principessa—ohi!"

"Chiudi immediatamente la bocca, o ti colpisco anche l’altra mano, capito? Lavora quell’impasto, e smettila di spettegolare, a meno che non voglia ritrovarti tu alla ricerca di nuove prospettive. Dirò a Kai della scomparsa di Britta. Dio solo sa quanti pesi la Regina abbia già sulle spalle."


"Ci dispiace dover partire in—circostanze così poco auspicabili, Regina Elsa." Uno dei gemelli le dice. A malapena lo sente. "La cerimonia è stata davvero bella, testamento adeguato alla memoria della principessa."

No, pensa lei, fiacca, gli occhi concentrati su un filo scucito dell’orlo del guanto nero—non indossava quel paio da tre anni, da quando li aveva usati in una situazione simile—no, Anna l’avrebbe detestata. Avrebbe preferito una banda, forse; dei canti. Qualcosa di rumoroso. Una celebrazione, non un funerale.

Uno dei gemelli tossisce, a disagio. L’altro gemello. Si strattona il colletto. Qualcosa in lei urla sospetto! Ma per la maggior parte non le interessa per niente. Chiede lui, "E’ riuscita a seppellire il corpo?"

Distoglie lo sguardo, per fissarlo sull’erba annerita tra le pietre del cortile. Un’aspra gelata era calata, all’ improvviso, inaspettatamente, e le dispiaceva—ma in realtà no. Non sul serio. E, alla fine, non aveva impedito a Kai di dirle, con gentilezza, Abbiamo bisogno della cerimonia, vostra maestà. Alla gente serve un senso di chiusura, e non si può più aspettare.

"No," afferma, lentamente. Le sue parole sono strane, e distanti, e in alcun modo collegate a lei. Pensa al corpo, che giace pacifico in una delle stanze del castello. Avrebbero voluto drappeggiare un velo nero sulla porta della stanza di Anna, e lei li aveva fermati. "No, non l’abbiamo fatto. Ancora qualche giorno, forse."

"Beh," l’altro gemello, il primo gemello, pensa, pensa, "So di parlare per mio fratello e me quando dico che non ci sembra—appropriato, lasciarla qui da sola con tale responsabilità dopo—"

"Partirete adesso. Immediatamente," Elsa esclama, alzando lo sguardo di botto. Li guarda negli occhi, la schiena fragile rigida e dritta come vecchio vetro, le vertebre che sporgono come schegge. Non ha nemmeno la forza di scusarsi per le proprie parole. "So che al re premeva promuovere la pace tra Arendelle e le Isole del Sud, ma in tali circostanze non farò di queste promesse. Posso solo chiedervi di rispettare la mia volontà e di informare il vostro re che ogni missiva verrà ignorata per tutta la durata del mio lutto."

E’ il discorso più lungo che fa da tre giorni, quattro, tanto che la rende esausta, completamente. Conclude con un piccolo cenno del capo. Non riusciva a ricordare quanto fossero strette le relazioni commerciali con le Isole del Sud; non riesce a costringersi a preoccuparsene. I fratelli la esaminano, uno con l’aria scaltra, l’altro, arrabbiato. Il cortile è ancora bardato di nero.

"Beh," afferma uno di loro alla fine, dopo una lunga, orribile pausa, "farebbe meglio a dire a nostro fratello di riprendere la via di casa, allora, se non desidera ulteriori contatti con gente delle Isole del Sud."

Elsa rimane inespressiva; non è difficile.

"Non l’avete visto?"

"Nemmeno l’ombra, da quando ci siamo ritrovati. Strano, come sia svanito nel nulla, proprio prima del funerale."

Elsa non lo corregge; è una strana affermazione, come se poi Albert avesse potuto essere la causa della caduta di Anna, visto che nello stesso momento era stato disteso mezzo morto sul tavolo della sala da pranzo; visto che, da allora, a malapena era stato abbastanza lucido da pronunciare la parola acqua.

"Non vi ha accennato niente riguardo all’ andarsene?"

"Per niente. Ma alla fine, come ho detto: i sentimenti di mio fratello sono così volubili. Forse semplicemente—alla fine si è annoiato."

"Forse, infatti." Elsa picchietta una per una tutte le dita contro il pollice. Conta fino a cinque. Non vuole che lo sappiano, ha mantenuto Albert un segreto per tutto quel tempo. "Se lo vedrò, lo informerò della vostra partenza. Vi auguro un buon ritorno a casa."

I gemelli si inchinano, perfetti gentiluomini, ma li vede solo con la coda dell’occhio—si è già voltata, e sale su per le scale, di ritorno al castello.


"Kai!"

