Vento dell'Ovest - Capitolo 3
- Capitolo Terzo -
Vento di Intrecci
Secondo
Marcello, il chiacchiericcio dei turisti e gli schiamazzi felici dei
bambini, in
quella mattina di ottobre inoltrato,
rendevano
Via della
Conciliazione
fin troppo caotica e chiassosa. A dire
il vero, non è che ci fosse poi chissà che folla;
molto
probabilmente, era solo il ragazzo ad essere insofferente, per via
dell’incontro che avrebbe avuto con Lord Carter, pertanto si
sentiva disturbato anche da ciò che, in un’altra
situazione,
l’avrebbe lasciato indifferente.
«Scommetto
che nemmeno durante il recente incontro tra Gorbačëv e
Reagan
c’è stata tutta questa tensione»
esordì Gerardo, con un sorrisetto tirato, mentre svoltavano
verso destra, in direzione di Via
di Porta Angelica.
«Carter
può essere pericoloso quanto la Guerra Fredda, almeno
rimanendo in termini di affari»
commentò Marcello, tetro.
Prima di proseguire, gettò un’occhiata
all’imponente facciata della
Basilica: San Pietro
dominava la scena e la sua cupola, rifulgente di luce bianca, si
stagliava contro un cielo azzurro pastello.
I due ragazzi giunsero poco dopo al Caffè del Borgo1,
chiesero ad un cameriere se Lord Carter fosse, per un puro caso,
già dentro ad attenderli e, avendo ricevuto risposta
negativa,
decisero di rimanere fuori.
«Arriverà
con mezz’ora buona di ritardo»
affermò Marcello, guardando le lancette del suo orologio,
puntate sulle dieci e cinque.
«Come minimo»
rispose Gerardo. «Ho
sentito dire che, talvolta, si è presentato anche diverse
ore dopo l’orario stabilito».
«Non
credo convenga aspettarsi molto rispetto, da uno come Edward
Carter» sentenziò il biondo accomodandosi sul
massiccio
bordo di una fioriera vuota. L’amico lo imitò e
lì
attesero entrambi, pazientemente.
Le campane di San Pietro
stavano battendo le undici e mezza, quando il
miliardario britannico ed il suo segretario fecero la loro comparsa, a
bordo di una
berlina nera tirata a lustro.
«In perfetto
ritardo»
borbottò Tornatore, suscitando
l’ilarità
dell’altro, il
quale ben camuffò la risatina con un colpo di tosse.
Carter, accompagnato da un giovane uomo, scese dall’auto,
dirigendosi
subito verso
i ragazzi. Non era stato difficile per loro individuare chi dei due
fosse il
magnate,
giacché era l’unico nella coppia ad aver superato
abbondantemente la
cinquantina: un uomo dai capelli neri striati di bianco, ordinatamente
pettinati all’indietro, un paio di baffetti sottili e piccole
rughe
intorno agli occhi. Marcello trovò che fosse una
plausibilissima
versione più matura di Clark Gable in Via col Vento.
«Good Morning» salutò
l’imprenditore, stringendo la mano ai due giovani.
«Scusate l’inconveniente ritardo, ma sono insorti
dei disguidi... Io e il mio assistente siamo stati finora a discutere
di affari».
“Perché,
con noi devi parlare del tempo?”
pensò il ragazzo, infastidito dall’approccio,
facendo dell’ironia sulla proverbiale mania degli inglesi di
discutere delle condizioni atmosferiche.
«Sì,
eravamo impegnati con affari molto, molto importanti»
replicò l’uomo che accompagnava Carter. «A
proposito, John Miller, piacere».
I due giovani strinsero la mano anche a lui, poi tornarono a guardare
il magnate, che sembrava irritato da qualcosa.
«Fa
veramente troppo caldo qui. Siamo ad ottobre e ancora ci sono queste
temperature. E poi, hanno il coraggio di dire che l’Italia ha
un clima invidiabile!»
Il biondo increspò le labbra e rimase a fissare Carter in
tralice; ogni secondo che passava quell’uomo gli stava sempre
più antipatico. Aveva un modo di dire ciò che
pensava fin troppo gretto e rozzo, per essere un pezzo grosso
dell’economia britannica; stando a quello che aveva detto
Vittoria, aveva anche ricevuto l’onorificenza di Sir dalla Regina in
persona, in virtù dell’ottimo lavoro svolto nel
campo degli investimenti della nuova industria.
Entrarono nel locale, dove un signore sulla sessantina, probabilmente
il proprietario, dopo aver profusamente salutato Carter, li fece
accomodare in una sala situata al piano di sopra. A giudicare dal
comportamento di entrambi, sembrava si
conoscessero molto bene.
L’interno era abbastanza luminoso, sebbene la stanzetta fosse
davvero
piccola: l’arredamento era elegante, ma assomigliava
più ad
un ufficio che ad una sala da tè. Anzi, la libreria, il
tavolo da biliardo e il tavolino quadrato la rendevano molto
simile ad una bisca.
Marcello si chiese se non fosse una specie di ufficio che Carter era
solito usare, allorquando si trovasse a Roma, per gestire i suoi
affari.
Legali ed illegali.
Si accomodarono al tavolo ed immediatamente Miller
consegnò ai due giovani un plico di fogli, in attesa che il
miliardario cominciasse a parlare. Cosa che non tardò ad
avvenire.
«Come potrete leggere dalla brochure informativa che vi ha
dato John, il progetto per il quale stiamo cercando dei partner
finanziatori riguarda qualcosa che guarda al futuro. Vale a dire,
una
piattaforma per l’estrazione del petrolio, da costruire nel
Mare del Nord»
snocciolò Lord Carter, fiero di ciò che stava
proponendo.
«Un
progetto ambizioso» commentò Marcello, in perfetto
inglese, alzando
appena lo sguardo dai fogli. «Ma
perché non prendere in considerazione il Medio Oriente?
Anche lei è contro il
selvaggio sfruttamento delle risorse dei paesi meno
industrializzati?»
In realtà, il ragazzo aveva già un sospetto sulla
risposta che avrebbe ricevuto, ma doveva mostrarsi un po’
ingenuo se
voleva davvero sapere fin dove voleva spingersi il magnate.
«Niente
affatto.
Ci sarebbe piaciuto aprire un’altro impianto di nostra
proprietà in Kuwait... ma già la costruzione del
primo ci
ha dato qualche problema con l’Unione Sovietica e con gli
Stati
Uniti, senza contare che entreremmo in conflitto con la British
Petroleum2.
Così, abbiamo deciso di rivolgerci altrove, anche per
offrire all’industria petrolifera uno sbocco in Europa»
spiegò l’imprenditore, con un sorriso sottile.
«Senza dover elemosinare l’odioso aiuto di
altri».
Gerardo lanciò uno sguardo di sbieco al suo amico:
evidentemente anche lui stava cominciando a capire che razza
di persona
fosse l’uomo che avevano davanti.
«Si vocifera che la British
Petroleum voglia acquistare la Britoil»
disse Marcello, incrociando le braccia sul petto.
«Ovvio
che non voglia altri concorrenti, nel momento in cui si sta espandendo.
Però, Lord Carter, non capisco una cosa: il Mare del Nord,
per
quanto ricco di petrolio, non può assolutamente reggere il
confronto con i giacimenti del Caucaso e dei Paesi Arabi. Siete sicuri
che costruire lì sia un buon investimento?»
«Abbiamo
fatto delle ricerche. I nostri periti hanno stabilito che la zona
è più che adatta al nostro progetto»
intervenne
Miller, alzandosi in piedi, adirato, come se fosse stato toccato un
argomento delicato. «Nelle ultime
pagine del dossier ci sono i
resoconti delle perizie...»
