Vento dell'Ovest - Capitolo 4
- Capitolo Quarto -
Vento
di Sospiri
Dopo
aver rimesso la tovaglia al suo posto, Anna Laura
sbatté
con forza il cassetto della cucina. Non solo la giornata era
stata
pessima, si era anche dovuta preparare il pranzo da sola!
Dov’era quella
buona a nulla di Beatrice? Perché non le aveva fatto trovare
l’insalata di arance? Per colpa di quella sciagurata aveva
dovuto
ingurgitare un panino intero, ossia mangiare carboidrati. E al diavolo
la sua dieta!
Sbuffando e brontolando contro la cugina, la ragazza si
avviò verso il
salotto, con tutta l’intenzione di buttarsi sul divano a
leggere uno
dei suoi fotoromanzi preferiti, così da dimenticare
l’orribile
mattinata trascorsa; in realtà, avrebbe dovuto intraprendere
una sessione di
shopping sfrenato con Ramona, invece quell’idiota della
sua amica
si era rotta il tarso facendo finta di giocare a tennis, mentre cercava
di attirare l’attenzione del suo istruttore.
Per giunta, poiché
tutte le
altre ragazze erano impegnate con i preparativi per la festa
dell’indomani, Anna Laura era tornata a casa prima del tempo
e senza lo
straccio di un vestito nuovo.
Come avrebbe fatto a far colpo sul dj? Se quella scellerata di Beatrice
avesse avuto un po’ di sale in zucca, come minimo, avrebbe
dovuto
cucire per lei, tutta la notte, un abito all’ultima moda. Che
mettesse a frutto
la passione che aveva per ago e filo!
Un vociare indistinto catturò l’attenzione della
ragazza. Si
fermò in mezzo al corridoio che portava alla sala ed
invertì il senso di marcia: sembrava proprio che ci fosse
qualcuno vicino al loro cancello, forse i soliti adolescenti cretini
che venivano a fare gli scherzi.
Arrivata alla finestra che dava sul giardino, Anna Laura
scostò
un po’ le tende, così da sbirciare senza essere
vista dalla
strada, e ciò che vide la lasciò di sasso: sua
cugina
stava parlando e ridendo con Marcello Tornatore.
Proprio così, parlando
e ridendo con quell’Adone sceso in terra.
La prima cosa che le venne in mente fu di uscire e mettersi a gridare
al ragazzo di smettere di perdere tempo con quell’insulsa di
Beatrice,
in quanto avrebbe potuto dedicare le proprie attenzioni a donne molto
più meritevoli (per esempio a lei). Ciò che la
spinse a
fermarsi, e a comportarsi con più raziocinio,
però, fu il pensiero
che
le venne in mente subito dopo: avrebbe potuto vendicarsi della parente
in
maniera molto più lenta e subdola, se solo avesse agito
d’astuzia.
Innanzi tutto, avrebbe avvertito il cugino Guido delle scappatelle che
faceva quella svergognata, sicura che, per via della storia aperta con
Navarra, lui avrebbe messo subito la sorella agli arresti domiciliari;
in seconda battuta, ne avrebbe parlato con sua madre, convincendola a
caricare Beatrice anche di quei lavori domestici che, comunemente,
erano considerati piuttosto pesanti.
Anna Laura rise malignamente, mentre si figurava la cugina intenta a
portare in casa cataste di legna da ardere, magari mentre fuori
infuriava una tempesta.
Stando attenta a non farsi vedere, si ritirò nella penombra
del
salotto, pregustandosi il momento in cui Beatrice avrebbe rimesso piede
dentro casa, ma non senza prima aver lanciato uno sguardo adorante, con
tanto di sospiro, a
Marcello.
«Sei
sicura che non ci sia nessuno in casa?»
domandò il ragazzo, mentre scrutava le pessime condizioni
della
facciata di Villa dei Salici.
«Guido dovrebbe tornare stasera tardi. La zia Assunta aveva
delle
commissioni
da sbrigare, ha addirittura detto che
non sarebbe rientrata
per cena, e l’Anna Laura dovrebbe essere
in qualche
boutique, a scialacquare
gli
ultimi risparmi»
affermò Beatrice, con tono pratico.
«Ah,
be’, meno male» commentò Marcello,
sollevato.