"Sì, che c’è, Gunda? Sono molto occupato in questo momento—"

"Non tanto occupato da ignorate una cosa del genere, non lo sei eccome! E’ che parlavo con alcune delle mi’ aiutanti in cucina, e hanno detto che ormai Britta son tre giorni che non si vede."

"Britta? Davvero?"

"Sì. Ha detto che era in cerca di 'nuove prospettive.'"

"E’ molto—strano."

"Ho sempre pensato che fosse una cosina volubile; non mi sorprenderei se si fosse messa in testa di fuggire con uno stalliere. Ma dobbiamo tenere sotto controllo gli spostamenti del personale, quindi—"

"Sì, sì; inizierò le ricerche immediatamente. Grazie, Gunda."

"Come ho sempre detto—cancelli aperti uguale più problemi—"

"Grazie, Gunda. Ora, non hai un pranzo da preparare?"

"E che importa, eh? Come se qualcuno si degnasse di mangiare, da un paio di giorni."


Kristoff osserva ogni singola persona che se ne va e cerca di capire che relazione aveva con lei. Alcuni, come la regina, sono facili; altri, come l'alta donna pelle e ossa che piange a dirotto e tira su col naso e si asciuga il volto e in generale si rende ridicola, erano più difficili. Non ne ha idea, osservandola scendere a testa china giù per la collina. Non ne ha proprio idea.

Sven è premuto stretto nello spazio tra la sua ascella e il fianco, lo sorregge, e gli mette decisamente troppo caldo. Tira su col naso, pulendoselo col braccio libero, e osserva il prete andarsene; il vecchio è l’ultimo a lasciare il posto, ridicolo con quel cappello a punta e gli occhialetti rotondi, mentre consegna il suo corpo alla terra—

E’ solo.

Sven gli dà un colpetto sulla guancia. Kristoff si acciglia di più. Non cambiava espressione da tre, quattro giorni—forse di più, non ricordava. Osserva la sommità arrotondata della collina, l'erba di una sfumatura morta di marrone che scricchiola sotto i suoi piedi. Il gelo di Elsa. Significava che non potevano seppellire il corpo. Pensa che l'abbia fatto di proposito, e si chiede se l'avrebbe fatto anche lui al suo posto.

Con lenti passi determinati si avvicina alla famiglia di pietre tombali. A due, tre metri di distanza, stacca il braccio dalle corna di Sven ed esclama, lentamente, la voce roca per la rabbia e il silenzio prolungato, "Tutto ok, amico."

Sven sbruffa triste e si accoccola in attesa.

Kristoff avanza lentamente, metodicamente, un piede davanti all’altro. Si toglie il berretto e lo torce tra le mani tanto per avere qualcosa da fare. Non ci sono nient’altro che il vento e i gabbiani a tenergli compagnia, il sole che splende sulle acque blu del fiordo, vuoto e tranquillo.

Riesce a raggiungere la roccia. Si sfila il guanto destro coi denti, esponendo le dita tozze all'aria estiva, più fresca del pelo che riveste i guanti, e le passa sulla pietra nera, avvertendo le linee e le curve delle rune che riportavano scritto il nome di lei sulla superficie. Poi, all'improvviso, si lascia cadere sul suolo secco, ruvido. Più un sedersi aggraziatamente, mente a se stesso, in fretta, sentendo una fitta su per la schiena; qualcosa per cui lei l'avrebbe preso in giro. Appoggia la testa contro la lastra di marmo e trae conforto dal fatto che il suo corpo sia lontanissimo da lì. Sven si avvicina e si accovaccia accanto a lui. Kristoff si sfila l'altro guanto, posandolo assieme all'altro—e al cappello—nel proprio grembo, prima di passare le dita tra il manto irsuto dell'amico. E' di conforto, e piacevole, ma non placa il dolore che prova in petto.

Guarda il fiordo.


"Sì, Ina?"

"Hm? Oh! Padron Kai, signore, buongiorno—Non stavo bivaccando, giuro—"

"No, no, va bene, non ti preoccupare. Ahem. Eri—una buona amica di Britta, non è così?"

"Britta? Oh, sì, suppongo. Voglio dire, Ci parlavo un po’, e veniamo dalla stessa parte della città. Voglio dire, non ci parlavo spesso, se è quello che volete sapere, signore."

"Beh, sì, lo ero. L’hai vista, di recente?"

"Oh, no. Sono tre giorni, almeno."

"Capisco. Sai chi potrebbe averci parlato per ultimo?"

"Probabilmente Sander."

"Lo stalliere?"

"Sì, signore. Culo e camicia, quelli due là."

"Grazie, Ina."