«Non ho una laurea in ingegneria chimica e nemmeno in
geologia,
non credo di avere le competenze necessarie per capire ciò
che
c’è scritto. Mi sembra inutile farmelo leggere,
non trova?»
L’assistente prese nuovamente posto, senza staccare mai gli
occhi
dal
ragazzo. Marcello fu sicuro che se avesse potuto l’avrebbe
incenerito seduta stante, tuttavia, poiché il suo astio
era pienamente ricambiato, forse Miller non avrebbe avuto la meglio.
Entrò, proprio in quel momento, il cameriere di prima, con
in
mano un vassoio con quattro bicchieri e una bottiglia di vino.
«Oh! Wrotham Pinot,
l’unico vino autoctono inglese!» esclamò Carter.
Il biondo questa volta poté osservare meglio
l’inserviente e si
sorprese della cicatrice sotto l’occhio che non aveva avuto
modo
di notare prima, accorgendosi che ogni nuovo particolare che scopriva
gli faceva passare
sempre di più la voglia di concludere un affare con quei
tipi.
Una volta che i calici furono pieni, il signore andò via e
Gerardo prese la parola: «Immagino che non saremo i soli a
competere per la partnership, vero?»
«No,
infatti» rispose Miller, pronto.
«Già altre società ci hanno fatto
diverse proposte.
Di solito noi facciamo scrivere e firmare le offerte, quindi le apriamo
tutte insieme alla presenza di un notaio e contattiamo il vincitore,
ossia chi ha fatto l’offerta più vantaggiosa, con
meno
interessi».
«Sembra
quasi una gara d’appalto» commentò il
ragazzo.
«Infatti
lo è. Lo Stato Britannico collabora per una buona
percentuale
nel progetto, pertanto ha disposto che sia fatto tutto secondo la
legge» ci tenne a precisare l’assistente.
Gerardo e Marcello si scambiarono l’ennesima occhiata e,
capendosi al volo, non posero altre domande.
Durante l’ultimo quarto d’ora
dell’incontro, John
Miller si affannò a spiegare a Gerardo quando e come loro
avrebbero dovuto fare l’offerta per finanziare parte della
costruzione della piattaforma (ignorò deliberatamente
Marcello
perché, probabilmente, l’aveva preso in
antipatia), mentre
Lord Carter, sorseggiando il suo vino, lanciò alcune
occhiate
inquisitorie ai due giovani, anche se non proferì
più
verbo.
Intorno all’una e mezza, i due inglesi salutarono i giovani
e,
sostenendo di avere altri importanti questioni da sbrigare, entrarono
nella berlina e l’autista partì a tutto gas.
«Cosa
ne pensi?» chiese Gerardo, non appena l’auto, con a
bordo il miliardario e il suo assistente, sparì alla loro
vista.
«Che
non mi piace» commentò Marcello,
lapidario. «Abbiamo fatto
bene ad accertarci di persona di
come stanno realmente le cose. Tuttavia, dobbiamo ammettere che,
questa volta, le dicerie sul suo conto erano tutte vere: a
quell’uomo interessa solo raggiungere i suoi scopi, non
importa
come».
«Vuoi
dire che dobbiamo guardarci anche dai suoi intrallazzi?»
chiese
Gerardo, lanciando all’amico uno sguardo di
complicità.
«Esatto.
Ci sono contraddizioni in ciò che hanno detto lui e quel
Miller, non me la contano giusta. Deve esserci sotto qualcosa
di molto losco ed è meglio tenersene fuori»
affermò con sicurezza il giovane. «Inoltre,
credo che sarà lui stesso a sollevarci
dall’incomodo di
dirgli di no: non vinceremo mai l’appalto».
«Be’,
in effetti, non
penso proprio che voglia concederci la possibilità di
entrare in affari con lui. Non si è mostrato molto ben
disposto verso di noi».
«Oh,
ci strapperemo tutti i capelli, per il dolore che ci
provocherà questo
rifiuto» osservò il biondo, con una buona dose di
sarcasmo.
Il
moro ridacchiò.
«Se
ci fosse stata anche Vittoria, ti avrebbe dato man forte. Nemmeno lei
ha una buona opinione su Carter» considerò, mentre
si avviavano tutti e due sulla via di casa.
«A
proposito di Vittoria, ho
saputo che è venuta da te perché pensava avessimo
litigato».
«Ah
sì, è vero» rispose Gerardo, cambiando
repentinamente espressione e rabbuiandosi.
«Cosa
c’è?»
«Niente».
«Senti,
Gerardo...»
cominciò Marcello, come se si stesse preparando a sostenere
un estenuante seduta per contrattare qualche affare. «Non
facciamo inutili giri di parole. Se è per Maria Luisa sai
benissimo che...»
«Maria
Luisa non c’entra. O meglio, lo sai, mi piace come ragazza,
ma la questione è
più complicata di quello che è».
«Che vuoi dire?»
chiese, fissando interdetto l’altro, il quale, dopo aver
ricambiato l’occhiata, si preparò a replicare.
«Be,
è vero che l’altra sera sono stato un
po’ invidioso di te perché te ne sei andato
sottobraccio a lei, tuttavia...»
Il biondo, esasperato,
alzò gli occhi al cielo e sbottò: «Ma
se ti ho detto poco fa che non mi interessa! Gerardo, non essere
ridicolo. Non possiamo mandare a rotoli anni e anni di sincera amicizia
per via di una gallina come Maria Luisa!»
L’amico lo
guardò e si abbandonò ad un sospiro di stanchezza.
«In realtà, lo so che non ti interessa, ti ho
visto
andare via con quella ragazza dai capelli rossi... ma
il punto è che tu puoi scegliere con chi stare, io no.
Perfino Vittoria, che ci conosce entrambi da tempo immemore, preferisce
te a me».
«Vittoria?
Ma se ti adora! Ha sempre una buona parola per te! Pensa che si
preoccupava che potessi finire sotto il giogo della Foscari!»
Adesso, a Marcello non importava più di insultare quella
cornacchia davanti a Gerardo: lo considerava più fratello di
Tiberio, pertanto non poteva permettere che finisse
sposato con quella lagna ambulante!
«Eh, già.
Intanto si è fidanzata con quel carciofone dello scultore,
la cara Vittoria!»
commentò l’altro, con un misto di amarezza e
disgusto.
«Gerardo,
non mi piace il discorso che stai facendo»
replicò a viva voce il biondo. «Ho
capito dove vuoi andare a parare: che devi accontentarti di chi sia
disposta a sposarti. Ti sembra un ragionamento logico?»
«Forse
non lo è, ma tu non puoi capire, Marcello. Io non ho le tue
qualità, sei tu quello che eccelleva in matematica a scuola,
il
primo nelle gare sportive, il più bravo del nostro corso all’università,
il più acclamato dalle ragazze. Io, invece, non posso
aspirare ad una
moglie piena di doti».
«Pensi
davvero che bastino quelle cose ad affermarsi come persona?»
domandò il giovane, incredulo.
Gerardo scosse la testa: «No,
ma non puoi negare che avere una buona immagine aiuta. Credevo che,
dopo essere stata rifiutata da te, con Maria Luisa avessi
almeno un’opportunità».
Marcello sgranò gli occhi, dubitando per un attimo di aver
davvero sentito bene.
«Non riesco a
credere alle mie orecchie! Stai
parlando come mia madre! Non dirmi che anche tu credi che uno si debba
accasare
a tutti i costi, anche se non ama la persona che sta sposando?»
«Non
è proprio così»
ribatté l’altro, insistendo sulla sua posizione. «Io
vorrei sistemarmi anche perché,
così facendo, forse, finirei di pensare alla donna che amo e
che
non posso
avere, dato che è già impegnata».
