Capitolo
XI
Mia
madre e Prim si scambiavano sguardi preoccupati mentre facevamo
colazione, o meglio, loro mangiavano mentre io mi limitavo a
osservarle. Da tre giorni non toccavo cibo e la notte non dormivo
perché gli incubi mi tormentavano di nuovo; da tre giorni ero
tornata a vivere una vita simile a quella di prima con la mamma e mia
sorella; da tre giorni non avevo Peeta al mio fianco e non avevo idea
di cosa fare. Lo vedevo lì, dall'altra parte della mensa,
seduto insieme ai suoi amici del Distretto 12 e mi ignorava. Faceva
male, e anche tanto: era come se il mio cuore fosse stritolato da una
mano invisibile, creando una sensazione di oppressione che mi
impediva di respirare. Dopo la discussione nella mia stanza, non
avevo più versato una lacrima, convinta che potessi andare
avanti da sola. Come avevo sempre fatto, del resto. Ero sicura di
farcela, almeno all'inizio. Eppure la consapevolezza di essere così
vicina a lui e allo stesso tempo così lontana, mi distruggeva;
ormai sapevo cosa si provava ad avere una persona accanto, una
persona che amavo e che mi ricambiava, e capii che mi era impossibile
andare avanti come se niente fosse. E come se non bastasse, Gale era
a Capitol City a rischiare la vita. Era troppo.
“Katniss?”
La
voce di Prim mi riportò alla realtà e subito alzai la
testa per guardarla e quella che vidi sul suo volto era pura
preoccupazione.
“Io
e la mamma andiamo in ospedale, tu cosa devi fare?”
Lessi
distrattamente il programma tatuato sul mio avambraccio e aggrottai
la fronte. “Qualcosa che riguarda la strategia militare, ma
penso che andrò in giro per i corridoi.”
“Se
hai bisogno, sai dove trovarci.” disse mia madre,
accarezzandomi i capelli.
Mi
limitai ad annuire e loro si avviarono verso la porta. Inspirai
profondamente e mi alzai a mia volta, camminando il più
velocemente possibile. Posai il vassoio, sicura che avrei ricevuto un
richiamo per aver sprecato il cibo, ma non mi importava. Mi voltai
per uscire, in un certo senso felice di non aver incrociato Peeta, ma
mi sbagliavo: lo vidi passarmi davanti, guardarmi dritto negli occhi
per una frazione di secondo e voltarsi dall'altra parte, come se non
fossi degna della sua considerazione. Si allontanò insieme ai
suoi amici e io rimasi immobile, incapace di reagire. Senza
rendermene conto, mi incamminai per i corridoi fino ad arrivare nella
mia stanza. Una volta chiusa la porta alle mie spalle mi diressi
verso il letto, urtando con il braccio lo spigolo del mobile che si
trovava lì vicino; subito portai la mano sul punto dolorante,
e anche se una parte di me sapeva che era stato solo un momento di
distrazione, quella fu la goccia che fece traboccare il vaso della
mia pazienza, della mia rabbia, della mia tristezza. Tirai un calcio
contro il mobile, e poi un altro e un altro ancora, fin quando non
sentii il piede farmi male. Non mi bastava. Cominciai a buttare in
terra tutto ciò che trovavo davanti a me, che fossero il
tavolo, le sedie o i materassi; intanto lacrime bollenti mi rigavano
le guance e io non riuscivo più a trattenere i singhiozzi, le
urla. Peeta aveva ragione a ignorarmi. Peeta aveva sofferto, Gale
aveva sofferto, e la colpa era mia, della mia incapacità di
esserci per qualcuno, per la mia eterna insicurezza che mi ostinavo a
nascondere dietro un muro che pensavo di aver distrutto e che invece
era ancora presente. Avevo fatto in modo che Prim e la mamma non
morissero di fame nel 12, avevo chiesto le tessere per evitare che
nell'urna ci fossero più striscioline con sopra il nome di mia
sorella, ma chi volevo prendere in giro? Non ero onnipotente, non
potevo controllare la sorte. Il fatto che il suo nome non fosse mai
stato estratto era dovuto alla fortuna, non certo a qualche mio
miracolo. Pur cacciando, spesso dovevamo andare a dormire a stomaco
vuoto, avevo permesso che accadesse, avevo permesso che Prim premesse
le mani contro la pancia per colpa dei crampi. Sapevo di essere dura
con me stessa ma non mi importava. Gale era andato in guerra e sapevo
che un po' era anche colpa mia. Peeta faceva bene a starmi lontano, a
ignorarmi. Quando non trovai più nulla su cui riversare la mia
rabbia, mi inginocchiai a terra e continuai a piangere
silenziosamente, finché non ebbi più lacrime. Mi
guardai intorno e mi resi conto che non potevo lasciare la stanza in
quello stato. Nessuno doveva sapere, soprattutto mia sorella. Misi
tutto apposto e uscii dalla stanza con gli occhi che ancora
bruciavano. Passai entrambe le mani sul viso e nell'istante in cui la
mia vista era oscurata, andai a sbattere contro qualcuno.
Dall'imprecazione borbottata senza troppi complimenti, mi resi conto
di trovarmi di fronte a Haymitch. Il suo cipiglio preoccupato si
accentuò ancora di più quando mi riconobbe.
“Che
ci fai tu qui?” mi chiese bruscamente.
“Ero
in giro.” risposi senza abbassare lo sguardo.