Elsa è fiera di essere riuscita a salire le scale e a raggiungere l’ingresso, acceso dal sole pomeridiano, prima di avvertire il vuoto schiacciante del proprio petto, che minaccia di consumarla; è una piccola vittoria personale, pensa, afferrandosi il colletto del vestito di velluto e appoggiandosi alla lastra piombata della finestra più vicina. Il giorno prima, non era riuscita a oltrepassare le scale, e il giorno prima ancora, la soglia della propria stanza. Si prende un momento per calmarsi, grata del fatto che l’ingresso sia deserto, i servi tutti impegnati; non grata del fatto che fosse costretta a prendersi sempre più di questi—

Momenti.

Non poteva permettersi dei—momenti.

La crisi passa, e rimane a fissare la porta della stanza della sorella. Sa che l’avrebbe trovata nello stato in cui era stata lasciata quel mattino; aspetta, scioccamente, per un momento, due, che Anna ne esca, correndo come una furia. Ma è chiusa, ed è serrata. Elsa flette le mani, distoglie a forza lo sguardo, osserva il paesaggio fuori, Arendelle che lentamente prende vita dopo le campane e la processione della cerimonia. Riluttante, incredula, ancora, che una cosa così sciocca—stupida—sia potuta accadere.

Si sfila i guanti, in fretta, all’improvviso, ricordandosi con un respiro brusco quanto li odiasse, quanto le annebbiassero i sensi e la facessero sentire in trappola. Le dita, pallide come la luna, quasi traslucide alla luce del sole, la salutano, e divora avida la sensazione della pelle nuda quasi con gelosia. Poi, mordendosi un po’ il labbro, appoggia la punta dell’unghia contro il vetro.

Con una violenza che quasi la travolge facendola finire a terra la finestra si annebbia coperta da una lastra di ghiaccio, ed Elsa sposta gli occhi spalancati da essa alle proprie dita ai guanti, prima di rinfilarseli, sopprimendo una specie di singhiozzo disperato. Si costringe a restare calma, ma il panico le attanaglia a poco a poco la gola, mentre si volta—oltre la porta della stanza di Anna—oltre la propria—diretta al corridoio dei ritratti.

I suoi genitori la fissano accusandola con lo sguardo mentre lo attraversa diretta alla biblioteca. Chiedono, muti, rigidi, chiedono—

Come hai potuto?


"Sander?"

"Sì, arrivo, imbecilli, cosa volete adesso—Padron Kai! Padron Kai, signore! Scusate, pensavo fosse—"

"Nessun problema—anche se di certo non mi sarebbe piaciuto affatto essere chi stavi aspettando."

"Nah, non è che li avrebbe uccisi—"

“Bene. Mi fa piacere saperlo. Ora, hai visto Britta di recente?"

"Brit? Non da quando abbiamo litigato, no."

"Litigato?"

"Sì, signore. Ha detto che conosceva un tipo che la portava lontano da questo posto, e che non avrebbe dovuto pulire vasi da notte mai più, e io ce l’ho detto—ho detto, quindi preferisci ‘sto tizio a me—"

"Ti ha detto chi era, Mastro Sander?"

"Hm? Oh. No, non l’ha fatto. Manco un nome. State dicendo—state dicendo che nessuno l’ha vista?"

"Non da un po’."

"Oh."

"…Beh, ragazzo mio, devi—su col morale. Di sicuro la troveremo presto."

"Sì, signore. Se posso esservi d’aiuto—"

"Ti informerò immediatamente."


Elsa fissa la scrivania.

Condoglianze—tante, troppe. E ancora, negoziati che non aveva ancora visto, lettere sigillate, note spesa—guarda fuori dalla finestra, e, quel giorno per la prima volta, sente davvero, e tanto, la mancanza dei genitori.

E c’era anche, pensa, lentamente, battendo un ritmo irregolare sul legno della scrivania, la questione dell’accoltellamento di Albert di cui occuparsi. La sua lista dei sospetti era assieme sorprendentemente corta e incredibilmente lunga; corta, perché conteneva due ipotesi, fianco a fianco. La prima, Viktor e Tomas, assieme; la seconda, qualunque cittadino di Arendelle.

Corta, ma lunga.

Elsa si tormenta il labbro. Non riusciva a concepire dei fratelli che si facessero cose del genere. Era impensabile, inimmaginabile—chi avrebbe fatto una cosa del genere a un familiare? Per quanto lo si potesse odiare—per quanto si potesse desiderare darlo in pasto ai lupi e lasciarlo a marcire

Sussulta al solo pensiero. Scuote la testa.

Ma stiamo parlando della sua famiglia.

Avverte un dolore crescente all’interno della testa.