«Aspetta
un attimo. E chi sarebbe?» domandò
Tornatore, sempre più confuso.
«Non importa il
nome. Importa solo che io per lei sarò sempre invisibile»
rispose Gerardo, sorridendo malinconicamente.
«Scusami,
ma continuo a non capirti. Hai provato almeno a dire alla Ragazza del
Mistero quello che provi per lei?»
«Sarebbe
inutile, lascia stare. Anzi, lasciamo stare l’intera
faccenda».
Marcello aggrottò marcatamente le sopracciglia, tanto che
comparvero rughe profonde sulla fronte. Non riusciva davvero a
credere che il suo migliore amico, una persona tanto buona e pacata,
fosse arrivata a simili orribili conclusioni, riguardo al prender
moglie.
«Dai,
non starci troppo a pensare. Siamo amici come prima?» fece il
ragazzo bruno, con il chiaro intento di sdrammatizzare, dopo aver
osservato il cipiglio dell’amico.
«Ovvio...
però... anche tu hai tante qualità. Vorrei che
non lo dimenticassi» aggiunse Marcello, preoccupato per
ciò che aveva udito.
«Certo,
certo» rispose l’altro, facendo spallucce. «Allora
ci riaggiorniamo domani, così da decidere come muoverci con
Carter. Buona giornata, Marcello».
Il
biondo ricambiò il salutò e rimase a guardarlo
mentre si
allontanava. Non avrebbe mai creduto che il suo migliore amico potesse
essere
geloso di lui e
Vittoria, come se entrambi l’avessero escluso, come se fosse
lo scarto del gruppetto. Gli sembrava quasi... risentito. Il solo fatto
che Gerardo avesse potuto pensare cose simili, fece capire a Marcello
quanto l’amico
soffrisse ad essere costantemente eclissato da lui. Cosa, per altro,
assolutamente non voluta.
Erano cresciuti praticamente insieme, ma mai avrebbe sospettato
che ci fossero questi celati dissapori. Gli dispiaceva vedere la
persona che considerava al pari di un fratello
così affranta e, in certo senso, rassegnata. Sicuro che
anche Vittoria fosse del suo stesso avviso, il giovane si ripromise che
ne avrebbe discusso anche con lei; magari insieme avrebbero trovato il
modo di dissuadere il loro amico dal compromettersi per sempre,
sposando Maria Luisa Foscari e le sue perpetue svenevoli lagne. Magari,
in futuro, Gerardo avrebbe avuto modo di incontrare una fanciulla dolce
e che sapesse apprezzarlo veramente.
Appuntandosi mentalmente il proposito, il ragazzo seguì il
corso di Via della
Conciliazione, così da prendere la metro e
tornare a casa, quando, in una vetrina di una libreria, notò
qualcosa che attirò la sua attenzione: un libro sulla vita e
l’arte di Caravaggio ed il pensiero di Beatrice si
materializzò istantaneamente nella sua mente.
In effetti, si trovava a pochi passi dalla Cappella Sistina e
dagli uffici dei Musei
Vaticani. Perché non provare a vedere se si
potesse prenotare direttamente da lì?
Animato da quell’idea, decise che si sarebbe recato di
persona a chiedere informazioni, ma prima voleva assolutamente
acquistare quel libro: era certo che Beatrice avrebbe apprezzato il
regalo almeno quanto i fiori e, con buone probabilità,
persino Vittoria si sarebbe dimostrata soddisfatta della sua iniziativa.
Entrato nel negozio, il ragazzo si diresse immediatamente allo scaffale
dove erano riposti i libri d’arte; e fu particolarmente
fortunato, perché il volume che cercava era sistemato in una
grande pila, segno che il negozio ne aveva copie in abbondanza. Ne
prese una, ma, una
volta alla cassa per pagare, notò che la cassiera era
impegnata
in tutt’altre faccende, infatti, stava gaiamente
civettando con un giovane, mollemente appoggiato al bancone.
«Ma è
veramente oro?» chiese la ragazza,
ammirando il bracciale che aveva al polso.
«Oro.
Vero oro, vero come il mio amore per te, ma non abbastanza bello da
eguagliare la tua bellezza» languì il
ragazzo.
La ragazza emise una serie di snervanti risolini, mentre Marcello
avvertì i denti che gli facevano male, certamente per la
dose
eccessiva di stucchevolezza racchiusa in quelle parole.
«Signorina, mi scusi, io avrei una certa fretta.
Perché
non invita il suo corteggiatore a tornare quando non ci sono clienti?»
proruppe il giovane, senza celare il suo disappunto.
La ragazza trasalì e si fece paonazza, mentre
l’altro si girava verso il biondo.
«Tornatore,
i fatti tuoi non riesci mai a farteli, vero?»
«No,
Colonna. Traggo un particolare piacere dal romperti le uova nel
paniere» rispose Marcello, avendo
immediatamente riconosciuto nel suo interlocutore una delle persone che
meno gradiva al mondo.
Ascanio Colonna sogghignò in maniera cattiva e
sibilò:
«Verrà il giorno in cui scenderai dal piedistallo
che ti
sei costruito. Oh, se scenderai...
ed io sarò lì, in prima fila, pronto a
deriderti».
«Allora
ricordati di prenotare. Quei posti vanno via subito, non vorrei che poi
fossi costretto a rimanere in piedi».
Sul volto del giovanotto il sorriso appassì.
«Prima
o poi ti passerà anche tutto questa voglia di scherzare,
vedrai»
sussurrò, sfidando il nemico con lo sguardo.
Poi si voltò verso la commessa, dicendo: «Ci si vede,
bambola!»
Girò sui tacchi ed uscì dal negozio. Marcello lo
guardò allontanarsi, pensando che, anche se il futuro per
lui
avesse avuto in riserva dei brutti momenti, di certo non sarebbe caduto
mai
nelle bassezze di cui era capace Colonna.
«Un
po’ di gentilezza non fa mai male, sa?» lo
rimbrottò
la ragazza, indispettita per la dipartita del suo corteggiatore.
«Ha
pienamente ragione, ma solo con chi merita»
replicò
il ragazzo, asciutto. Pagò in fretta ed uscì
dalla
libreria, lasciando la cassiera particolarmente imbronciata. E si
ritrovò a sorridere, pensando a come l’avrebbe
presa
quella ragazza, se avesse saputo che Colonna si intratteneva
abitualmente
con almeno altre dieci.
***
Quando Beatrice vide per la prima volta Campo de’ Fiori,
subito ne rimase entusiasta. La statua di Giordano Bruno, posta
lì in memoria del suo ingiusto rogo, sembrava un
po’ fuori
luogo tra i banchi dei mercanti, che cercavano di procacciarsi i
clienti, declamando a gran voce la bellezza della propria merce.
I colori ed i profumi, però, conquistarono immediatamente la
fanciulla, che prese a guardarsi intorno con grande
curiosità.
«Stammi dietro e non ti perdere»
la richiamò scortesemente Anna Laura, precedendola di
qualche
passo. «Non ho intenzione di venirti a cercare, non ho tempo
e tantomeno voglia!»
La ragazza si affrettò a seguire la cugina, evitando di
ribattere: era talmente contenta di esser potuta uscire a fare acquisti
(anche se, in realtà, le compere non erano per lei), che
lasciò correre anche i borbottii della parente. Uscire con
quest’ultima, però, non era semplice, dato che,
per trovare il prezzo migliore, la donna aveva
l’insana mania di fare il giro di tutte le bancarelle
svariate
volte, fermandosi ad ognuna per parecchi minuti, neanche fossero le
stazioni della Via
Crucis.
