CAPITOLO
DICIASSETTE - NUBI ALIENE, CORSE E CALCI
Penso
che tra me
e te
meglio un pugno che un addio,
come sai non ti ho mai detto una parola in più
(Infinitamente, E. Ramazzotti)
Ianto
si svegliò lentamente notando subito lo spazio
del letto vuoto accanto al suo. Jack doveva essere andato al lavoro
già da un
po’ e non lo aveva nemmeno svegliato. No, la cosa strana era
che lui non si
fosse svegliato, considerando il sonno leggero che lo
contraddistingueva.
Si girò a pancia all’aria scontrandosi con quella
specie di palla rotonda e
dura che lo faceva pesare il doppio del normale e che cominciava
davvero a
piacergli sempre meno; tuttavia vi pose lo stesso una mano sopra,
accarezzandola teneramente. In fondo c’era il loro bambino
lì dentro e lui non
vedeva l’ora che uscisse fuori. Ma avrebbe dovuto pazientare
ancora per un paio
di mesi.
Posò
i piedi per terra e a fatica si alzò dal letto,
sempre tenendo una mano sul pancione e l’altra dietro la
schiena. Diamine, era
difficile essere incinti! Come facevano le donne a voler partorire
anche più di
un bambino? Dopo quello, lui non aveva alcuna intenzione di farne un
altro e
semmai avessero deciso di dare un fratellino o una sorellina al
nascituro,
sarebbe toccato a Jack.
Ma che stava dicendo? Già sarebbe stato faticoso con un
bambino solo, figurarsi
con due. Lui non aveva ancora alcuna idea di che razza di padre sarebbe
stato,
non aveva nemmeno idea se sapesse come si cambiano i pannolini. Certo,
sapeva
che l’avrebbe amato, quel bambino, e che avrebbe cercato di
renderlo felice, ma
un conto era avere dei buoni propositi, un altro era saperli mettere in
pratica.
Troppe
paranoie, Ianto, vai a fare colazione.
“Dov’è
andato?”
“Da
quella parte!”
“Andiamo!”
Jack,
Gwen e Owen stavano correndo a perdifiato in
un parcheggio sotterraneo all’inseguimento di un uomo
posseduto da una strana
creatura aliena informe che somigliava a una scura nube fatta di gas.
Il Capitano estrasse la pistola quando se lo ritrovò a un
paio di metri di
distanza, con l’intenzione di ferirlo a una gamba per
rallentarlo, quando a un
tratto vide il tizio crollare in ginocchio, inarcare la schiena e
spalancare la
bocca verso il soffitto mentre la nube aliena abbandonava il suo corpo
e si
disperdeva attraverso le pareti. L’uomo poi cadde a terra
svenuto.
“Che
diavolo è successo?” chiese Gwen, sopraggiunta
in quel momento assieme a Owen.
“Owen,
controlla il tizio e assicurati che stia bene”,
ordinò Jack per poi premere un pulsante
sull’auricolare che teneva all’orecchio.
“Tosh, mi sai dire dov’è
andato?”
Si
udì un concitato ticchettio di tasti prima che la
voce della ragazza rispondesse all’orecchio di Jack.
“In superficie. Esattamente
sopra di voi”.
“Andiamo,
Gwen”.
L’ex
poliziotta alzò gli occhi al cielo stanca per
la corsa, ma seguì il cappotto svolazzante del Capitano
senza protestare.
Arrivati in superfice, i due si guardarono attorno. “Non lo
vedo, Tosh”.
“E’
nel vicolo alla vostra destra”.
Jack
si voltò nella direzione indicatagli e vide una
donna bionda che fissava la strada in maniera strana. Capì
subito che questa
volta l’alieno si era impossessato di lei. Quando si
voltò verso i due membri
del Torchwood, emise uno strano stridio con la bocca e
cominciò a correre.
“Ma
possibile che tutti gli alieni debbano sempre
correre?”
“Ringraziami
quando Rhys apprezzerà le tue gambe
toniche”.
