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Quindici Gennaio.
Mancavano nove giorni alla partenza.
Ventiquattro Gennaio, ore 19:30: arrivo della macchina.
Ventiquattro Gennaio, ore 22:30: partenza dall’aeroporto di
Malpensa.
Venticinque Gennaio, ore 13:05: arrivo previsto all’aeroporto
internazionale di Narita, Tokyo.
Duecentosedici ore, quasi tredicimila minuti.
Dicono che se si respira piano, lentamente, il tempo rallenti assieme
al battito del cuore.
Avevo provato, fino a quasi soffocare.
Avevo frenato il respiro al punto che facesse male.
Avevo controllato le lancette ed il loro inesorabile avanzare.
Avevo rotto l’orologio, staccandolo dal muro e strappando
quelle snervanti barrette nere.
Ace non aveva detto nulla. Io non avevo detto nulla.
Mi ero alzata, avevo preso e spezzato a metà le lancette.
Ora sul muro restavano solo i numeri ed un punto centrale. Fermo.
Immobile. Non come il tempo.
Dicono che senza le tenebre, le luci non potrebbero brillare.
Era vero, infondo.
Trovavo ingiusto però che le luci, le fiammelle, quelle
lucine sperdute nel buio totale, dovessero lottare tanto per rimanere
luminose, per poter splendere, per poter vivere, anzi, sopravvivere a
quel mare di oscurità.
Ace aveva acceso una torcia meravigliosa accanto a me, avevamo dato il
massimo entrambi, ma non era bastato.
Alla fine il nero vince, il buio incombe, le ombre avanzano, il fuoco
si spegne.
Dicono che la speranza sia l’ultima a morire.
Se avessi potuto fare una visita di controllo alla mia, avrei trovato
un malato terminale oggi, come il mese scorso e quello prima ancora. La
speranza era l’ultima a morire, ma prima o poi
anch’essa, inevitabilmente, arrivava alla fine.
Il telefono non aveva più squillato.
L’annuncio ufficiale era stato dato in TV.
Mia madre aveva chiamato otto volte il mio cellulare, poi mi aveva
chiesto solo un sms ogni sera, per farle sapere almeno che
c’ero ancora.
Mi ero impegnata a farlo, per lei e per mantenere una vaga
consapevolezza dei giorni che passavano.
Avevo calcolato dieci volte, o forse più, le tempistiche per
il viaggio di non ritorno.
Google ormai mi dava come ricerca suggerita le offerte di volo per il
Giappone.
Non mi facevo mai vedere da Ace, impegnato a non contare i giorni e a
viverli al massimo, come se non fosse un countdown inesorabile verso la
fine.
Io lo assecondavo, se lui era felice così, lo sarei stata
anche io. Per lui.
Sorridevo, come avevo imparato a fare anni prima. Fingevo e stavolta
tutti se ne accorgevano, ma mi lasciavano fingere.
Cosa fare se una persona rotta dentro, tenta di ricomporsi
pubblicamente con un sorriso? Fingere di crederle, che stia bene, che
non abbia bisogno della produzione annuale di attack e silicone per
tentare di ri-assemblarsi.
Io lo facevo per Ace.
Ace lo faceva per me.
Tutti lo facevano per noi.
I giornalisti assediavano la casa e i paparazzi tentavano di infilarsi
in ogni foro della siepe. Vampiri assetati di scoop e notizie, che si
nutrivano del dolore altrui. Vampiri, sì, ma privi di quel
fascino e di quell'eleganza secolare che avvolgeva il mito, solamente
delle larve succhia notizie prive di ritegno.
Speravo che almeno, di notte, non riuscissero a prendere sonno. Almeno.
Minimo. Per giustizia divina un girone dell’inferno doveva
essere designato a loro.
Sbuffai passando accanto al pesante tendaggio damascato che avevamo
montato in salotto, per coprire tutte le vetrate. Assediati da vampiri
e costretti a vivere come vampiri. Bell'ironia.