«Qui
sembrano avere buoni prezzi» mormorò Anna
Laura, sbirciando il cartellino dei geranei.
Beatrice gironzolò attorno alla bancarella, incuriosita
dalle buganvillee
dai colori sgargianti: le sarebbe piaciuto avere una di quelle piante
sulla veranda, magari da lasciar crescere lungo il reticolato, accanto
al
gelsomino, ma, dopo aver visto il prezzo, cambiò idea.
Forse sarebbe stato più saggio scegliere una piccola pianta
da
tenere in camera, una di quelle piccole piante grasse in vaso...
«Anna Laura!»
La fanciulla si voltò, attirata da qualcuno che chiamava a
gran
voce la cugina. Fece scorrere lo sguardo lungo il corridoio che si
era creato tra i banchi di fiori, cercando di capire chi
fosse, e
vide una ragazza in bicicletta che agitava una mano: stava venendo
verso di loro. Non capì, d’impatto, di chi si
trattasse,
ma la ragazza era certa che non fosse un viso sconosciuto.
«Oh,
no! Quella poco di buono della Farnese!»
gracchiò Anna Laura, come se avesse una spina in gola.
Vittoria fermò la bicicletta e scese con grazia,
sistemandosi la
gonna dell’abito azzurro e il cappello di paglia
dall’ampia
falda.
Beatrice osservò la nuova venuta e non poté fare
a meno
di pensare che fosse una ragazza davvero bella e non si sarebbe
meravigliata se avesse scoperto che era una modella.
«Anche tu a far
compere?»
chiese la giovane, mentre posizionava il cavalletto, così da
non far cadere il suo velocipede.
«Sì,
stavamo dando un’occhiata, ma non c’è
mai niente
di bello da queste parti, sicuramente andrò da
Mastelli, quello sì che è un vivaio».
«Mastelli?
Ma se ha chiuso per rinnovo del negozio!» notò Vittoria,
perplessa.
Anna Laura assunse un cipiglio stizzito: «Vorrà
dire che il nostro giardino aspetterà. Solo i migliori
possono
metterci mano. E tu, Vittoria, come mai sei qui?»
«Cercavo
qualcosa per colorare il salotto e ho trovato questo mazzo di tulipani
rossi e arancioni, sono arrivati freschi dall’Olanda, guarda
che belli!»
«A me
sembrano un po’ kitch»
rispose l’altra, squadrando i fiori come se fossero erbacce
infestanti.
«Io
invece trovo che
siano adorabili» si intromise Beatrice,
ingenuamente.
«Nessuno ha chiesto il tuo parere, sciocca ragazzina».
Vittoria guardò
la giovane, accorgendosi della sua presenza.
«Chi
è questa ragazza, Anna Laura?»
«Lei è mia cugina Bea... Scusala, manca di
educazione».
«Educazione? Solo per aver detto la sua su un mazzo di fiori?»
chiese l’altra
interlocutrice, stupita. Poi si rivolse direttamente alla fanciulla.
«Bea,
da Beatrice, immagino. Come la donna amata dal Sommo Poeta».
«Sì,
infatti preferisco
esser chiamata
con il mio
nome intero» precisò la
ragazza, lanciando un’occhiata risentita alla cugina, la
quale ignorò l’osservazione.
«Trovo
che sia un bel nome...» commentò Vittoria,
lasciando la frase in sospeso. Rimase a fissare per qualche secondo
Beatrice e poi, come se avesse fatto un collegamento,
esclamò:
«Ora capisco
perché hai un viso familiare: sei la ragazza che
è
andata via con Marcello l’altra sera!»
Anna Laura stritolò tra le mani il portafoglio, mentre
la fanciulla spalancò le sue iridi blu.
«Lei
conosce Marcello?»
«Oh, cara, non darmi del lei, chiamami solo Vittoria. E
sì, conosco molto bene Marcello, siamo amici
dall’infanzia!»
rispose la donna,
sorridendo.
Beatrice rimase a dir poco sorpresa, come se quella rivelazione avesse
un che di fastidioso e deludente. Improvvisamente si sentì
molto
triste.
«Anna, devi portare anche tua cugina alla mostra di
Bartolomeo, assolutamente!»
esclamò Vittoria, avvicinandosi alla sua biclicletta.
«Manderò l’invito ad entrambe. Ora
scusate se vi
lascio, ma devo correre a sbrigare delle importanti commissioni».
«Ma certo, chi
vuole... voglio dire, figurati, non ti tratteniamo oltre».
La ragazza guardò Anna Laura con un leggero cipiglio, come
se
avesse afferrato l’ironia, tuttavia non ci diede peso.
Salutò le cugine e ripartì in velocità.
«Oca starnazzante, che bisogno c’era di invitare
anche te?»
brontolò la più grande delle due ragazze.
«Solo
perché hai avuto la fortuna sfacciata di aver conosciuto
Marcello!
E, comunque, Bea, imparerai che Vittoria Farnese non fa mai nulla per
caso:
sicuramente ti farà andare per dimostrarti che solo lei
può vantare diritti su Tornatore!»
Beatrice guardò l’altra parecchio confusa.
«Cosa
stai dicendo?»
«Quel
Bartolomeo che ha nominato è il suo fidanzato. Ma lo sanno
tutti
che è una copertura, e che lo terrà solo
finché non
avrà trovato il modo di far cadere Marcello ai suoi piedi.
Maledetta arpia, come se non le bastassero le schiere di uomini che le
sbavano dietro! »
«In realtà... vorrebbe Marcello?»
«Ma non è ovvio? Ah, sei solo una sciocca
ragazzina che ancora non sa come va il mondo!»
sbraitò la donna. «E la Farnese non
è altro che una bagascia lussuoriosa. Perfino Ascanio
Colonna,
un altro importante imprenditore, si è messo a
farle il
filo. Eh, ma Tornatore sarà mio. Lei e la Foscari devono
stargli
lontane! Vedremo chi la spunterà, dopo questa
mostra!»
Beatrice
seguì la cugina in silenzio. Sinceramente, a lei Vittoria
aveva
fatto una buona impressione e non credeva affatto alle maldicenze che
erano uscite dalla boccaccia di Anna Laura. Ciononostante, doveva
ammettere che una cosa era vera: Vittoria Farnese era amica molto
stretta di Marcello Tornatore, e lo stesso ragazzo l’aveva
accennato in più di un’occasione. Quindi la
possibilità che tra di loro vi fosse del tenero non era poi
così recondita.
La fanciulla sospirò forte e si strinse nel giaccone,
avvertendo
un freddo non avente nulla a che fare con il vento che aveva iniziato
in quel momento a
spirare.
***
«La nebbia a gl’irti
colli/piovigginando sale,/e sotto il maestrale/urla e biancheggia il mar;» declamò a gran
voce il signor Rossiglione. «Continua tu, Beatrice. Ricordi
la lirica di Carducci San
Martino, vero?»
Ma la ragazza aveva la testa altrove. Erano trascorse circa due
settimane dall’ultimo incontro che aveva avuto con Marcello:
era
già passata la metà di ottobre e non aveva
ricevuto
alcuna chiamata da parte del giovane. Magari aveva ragione Anna Laura,
e aveva davvero aveva una relazione segreta con Vittoria, oppure si
era dimostrato gentile con lei solo perché sarebbe stato
sconveniente dirle in faccia che era solo una ragazzina petulante. Ma
allora perché accettare il suo invito? Perché
uscire con
lei? Che l’avesse fatto sempre per cortesia e non
perché
provava un minimo di interesse nei suoi confronti?
«Beatrice?
Ci sei?»
la richiamò il
suo precettore, sventolandole una mano davanti agli occhi.
«Uh? Cosa?»
rispose la giovane, palesemente soprappensiero.