«Il giorno giusto per chiamare è sempre il
mercoledì?»
«Sì,
sempre quello. Se l’impegnatissimo messere riesce a trovare
un
po’ di tempo» lo punzecchiò la giovane,
sorridendogli divertita.
Lui inarcò un
sopracciglio, increspando le labbra.
«Il fatto che l’abbia dimenticato una volta, non ne
fa una regola. Chiamerò: è una promessa».
Per esserne certa, Beatrice prese la mano sinistra del ragazzo
e vi intrecciò il mignolo con il proprio.
«Adesso
l’hai giurato, quindi devi ricordartene a tutti
i
costi»
esclamò, pentendosene un attimo dopo. Era stata decisamente
una
mossa infantile e non si sarebbe meravigliata se Marcello non si fosse
più fatto sentire: si era comportata proprio come una
sciocchina.
Invece, oltre ogni aspettativa, il biondo strinse il dito di rimando,
incurvando dolcemente le labbra.
«Sì,
l’ho giurato».
La fanciulla avvampò e si ritrovò a pensare che
fosse un
vero peccato che quel giovane non sorridesse più spesso
poiché, quando lo faceva, la sua espressione acquistava una
grande soavità, senza contare che diventava ancora
più
bello. Le dispiacque non poco sentirlo allentare la presa.
«D’accordo. Io
vado, prima che tornino tutti: non vorrei essere costretto a dare
spiegazioni sulla mia uscita» disse lui, alzandosi il bavero
della giacca.
«Buona
serata, Beatrice. A presto».
La
giovane agitò la mano in risposta, un po’ delusa:
aveva sperato che Marcello le concedesse un saluto più
affettuoso, ma dovette accontentarsi. Magari, si sarebbe sciolto con il
tempo e, allora, avrebbe assunto con lei un atteggiamento
più
confidenziale.
Sorridendo, la ragazza salì i gradini ed aprì il
portone di ingresso.
«Ciao,
Bea» l’accolse, dall’interno, una voce
venata di perfidia.
Beatrice si voltò di scatto, sobbalzando allertata.
«Anna
Laura! Mi hai spaventata!»
esclamò, portandosi una mano al petto. «Cosa
ti è saltato in mente? Non è uno scherzo di buon
gusto!»
«Oh, non volevo urtare la tua sensibilità»
rispose l’altra, con una finta vocina addolorata. «Ti
è piaciuta la passeggiata?»
«Quale
passeggiata?
Sono solo andata a...»
«Non
mentire!»
gridò la donna, pestando i piedi in terra. «Ti
ho vista, baldracca! Sei tornata a casa con Marcello!»
La fanciulla sbiancò: lo sapeva, era inutile continuare a
mentire, sua cugina sapeva tutto. Alla sua reazione, Anna Laura si
quietò e ghignò soddisfatta.
«Oh-ho,
siamo nei guai, cara la mia cuginetta. Vedrai, domani, quando lo
saprà mamma!»
***
Allo scoccare delle cinque del pomeriggio, Gerardo guardò
con
apprensione l’orologio appeso alla parete di fronte. Essendo
l’ultimo
giovedì di ottobre, fuori avanzava già il
crepuscolo,
rendendo l’atmosfera ancora più cupa.
«Carter è di nuovo in ritardo»
affermò, sbuffando d’impazienza.
Marcello smise di mettere a posto, per l’ennesima volta, i
resoconti
che aveva portato e disse: «Ti meravigli? Abbiamo capito
già da tempo che
alla
primadonna piace far attendere».
«Non
si tratta così la gente!»
«Stai
tranquillo che non fa aspettare le persone che gli servono
veramente».
«Quindi,
sei sempre dell’idea che siamo fuori a priori?»
domandò l’amico, accavallando le gambe ed
incrociando le braccia.
«Vuoi
la mia sincera risposta? Sì. Scommetto che ha già
deciso
da chi accettare il prestito e, se continua a fare questa farsa della
gara d’appalto, è solo perché
c’è di
mezzo lo stato britannico» affermò il biondo,
sicuro come non mai di ciò che stava dicendo.