Si strofina le tempie con le dita guantate, chiude gli occhi. Doveva occuparsi personalmente della questione, ma con Albert ancora convalescente e addormentato—e lei, che non sapeva se al suo risveglio sarebbe stato mentalmente lucido—

Credi che avrebbe potuto amarmi?

Stringe i denti. Fa quasi un verso sprezzante. Amore.

Le prudono le dita.

Il panico la invade, di nuovo, e inghiotte un respiro profondo, si alza dalla sedia e barcolla fino alla finestra. Armeggia con la chiusura, e poi la spalanca, respirando i profumi pomeridiani del mercato e del mare e di Arendelle.

Pensa che tutto sia un incubo, per forza. Stringe le mani a pugno e stringe gli occhi e pensa, forsennatamente, svegliati, svegliati, svegliati.

L’ultima volta che aveva parlato con la sorella, aveva detto mi raccomando. L’aveva spedita in mezzo alla natura selvaggia in base a un qualche piano per intimidire i principi delle Isole del Sud e aveva detto mi raccomando.

Certo, una parte sleale di lei pensa, Certo, ti fidavi di Kristoff.

Sa che è ingiusta. Quello che era successo—era stato un incidente, e lo sa, ma il pensiero affiora comunque. Si chiede, vagamente, osservando le bandiere nere che profilano il ponte e ascoltando i rumori—meno vivaci del solito—su dal mercato—si chiede Kristoff dove sia andato, dopo la cerimonia di quella mattina.

Pensa che Anna era stata la colla, e senza di lei, tutto stava cadendo a pezzi.

Con un improvviso movimento frenetico si volta, il respiro affannoso, e percorre i quattro, cinque, sei passi che la separano dalla porta. Chiude a chiave, e poi si scaglia contro l’impiallacciatura verniciata di fresco, e scivola fino a terra, abbracciandosi le ginocchia, lasciando uscire un singhiozzo profondo. Il tessuto del guanto si soleva leggermente, lasciando intravedere un sottile lembo di pelle del polso.

Oh, se solo Anna avesse potuto vederla in quel momento.


"Hai sentito?"

"Sentito cosa? E’ un’affermazione così vaga, non puoi uscirtene con—attenta! Stavi per rovesciarmi l’acqua sugli stivali!"

"Hai sentito di Britta? Padron Kai la sta cercando ovunque—sembra che sia scomparsa."

"Pfft. Non mi meraviglierei se avesse alzato i tacchi. Diceva sempre che avrebbe voluto andare a visitare i paesi lontani, e che avrebbe sposato un principe come nelle favole—"

"No, ho sentito che c’era davvero qualcuno, questa volta! Mi ha parlato di un tipo di nome Tom, che si aggirava da queste parti, e la stava corteggiando."

"Oh, povero Sander. Gli si spezzerà il cuore, quando lo verrà a sapere."

"Dovrebbe ringraziare il cielo di essersi liberato di lei."

"Non dire cose del genere."

"Dico quel che mi pare! E quindi, ringraziare il cielo!"


Kristoff osserva gli uomini che affollano le navi nel porto sotto di lui; una scivola via dal molo, spiegando i propri colori—una specie di uccello, levato in volo dietro uno stemma indecifrabile. Il suo avanzare fuori dal porto è lento e ipnotico, scomparendo brevemente dalla vista quando passa sotto al colle su cui lui si trova, ormai in mare aperto. Non ha mai avvertito il canto di sirena che possiede l’oceano; erano le montagne che tenevano davvero stretto il suo cuore. Eppure, osserva la nave finchè non si vede più, e poi Sven dice, "Dovremmo tornare al castello, e vedere come sta la Regina Elsa."

Kristoff risponde, senza sbattere le palpebre, "Non torneremo, Sven.”

"Che vuoi dire con non torneremo?

"Voglio dire, che senso ha! Che senso ha, perché diavolo dovrei tornare laggiù, huh? Fin da quando mi sono fatto coinvolgere in questo stupido casino, non ho incontrato altro che guai e adesso davvero BASTA." Ha l’affanno, e tira il pelo di Sven, ma la renna non emette un lamento, si limita a guardarlo addolorato e scuote la testa. Kristoff lo lascia andare, in fretta, e si scusa con una pacca, imbarazzato, mentre cerca di calmarsi. "Era più facile," continua, scontroso, accovacciandosi per tirarsi su, infilandosi i guanti, "quando eravamo solo io e te."

Vuole toccare la pietra un’ultima volta, ma una pietra è solo una pietra, e non lo fa. Invece arranca lentamente sull’erba morta. Si ferma in cima alla collina, voltandosi verso la sagoma abbandonata della renna.

"Andiamo, amico."


Cala la notte.

Un uomo cavalca una renna, sulle montagne.

Una Regina tiene la porta serrata.

Il sorgere del sole non cambia le cose.