«Sono cinque minuti che cerco di attirare la tua attenzione.
Oggi hai la testa tra le nuvole più del solito».
Beatrice fissò il suo insegnante e sospirò:
«Mi scusi. Non sono
molto presente».
«Non credo stamattina abbia molto senso proseguire, direi di
riprendere domani.
Però cerca di rivederti Carducci, nel pomeriggio. Ricordati
che
affronterai l’esame di Stato come privatista, saranno molto
severi con te» le disse, cominciando a riordinare i libri.
La ragazza era molto affezionata a quell’uomo paffuto e dai
modi
cortesi perché era stato uno dei pochi veri amici di Lapo
Tolomei e, in
quanto tale, si era preso la responsabilità di provvedere
all’istruzione di Beatrice. Le dispiaceva non potergli
confidare
il perché delle sue distrazioni, dato che era
l’unica
figura che potesse somigliare abbastanza a quella di un padre, ma non
voleva fare la figura dell’illusa.
Perché era questo, che in quel momento, Beatrice si sentiva
di
essere: semplicemente una bambinetta stupida, che si era lasciata
abbindolare dal pensiero di poter piacere ad un ragazzo come Marcello.
«Sì, lo so, me l’ha già
fatto questo discorso. E
cerco
di
metterci tutto l’impegno possibile»
rispose la fanciulla, infastidita dalle considerazioni che aveva appena
tratto.
«Si
vede che ti impegni, Beatrice. Ho promesso a tuo padre che ti avrei
aiutato a prendere il diploma e così sarà».
Rossiglione mise i libri e le penne nella borsa di cuoio consunto, la
chiuse e se la mise in spalla.
«Ora
riposati e cerca di sgomberare la mente dai pensieri molesti»
le raccomandò, rivolgendole un sorriso tra il serio ed il
divertito. Beatrice si chiese se l’uomo non avesse intuito
tutto
quanto; d’altra parte aveva più di
cinquant’anni, ma un tempo era
stato anche lui giovane e aveva perfino due figli, quindi
certamente sapeva come fosse complessa la gioventù.
Lo accompagnò fino al cancello e lo salutò,
augurandogli
buon proseguimento di giornata. Fu solo quando rimase sola che Beatrice
si concesse di tornare a torturarsi con i propri cupi pensieri, il suo
animo era inquieto e le insinuazioni di Anna Laura, condite dai propri
timori, scaturenti dal silenzio di Marcello, non facevano che
peggiorare la situazione. Ciononostante, poiché la fanciulla
era
un tipino risoluto, arrivò alla conclusione che non servisse
a
nulla stare a rimuginare dentro di sé: doveva accertarsi di
persona di come stessero le cose e, per fare questo, avrebbe potuto
fare solo una cosa, ossia recarsi di persona da lui.
Rientrando in casa, lanciò un’occhiata nervosa
all’orologio a pendolo del corridoio: era l’ora di
pranzo,
se si fosse messa in marcia subito forse sarebbe potuta arrivare a casa
dei Tornatore per il primo pomeriggio.
Sarebbe stata la mossa giusta? Sarebbe stato educato? O sarebbe passata
per una sfrontata? Be’, come diceva il detto, sempre meglio
un
rimorso che un rimpianto. D’altra parte era tutta questione
di
faccia tosta, no?
Ora che ci pensava, in realtà, aveva anche un
plausibilissima
scusa per cercare di rivedere Marcello: il soprabito che non gli aveva
più restituito.
Corse di sopra, aprì l’armadio, trovò
facilmente
il capo d’abbigliamento del giovane e lo piegò,
così da metterlo nella sua borsa di panno beige, poi si
ravviò i capelli e scese di corsa le scale, sperando di
uscire
prima che rincasasse qualcun altro e la vedesse.
Se non ricordava male, Anna Laura le aveva detto che Marcello viveva in
una casa nei pressi del quartiere pinciano e la fanciulla era certa che
chiunque, fra gli abitanti del quartiere, avrebbe saputo indicargli la
famosa villa. Senza indugiare oltre, aprì il
cancello e
si mise in strada, convinta che l’unico modo di mettere a
tacere
le dicerie fosse accertarsene con i propri occhi e le proprie orecchie.
***
Nel rincasare, dopo aver pranzato con alcuni suoi collaboratori,
Marcello venne investito da urla acute provenienti dal giardino.
Scocciato e affatto preoccupato (poteva, infatti, avere una chiara idea
di cosa stesse succedendo, dato che si ripeteva ogni settimana lo
stesso copione), decise di andare a dare un’occhiata.
La scena che gli si presentò davanti era tristemente
familiare:
Ortensia
svenuta sul prato, una cameriera che le faceva aria con dei ventagli,
un’altra che reggeva tra le braccia la piccola Claudia,
Tiberio, inginocchiato al fianco della moglie, che le teneva
una
mano e la Matrona che
batteva a terra, nervosamente, la punta della scarpa. Con suo sommo
sollievo, però, non vide traccia di suo padre.
La commedia popolare, decisamente, non doveva rientrare tra i suoi
gusti.
«Insomma, Ortensia, non
puoi farti prendere sempre da queste crisi di nervi!»
«Mamma,
lo sai che non può sentirti» replicò
seccatamente
Tiberio.
«Ma
è mai possibile che questo psicologo ancora non abbia capito
come aiutarla?»
«Non
sono cose semplici, ci vuole del tempo».
Madama Claudia si aggiustò la gonna con un gesto di stizza,
come
a dire che, secondo lei, la questione dello psicologo era tutta una
gran pagliacciata.
«Cosa è successo?» chiese il signor
Giancarlo, sbucando da dietro un cespuglio di rododendri.
«Ah, eccoti! Si può sapere dov’eri?» lo rimbrottò
la moglie, inviperita.
«Ad innaffiare la siepe. I giardinieri non hanno finito» si difese placidamente
l’uomo. «Oh, Marcello, ben tornato!»
«Buon
pomeriggio a tutti»
salutò il
giovane, avvicinandosi alla scena del crimine. «Stavolta
chi è l’assassino?»
Il padre scoppiò in una sana risata, mentre Madama Claudia e
Tiberio gli rivolsero sguardi taglienti.
«Saresti
dovuto essere qui un’ora fa!» gli sbraitò
contro la madre. «Che
fine avevi fatto?»
«Sono
tornato a casa il prima possibile».
La donna stava per aggiungere qualcos’altro ma, proprio
allora,
la bambina cominciò a piangere e Ortensia riprese i sensi.
«Era
ora!»
sbottò Madama Claudia, scansando prepotentemente la
cameriera
che stava sventolando la nuora. «Be’, cosa
fai
ancora qui? Torna alle tue mansioni, non servi più!»
La ragazza, paonazza, balbettò qualcosa, fece una maldestra
riverenza e si eclissò alla velocità della luce.
«Ortensia,
come stai?»
chiese Tiberio, aiutando
la moglie a rialzarsi.
«Oh, tramortita... Mi sento tramortita...» annunciò, con
tono teatralmente piagnucoloso. «Ti prego, ho bisogno del
dottor van der Meer, portamici subito!»
L’uomo guardò perplesso la moglie, ma
annuì.
«Mamma,
noi...»
«Ho capito, ho
capito, andate! Anzi, sparite dalla mia vista, prima che venga a me una
crisi di nervi!»
Marcello guardò andare via la cognata che, appoggiata al
braccio
del marito, aveva un’espressione fin troppo contrita. Il
giovane
increspò le labbra: non l’avrebbe mai ammesso, ma
aveva i
suoi sospetti sul perché Ortensia svenisse, puntualmente,
quando
veniva a trovare la suocera. Guarda caso, quando andava a trovare sua
madre,
non accadeva niente di tutto questo.