Avevo sempre pensato che la sfortuna ci vedesse benissimo e che il
simpatico creatore dei piani dell'universo avesse un umorismo di merda,
peggio di quello inglese, ma stava superando se stesso con la mia vita,
davvero.
Sì, mea culpa: sapevo che sarebbe finita.
Nulla è per sempre.
Tranne Beautiful.
Eppure avevo il presentimento che se mi fossi messa con passione a
seguire tutte le infinite puntate, fino ad interessarmi alla trama
inconsistente, sarebbe finito pure quello. Potrei provare, tanto per
fare un servizio all'umanità.
Ma me ne fregava davvero qualcosa dell’umanità?
No. Decisamente non me ne fregava un cazzo. Il mio mondo era solo una
persona.
Ero innamorata e ricambiata da uno dei personaggi più amati
del regno Otaku. Stavo col “principe azzurro” che
tutte sognavano (solo che il mio era più figo, non indossava
calzamaglia e non aveva un cavallo bianco). Bello da mozzare il fiato,
coraggioso, in grado di farmi sentire protetta e al sicuro solo stretta
tra le sue braccia, rannicchiata sul suo petto.
Ma la vita non è un film e l'amore non è mai per
sempre.
Sfiorai il tessuto ruvido dei tendoni con le dita, pensando a tutto e a
niente. Ace era in garage ad armeggiare con la moto, nel pomeriggio
saremmo scappati da quella tana di velluto per prendere un po' d'aria.
Avevamo avvisato le guardie al cancello e organizzato un piano
diabolico per allontanare tutti dall’accesso principale:
niente funziona meglio di una soffiata sbagliata.
Entro un’ora tutti si sarebbero fiondati sul retro,
fotografando a tutto spiano quella santa ragazza della nostra
domestica, che si era offerta di farci da palo per qualche minuto,
visto che era simile a me di costituzione.
Noi? Noi saremmo usciti dal cancello principale ovviamente.
Non avevo nemmeno voglia di uscire, nella mia coperta di apatia mi
sentivo al sicuro, protetta e irraggiungibile dal dolore.
Mera illusione, ma mi era rimasta solamente quella.
Come ci si protegge da qualcosa che ferisce da dentro? Come si sopporta
di sentirsi sbriciolare il cuore? Come si sopravvive a una ferita
mortale invisibile, che nessun medico potrebbe mai suturare?
Sarei morta, straziata dagli artigli di dolore di quella bestia del
destino. Eppure ne era valsa la pena, per Ace ne sarebbe sempre valsa
la pena.
Ogni secondo speso a pensarlo. Ogni giorno passato a sperare. Ogni
settimana di conti alla rovescia.
Ogni mese di batticuore, ogni battito perso, ogni ricordo e ogni
brivido.
Ormai respiravo Ace, mi era entrato nel cuore con una
facilità sconvolgente, schivando tutte le mie difese ed
allentando il nodo che avevo fatto su me stessa.
Mi aveva ridato il sorriso che avevo perso, il motivo per alzarmi al
mattino felice, sogni stupendi, ma più di ogni altra cosa mi
aveva donato una realtà migliore di ogni possibile fantasia.
Lo amavo.
Amavo il mio angelo. Il mio principe. Il mio pirata. Il mio mondo.
«Hey... Io sono quasi pronto con la moto...»
La sua voce mi carezzò come seta sulla pelle, facendomi
sussultare sia per lo spavento che per l'effetto che aveva sul mio
cuore. Ogni parola era una coccola fatta da un guanto di raso.
L’avrei ricordata per sempre, con quella freschezza e quella
profondità uniche. Come lo scroscio delle onde sugli scogli.
La sua voce era l’oceano.
Mi ricorderò di noi mentre gli anni passeranno, per sempre.
Come d'altronde mi sarei ricordata per sempre il suo viso, perfetto,
stellato dalle lentiggini.
Era il mio cielo.
Le sue braccia, che mi facevano sentire al sicuro e protetta, piene di
muscoli e con quel tatuaggio, così bello da baciare.