Ianto
avrebbe desiderato fortemente trovarsi al
lavoro in quel momento ma Jack gli aveva categoricamente vietato di
farlo,
sebbene il gallese gli avesse assicurato che se ne sarebbe rimasto
buono buono
nella base senza dare la caccia ad alcun alieno e senza mettere nei
guai sé
stesso o il bambino. Non che poi al bambino potesse succedere qualcosa,
ma il
Capitano stranamente era diventato iperprotettivo e qualsiasi cosa gli
dicesse
non lo faceva cambiare idea. Lo voleva far soffrire, era questo il suo
piano
malefico. Perché Ianto odiava stare a casa, non riusciva mai
a trovare niente
che lo intrattenesse abbastanza. E uscire a fare la spesa o una
passeggiata al
parco non era un’idea saggia perché la gente lo
avrebbe guardato strano.
Così
si sedette sul divano con un pacco di biscotti
e prese il telefono, cercando il numero di sua sorella nella rubrica.
“Pronto?”
“Rhiannon?”
“Ianto?
Oh mio Dio! La seconda chiamata in una
settimana! Che ne hai fatto di mio fratello?”
Ianto
piegò le labbra in una smorfia infastidita.
“Spiritosa.
Mi stavo solo annoiando”.
“Jack
ti ha lasciato di nuovo a casa”.
“Sì
e lo odio per questo”.
“E
io invece penso che abbia fatto bene. Il tuo non
è uno dei lavori più sicuri”.
Il
ragazzo sospirò e si stese sul divano.
“Sì, ma
che cosa faccio io chiuso in casa?”
“Leggi
un libro, guardi la tv, fai il bucato, ti
rilassi”.
“La
tv è noiosa, il bucato l’ho fatto ieri, ho
finito i libri da leggere e credo di essere già abbastanza
rilassato”. Dopo
aver finito di parlare, in tono piuttosto scocciato, sentì
la sorella ridere
dall’altra parte della linea.
“Fratellino,
verrei volentieri a tenerti compagnia ma
Misha è a casa con la febbre”.
“Davvero?
Oh, spero non stia troppo male”.
“Ma
figurati! E’ contenta di poter rimanere a casa
da scuola”.
Toccò
a Ianto ridacchiare questa volta. “Come la
capisco”.
“Oh,
già. Anche tu eri sempre contento quando non
dovevi andare a scuola”.
“Sì,
ma solo finché c’era la mamma”.
Rhiannon
improvvisamente si zittì, conscia di aver
tirato fuori un argomento piuttosto spinoso. Era meglio virare su
un’altra
strada al più presto.
“Allora,
avete già scelto il nome?”
Jack
e Gwen si arrestarono appena in tempo prima di
andare a sbattere contro il muro di un vicolo cieco. La donna che
avevano
inseguito per tutto quel tempo li aveva superati di un bel
po’ e tentare di
raggiungerla era ormai inutile.
Restarono entrambi piegati in due, le mani poggiate sulle ginocchia,
cercando
di recuperare fiato.
“Ragazzi,
l’ho persa. I computer non la segnano
più”,
sentirono dire Tosh dall’auricolare.
“L’abbiamo
persa anche noi”, la informò Jack mentre
di sottecchi guardava Gwen per vedere se stava bene.
“Che
facciamo, Jack?”
“Torniamo
alla base e ci riorganizziamo”. Il
Capitano si sistemò il collare del cappotto e
girò sui tacchi per tornare sulla
strada dalla quale erano arrivati. “Owen?”
chiamò.
“Sì,
Jack?”
“Come
sta l’uomo?”
“Un
po’ confuso. Ho chiamato un’ambulanza
perché lo vengano
a prendere”.
“Si
ricorda qualcosa?”
“No,
nulla”.
“Bene,
ti veniamo a prendere”.
Jack
e Gwen arrivarono al Suv e vi salirono sopra;
il Capitano mise in moto e cominciò a guidare verso il
parcheggio in cui avevano
lasciato Owen. Poi virarono verso la baia.
Ianto
alla fine si era deciso ad andare alla base lo
stesso, giusto per fare un saluto e vedere come se la stavano cavando i
suoi
colleghi senza di lui e il suo caffè.
Quando varcò la soglia trovò solo Toshiko seduta
davanti al computer con una
mappa satellitare aperta sullo schermo.
“Ciao,
Tosh”.
“Ianto!”
esclamò la ragazza voltandosi verso di lui
sorpresa. “Pensavo che oggi non venissi”.
“Ho
cambiato idea”. Il ragazzo si appoggiò alla
scrivania
e si grattò la pancia, quando in quel momento vide
sopraggiungere Jack dagli
archivi. Questi lo guardò con un’occhiata storta.
“Tu che ci fai qui? Non ti
avevo detto di restare a casa?”