«Che
smidollata!» commentò Madama Claudia. «E che madre
snaturata! Ha lasciato, ancora una volta, qui sua figlia!»
In quel momento, nonna e nipote sembrava stessero facendo a gara a chi
potesse urlare
più forte: emettevano strilli talmente acuti, che presto
sarebbero stati captati dai ricevitori degli ultrasuoni.
La Matrona, allora, si avvicinò alla cameriera che teneva la
piccola,
gliela strappò di mano e la congedò.
«Ortensia
sta poco bene, ha lasciato qui la figlia perché sa che con
la
nonna non le può capitare nulla di male»
osservò il
signor Giancarlo.
A quest’osservazione, qualsiasi nonna sarebbe stata contenta,
anche se Madama Claudia era tutto fuorché una
nonna propriamente detta. Si girò verso il marito e gli
inveì contro: «Io?
Io sono scossa almeno quanto Ortensia! Non sono in grado di provvedere
ad alcuno! Piuttosto, tu e tuo figlio che avete fatto? Niente! Adesso
è giusto che vi diate da fare anche voi!»
La donna appioppò
malamente la bambina al figlio minore, ammonendolo: «Prenditi
cura tu di Claudia finché non tornano! Io ho bisogno di
andare a riposare la testa. Credo che andrò al tea party di
Clelia».
Si sistemò i capelli con fare impettito e uscì di
scena.
La pargoletta, improvvisamente, smise di piangere: era come se gradisse
particolarmente essere tra le braccia dello zio. Marcello
guardò
la nipotina e poi il padre, infine sospirò: «Almeno
si è calmata».
«Sembra
proprio in procinto di addormentarsi»
commentò
il signor Giancarlo, con fare rassicurante. «Se continua
così, puoi anche tenerla con te sotto al gazebo, nella sua
culletta. Così puoi sbrigare la corrispondenza,
mentre io finisco di innaffiare la siepe».
«Mi
sembra un’ottima idea»
assentì
il giovane. Chiese ad una cameriera di portargli alcuni fascicoli e,
poi, scese le scale, per sistemarsi sotto al gazebo. Poggiò
delicatamente Claudia nella
culla e la coprì con la copertina, dopo di che si
posizionò in modo da riparare la bambina da eventuali
spifferi
di vento, perché, nonostante fosse una bella giornata, era
pur sempre ottobre.
Una volta che gli furono portati i documenti che aveva
chiesto, si
accomodò sulla poltrona
di vimini, accavallando una gamba sull’altra
e immergendosi
nella lettura, mentre si estraniava dal resto del mondo.
***
Nel vedere il nero ed imponente cancello di Villa Aurelia, Beatrice si
accorse che la sua idea non era poi così brillante. Ogni
passo
che
l’avvicinava alla residenza dei Tornatore le faceva venire
in
mente almeno dieci buoni motivi per i quali avrebbe dovuto fare
dietro-front e tornare nella sua squallida stanzetta. Aveva appena
deciso di allontanarsi il prima possibile, quando si sentì
chiamare: «Buonasera, signorina, possiamo fare qualcosa per
lei?»
Beatrice si voltò, notando che il cancelletto pedonale era
stato aperto da un uomo che ora la fissava bonariamente.
«L’ho vista titubante. Stava cercando noi?» proseguì con
estrema tranquillità il signore.
La fanciulla si guardò intorno: non c’era nessun
altro nei
paraggi, di conseguenza non potevano esserci fraintendimenti sul fatto
che quelle parole fossero indirizzate proprio a lei.
«Buonasera» rispose lei con una
vocina flebile. «Io... E
vorrei solo parlare un attimino con Marcello».
«Oh,
bene, appena rincasato! È fortunata ad essere arrivata
ora».
«Sì,
ecco, devo restituirgli una cosa
che m’ha prestato, un paio di settimane fa».
«Allora venga, signorina, la condurrò io da
Marcello.
Come si chiama?»
Nell’osservare l’uomo, la fanciulla si rese conto
che aveva gli stessi, rassicuranti, occhi verdi del giovane.
Probabilmente
doveva essere suo padre.
«Beatrice».
«Che
bel nome, come la Beatrice di Dante!»
esclamò il signor Giancarlo, entusiasta. «Venga,
signorina, per di qua».
La fanciulla venne condotta in quello che, a suo parere, era uno
splendido giardino, perfettamente curato. Passò davanti alle
fontane di pietra, gorgoglianti d’acqua, ai viali di ciottoli
e ghiaia,
alle aiuole profumate: le sembrava un’oasi di pace, dove
avrebbe potuto
trascorrere dei momenti di pura tranquillità.
“Con Marcello” aggiunse il suo inconscio, facendola
lievemente arrossire. In fondo, quella era casa del giovane, era il suo
giardino, non era mica così strano, immaginarsi a
passeggiare
lì con lui.
Il signor Giancarlo si fermò all’improvviso,
indicandole un gazebo posto sotto ad un tasso.
«Siamo quasi arrivati, come vedi, Marcello è
lì».
Beatrice seguì con lo sguardo la direzione indicatale e,
finalmente, lo vide: il ragazzo era così preso dalla lettura
di
alcuni fogli, che non si era reso conto di essere osservato da ben due
persone. Leggeva e sottolineava, girava i fogli, come se fosse in cerca
di qualche nozione in particolare, annuiva o aggrottava la fronte.
La giovane sorrise e, seguendo l’uomo, si avvicinò.
***
Marcello
sbuffò sonoramente, seccato dal resoconto sconclusionato che
si
era ritrovato tra le mani: di sicuro, chi l’aveva scritto, o
era dalla
parte di Carter (e quindi ci teneva a non far capire cosa stesse
facendo esattamente il magnate, rendendo il testo incomprensibile),
oppure era, semplicemente, analfabeta; dopo qualche minuto, il biondo
pensò che
forse
erano vere entrambe le ipotesi.
Stava giusto per strappare tutto quell’insieme di
insulsaggini, quando suo padre lo chiamò.
«Guarda chi è venuta a trovarti!»
Alzò lo sguardo e si trovò quasi faccia a faccia
con la fanciulla.
«Beatrice!» esclamò,
sbigottito. «Come...
Cosa ci fai qui?»
«Non
è un modo molto carino di accogliere la nostra
ospite!»
lo riprese bonariamente il signor Giancarlo. «Falla
accomodare
accanto a te. Manderò Ottavia o Annetta per portarvi qualcosa».
Il giovane, che era rimasto come pietrificato, annuì
distrattamente e poi si rivolse alla ragazza: «Sì...
ecco... ehm, volevo dire, accomodati».
Lei sorrise e, senza
farselo ripetere due volte, si accomodò sulla poltroncina di
vimini accanto a lui.
«Magnifico»
commentò l’uomo, compiaciuto. «Vado
ad informare la governante. Con permesso, ragazzi miei».
Marcello osservò il padre che si allontanava, quindi si
accomodò a sua volta.
«Il vostro giardino
è meraviglioso» esordì
Beatrice, con ammirazione.
«Mio padre vi dedica molto tempo ed energie. È lui
stesso che dirige i giardinieri» spiegò il
giovane.
Seguirono alcuni istanti di imbarazzato silenzio, durante i quali si
sentì solo il cinguettare degli uccelli.
«Non l’è
stato difficile trovarti» cominciò la ragazza,
incerta. «Sembra che qui
intorno tutti sappiano dove abiti».
«Sì,
è un quartiere di pettegoli»
commentò
Marcello, sprezzante.
«Credo di doverli
ringraziare, però. Son venuta per ridarti questo».
La fanciulla aprì la sua borsa e ne cacciò fuori
il soprabito.