«E non credi che questo possa far sperare in almeno un
briciolo di legalità?»
avanzò l’altro, forse sperando di trovare un
barlume di
onestà anche in Edward Carter. Era una delle migliori
qualità di Gerardo, sperare che in tutti vi fosse del buono,
anche se quest’attitudine, in passato, l’aveva
esposto a
molteplici derisioni. Non che fosse un sempliciotto, ma aveva
un’eccessiva propensione a fidarsi del prossimo.
«No, affatto.
Tipi come quell’avanzo di galera sanno sempre come aggirare
la legge»
rispose Marcello, seguendo con il dito una venatura del tavolo
particolarmente contorta. «Sempre».
Gerardo
si alzò e cominciò a misurare a grandi passi la
stanzetta
dove li aveva fatti accomodare il cameriere, un giovanotto che non
avevano visto la volta precedente, dicendo loro che il magnate sarebbe
arrivato molto presto.
Erano già passate quasi due ore.
I ragazzi stavano quasi per alzarsi ed andarsene, quando John Miller
entrò nello studio, salutandoli con un sorriso falso come
una
banconota da trentamila lire.
«Perdonate
il ritardo, eravamo in trattativa con un cliente»
esordì, tappezzando il tavolo con i suoi stupidi documenti.
«Gli affari necessitano di tempo e pazienza»
considerò Carter, sedendosi al tavolo. Prima che si potesse
cominciare qualsiasi discussione, entrarono due camerieri che
apparecchiarono un tavolino accessorio lì vicino, servendo
vino e tartine con caviale e paté de foie gras.
«Oggi
abbiamo saltato il pranzo, per tanto abbiamo disposto che venisse
servito un piccolo rinfresco»
addusse il magnate a mo’ di giustificazione, mentre si
riempiva il piatto. «Servitevi pure».
«Grazie
della gentilezza, stiamo a posto così» si affrettò a
dire Gerardo, scrutando quelle tartine come se fossero veleno.
Marcello non poté che essere d’accordo: non era un
accanito animalista e ad una buon piatto di carne non diceva mai di no,
tuttavia non riuscì a non provare pietà per oche
e anatre, ingozzate a forza per produrre quell’orribile
poltiglia. Inoltre, si meravigliò anche del fatto che un
sostenitore di prodotti originari dell’Inghilterra come
Carter (la volta scorsa aveva vantato l’unico vino autoctono
inglese) consumasse cibo di provenienza chiaramente francese.
Stranezze da miliardari.
Miller cercò di convincere Gerardo a prendere almeno un
po’ di vino, invece ignorò del tutto il biondo,
dimostrando di voler seguire la stessa linea che aveva adottato durante
il loro precedente incontro. Per fortuna, a Marcello non importava un
fico secco né di Carter né del suo pomposo
assistente, per tanto decise che sarebbe stato al suo gioco: avrebbe
interagito solo con l’imprenditore e solo se
l’avesse ritenuto necessario.
Dopo che i due si furono rimpinzati a sazietà, John Miller
si dilungò nell’aggiornare i presenti, o meglio
chi tra i
presenti era meritevole del suo tempo, circa i nuovi sviluppi in merito
alla costruzione della piattaforma, sostenendo che i lavori sarebbero
iniziati non appena si fosse giunti alla stipulazione del contratto.
«Una
volta stabilita la società che ci darà il minor
tasso d’interesse sul prestito, si potrà dare il
via
ufficiale al progetto» spiegò l’uomo,
gonfiandosi
come se l’idea fosse stata tutta sua.
«Esattamente,
quante società concorrono per questo... appalto»
chiese Gerardo, indugiando sull’ultima parola, come se non
fosse
completamente convinto che fosse la più giusta da usare.
«Undici»
rispose pronto Miller. «Cinque
inglesi, una araba, tre olandesi, voi ed un’altra di
Roma».
«Ah,
credevamo di essere gli unici italiani» notò il
giovane, senza riuscire a reprimere il proprio stupore.
«La piattaforma sarà un simbolo di progresso
energetico, una proiezione verso il futuro»
illustrò l’assistente. «Anche
il vostro paese vuole evolversi verso nuove frontiere, il carbone
appartiene al passato. Senza contare che non avete giacimenti
attivi».
«Il
settore energetico è molto redditizio, bisogna solo avere
l’audacia di investire. Nelle vecchie fonti energetiche, ma,
soprattutto, nelle nuove...»
aggiunse il magnate, lisciandosi i baffetti alla Rhett Butler. «Ed
anche in questo caso, peccate molto: avete tre centrali attive ed una
in costruzione, pochine, considerando il fabbisogno medio».