Era
come se sapesse qualcosa che mi avrebbe dato fastidio, ma a giudicare
dalla sua espressione, quel qualcosa doveva essere grave. Il mio
cuore cominciò a battere più velocemente.
“Che
succede?”
“Non
sono tenuto a dirtelo, ragazzina.” sbottò lui, passando
di lato per proseguire verso il corridoio.
Gli
corsi dietro e mi piazzai davanti a lui, ben decisa a non farlo
andare via.
“Haymitch.
Ti prego.”
Lui
fissò la punta delle scarpe, poi la parete alla sua destra,
quella alla sua sinistra. Ovunque, pur di non guardare me. Quella fu
un'ulteriore conferma.
“Gale
sta bene? Gli è successo qualcosa?”
Nessuna
risposta.
Gli
afferrai le braccia e lo scossi per incitarlo a parlare.
“Rispondimi!” urlai.
“Sono
morti.” disse lui con un sospiro, chiudendo gli occhi.
“No.
Non è vero.”
La
mia voce era un sussurro impercettibile ma Haymitch mi sentì e
mi guardò dritto negli occhi, confermando quello che aveva
appena detto. Feci dei passi indietro, mi voltai e poi iniziai a
correre verso la stanza dove erano tenuti gli equipaggiamenti
militari. Avevo scoperto quel posto durante uno dei miei giri di
perlustrazione del distretto e sapevo che non ci sarebbe stato
nessuno di guardia, perché la regola diceva che nessuno poteva
toccare quelle attrezzature se non autorizzato. Però a me non
erano mai piaciute le regole.
Accesi
la luce, mi guardai intorno e cominciai a prendere tutto ciò
che ritenevo necessario. Le mani mi tremavano e una vocina nella mia
testa mi urlava che ormai non c'era più nulla da fare e che
era tutto inutile ma la ignorai. Facevo talmente tanto rumore che non
mi accorsi della porta che si apriva, che poi si richiudeva, e dei
passi all'interno della stanza.
“Smettila,
Katniss.”
Mi
voltai di scatto appena riconobbi la voce di Peeta, che era lì
a due metri da me e mi guardava con gli occhi pieni di
preoccupazione. Lo fissai a mia volta, senza sapere cosa dire, ma poi
tornai a sistemare il giubbotto protettivo che avevo appena
indossato, cercando di apparire meno sconvolta di quanto in realtà
fossi.
“Devo
andare laggiù, devo-”
“Tu
non vai da nessuna parte.” mi interruppe lui, avvicinandosi a
me e togliendomi dalle mani la sacca di tela che avevo appena preso
dallo scaffale. “Non sei addestrata e poi non ha senso andare
laggiù, è troppo tardi e lo sai.”
Come
al solito, usai la rabbia per proteggermi dalla verità e gli
diedi una spinta con tutta la forza che avevo.
“E
a te cosa importa, eh? Non fai altro che ignorarmi ma è giusto
così!” urlai, ricominciando a piangere. “Perché
io faccio soffrire tutti quelli che ho intorno. Prima Gale e adesso
tu. Vado a Capitol City, così nes-”
Quella
volta furono le sue labbra a interrompermi. Inizialmente non reagii,
ancora sorpresa dal suo gesto, però lo allontanai spingendolo
di nuovo indietro.
“Che
diavolo fai?” gli dissi con durezza.
“Quello
che avrei dovuto fare tre giorni fa. Mi hai detto di quel bacio e io
me la sono presa, ti ho allontanata da me e non mi sono comportato
bene con te, sopratutto oggi a colazione.” mi rispose lui con
calma, avvicinandosi di nuovo a me e posando le mani suoi miei
fianchi. “Appena sono uscito dalla mensa, mi sono pentito e ti
ho cercata nel corridoio ma tu non c'eri. Stavo per andare via quando
sei uscita dalla tua stanza e ti ho seguita fino a qui. Perdonami.”
Piansi
di nuovo, e non solo per il dolore che provavo per Gale. Piansi
perché, nonostante tutto, Peeta era lì a scusarsi per
qualcosa di cui non aveva colpa, dimostrandomi per l'ennesima volta
quanto mi amava.
“Mi
dispiace per il tuo amico, so quanto eravate legati”, continuò,
“ma comportarsi in questa maniera non lo riporterà in
vita. Finiresti solo col farti uccidere e questo non lo permetterò
mai.”
Inaspettatamente,
le mie labbra si piegarono in un sorriso. Portai le mani sulle sue
guance e lo attirai a me per baciarlo con passione, riconoscenza,
amore.
“Cosa
ho fatto per meritarti?” gli sussurrai appena ci separammo per
riprendere fiato.
Peeta
mi sorrise, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
“Non hai fatto nulla, e ti amo proprio per questo.”
Buon
salve a tutti!!!
Scusate
per questo terribile ritardo ma ho avuto tante cose per la testa e
alla sera non avevo la forza mentale per scrivere XD Dunque, Gale e
tutti gli altri sono morti... BUGIA!!! Anche nel libro i membri della
squadra 451 vengono dati per morti dal governo, quando in realtà
sono vivi e vegeti ;) Peccato che Katniss questo non lo sappia O.O La
nostra fanciulla ha dato un po' di matto, sia per Gale sia per Peeta.
Ma il nostro ragazzo del pane ha fatto ragionare Katniss e tutto tra
loro è sistemato ora. Ora non ci resta che vedere come reagirà
Miss Everdeen quando saprà che Gale è ancora vivo ;)
Un
bacione, vi voglio beneee <3
Sara
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