Albert si sveglia.

Per un lungo, terrificante momento, percorre la stanza in cui si trova con gli occhi spalancati, perché non si ricorda minimamente come ci sia arrivato—o dove fosse persino il luogo in cui si trovava—o—beh, le lenzuola erano lisce, e il letto morbido, ma non era questo il punto—

C’è una guardia in piedi accanto alla porta, che sonnecchia con la testa appoggiata al muro accanto a essa.

"Salve," Albert gracchia, lentamente, tirandosi di nascosto le coperte fino al mento, sia per pudore che come debole protezione. La guardia sobbalza, lo nota, si acciglia; la mascella si muove come quando si sta per sputare. Tutto sommato, tipica reazione; Albert, abituato, non si sconvolge.

La guardia grugnisce. "Sera."

Albert lo guarda, alzando un sopracciglio, dall’altra parte del copriletto, blu scuro come il baldacchino, e ornata da grandi strisce di motivi intricati, rombi e fiori, la parte inferiore dei muri, nello stile che stava iniziando ad associare esclusivamente ad Arendelle; grazioso, eppure—incredibilmente soffocante a volte—

La mente corre, un po’ fiacca, mentre cerca di riunire le immagini sconnesse che vagano nella vastità dei suoi pensieri incoerenti—gli occhi di Giovanna D’Arco—la fitta acuta di una lama che si torceva, due lame—una fialetta—i gemelli che dicono di doversi occupare della principessa—

I gemelli che dicono di doversi occupare della principessa.

Chiede, "Quanto tempo sono stato addormentato?"

"Quasi cinque giorni."

Dannazione, troppo—troppo tempo—"Okay. Va bene. E la—la Regina Elsa per caso è passata di qui?"

Ma la guardia si chiude a riccio, e non risponde. Albert pensa che quell’uomo sia stato messo lì non tanto per assicurarsi che avesse tutto quello che gli serviva, quanto per assicurarsi che stesse . Si sforza di tirarsi su a sedere, che sia dannata la copertura delle lenzuola, e mentre lo fa avverte una profonda, acuta fitta lungo tutto lo stomaco. Si ferma, sentendo il sapore di terra—ma non spiacevolmente—in fondo alla gola. La pressione delle mani contro il materasso gli fa tremare le braccia. "Ho bisogno di parlare con la Regina."

La guardia non risponde.

Albert si tira su aiutandosi con la testata del letto e si strofina il viso con le mani. Guarda male quelle traditrici delle sue braccia, e pensa che dovrebbe esserci già abituato. A non essere tenuto tanto in considerazione. Si soffia via una ciocca di capelli ricci che gli scendeva sulla fronte e pensa, che sul piatto delle minacce, le sue proverbiali quotazioni fossero molto basse—il che andava—andava bene, era normale, se non che, sapeva che sarebbe successo qualcosa alla principessa, e doveva avvertire la Regina—doveva avvertire Elsa—

Si lascia ricadere le mani in grembo, e si chiede perché siano giunti a quel punto, e poi pensa che è Alfons il perché.

Gli occhi scattano di nuovo verso la guardia, ma l’uomo non sonnecchia più. Albert si riguarda di nuovo le dita, stendendole tutte e dieci, poi stringe le mani a pugno. Di chi si poteva fidare? Inizia a contare, un dito per ogni nome.

Lukas. Marcel. Stefan. Josef. Rupert. Fredrik.

Poi—

Chi è che li avrebbe effettivamente aiutati?

Marcel, Josef, Rupert, e Fredrik erano via a combattere. Abbassa quattro dita. Stefan non si sarebbe sporcato le mani. Lukas l’avrebbe fatto solo se pensava che la cosa gli sarebbe tornata utile, alla lunga, quindi—forse?

Albert rimane con un solo dito ricurvo e fa una smorfia.

Beh, pensa, ostinato, guardando fuori dalla finestra, mi occuperò di quell’ostacolo quando sarà giunta l’ora—inizia ad architettare un piano, che implica sgattaiolare fuori dalla finestra, arrampicarsi sul tetto, scivolare giù nei pressi della prima finestra aperta, rientrare nel castello, e correre in giro finchè trovasse la Regina.

Era un piano molto confuso, e che dipendeva da un sacco di variabili—e cioè, la conoscenza che possedeva della pianta del castello (nessuna); lo stato di salute (più o meno al settantotto percento, si direbbe); e l’energia (correntemente a quota zero).

Tutto considerato, un piano orribile.

Albert guarda di lato, e afferma, disinvolto, “Mi dispiace tanto."

La guardia sembra confusa.

Una vita di lezioni delle Isole del Sud lo spingono a fare un sorriso mesto.