«Intende
centrali nucleari2,
Lord Carter?» intervenne Marcello, non
riuscendo a trattenere la domanda.
«Esatto. La sicurezza del futuro comincia da lì».
«O, forse, dai detriti di Chernobyl»
commentò il giovane, alludendo al recente disastro
ambientale che aveva coinvolto tutta l’Europa.
Il
magnate ed il suo assistente (questa volta Miller non poté
far finta che non ci fosse) gli lanciarono uno sguardo penetrante: non
aveva detto nulla di esplicito, ma la sua affermazione si
sarebbe potuta prestare a diverse interpretazioni. Quella reale
supponeva che il giovane non avesse affatto fiducia nella coscienza di
Carter e, molto probabilmente, i due l’avevano intuito.
Tuttavia
Marcello non aggiunse altro, volendo avvalersi del beneficio del dubbio.
Al momento di scrivere l’offerta, fu consegnata a Gerardo una
cartellina di pelle nera, contenente un foglio bianco e una
bustina. Lui estrasse dal taschino interno una penna e scrisse
ciò che doveva; quando ebbe finito, firmò la
proposta e la mise nella busta di carta,
sigillandola per bene, quindi la consegnò a Miller, il quale
la intascò prontamente.
«Domani
riceveremo l’ultima offerta, perciò, tra non
più di una
settimana
saranno resi pubblici gli scrutini»
disse l’uomo, sorridendo giovialmente al ragazzo e facendo
finta che accanto a lui ci fosse solo aria.
Il momento dei saluti fu piuttosto rapido, con due veloci strette di
mano ai ragazzi da parte di Carter ed una sola da parte del suo
assistente.
«Quando hai nominato Chernobyl, ho pensato che volessero
farti fuori».
«Sì, con una spada da cavaliere Jedi.
Andiamo, quei due sono troppo impegnati a fare progetti con il
finanziatore che hanno già scelto, per pensare seriamente a
noi» commentò
Marcello, radunando i suoi documenti.
«Secondo
me, credono solo che io sia uno sbruffone, arrogante e presuntuoso, che
non arriverà tanto lontano e che ti trascinerà
con me nel
declino».
«Declino?»
chiese l’altro, sorpreso, mentre lo aiutava a sistemare tutto.
«Be’,
anche sui giornali di finanza dicono che non reggeremo a lungo la
concorrenza. Lo strano
caso degli imprenditori neolaureati da contratti milionari:
è così che ci etichettano»
spiegò il biondo, con una smorfia di disappunto.
«E
allora dobbiamo impegnarci per smentire queste voci e rimanere a galla
il più a lungo possibile! Senza venir mai meno alla
coscienza,
ovvio» ribatté Gerardo, determinato, battendo un
pugno sul palmo aperto.
«Alla faccia di Carter e di chi non crede in noi».
«Ed è
esattamente quello che faremo!»
confermò il biondo, con un sorriso sottile.
Quando uscirono dal locale, era già calato il buio e
l’umidità stava rapidamente aumentando,
costringendoli a imbacuccarsi bene nei loro cappotti di panno. Il
freddo invernale non avrebbe tardato ad arrivare, l’odore di
legna bruciata ed i comignoli fumanti erano segni del fatto che
già molte persone
avevano acceso i caminetti per scaldarsi.
«Vieni
da Vittoria, dopodomani?»
chiese Marcello a bruciapelo, voltandosi verso l’amico.
«Da Vittoria?»
«Sì,
ha chiesto di passare da lei il prima possibile, ed effettivamente
è un po’ che non la vediamo. Vorrei proprio sapere
come se
la sta cavando con i preparativi per la mostra».
Tutto d’un tratto, Gerardo si adombrò:
«A me non ha
detto nulla. Che tu sappia, c’è ancora il
carciofone che
transita per casa sua?»
«Credo
proprio di sì, mi pare che adesso sia qui in
città».
Il ragazzo non rispose, chiudendosi in un silenzio cupo. Marcello non
aggiunse altro, tuttavia rimase abbastanza turbato dal comportamento
dell’amico: perché aveva cambiato
così
repentinamente umore a sentir parlare di Vittoria e della mostra?