“Sì,
me lo avevi detto, ma fortunatamente godo
ancora del libero arbitrio”.
Il
Capitano stava per aggiungere altro ma venne
improvvisamente interrotto da Gwen. “Ianto! Grazie a Dio sei
arrivato! Ho
veramente bisogno di una buona e forte dose di caffeina”.
Il
ragazzo le sorrise e annuì. “Caffeina in
arrivo”.
E, dando un ultimo sguardo a Jack, come per intimargli di non dire
niente, si
diresse verso la macchina del caffè.
“A
proposito, Ianto, come stai?” gli chiese Tosh.
“Come
una balena spiaggiata. Non faccio che alzarmi
la notte per svuotare la vescica che sembra essere diventata
più piccola di una
nocciolina”.
“Tu
non hai niente da lamentarti”, si intromise Jack
a quel punto, fermo sulle scale che conducevano al suo ufficio.
“Non sei tu
quello che è costretto ad andare al supermercato alle ore
più improponibili per
comprarti caramelle e barattoli di Nutella”.
“Caramelle
e barattoli di Nutella?” ripeté Gwen,
spostando lo sguardo da Jack a Ianto e cercando di non scoppiare a
ridere loro
in faccia.
“Pensa
che la settimana scorsa mi ha chiesto di
andare a prendergli un’anguria. E siamo in pieno
inverno”.
Ianto
piegò in fuori il labbro inferiore in un
broncio che lo fece apparire ancora più adorabile e disse:
“Non lamentarti con
me. Lamentati con tuo figlio”.
“Oddio,
sembrate una vecchia coppia sposata”, fece
notar loro Gwen. Il gallese si voltò a guardarla con aria di
sfida. “Gwen, ci
vuoi anche della cicuta nel tuo caffè?”
“Oh,
no grazie, va benissimo così”. La ragazza si
precipitò verso l’amico per prendersi la sua tazza
di caffè e, non appena lo
ebbe tra le mani, ne bevve un sorso leccandosi i baffi. Era decisamente
quello
che le serviva dopo quella corsa sfrenata.
Ianto nel frattempo iniziò a prepararlo anche per
sé.
“Ma
perché non volete sapere il sesso del vostro
bambino?”
“Perché
vogliamo che sia una sorpresa”.
“Io
morirei dalla voglia di saperlo”.
“Basta
con le chiacchiere!” li interruppe Jack con
voce di comando. “Abbiamo del lavoro da fare”.
“Agli
ordini, capo!” esclamò Gwen scherzosa e si
diresse verso la sala riunioni. Prima di seguirla, però, il
Capitano raggiunse
il compagno e gli mostrò un sorrisetto furbesco.
“Questa la prendo io”, disse,
prendendogli la tazza di caffè dalle mani.
Ianto
rimase di stucco mentre lo guardava
allontanarsi col suo caffè. “E che dovrei bere
io?”
“Che
ne dici di una tazza di tè?”
“Tè?!”
Il ragazzo assunse un’espressione schifata. “Non
sono un fottuto inglese”.
“Oh,
no. Sei un gallese. Un gallese molto, molto
sexy”.
Il
ragazzo sospirò rassegnato; c’erano momenti in
cui davvero non sapeva se prendere Jack a schiaffi oppure sbatterlo
contro un
muro e baciarlo come se non ci fosse un domani. Solo lui gli faceva
quell’effetto.
Ianto
non si era nemmeno accorto di essersi
addormentato. Ricordava di essersi steso sul divano della base e di
aver chiuso
gli occhi per qualche secondo, poi il sonno doveva essere venuto da
sé. Fantastico,
proprio fantastico.
Ma si accorse solo in un secondo momento che c’era qualcosa a
pesargli addosso,
qualcosa di confortevolmente caldo e… con un odore molto
familiare e molto delizioso.
Quei feromoni del cinquantunesimo secolo erano inconfondibili. Jack lo
aveva
coperto con il suo cappotto e a un tale pensiero gli venne da
arrossire. Ancora
non riusciva a capacitarsi di quanto Jack fosse diventato
così… amorevole? Dolce?
Delicato?
Mah…
Vagò
con lo sguardo in giro per la stanza, notando
solo Owen che girava attorno a una donna bionda stesa e ammanettata sul
tavolo
delle biopsie, benché sembrasse essere in un coma profondo,
e si alzò reggendo
il cappotto in mano.