Bene.


"Ho sentito che stai cercando Britta?"

"Gerda? Dovresti essere a letto, non ti sei ripresa abbastanza da andare in giro—"

"Il lutto non impedisce alla terra di girare, Kai. Lo sai bene quanto me. Hai scoperto qualcosa?"

"Ancora no, tranne per il fatto che c’è la possibilità che abbia detto a qualcuno di voler lasciare l’impiego al castello."

"Bene, mi metterò all’opera."

"Padron Kai!"

"Oh, cosa c’è ora?"

"Mi dispiace interrompervi, signore, ma il principe—è scappato."

"Cosa?!"


La vista di Elsa si annebbia, le lettere della pagina avanti a lei che si sfocano in un mare vorticoso di inchiostro nero privo di significato. Si ferma, inspirando brusca dal naso e appoggiandosi allo schienale duro della sedia. Si pianta un gomito nel fianco, un dolore fiacco, fioco, che a malapena la tiene sveglia. Vorrebbe non essere rimasta alzata tutta la notte a leggere Tristano e Isotta.

Chiude gli occhi—

E un minuto dopo viene svegliata con un sussulto da un rapido bussare continuo contro la porta bianca, seguito, subito, da, "Regina Elsa? Regina Elsa, sono io—voglio dire, Albert, sono—per favore, posso entrare?" Sembra avere il fiato corto. Prova con la maniglia, ma lei non l’aveva ancora aperta.

Deve essere un sogno, quindi ride, fragile, incredula. Vorrebbe dire, Non faccio entrare le persone.

Pausa. Poi, soffocato, "Okay, allora devo solo—"

Elsa scuote la testa, pizzicandosi l’interno del braccio per svegliarsi, solo che il sogno non svanisce in nebbiolina; è ancora in biblioteca, tra una pila di libri mezzi aperti e lettere mezze lette, la finestra aperta, i suoni della città portati dal vento più allegri, molto più allegri, del giorno prima, un fuoco inesistente nel caminetto. Sbatte le palpebre e spalanca gli occhi, osservando la porta, giusto in tempo per vederla tremare sotto il peso di un impatto dall’altra parte, una volta, due—

E poi si spalanca di botto, serratura e maniglia rotta, e sbatte contro il muro. Una nave, in una bottiglia di vetro sulla mensola, cade a terra e si frantuma, spezzandosi, in una cascata di vetro. Elsa rimane a bocca aperta, troppo stanca per essere altro che scioccata. Albert è in piedi sulla soglia, ha l’aria indispettita e si massaggia la spalla. È molto pallido, dalla tunica larga che usava sotto la camicia si intravede l’osso della clavicola; un velo di sudore gli imperla la fronte. Ritorna in sé immediatamente. "Ma sei—ma sei pazzo? Avresti potuto farti male!"

"La porta era chiusa—"

"Certo che era chiusa!" Poi scuote la testa, aggrottando le sopracciglia. "Quando ti sei—"

"C’è qualcosa di marcio in tutto questo," e mentre lo osserva lui fa un respiro profondo, vacilla, e poi crolla appoggiandosi alla cornice della porta. "I miei fratelli stanno architettando qualcosa, e sicuramente ha a che fare con te, e tua sorella—"

Elsa sbatte le palpebre. Si lecca le labbra. "Mia sorella è morta."

Albert aggrotta immediatamente le ciglia, una smorfia marcata. Apre la bocca, la chiude. La apre di nuovo. Elsa continua, perché deve, "Papi ti ha ordinato di restare a letto almeno per una settimana, e penso davvero che ti stia spingendo troppo oltre—"

"Hai controllato il corpo?"

Si interrompe, qualcosa di bollente che si muove nel fondo dello stomaco. "Scusami?"

"Hai controllato il corpo?"

"Smettila. Ti prego—basta, smettila di parlare."

"Come è morta?"

"Albert."

"Come?"

"Scivolata." Elsa si stringe le mani in grembo, fastidio e rabbia che iniziando a risalirle in gola. "In un dirupo."

"E ci hai creduto?" Albert la deride, sbuffando. "Sembra più qualcosa di cui io sarei capace quando sono ancora sobrio—"

"Non sono dell’umore per le tue battute non divertenti, Albert!"

"Non è—per una volta non era una battuta—i miei fratelli—"

"Se ne sono andati. E adesso che l’hanno fatto, vorrei lasciarmi tutto alle spalle."

"Il che significa che non vuoi pensarci più."

"Ma come osi."

"Come oso io? Che, credi che chiuderti dietro una porta risolva le cose? Cosa cerchi di concludere facendo così?"