Continuarono a camminare, senza aggiungere altro e, al momento di
salutarsi, all’incrocio con Via della Conciliazione,
il biondo notò che il suo amico era davvero molto pensieroso
e
distratto. Un atteggiamento così strano, secondo Marcello,
non
aveva spiegazioni, a meno che Gerardo non gli avesse tenuto nascosti
dei particolari. E se... All’improvviso, ebbe come
l’impressione di essere arrivato a comprenderne la causa, per
poi
sfuggirgli di mente subito dopo, come se fosse stata talmente assurda
da non meritare nemmeno d’esser presa in considerazione.
Scrollando la testa, si avviò verso la via di casa.
***
L’oscillazione del pendolo scandiva ogni secondo che passava
e
Beatrice odiava quel rumore, perché le metteva ansia. Fin da
bambina, non
aveva mai amato particolarmente sostare nell’ufficio della
zia
Assunta, pervaso dall’odore della polvere e arredato con
tappeti
tarlati dalle tarme. Ogni dettaglio conferiva a
quell’ambiente
un’aria d’abbandono, profondamente diversa
dall’immagine che aveva il salotto di casa sua, sempre pulito
e
ben curato.
Alla contessa Elena, infatti, piaceva lustrare e profumare la casa,
anche se da
tempo non si poteva più permettere una donna che
l’aiutasse con le pulizie, e non mancavano mai fiori freschi
a
decorare la tavola, un ricordo che strideva tremendamente con il
pout-pourri secco e svanito che, in quel momento, aveva davanti la
giovane.
La signora Assunta, una tarchiata donna sulla
sessantina, sbuffò sonoramente, scuotendo la testa.
«Sei
sempre stata una piaga»
commentò, scrutandola con i suoi occhiacci neri.
«Io
non ho fatto alcun
male, zia» rispose Beatrice, spostando la
sua attenzione dai fiori secchi alla parente.
«L’Anna
Laura non ha diritto a...»
«Taci!»
esclamò la donna, alzando una mano, provvista di unghie
lunghe, ricoperte di smalto scheggiato. «Tua
cugina è stata fin troppo magnanima! Sicuramente non mi ha
raccontato tutto, pur di proteggerti!»
«Proteggermi?»
insorse la giovane, sentendosi oltraggiata. «Ma se ha
ingigantito
il tutto!»
«Smettila
di dire bugie, scostumata! Grazie a mia figlia abbiamo evitato il
peggio! Se quel Navarra sapesse che ti diverti con altri ragazzi, non
ti vorrebbe più e rimarresti sul mio groppone a vita!»
«Io non mi stavo
divertendo con
nessuno!»
«Ancora
parli? Zitta, bagascia! Sei una donnaccia, esattamente come tua
madre!»
Dopo questo insulto, Beatrice tacque: che sua zia si divertisse ad
insultare lei, poco le importava, considerata la scarsa stima che aveva
nei suoi confronti. Ma non doveva permettersi di infangare la memoria
di sua madre, specie se non aveva ragione per insultarla: Elena,
infatti, era infinitamente più bella della cognata e,
sebbene avesse avuto un fior fiore di corteggiatori, aveva sposato il
padre di Beatrice solo per amore.
Assunta si
passò una mano tra i capelli grigi ed unti.
«Devo trovare il modo di farti stare al tuo posto... Adesso
vedrai! Bettina!»
Dopo un rumore di passi affettati, una donna di
mezz’età
comparve sulla soglia, mostrando sul volto i segni dell’ansia.
«Mi ha chiamata, signora?»
«Da
domani dovrai lasciare il servizio presso di noi»
pronunciò freddamente la padrona di casa, come se si
trattasse
di una sentenza di morte. E alla povera Bettina tale dovette sembrare,
perché trattenne il fiato e spalancò gli occhi.
«Ma... ma signora, perché... Ha forse qualche
motivo per lamentarsi del mio lavoro?»
«No, no. Ma non possiamo più permetterci una
domestica.
D’ora in poi ci penserà mia nipote Beatrice a fare
le
pulizie».
La
ragazza aprì la bocca per parlare, ma ogni suono le
morì
in gola: già si occupava della pulizia della casa!
Ciò
significava che doveva sobbarcarsi, da sola, l’intera
manutenzione della villa!