Piano, entrò nell’ufficio di Jack. Il Capitano
stava in piedi dietro la
scrivania e si slacciava la camicia bianca al cui centro faceva bella
mostra
una grossa macchia rossa.
Sangue,
pensò
Ianto che non ci mise a fare due più due.
“Jack!”
L’uomo
alzò lo sguardo sul giovane e gli sorrise. “Ti
sei svegliato”.
“Che
diamine hai fatto?” ringhiò il gallese, una
strana sensazione di paura e preoccupazione che si agitava dentro di
lui.
“Non
so di che stai parlando”.
Ianto
gli indicò con gli occhi la macchia sulla
camicia incrociando le braccia. “Ti sei fatto sparare. Di
nuovo”.
“Non
mi sono fatto sparare. Mi hanno sparato”.
“E
sei morto”.
Jack
fece il giro della scrivania per avvicinarsi al
compagno la cui agitazione gli sembrava del tutto inutile. “E
sono tornato. Di che
ti preoccupi?” Lanciò la camicia sporca su una
sedia vuota.
“Di
che mi preoccupo?” Sembrava proprio che il
ragazzo avesse voglia di litigare, o quantomeno di affrontare una
discussione
piuttosto importante, il che tra loro non era mai capitato.
Be’, non prima del
bambino. “Jack, sei troppo avventato e la facilità
con cui lasci che ti sparino
mi fa pensare che non ti importi. Dai per scontato che tornerai, ma se
un
giorno… se un giorno questo meccanismo o qualsiasi cosa sia
si bloccasse? Se tu
non tornassi più”.
Jack
poggiò le mani sui fianchi di Ianto e lo attirò
a sé, lasciando che la sua pancia gonfia si appoggiasse alla
sua, piatta,
liscia e nuda.
“Io
non potrei farcela senza di te. Non adesso, non
con… il bambino”.
Il
Capitano gli mostrò un sorriso dolce e gli fece
appoggiare la testa sulla sua spalla, cullandolo come un bambino.
“Io non ho
intenzione di andare da nessuna parte”, gli
sussurrò. “Resterò qui con te e il
bambino. Non potrei mai lasciarvi”.
“Sì,
ma…”.
“Niente
ma. Smettila di preoccuparti per me”. Fece
allontanare Ianto da sé per potersi inginocchiare ed essere
all’altezza del
pancione. “Piuttosto, cerca di sbrigarti a farlo
uscire”.
Il
ragazzo si accarezzò la pancia attraverso la
maglietta più grande di due taglie, uno dei pochi indumenti
che riusciva ancora
a indossare. “Lasciagli il suo tempo”.
“Non
vedo l’ora di vederlo”.
“O
di vederla. Potrebbe essere una femmina”.
“E’
lo stesso”.
I
due restarono a guardarsi per un po’ senza dirsi
nulla, godendosi il momento d’intimità,
finché Ianto non emise un gemito
spalancando la bocca in un’espressione di dolore.
“Che
c’è?” chiese Jack preoccupato. Era
troppo
chiedere che qualche stranezza non rovinasse quel momento?
“Credo…
credo che mi abbia appena dato un calcio”.
“Davvero?”
“Sì”.
Il
Capitano poggiò un orecchio sul pancione del
compagno e si mise in ascolto, sperando con tutto il cuore che si
facesse
risentire. E le sue preghiere vennero esaudite perché il
bambino diede un altro
calcio, come se avesse percepito che i genitori stavano parlando di lui
e
volesse far presente la sua presenza e che la cosa gli faceva piacere.
“L’hai
sentito?”
“Oh
sì”.
Jack
posò un morbido bacio sulla pancia di Ianto
pensando che tutto ciò gli piaceva un sacco. Non pensava che
si sarebbe di
nuovo sentito così un giorno, non dopo la nascita di Alice o
il matrimonio con
sua madre, eppure eccolo lì… quasi commosso
perché stava per avere un altro
bambino. Sperava solo di non combinare un totale casino anche con
questo.
La
porta dell’ufficio si spalancò e la testa di Owen
fece capolino. “Scusate se interrompo questo intimo quadretto
famigliare ma
devo parlarti della donna posseduta”.
“Dimmi,
Owen”, fece Jack rialzandosi e assumendo di
nuovo la sua aria professionale, come se nulla nel frattempo fosse
successo.