Elsa si alza in piedi, così veloce che la sedia cade a terra, ma la temperatura nella stanza rimane la stessa; ed è soffocata, e ha caldo, sotto alla stoffa del vestito, sotto ai guanti. Albert è appoggiato lì, il volto pallido e corrucciato e più serio di quanto lo abbia mai visto, appoggiato lì contro la porta, e sa che dovrebbe chiedergli chi è stato a ferirti, ma ha paura della risposta. I capelli gli ricadono flosci di lato, gli occhi che guardano il suo volto, i guanti, i pugni stretti, i guanti, il suo volto—e sono gli occhi di Albert. Gli occhi di Albert, spalancati e stanchi.

"Hai," inizia di nuovo, con molta cautela, la mano stretta contro la cornice della porta, per tenersi in piedi, e poi si sente, in fondo al corridoio, lo scalpiccio di passi agitati, "controllato il corpo?"

Scuote la testa quasi impercettibilmente.

La prima guardia svolta l’angolo; e riesce a distinguerne altre due, alle spalle di Albert. Lui non si volta nemmeno. Si limita a guardarla e dice, cupo, "C’è la possibilità che abbia aggredito la sentinella assegnatami con un attizzatoio."

Si raddrizza, debolmente, tanto pallido che le lentiggini staccano sul volto a chiazze scure, e non oppone resistenza quando la prima guardia gli colpisce la spalla con violenza e gli stringe il braccio. Kai è lì, da qualche parte in mezzo alla ressa, che chiede, ad alta voce, " State bene, Vostra maestà?"

Gli occhi di Elsa sono incollati a quelli di Albert. "Non ti sto chiedendo di fidarti di me," esclama lui, a malapena alzando la voce oltre il rumore della lotta, ma nella stanza è quello che parla a voce più alta. "Ti sto solo chiedendo di controllare il corpo”.

C’è qualcosa di più orribile accesa nel suo petto, adesso, qualcosa che lui le offre, qualcosa che non vuole prendere in considerazione per timore che non sia vera.

"Fermi," esclama, stridula.

Kai, facendosi strada a forza nella biblioteca per assicurarsi che stia bene, con l’aria sfatta, la cravatta fuori posto, sobbalza, sorpreso. "Ma Vostra maestà, ha causato alla sua guardia una commozione cerebrale tentando di arrivare a voi—"

"Ho ordinato a una guardia di restare nelle sue stanze affinché fosse a sua disposizione, al suo risveglio; non per tenerlo imprigionato, quando l’avesse fatto."

Kai comincia, "Vostra maestà, mi sono preso la libertà di aggiungere alcune misure di sicurezza in più—"

"Liberatelo."

C’è qualcosa nella sua voce. Le guardie obbediscono. Albert sussulta, ma cerca di nasconderlo, soffocando col gomito la tosse forte. Elsa gli si avvicina, quella terribile fiamma di candela accesa nel petto, che brucia e cancella la rabbia, il fastidio, la confusione, rimpiazza tutto con la speranza

Si ferma, abbastanza vicina da contargli le lentiggini; da guardarlo negli occhi. Sussurra, piano, le mai strette davanti a sé, "Ma io lo faccio."

Lui alza lo sguardo, da sotto i capelli ricci.

"Mi fido di te."


"Che cosa si suppone che debba farmene di tutti questi pasti che nessuno mangia, hm?"

"Signora Gunda?"

"Sì, sì, che c’è? Non vedi che sono impegnata a stendere l’impasto di un pasticcio che di certo nessuno toccherà?"

"Davvero non avere notizie di Britta?"

"…No, cara. Non ancora. Faremmo meglio a occuparci della carne per la cena, eh?"

"Sì, signora."


Le pesanti tende oscurano le finestre, e mentre Elsa apre la porta gli occhi ci mettono un po’ ad abituarsi. C’è un letto, un piccolo tavolino con lo specchio, un caminetto nero, spoglio. Nient’altro che una stanza per gli ospiti, in disuso dal giorno dell’incoronazione; e solo perché Kai sapeva che non avrebbe potuto sopportare avere il corpo a solo una camera di distanza—

Fa un passo, ed entra. Albert sta in piedi, malfermo, appena dietro, e gli offre il braccio senza dire una parola. Lui lo prende, appoggiandosi a lei. Fa un passo avanti, e immediatamente si sente l’odore della morte— il tanfo malsano, stucchevole, marcio. Tira in dentro un respiro, improvvisamente. Alza gli occhi.

C’è una sagoma sul letto, avvolta stretta stretta in lenzuolo funebre bianco. Immobile. Si ferma. Nel corridoio luminoso dietro di loro Kai sta in piedi, confuso, insicuro, e la mano di Albert è calda e umidiccia, anche attraverso il velluto del vestito.