La cameriera continuò, dando voce ai pensieri della
fanciulla:
«Signora, la casa è grande, a stento io e la
signorina
Beatrice riusciamo a mettere in ordine tutto.... E poi lo
sa, con tre figli e lo stipendio misero di mio marito non ce la
facciamo ad arrivare a fine mese. Io ho bisogno di questo
lavoro...»
«Non
sono affari miei»
tagliò
corto la signora Assunta e, con un gesto sbrigativo, la
congedò.
«Prego, puoi andare. Ricordati di portare via con te
tutti i tuoi effetti personali».
La donna rimase impalata, lì sulla soglia, con le mani
strette intorno al piumino che stava adoperando per spolverare.
«Ti
ho detto di andare!» le tuonò la
padrona di casa, facendo tremare la vetrinetta con tutti i ninnoli
esposti.
Bettina balbettò qualcosa di confuso, quindi fece una
maldestra
riverenza e richiuse la porta. Beatrice fu certa di aver udito
distintamente un singhiozzo, prima che la domestica si allontanasse.
«Da
domattina, prenderai il posto della cameriera. Ricordati che la mia
colazione deve essere servita qui, alle sei e mezza.
Non un minuto più tardi. Per quanto riguarda le abitudini di
Anna Laura, ne parlerai direttamente con lei».
Come se non stesse aspettando altro che quel momento, la ragazza fece
il suo ingresso, quasi saltellando dalla gioia.
La
fanciulla la scrutò, aggrottando la fronte, e trattenendosi
a
stento dall’alzare gli occhi al cielo, esasperata da tanta
cattiveria e stupidità.
«Eccomi qui, mamma! Allora, Bea, apri bene le orecchie:
voglio
che mi sia servita a letto, alle otto in punto. Il caffè
deve
essere tiepido. ma non troppo, con mezza pastiglia di dolcificante; lo
yogurt, invece, deve essere quello magro, guarnito con un po’
di
frutta di
stagione a pezzetti.
Infine, il succo di pompelmo deve essere bello ghiacciato, servito in
un bicchiere alto. Capito?»
Beatrice la fissò come avrebbe guardato una psicopatica e,
molto
probabilmente, era quello che effettivamente era Anna Laura.
«Tuo
fratello, invece, si arrangerà da solo, perché
appena noi
saremo uscite dovrai pulire da cima a fondo tutta la casa. E se trovo
un solo granello di polvere, dovrai ricominciare da capo!»
decretò Assunta, incrociando le possenti braccia come un
gendarme. Al suo fianco, la figlia sembrava una bambina che aveva
appena vinto il più bello dei giocattoli.
La giovane avrebbe tanto voluto dire che, per far tornare a splendere
quella topaia, si sarebbe fatto prima a raderla al suolo e poi
ricostruirla, ma lasciò perdere per evitare di aggravare
maggiormente la sua situazione.
«Prova
a ribellarti o a risponderci male e ti garantisco che mi
impegnerò io stessa, affinché Navarra ti sposi
entro il
prossimo Natale!»
la minacciò la zia, come se avesse intuito i suoi
pensieri.
Infuriata
per come la stavano trattando, Beatrice si morse l’interno
della
guancia fino a farsi uscire il sangue: quelle due arpie
l’avevano
messa nel sacco e, almeno per ora, stavano avendo la meglio.
***
Novembre
avanzava tranquillamente, portando con sé i primi freddi e
le
prime piogge, ingrigendo il cielo che sovrastava la Capitale e rendendo
l’aria più malinconica.
Udendo un tuono in lontananza, Marcello percorse, correndo,
l’ultimo tratto che lo separava da casa di Vittoria, facendo
scricchiolare le foglie marroni e arancioni degli ippocastani sotto le
proprie suole.
Aveva promesso all’amica che sarebbe passato nel pomeriggio a
trovarla, per sapere come stessero procedendo i preparativi della
mostra, mentre Gerardo era stato irremovibile: essendoci alte
probabilità di trovare Bartolomeo in circolazione, aveva
preferito dare direttamente forfait.