«Ah,
il mio cappotto. Grazie»
rispose il giovane, prendendo l’indumento. «Sarei
dovuto passare
io ma, conoscendo la situazione che c’è a casa di
tua
zia, non
sapevo quando fosse il momento giusto per farlo».
«Se
m’avessi telefonato, te l’avrei detto».
«Hai
ragione, mi ero ripromesso di farlo questo mercoledì.
Purtroppo,
Gerardo ed io abbiamo avuto molto da fare la settimana dopo che ci
siamo visti».
«E
quella dopo?»
«Quella dopo? Che intendi?»
Beatrice non rispose, limitandosi a corrugare un poco la
fronte.
«Vuoi
dire che sono passate due
settimane da quando ci siamo visti l’ultima volta?»
domandò Marcello, rendendosi conto della sua scarsa
cognizione del tempo.
«Eh, già.
Ma lo hai detto tu, hai avuto da ffare.
Magari non hai sentito il bisogno di farti sentire»
commentò la giovane, con un tono che aveva un’eco
più triste che arrabbiata.
Il biondo avvertì le guance diventare più calde,
consapevole della gaffe appena fatta. Aveva pensato molto spesso a lei
nelle settimane passate, eppure si era lasciato lo stesso
assorbire completamente dal lavoro.
Si rimproverò, per la scarsa capacità di
gestire
anche gli aspetti della sua vita che non fossero affari,
consapevole del fatto che, prima d’ora, non aveva mai avuto
modo di
interagire in maniera così diretta con una ragazza. A parte
Vittoria, ovviamente.
«Io... mi...»
iniziò lui, senza sapere bene come continuare.
«E
lei chi è?»
domandò all’improvviso Beatrice, indicando la culla
dietro a Marcello.
«Ah... Sì. Lei è mia nipote Claudia, la
figlia di mio fratello».
La ragazza si alzò, avvicinandosi alla bambina.
«Oh, com’è
carina
questa piccina! Biondina
come te, ti somiglia!» disse, accarezzandole una
guancina con l’indice. «Quanto
ha?»
«Più
che assomigliare a me, è la copia in miniatura della nonna.
Ha cinque mesi».
«Guarda
come l’è
tranquilla».
«Mentre
dorme, sì. Quando è sveglia, un po’
meno»
commentò il ragazzo, incrociando le braccia contro al petto.
«Come mai
l’han lasciata
sotto la tu’
custodia?»
«Mia
cognata ha avuto una crisi di nervi, o qualcosa di simile».
Beatrice tornò
a guardare Claudia, la quale, nel sonno, le prese il dito con la manina
e lo strinse.
«Oh!»
esclamò la ragazza, intenerita.
«Quando son
piccini sono così
adorabili. Spero di averne anch’io
uno, un giorno».
In quello che aveva detto la fanciulla, non c’era nulla di
male,
soprattutto se detto con la sua innocenza, ciononostante, Marcello si
ritrovò inspiegabilmente ad avvampare, colto da
un’improvvisa
inquietudine.
Per fortuna, alle loro spalle, giunse Ottavia, la bruna e massiccia
governante, con un vassoio carico di dolci, e questo
richiamò
l’attenzione dei due giovani. Congedata la donna, il ragazzo
fece
riaccomodare Beatrice e la invitò a servirsi, mentre
anche lui
prendeva posto, sperando che lei non si fosse resa conto del suo
repentino, quanto ingiustificato, imbarazzo.
«Hanno
un aspetto magnifico!»
disse la fanciulla,
servendosi un bignè al cioccolato.
«Sì, è vero. Li fa tutti Ottavia»
affermò il giovane, distrattamente. In quel momento, stava
pensando alla pessima figura che aveva fatto e stava cercando un modo
per porvi rimedio; alla fine, capì che, forse,
l’unico possibile era dire la
verità.
«Beatrice,
mi dispiace di non averti chiamato, non l’ho fatto apposta»
iniziò, titubante. «Pensa
che
ho perfino prenotato la visita alla Cappella Sistina e
mi sono
dimenticato di dirtelo» ammise il biondo, con una punta di
imbarazzo.
«Oh,
Marcello,
sei incredibile!»
sospirò Beatrice, ma, in realtà, era divertita. «Dai,
ti perdono perché
c’hai messo
la buona volontà. Quando dovremmo andare?»
«Il ventuno dicembre prossimo».
«Ah. È lontano come giorno».
«Vabbè,
mica dobbiamo aspettare allora per rivederci» disse il
giovane, senza pensarci troppo.
Gli occhi di Beatrice si
illuminarono.
«Ah,
a dire il vero, anch’io
mi stavo dimenticando
di dirti una cosa:
ho
incontrato la
Vittoria!».
«Vittoria?»
«Al
mercato.
M’ha invitata ad una mostra, assieme a mia cugina, anche se
l’avrei
preferito che
non ci fosse»
disse la ragazza,
sbuffando. «Tu ci sarai?»
«Ovvio, Vittoria è la mia più cara amica»
rispose Marcello, risoluto.
Beatrice lo fissò attentamente, come se volesse essere
sicura che fosse sincero con lei, poi disse: «Ed
è anche una bellissima donna. Ho saputo che ha molti corteggiatori».
«Che li abbia
è innegabile,» convenne Tornatore, «tuttavia, io non credo di
poterla giudicare sotto quel profilo».
«Come mai?»
«Perché,
per me, è come una sorella».
Lei parve sorpresa dalla risposta e anche un po’
sollevata:
se prima aveva irrigidito la schiena, ora si stava rilassando,
appoggiandosi allo schienale della poltroncina; e, addirittura, si
servì un altro pasticcino. Marcello inarcò un
sopracciglio: chissà perché si era inquietata
così
tanto nel parlare della sua amica. Se Beatrice avesse saputo che, se si
era ricordato di portarle dei fiori quando si erano visti, lo doveva
solo ai consigli di Vittoria...
Improvvisamente, gli tornò alla mente il libro acquistato in
Via della Conciliazione.
«Accidenti, mi stavo dimenticando pure... Ascolta, ho una
cosa per te. Se mi aspetti un attimo, vado a prenderla.
Potresti dare un’occhiata a Claudia, nel frattempo?»
La ragazza, rimase un po’ perplessa ma annuì e
lui, preso il cappotto, si diresse velocemente verso la villa.
Fu di ritorno poco dopo, con in mano un pacchetto avvolto in
carta azzurra.
«Questo
è per te» disse, porgendolo a Beatrice.
«Cos’è?»
«Aprilo e vedrai».
Una volta che lo ebbe in mano, cominciò a scartarlo
pian piano, finché non le fu rivelato il contenuto.
«Un
libro su Caravaggio!
Io... Io...».
La ragazza lo guardò quasi commossa, poi si alzò
e gli diede un rapido, ma
intenso, abbraccio. Nel distaccarsi da lui, aggiunse: «Non
so come ringraziarti, Marcello».
«Non serve,
l’importante è che ti sia piaciuto»
rispose lui, sorprendendosi a crogiolare per quel sorriso spontaneo.
Non gli era mai successo di sentirsi così al cospetto di una
ragazza, forse, perché non si era mai sprecato a sentire
cosa avessero da dirgli le sue ammiratrici. O, forse, perché
nessuna di loro aveva dimostrato di possedere l’aura
serafica di Beatrice.
Un vento leggero cominciò a spirare, come a volergli dire
qualcosa che, per il momento, non riusciva a capire; sembrava che ne
avesse afferrato il senso, per poi dimenticarlo subito dopo. Per quanto
spirasse più forte, sempre il significato del suo soffio
gli
sfuggiva.