Erano il mio castello.
Il suo sorriso, luminoso come il più bello degli astri.
Era il mio Sole.
I suoi occhi, onice nera e fuoco rosso.
Erano le mie lune.
Mi avvicinai, senza accorgermi di camminare, con lo sguardo perso nel
suo viso perplesso. Alzai le braccia, cingendogli il collo, e posai le
mie labbra sulle sue.
La sua bocca, morbida e carnosa come un frutto maturo, era tutto quello
che mi serviva.
Lo baciai e basta, le parole non servivano. Mi strinse a se,
ignorò le lacrime che silenziose come ombre luccicanti mi
rigavano il viso, e mi baciò più forte.
Mi sciolsi e per qualche secondo non fummo vicini alla fine, ma
all'inizio.
Non prossimi all'addio, ma al buongiorno.
Non immersi nel dolore, ma felici di poter stare assieme.
Durò pochi secondi, ma bastarono.
Sentii il cuore ricomporsi, rigenerarsi, come spalmato di un balsamo
magico e potentissimo. Tornò a battere, tornò ad
essere felice, tornò ad essere innamorato.
Il cervello però vinceva sempre questo tipo di lotte e
rimise i pezzi di cuore al loro posto, ovvero in ordine sparso e
disordinato nel mio petto, convincendolo a fermarsi e a piantarla di
peggiorare la propria situazione, già critica.
L’encefalo è l'infermiera del nostro cuore, malato
inguaribile e perennemente convinto di essere invincibile. Povero cuore.
Era dura fingere, ma rimisi la mia maschera spensierata e iniziai la
recita quotidiana.
Un sorriso in superficie nasconde i segni di ogni cicatrice.
«Perfetto! Hai deciso dove andremo, oppure sarà
una fuga allo sbaraglio?» dissi allegra.
Teatro. Ecco qual’era la mia strada. Il teatro. Avevo
sbagliato tutto nella vita.
«Uhm… Buona la seconda direi, non fa molta
differenza dove andremo, mi basta allontanarmi da quegli avvoltoi. Da
non credere!»
«Benvenuto nel XXI secolo!»
Mi scostai dal pirata ed andai a cambiarmi. Era gennaio, non si poteva
uscire in moto senza svariati strati di vestiti pesanti. O meglio, le
persone normali non potevano, Ace indossava e avrebbe indossato
solamente jeans e felpa: i vantaggi di essere una stufa antropomorfa.
Una volta infilata la tuta e tutto l’armamentario antigelo
scesi in garage, salii sulla moto già accesa e mi strinsi ad
Ace per un secondo, prima di infilare il casco integrale e dare
l’OK alla ragazza che avrebbe finto di essere me.
Era una questione di secondi riuscire a svignarcela, avremmo potuto
fallire nonostante l’impegno di tutte le guardie.
La motocicletta tremò quando Ace diede gas, rombando a tutto
spiano.
La saracinesca si alzò e noi volammo verso il cancello,
apparentemente vuoto, fatta eccezione per la guardia che teneva aperto
il lato destro.
Ringraziai con la mano e feci il dito medio ai fotografi che urlando
insulti ed annaspando tentavano di raggiungerci dopo essere caduti
nell’inganno.
Se dovevo finire sui giornali, tanto valeva farlo per qualcosa di
valido.
Slittammo veloci tra le stradine e le curve che ormai sapevamo a
memoria, senza una meta precisa, per quanto ne sapevo.
Quasi mi addormentai durante il tragitto, ma visto che morire per un
colpo di sonno in moto non era tra le mie ambizioni maggiori, mi
sforzai di restare sveglia. Non volevo di certo finire in una puntata
di 1000 modi per morire! Mi piaceva guardare DMAX, non esserne
protagonista.
Ace si fermò davanti ad una casetta tutta rivestita di
mattoni di pietra, circondata da un piccolo muretto di mattoni e
svoltò nel vialetto.