Il biondo suonò il campanello ed immediatamente venne ad
accoglierlo Agnese, l’anziana domestica. La casa di
Vittoria sorgeva nella zona dell’Eur, a pochi passi da Via
Cristoforo Colombo, ed era comoda perché poteva
arrivarci tranquillamente con la metro, senza dover prendere
l’auto. Nonostante
potesse permettersi automobili costose, ancora non si era deciso a
prendersene una personale, avvalendosi, alla necessità, di
quella di suo
padre e rinviava sempre la scelta, dato che
amava prendere i mezzi pubblici per spostarsi: gli
piaceva
stare in mezzo alla gente, immergendosi nel via vai continuo e caotico
di Roma. Osservare le persone, condividere con loro anche solo quei
pochi
istanti di viaggio, lo faceva sentire davvero parte integrante
dell’umanità. Era un concetto che aveva sempre
cercato di
comprendere pienamente da quando lo aveva sentito durante le lezioni di
filosofia, nei quali si parlava dei grandi dell’Antica Roma,
come Tacito,
Seneca,
Cicerone, si erano affannati nello spiegare la complessità
dell’Umanitas,
ovvero di ciò che rende l’uomo simile ad un altro
uomo.
Mentre percorreva i corridoi della villa, Marcello si
ritrovò a
passare accanto a copie d’autore di grandi quadri, come L’Ultima Cena
di Leonardo, Le Nozze
di Cana del Veronese oppure La Madonna Sistina
di Raffaello, tutti capolavori che ben testimoniavano a quali livelli
si potesse elevare l’espressività umana.
Agnese lo lasciò davanti alla porta della camera di
Vittoria,
quindi tornò alle sue occupazioni. Il ragazzo, invece,
bussò
energicamente, attendendo che l’amica gli venisse ad aprire.
«Sei una persona senza cuore!»
le sentì gridare dall’altra parte.
Accigliato, bussò ancora e, questa volta, la giovane fece la
sua comparsa al di là del battente.
«Oh, Marcello! Ti stavo aspettando»
gli disse, sorridendogli.
«Con
chi ce l’avevi?»
chiese, però, lui, sospettoso, poiché era rimasto
talmente sconcertato dalle sue urla furibonde da passare
direttamente al dunque, senza nemmeno salutarla.
In risposta, l’altra inclinò da un lato la testa
e,
perplessa, domandò: «Per
cosa?»
«Chi
sarebbe la persona senza cuore?»
A quel punto, Vittoria
agitò
una mano, come a voler sminuire con quel gesto
l’entità della cosa e spiegò:
«Ah,
con nessuno d’importante... era solo Leandro».
La ragazza non nominava spesso il fratello, più grande di
lei di
diversi anni, che aveva lasciato ormai da parecchio tempo
l’Italia, avviando così una brillante
carriera da diplomatico. Le sue visite a casa era
sempre rare e molto brevi, pertanto Marcello non aveva avuto molte
occasioni di conoscerlo di persona, così da capire che tipo
fosse, anche
se, attraverso i racconti della giovane, non aveva avuto una buona
impressione su di lui.
«Cosa voleva?»
le chiese il giovane, a bruciapelo.
«Ha
appena ottenuto un importante incarico come consigliere di legazione1
a
Dublino, perciò dice di non riuscire a tornare per febbraio,
in tempo per la
mostra. Ma so bene che, in realtà, è
perché non gli interessa» rispose la ragazza,
infastidita, invitando l’amico a seguirla.
«Magari
davvero non può» azzardò
l’altro, più per tranquillizzare l’amica
che per difendere il suo fratello.
Tuttavia, l’altra scosse tristemente la testa e si
abbandonò ad un mesto sospiro: «No,
lo conosco bene. Per lui, questo evento è solo una perdita
di
tempo, come il novanta percento delle cose che riguardano sua
sorella».
Notando l’espressione avvilita sul volto della sua amica,
Marcello decise di affrettarsi a proseguire nella conversazione.
«E
così, Leandro è finito in Irlanda?»
«Sì,
dallo scorso agosto, perché la Polonia non gli piaceva.
Mirava alla Germania
dell’Ovest,
ma il posto vacante non era lì»
raccontò Vittoria,
mentre apriva la porta di uno dei salottini.
La stanza era molto areata e luminosa, ammobiliata con una semplice
libreria bianca colma di volumi antichi, un tavolinetto con il ripiano
in vetro ed un paio di divani dalla tappezzeria azzurro pastello.