Ti ho sepolta ieri,
Elsa dice al cadavere, silenziosamente. Ti ho sepolta, dice a sé stessa per soffocare la speranza, ma mentre avanza, un passo, due, tre, Albert al suo fianco, non riesce a trattenersi, non—

Raggiunge il letto, e fissa il lenzuolo. Per un lungo momento non si muove. Albert chiede, "Vuoi —vuoi che lo—"

"No." Elsa allunga il braccio libero e solleva il lenzuolo dal volto del cadavere.

Quasi cade all’indietro; non sa più chi regge chi—se è Albert che la tiene, o è lei che tiene lui—e che cos’è, che le scende giù per le guance—

Sente il proprio petto esplodere.

Sente, come attraverso una galleria, i passi veloci di Kai, poi le mani dell’uomo si muovono veloci attorno al cadavere sul letto, e un attimo dopo la guarda con gli occhi spalancati. "Non capisco."

"La conosci?" Elsa sussurra.

"E’ Britta," Kai risponde, sconvolto. "Ma, allora—la principessa?"

Ed è Albert che lo dice.

"La principessa è ancora viva."


La prima cosa che nota è che ha la bocca come se avesse ingoiato un’intera secchiata di feltro misto al vino di Elsa non annacquato neanche un po’, e forse anche del fieno, il tipo di fieno sporco che a volte rimaneva incastrato tra gli zoccoli di Sven—

La seconda cosa che nota è che, ovunque sia quel posto, rolla piano.

Gli occhi di Anna si spalancano.

Sta fissando la vasta distesa di tavole di legno scuro e grezzo, in posizione fetale. Si rimette distesa sulla schiena, piano, e il piccolo spostamento fa vorticare il mondo. Chiude gli occhi, si copre la bocca con una mano, e aspetta che passi la nausea.

Quando riesce a guardare le cose senza aver la sensazione di stare per vomitarsi sugli stivali, apre di nuovo gli occhi. E’ in una cella piccola, tre mura di  legno e una finestra circolare che perde acqua lungo tutto il muro. Nient’altro che due secchi e una brandina di stoffa. Rigira la testa. Sbarre di metallo, a distanza regolare, sono la porta, e le guarda arrabbiata a bocca aperta, perché non può essere—era—

Era in prigione?

Ma se non aveva fatto niente!

Si siede, e deve fare respiri profondi e regolari attraverso le narici dilatate per tenere sotto controllo il voltastomaco. Le braccia sembrano essere spaghi senza vita e le gambe anche peggio e non riesce a sbarazzarsi di quello stupido sapore di feltro, e dovunque si trovasse, non era giusto—se avesse mai dovuto essere imprigionata, avrebbe voluto che fosse per qualcosa di figo tipo rubare ai ricchi per dare ai poveri o cose del genere, ma tutto quello che aveva fatto era stato—

Tutto quello che aveva fatto era stato—

Si ricorda il volto di Kristoff, orripilato e spaventato e urlante al di sopra di lei, prima di essere inghiottita dalla nebbia e poi addormentarsi.

A mezz’aria.

Ok, quindi tutto quello che aveva fatto era scivolare in un dirupo e addormentarsi a mezz’aria, quindi come ci era finita su una—su un—

Si alza e barcolla, coprendosi di nuovo la bocca e ingoiando un’altra ondata di nausea. Inciampa vicino alla finestra. Le dita, quando si allunga, a malapena toccano le sbarre; salta, le afferra, e poi prova a issarsi, per sbirciare fuori, ma le sue braccia, sottili come spaghi, non ci riescono molto bene, e tutto quello che ottiene in cambio dei suoi sforzi è una bella ondata di acqua salata dritta in faccia mentre il posto in cui si trova, qualunque esso sia, si inclina pericolosamente di lato—

Oh.

Resta appesa lì, alla finestra, le dita che appena toccano terra, e ha voglia di urlare.

Ohcieloohcieloohcielo—

"Nave, sono su—"

"Bene bene. Guarda un po’ chi si è svegliata."

Rantola, si volta, cade. Viktor—no, Tomas, più minuto, è Tomas—sta lì in piedi, proprio davanti alle sbarre. Si alza, spolverandosi la gonna e cercando di darsi un contegno mentre avanza a grandi passi verso di lui. "Come vi permettete, signore! Fate tornare indietro questa nave, adesso! Immediatamente!"

E poi sente, "Ingenua come al solito, vedo."

Il cuore le sprofonda fino ai piedi. Tomas fa, "Moriva dalla voglia di vederti."

Si volta lentamente, lentamente, così lentamente, ti prego, no, ti prego, no, ti prego, no—

Hans sorride.

"Ciao, Anna."

 

  
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