“La
creatura si mescola con il sangue delle vittime,
per questo le fa comportare in maniera aggressiva e violenta. Ma temo
che la
donna non riuscirà a sopportarlo ancora a lungo. Non
possiamo salvarli
entrambi; o uccidiamo lei o la creatura”.
Jack
rimase in silenzio per qualche istante, lo
sguardo pensieroso. “Hai ancora l’antidoto che
usiamo contro le infezioni
aliene?”
“Sì”.
“Bene,
prova a iniettarglielo e vediamo se funziona”.
“Ci
avevo pensato anche io”.
La
giornata si concluse tranquillamente, per essere
stata una giornata alla Torchwood. L’antidoto aveva
funzionato sulla donna, la
creatura era stata sconfitta e lei retconizzata
e rimandata a casa. Null’altro era successo.
A dire il vero, tutti i giorni di quell’ultimo periodo erano
stati piuttosto
tranquilli - non avevano dovuto affrontare alieni particolarmente
pericolosi o
mortali - il che non prometteva mai nulla di buono. Di solito la calma
precede
una tempesta.
Ma a nessuno di loro andava di pensarla in questo modo, non volevano
essere
pessimisti, così semplicemente cercavano di godersela e di
approfittare di ogni
momento libero. Non sempre le cose dovevano andare male.
Dopo
aver mandato gli altri tre a casa, Jack e Ianto
si stavano dirigendo per ultimi verso l’auto di
quest’ultimo, discutendo su
quello che avrebbero mangiato per cena. Il ragazzo stava per entrare in
macchina, sul lato del passeggero, quando vide gli occhi del Capitano
fissi su
qualcosa in lontananza. Si voltò in quella direzione,
notando una cabina blu
della polizia vicino all’angolo della strada.
Da dove poteva essere spuntata, si chiese. Non c’era stata
prima.
“Che
cos’è?”
“E’
il Tardis”, gli rispose Jack senza smettere di
fissare quell’oggetto. “La cabina del
Dottore”.
“Dottore?”
fece Ianto leggermente confuso. Ma non
gli ci volle molto per capire. “Intendi il tuo
Dottore?”
Finalmente
il Capitano spostò lo sguardo sul
gallese, ma lo guardò in maniera strana, come se stesse
cercando di
comunicargli qualcosa attraverso gli occhi.
Ianto sembrò intuirlo perché lo guardò
anche lui e infine sospirò. “D’accordo.
Immagino
sia una cosa tra voi due”.
Jack
gli sorrise, contento che lo avesse capito. “Ti
prometto che tornerò presto”.
“Me
lo auguro”.
“Tornerò
ancora prima che tu te ne accorga”.
“Intanto
preparo la cena”.
Il
Capitano gli lanciò
le chiavi, gli diede un veloce bacio sulle labbra e corse in direzione
della
cabina.
Ianto entrò in auto e mise in moto. Sperava davvero che Jack
tornasse presto
perché non gli andava di cenare da solo.
MILLY’S
SPACE
È
vergognoso che io mi presenti solo ora, lo so. Di quanto
sono in ritardo? Non lo voglio neanche sapere.
E’ che ho appena iniziato l’università
in una nuova città e, tra le mille cose
da fare e la poca ispirazione, ho messo in pausa tutte le mie fic.
Ma eccomi di nuovo qui.
Posso dire che questo è un capitolo di passaggio e che dopo
di questo ci sarà
una specie di seconda parte, benché sia una fic unica. Ma
non importa, lo
vedrete e spero di non metterci troppo.
Comunque,
sapete, stavo guardando uno dei tanti panel di
John Barrowman (tra l’altro ho comprato il suo nuovo cd e vi
consiglio di fare
altrettanto perché è meraviglioso) e non avevo
idea che volesse avere dei
bambini. Wow!
Che c’entra questo con la storia? Assolutamente nulla ^^ ma
è tardi e sto
straparlando. Meglio che vi lasci.
Notte
e a tutti,
Milly.
P.S.
siete ancora in tempo per dirmi se pensate che sia
un maschio o una femmina ^^
P.P.S.
non ho voglia di rileggere il capitolo perciò se
ci sono errori abominevoli ditemelo.
LORI
LIESMITH:
cara, scusami veramente tanto per questa attesa. Non so
cosa dire per farmi perdonare. Spero almeno che il capitolo ti sia
piaciuto e
mi raccomando, non urlacchiare che se no dopo i tuoi genitori pensano
che tu
sia pazza e danno la colpa a me ^^ un bacio, M.
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