Non avevo idea di dove fossimo, i pochi minuti in cui avevo chiuso gli
occhi mi avevano fatto perdere totalmente la cognizione
spaziotemporale. In quelle campagne era un attimo perdersi, ed io mi
ero persa.
Scendendo dalla moto mi accorsi che la “casetta”
era solo la facciata di un immenso complesso, probabilmente una vecchia
casa patronale ristrutturata ed adibita a… Boh. Ancora non
lo sapevo.
«Ace… Dove siamo?» chiesi dubbiosa.
«Avevamo bisogno di staccare un po’. Ho prenotato
una camera in questo hotel termale. Diavolo, non ne potevo
più di essere braccato come un animale da quegli
sciacalli.» mi rispose tranquillo, ma con un velo di rabbia.
I paparazzi e la partenza lo infastidivano più di quanto
desse mai a vedere.
«Senti capo, posso lasciare qui la moto?»
Gridò poi ad un ometto, vagamente simile a Gollum, che stava
venendo ad accoglierci.
«Sarebbe meglio portarla nel garage Signore, se qualcuno la
vedesse potrebbero capire che siete qui! Potremmo garantirvi
più tranquillità nascondendola.»
Gracchiò. Era chiaramente un incrocio tra Gollum e il
bidello di Hogwarts. Non avevo dubbi.
Ace annuì e spinse il veicolo dove gli veniva indicato,
mentre io litigavo con il cinturino del casco ed iniziavo a sudare
nella gabbia di lana e poliestere che indossavo, fantasticando sulle
origini mitologiche del custode/portinaio/padrone/quello che era.
La camera era enorme, lussuosa e puzzava di salasso economico.
Non chiesi quanto era costata, sarebbe stata una domanda vana e
lasciata senza risposta.
Sul letto erano ripiegate accuratamente delle vestaglie bianche, quasi
abbaglianti sul porpora delle lenzuola, e a terra erano poggiate delle
pantofole in morbidissima gomma piuma. Tutto firmato con un logo
d’orato che sicuramente era il nome dell’albergo a
diciotto stelle.
Non pensavo nemmeno che esistesse un posto del genere nelle vicinanze
di casa.
«Cosa dovremmo fare esattamente in questo posto?»
Domandai, circospetta.
Detestavo farmi massaggiare da sconosciuti e odiavo le docce fredde. La
sauna mi faceva svenire, a causa della mia pressione ballerina, ed
odiavo rinchiudermi in luoghi piccoli e chiusi. Inoltre non avevo la
benché minima intenzione di farmi spalmare addosso melma
verde o di farmi imbalsamare con della pellicola alimentare di dubbia
provenienza.
Ero pretenziosa? Forse.
Rompicoglioni? Hey, sono io, certo che sì!
Ace lo sapeva e rise.
«Stai tranquilla, ho prenotato solo per
l’idromassaggio e la piscina con l’acqua calda. Vai
a dare un’occhiata al bagno.» rispose con sguardo
furbo.
Quando un pirata alludeva, c’era solamente da preoccuparsi ed
il mio sopracciglio destro, che si era repentinamente sollevato, lo
sapeva bene.
Nonostante i dubbi mi mossi verso la porta di legno scuro, che
presumevo essere l’accesso al bagno, aspettandomi quasi che
un esercito di clown uscisse festoso da un momento all’altro.
Odiavo i clown. Li trovavo spaventosi, terrificanti, inutili e
soprattutto per nulla divertenti. Erano causa del 90% dei traumi
infantili a mio modesto parere. Inoltre non ero minimamente dubbiosa
verso le sorprese di Ace. Tantomeno risultavo paranoica. Chi? Io? Per
favore.
Entrai circospetta, pronta a scattare all’indietro per
qualche stupido scherzo, solo per confermare il mio non essere
paranoica. Quando ebbi una panoramica della stanza che mi ritrovavo
davanti, impiegai troppo tempo per mettere insieme i frammenti di
immagine che i miei occhi fornivano al cervello.