Ma il Vento dell’Ovest non era un tipo da arrendersi subito
e,
se
voi l’aveste sentito, avreste facilmente intuito queste
ultime
parole: se ora non hai
compreso, tranquillo, tornerò per ribadirlo quando potrai
capire di più.
***
Era
da poco sopraggiunto il crepuscolo e già, dalle taverne dei
rioni trasteverini, proveniva il confuso vociare di uomini sfaccendati,
decisamente brilli. Guido Tolomei imboccò una viuzza e,
giunto
davanti
alla taverna dall’aspetto peggiore, si guardò
intorno con
fare
circospetto. Dopo essersi convinto di non essere stato seguito,
entrò all’interno, ritrovandosi in un ambiente
cupo e opprimente, saturo dell’odore del fumo e del vino.
L’oste, un uomo corpulento con un folto paio di baffoni,
smise di
lucidare un bicchiere con uno straccio lercio e gli fece cenno con la
testa,
indicando il tavolo posto più in fondo al locale. Il giovane
ricambiò il cenno e si avviò, facendo attenzione
a non
urtare nessuno degli ubriaconi che ridevano sguaiatamente, agitandosi
sulle sedie: l’ultima cosa che voleva, era gettarsi in
una
rissa
tra brutti ceffi.
«Tolomei, sei in ritardo» lo apostrofò
Navarra, mandando giù un generoso sorso di vino.
«Ho
fatto quel che si
è potuto. Ho avuto molto daffare»
dichiarò in un sussurro il giovane, accomodandosi su una
sedia sgangherata.
«La
prossima volta, di’ alla tua biondina che la porterai a fare
un giro dopo
che avrai discusso con me».
Guido deglutì.
«Come fai a
sapere...»
«Che
era bionda? Che l’hai portata al Caffè Greco,
anche se non te lo puoi
permettere? Io so tutto di te. Ci tengo ai miei debitori, non voglio
che accada loro nulla, non prima che abbiano saldato con me i loro
debiti, ovviamente...»
L’oste si avvicinò, portando un bicchiere e
un’altra
brocca. Il ragazzo, augurandosi che non fosse lo stesso bicchiere che
stava pulendo prima,
si versò un po’ di vino: aveva bisogno di
bere, perché si sentiva
la bocca
incredibilmente arida.
«Sono
stato a trovare tua
sorella, nel pomeriggio. Tua zia mi ha detto che non c’era.
O,
magari, si è rifiutata di vedermi, ancora una
volta»
insinuò l’energumeno, scrutando Guido oltre il
bordo del proprio bicchiere.
«La
zia non ha alcun
interesse ad assecondare
la Beatrice: se
ti ha detto che la
mi’ sorella non era in casa, non era in
casa» si difese il giovane. «Tu sa’
benissimo che
non vede l’ora che
lasciamo entrambi la
villa».
Navarra alzò una mano per zittirlo.
«Io
sono paziente, Tolomei, molto paziente. Non vorrei essere
messo a dura prova: Beatrice è molto bella, ma non
è
l’unica ragazza degna delle mie attenzioni».
«La Beatrice ha quel
caratterino
indipendente...»
«Ha un carattere
focoso: è anche per questo che ho scelto lei, come
moglie. Tuttavia, se non fai qualcosa per velocizzare queste nozze, due
terzi dei tuoi debiti non verranno mai saldati».
Qualcuno seduto poco distante rise forte, forse aveva vinto
qualcosa giocando con i dadi, e fu quello stimolo sonoro a ridestare
completamente Guido, aiutandolo a comprendere ciò che aveva
appena udito.
«Solo
due terzi? Si era detto
che non ti
avrei dovuto più una lira!»
«Se
tua sorella fosse più gentile con me, potrei anche darti di
più» spiegò Navarra, con una calma
quasi
inquietante.
«C’è
anche la villa dell’Isola d’Elba, l’è
intestata alla
Beatrice»
affermò il ragazzo, sentendosi improvvisamente perso.
«Dopo
che
sarà la
tu’ moglie, potrai disporne come
vorrai».
«Ah,
già c’è anche la vostra villa
in Toscana. Mi sono
giunte voci che gli uliveti non producono più come prima».
«In
effetti è così.
Tuttavia, io credo
che sia perché
non c’è
più un padrone che
segue il lavoro dei contadini;
que’ bifolchi,
senza
ordini, si stanno lasciando troppo andare alla nullafacenza».
Conrado de Navarra si sbracò sulla sedia, congiunse le punte
delle
dita e un ghigno mefistofelico sì delineò
istantaneamente
sul suo volto rubicondo.
«Andrò
a valutare di persona, Tolomei, vedremo se quella baracca vale davvero
quanto dici. Nel frattempo, vedi di convincere Beatrice ad uscire con
me, come lo farai, però, non mi interessa. Altrimenti,
dovrai
escogitare un modo per trovare tutti i soldi che mi devi. E alla
svelta».
Guido, mandando giù la brodaglia disgustosa che gli
era
stata servita, osservò il suo interlocutore e
avvertì il
sudore
imperlargli la fronte: la situazione stava prendendo una piega
inaspettata, si era creduto furbo, ma Navarra lo era stato
più
di lui. Lentamente, si rese conto dell’effettivo guaio nel
quale
si era cacciato e del fatto che avesse trascinato nel fango anche sua
sorella, condannandola ad una vita infelice. Fu quello il momento in
cui prese coscienza di un’altra verità: se
Beatrice non
l’avesse perdonato, non sarebbe stato
capace di
biasimarla.
***
[N.d.A]
1. Caffè del
Borgo: è un luogo puramente inventato, nessun
riferimento ad attività realmente esistenti.
2. British Petroleum:
una
delle maggiori aziende energetiche mondiali, oggi conosciuta come BP;
i riferimenti agli eventi narrati sono solo fini alla trama, seppur
è vero che la British Petroleoum acquistò davvero
la
Britoil nel 1987.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la
sua gentile collaborazione e disponibilità.
Ringazio anche la mia Anto
per aver letto, ancora una volta, in anteprima.
Come sempre, la grafica del titolo è opera mia.
***
Salve a tutti!
Come
prima cosa, mi sembra giusto scusarmi con tutti voi, lettori, per
essere tornata a scrivere questo racconto dopo così tanto
tempo. In
quest’ultimo anno mi è successo davvero di tutto e
di
più, tuttavia ora posso affermare con una certa sicurezza
che
gli aggionamenti riprenderanno con ritmo abbastanza costante
(dovrebbe esserci una nuova pubblicazione all’incirca ogni venti
giorni. So che non è molto, ma è quanto mi
è
concesso dai miei tempi da studentessa; inoltre, scrivendo capitoli
abbastanza lunghi mi sembra un buon compromesso, no?).
A dimostrazione della mia buona volontà, vi lascio il link
al mio blog
dove
troverete uno spoiler del capitolo quarto e un sondaggio (chiedo quale
orario vi risulta più comodo per i nuovi aggiornamenti; se
vi va di partecipare, non dovete fare altro che cliccare sull’opzione che sceglierete).
Ringrazio chi legge, chi ha messo la storia in uno dei suoi elenchi,
chi commenta, chi mi darà il suo
parere in
seguito e chi ha avuto tanta, tanta pazienza nell’attendere
che
questo racconto procedesse.
Ringrazio anche i nuovi lettori, che si sono lasciati incuriosire ed
hanno scoperto la storia solo ora, in occasione della sua ripresa.
Spero che mi farete sapere cosa ne pensate, anche poche parole
posso
essere un utile e prezioso feedback all’autore.
Vi do appuntamento alla prossima (questa volta non dovrete aspettare il
disgelo post era delle glaciazioni, ve lo prometto)!
Saluti,
Halley
S. C.
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