A volte fatichiamo a mettere a fuoco quello che ci sconvolge, sia in
positivo che in negativo. La nostra mente si protegge dagli shock
spezzettando le immagini e richiedendoci un grande sforzo per
assemblarle. In poche parole era un Ponzio Pilato moderno:
“Io me ne lavo le mani. Ti avevo avvisata che ci saresti
rimasta secca con sta percezione. Fanculizzati.”
Simpatica la nostra vocina interiore, no? Di un sarcasmo sconvolgente.
I colori tenui e caldi si riordinarono in forme dritte e moderne, come
tessere di un puzzle.
Il lavandino di pietra scolpita, alto e fondo, poggiato su una mensola
di legno scuro e lucido, con un mosaico di colori autunnali a fare da
sfondo.
La vasca, gigantesca, a cui si accedeva attraverso una breve scala di
legno e ardesia, ribolliva silenziosa e fumante. I poggia teste in
pelle nera, che trasmettevano comodità solo guardandoli, e
la doccia di cristallo trasparente, che regalava un angolo di privacy
grazie ad un muretto, sempre di ardesia.
L’aria era calda e densa, profumava di quiete e di rose, un
aroma delicato, non di quelli che causavano emicrania e giramenti di
testa.
Era una meraviglia, il tutto illuminato da svariati punti luce soffusi
e dagli abbaini velati da drappi antracite, che richiamavano il
divanetto su cui erano arrotolati un quantitativo inimmaginabile di
asciugamani, accompagnati da boccette e flaconi di ogni forma e
dimensione.
Chiusi la bocca, combattendo contro lo stupore e la forza di
gravità che aveva abbassato in modo imbarazzante la mia
mascella.
Le braccia del mio pirata mi cinsero la vita, delicate, come le sue
labbra appoggiate sul mio orecchio.
«Ti piace?» mormorò.
Io fui capace solamente di annuire, come un’idiota.
Lasciare me senza parole era una cosa degna di riconoscimenti
ufficiale, davvero. Logorroica e sempre con la risposta pronta come
ero, riuscire a farmi stare zitta senza coercizione risultava
ammirevole.
Ace ridacchiò, girandomi verso di lui e dandomi un bacio in
fronte.
«Finalmente riesco a farti una sorpresa! Non ci speravo
più ormai!»
Il tempo scivola come un fiume, senza freni e intangibile. La cosa
orribile era il nostro non poter fare nulla. Non possiamo sapere nulla
del nostro futuro, continuiamo a perdere treni e programmare la nostra
vita, ma per cosa? Domani potrebbe finire il mondo ed i nostri progetti
sarebbero andati in fumo. Speranze spezzate. Cumuli di sogni infranti.
Sembrava impossibile che dovesse finire tutto, ma quella che parlava
era già nostalgia in me. Avevo detto addio ad Ace nel
momento in cui mi ero lasciata andare all’amore, ma ora me ne
pentivo.
Non potevo vivere altri attimi del genere, fingendo.
Non potevo lasciarlo andare.
L’essere umano viene definito per natura egoista,
perché dovevo essere l’eccezione?
«Resta con me.» dissi tutto d’un fiato.
Mesi di silenzio. Milioni di pensieri mai detti. Preoccupazioni mai
affrontate. Paure mai rivelate. Speranze sepolte. Tutto in tre misere
parole. Tutto in una minuscola frase, in un sussurro.
L’avevo detto davvero, l’avevo detto davvero.
Mi portai le mani alla bocca, come per ricacciare indietro quelle
parole fuggite. Invano, perché ormai avevano raggiunto le
orecchie di Ace, oscurandone lo sguardo.
«Selene…» Mi chiamò, quasi
implorante.
Nome intero e tono di voce strascicato, era un modo come un altro per
dire “sai benissimo che non si può
fare!”.
Era il tono con cui i genitori ti dicono che un pony in giardino non ci
può stare, che non esistono i tappeti volanti e che puoi
passare pomeriggi interi a provarci, ma mai riuscirai a fare
un’onda energetica.
«Non dire nulla. Stai zitto. Fingi che non abbia detto
niente. Mi faccio una doccia e poi sarò a posto.»
Dichiarai, col gelo nella voce e la gola dolente.
Non avrei pianto. Non davanti a lui maledizione.
Non mi sarei scusata. Non per aver usato l’ultima carta a mia
disposizione.
Mi voltai, decisa ad andare a prendere la mia vestaglia e le pantofole,
ignorando quello che era appena accaduto e facendo vivere serenamente
ad Ace quella piccola vacanza inaspettata.
Mi lasciò passare, senza trattenermi e senza dire nulla.
Fece lo stesso quando ripassai davanti a lui con il corredo da bagno,
che poggiai sul divanetto.
Uscì chiudendo la porta senza dire una parola sulle lacrime
che mi rigavano il viso.
Non stavo singhiozzando. Ero silenziosa quanto meno. Un punto per me.
Mi spogliai ed entrai in quella grotta di cristallo, accendendo il
getto al massimo e soffocando gli spasmi della gola con
l’acqua.
Lavai via le lacrime ed iniziai a ricomporre la maschera di cera che
sorrideva sul mio volto, strato dopo strato.
Ero brava, isolavo tutto ciò che mi rendeva triste tra alte
mura di metallo, in modo che non potesse uscire, e annegavo con
pensieri felici il mio cervello, in modo che non si accorgesse che il
cuore stava morendo.
Ero stata egoista a chiedergli di restare, dopo tutto lui in questo
mondo non aveva nulla. Che avrebbe fatto restando qui? Il cassiere
all’Ipercoop? L’installatore di stufe a pellet? Lo
spazzacamino?
Decisamente non era il suo ideale di vita.
Non avevo diritto di chiedergli di restare, ma non avrei potuto vivere
col rimpianto di non averlo fatto.
Non sentii la porta del bagno aprirsi, capii che Ace era dietro di me
quando il suono dell’acqua cambiò,
perché il getto colpì il suo corpo.
Sospirai ad occhi chiusi, lasciando cadere la testa
all’indietro, dove trovò il petto caldo del
pirata. I nostri corpi ormai erano complementari, si completavano ed
adattavano perfettamente l’un l’altro, senza
bisogno di mille manovre per trovare la comodità necessaria.
Mi baciò il collo, lentamente, graffiandomi con il filo di
barba che era riuscito a spuntare in una nottata, e reagii a lui in
modo automatico, con la pelle d’oca e piccoli brividi ovunque.
Sorrisi, per davvero però, senza maschera.
Mi lasciai andare alle sensazioni, lasciai spegnere i pensieri e il
sistema nervoso periferico prese il sopravvento.
Percepivo le mani bollenti di Ace scorrere sul mio corpo, lente in modo
snervante, ma allo stesso tempo forti e maledettamente eccitanti.
I rivoli d’acqua si scontravano con le sue mani, rigando il
mio corpo di lucide scie.
Mi girai e lo baciai, graffiandogli i fianchi e il petto, mordendogli
il mento ed il collo, leccando le labbra e carezzando la sua lingua.
Una nuvola di vapore si alzò dalla sua schiena, quando le
fiamme crepitarono e il getto della doccia le spense. Sorrisi,
soddisfatta della reazione che riuscivo a provocare al mio fiammifero.
Fuoco e acqua, gli opposti finalmente assieme.
Non avremmo fatto sesso, non lì almeno, per esperienza
personale avevo capito che quando leggiamo o sentiamo raccontare di
epocali rapporti sessuali in doccia, al 99% erano menzogne.
Fare sesso in doccia era scomodo, si scivolava, si rischiava di rompere
il vetro o di annegare, se l’inclinazione del getto si
spostava nel momento sbagliato.
Il box doccia funzionava benissimo per i preliminari maschili, ma
già per quelli femminili diventava scomodo.
Spinsi il pirata contro alla parete di pietra fredda, facendolo
sussultare, per poi scendere lentamente con la lingua a delineare ogni
muscolo di quel suo petto perfettamente glabro.
Detestavo i peli su me stessa, non capivo perché avrei
dovuto trovarli eccitanti in un uomo. Restano peli. Fanno schifo e
basta. Tutte dicevano che la barba e il petto villoso rendevano
l’uomo attraente. Bah. De gustibus non disputandum est.
Quando mi inginocchiai davanti a lui, aveva già la testa
reclinata all’indietro, pronto per la promessa che i miei
baci in discesa gli avevano fatto.
Risi, prima di iniziare a fargli contrarre i pugni per non gridare.
In momenti simili avevo tra le mani (o tra le labbra, come preferite)
tutta la volontà del pirata. Lui non ragionava, quasi non
respirava, in quei momenti era semplicemente mio. Totalmente in balia
di ogni mio gesto.
Tra i fumi di vapore sbirciavo le sue espressioni, i suoi sforzi per
non fare troppo rumore e non dimenarsi, e mi piaceva da morire. Avevo
il controllo totale, e se in quel momento gli avessi chiesto di
vestirsi da unicorno rosa lui l’avrebbe fatto, pur di farmi
continuare.
Era una consapevolezza piacevole.
Però, non dovevo mai dimenticare che tipo di uomo avevo di
fronte, perché il momento più erotico del mondo
può essere spezzato dall’idiozia maschile. Ed io
avevo davanti un uomo stramaledettamente idiota.
Quando mi risollevai, lo trovai con un sorriso sornione e lo sguardo
perso, che poi si riempì di vita e irruppe in una risata.
Lo guardai perplessa, con l’acqua che gli gocciolava addosso
era difficile guardarlo solo in viso, ma fui forte e ci riuscii.
«Non ti arrabbiare Sely, ho pensato una cosa
scema…» disse, ancora ridendo, con gli occhi
luccicanti.
Non avevo dubbi che sarebbe stata una cosa più che scema, ma
aveva il classico sguardo da “ti prego dimmi che te lo posso
dire”, così gli feci segno di parlare.
Me ne pentii? Diamine sì.
«Ti ricordi i cartoni dei Pokémon? Ecco, ho
pensat-»
«No, cazzo stai zitto!» tentai, invano.
«Idropompa!»
«Coglione.» urlai, dandogli uno spintone mentre
rideva senza freni.
Uscii dal box doccia e afferrai l’accappatoio, combattuta tra
l’arrabbiarmi ed il ridere a crepapelle. Concentrata ad
evitare di scivolare rovinosamente sul pavimento bagnato da me medesima.
Optai per una dignitosa poker face da finta offesa. O forse lo ero
davvero?
Gli sbalzi ormonali e, conseguentemente, emotivi che mi sconvolgevano
erano imprevedibili. Talvolta, capitava che nemmeno io riuscissi a
capire perché mi arrabbiavo o perché scoppiavo in
lacrime apparentemente senza motivo.
Noi donne a volte siamo veramente impossibili da comprendere. Facciamo
fatica a capirci noi stesse, come possiamo pretendere che ci capiscano
gli uomini? Mediamente siamo fortunate se troviamo quello che ci
sopporta, che si adegua ai nostri cambiamenti repentini e alle nostre
paranoie.
Quando troviamo un uomo che riesce ad asciugarci le lacrime e a
disegnarci un sorriso, vale la pena tenerselo stretto. Qualsiasi cosa
il nostro corpo faccia per farlo allontanare.
Capita di arrabbiarsi con lui in maniera furente, senza spiragli di
pace all’orizzonte, ma poi quando la nebbia
dell’ira si dirada, capiamo che non era accaduto nulla di
tanto grave, nulla che meritasse una reazione tanto spropositata. Ecco,
queste sono le volte in cui ci vergogniamo quasi a chiedere scusa, ad
ammettere di essere saltuariamente delle pazze isteriche psicolabili,
con tendenze sociopatiche e omicide.
Donne. Che mondo contorto.
Beh, forse è questo il complimento più bello che
può farvi un uomo, no?
“Sei contorta”.
Noi ci offendiamo magari, o stiamo ore e ore, giorni e giorni a
rimuginare su cosa intendevano dire, su cosa fare, su come rispondere,
sul perché pagare il tasso di interesse sui prestiti
bancari, sul perché un attore come Banderas si sia ridotto
ad ingrassare con una gallina in un mulino.
No ok, forse non proprio tutto questo, però
all’incirca.
Non capiamo che è un complimento, perché vogliono
solo dirci che sanno che non ci capiranno mai, che non riusciranno mai
a comprenderci, che siamo un mondo a parte e che ci vogliono
esattamente così come siamo.
Ace mi aveva detto che era contento che io fossi tanto contorta,
perché avrebbe significato che mai sarei stata prevedibile e
mai sarei stata noiosa o l’avrei stancato.
È una promessa d’amore, forse.
Nascosta e velata, ma dopo tutto anche loro si devono adeguare a noi,
poveri uomini.
«Hey…» tentennò Ace alle mie
spalle, incerto su come trattarmi. Doveva scherzare e far finta di
nulla perché non me l’ero presa, oppure doveva
scusarsi perché mi ero offesa sul serio?
Poveri uomini. Povero il mio pirata.
«Rilassati, Ace Testa di Cazzo, non sono
arrabbiata!» ridacchiai.
Mi abbracciò da dietro, ancora nudo, ancora bagnato, ancora
stramaledettamente sexy.
Sospirai rilassando le spalle e lasciandomi baciare la guancia.
Le gocce fredde che scendevano dai suoi capelli mi bagnavano il viso,
scorrendo sul collo e sostando sulle clavicole, facendomi rabbrividire.
Il suo respiro caldo bilanciava i brividi, unendo quelli di piacere a
quelli per il freddo, in una combinazione sconvolgente.
Al diavolo tutto, avremmo fatto sesso sul piano di legno del lavandino,
nella vasca idromassaggio, tanto per esaurire i cliché, e
sul divanetto, sparpagliando per il pavimento quella miriade di inutili
boccette.
Saremmo stati bene.
Saremmo stati noi.
Saremmo stati insieme, ancora per un poco. Ancora una volta. Ancora
innamorati.
Il “per sempre” non esisteva. Ormai
l’avevo accettato.
Mi sarei goduta al massimo il nostro presente allora, senza pensare
all’inesistente futuro.
Solo al presente.
Solo a oggi.
Solo a ora.
Solo ad Ace.
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Hem... Ciao....
OkOk, scusate. Non ho aggiornato di nuovo per un sacco di tempo, mi
dispiace davvero! Mi si è ribaltata la vita ma ora ho
trovato il modo e l'ispirazione giusta quindi questa storia travagliata
avrà fine, ed in tempi utili!
non chiedetemi quanti capitoli, non lo so, a volte scrivendo ne esce
uno in più, a volte quelli che pensavo sarebbero stati due
si uniscono in uno solo, ma manca poco!
Grazie, anzi: GRAZIE!
Sì, a tutti voi che mi avete recensite, a quelli che da zero
hanno iniziato la storia di recente, a quelli che mi seguono da sempre,
a chi mi ha scritto in privato, motivandomi ad andare avanti, a chi ha
recensito senza rancore, a chi mi ha minacciata di morte e a chi ogni
tanto mi mandava un messaggio con allusioni alla storia!
Grazie a tutti, e anche se non lo leggerà mai grazie anche
al mio pirata personale, anche se più che ad Ace somiglia ad
un incrocio tra Franky e Trafalgar Law (se vogliamo onepiecizzare, se
mi concedete una narutizzazione è uguale a Suigetsu :3)!
Quindi boh, che dirvi?
Grazie per essere sempre qui a leggermi! Per le recensioni (non sono
mai brutte o sceme, fanno sempre e solo piacere!) e per sostenermi
sempre!
Al prossimo capitolo!!!
Ciaooo! :3
Immagini
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