«Ho
detto a Agnese che, quando sareste arrivati, avrebbe subito dovuto
mettere a scaldare l’acqua per il tè e preparare
la cioccolata
per Gerardo. Ma lui non è venuto, a quanto vedo»
notò con una punta di delusione lei, accomodandosi su uno
dei
sofà.
«L’ho
sentito stamane, ha detto di non sentirsi troppo bene».
Vittoria irrigidì la schiena, si mise a braccia conserte e
sibilò:
«Marcello Tornatore, non sperare che io mi beva una fandonia
come
questa! Davvero mi ritieni così stupida?»
«Non
lo sto coprendo, se è questo che stai insinuando. Ti sto
solo riferendo quello che mi ha detto».
La ragazza abbandonò tutta la sua rigidità e si
accasciò contro i cuscini del divano.
«Lo so che non vuole venire più qui. Da quando
Bartolomeo
transita in questa casa per allestire la sua mostra, Gerardo non si
è fatto più vedere».
«Non è un mistero che non lo trovi simpatico»
notò Marcello, senza andare tanto per il sottile.
«So
benissimo che tra quei due non corre buon sangue. Comunque, oggi
Bartolomeo non è venuto, perché doveva rifinire
delle cose con la sua fantastica
assistente. Perciò, il signorino Preziosino sarebbe potuto
venire benissimo,
almeno mi avrebbe aiutato anche lui. Non è giusto che ci sia
solo tu».
Con una certa sorpresa, il giovane notò un certo astio di
Vittoria nei confronti del
suo
fidanzato, tuttavia verso il loro amico le sembrò quanto mai
indispettita, così decise di sondare ulteriormente il
terreno,
chiedendo: «Io
non ti basto?»
Accigliandosi, l’altra lo guardò, rispondendo solo
dopo una breve pausa:
«Be’,
con Gerardo saremmo stati in tre, avremmo ragionato meglio. Tu non sai
quante cose ancora devo fare per questa mostra! Gli inviti, provvedere
al servizio di catering, catalogare le opere, decidere quali sale
mettere
a disposizione...»
Marcello, nell’osservare la sua amica, fece una smorfia
divertita: si
vedeva che era agitata e che sentiva la mancanza del terzo componente
del gruppo; in effetti, nemmeno secondo il biondo, Gerardo
si stava comportando bene verso la ragazza, giacché
aveva chiesto aiuto e loro, in qualità di migliori amici,
erano
tenuti a darglielo, a prescindere dagli attriti personali verso
chicchessia.
«Vittoria,
tu credi che Agnese abbia già messo su l’acqua
per il tè?» chiese poi il ragazzo, pensieroso.
«Posso chiamarla
e chiederle a che punto è. Perché?»
«Vedi»
esordì lentamente lui, lisciandosi il mento,
«penso
che sia meglio se andiamo a farci una passeggiata e, magari, prendere
qualcosa fuori. Tu hai bisogno di distrarti».
A quelle parole, la giovane sorrise, sinceramente riconoscente.
«Sapevo
che avresti capito al volo di cosa ho bisogno davvero»
ammise, con dolcezza.
Non volendosi allontanare di molto, Marcello e Vittoria trovarono
rifugio, dal vento gelido che sferzava fuori, in un piccolo bar lontano
dalla strada. Essendo praticamente vuoto, riuscirono a
sedersi subito ed attirare l’attenzione di una
cameriera
piuttosto rotondetta e dall’aspetto simpatico per ordinare
due
té
con un
vassoio di pasticcini.
«Dovresti rallentare i tuoi ritmi, ti vedo molto pallida»
commentò il ragazzo, mettendo di lato la carta delle
ordinazioni.
«Oh,
è che ci sono così tante cose da fare ed io sono
sola!» spiegò la sua
interlocutrice, giocherellando con i nastrini della sua maglia di lana.
«Gerardo
ed io siamo sempre pronti per aiutarti, lo sai» ci tenne a
precisare
il biondo, ma,
vedendo l’espressione di disappunto comparsa sul volto di
lei, si
corresse. «D’accordo,
Gerardo ultimamente è stato un po’ latitante, ma
sono sicuro che
non riuscirà a starti lontano ancora per molto».
Meravigliata, Vittoria trasalì e spalancò gli
occhi nocciola.
«Perché,
cosa sai? Cosa ti ha detto?»
chiese, concitata.
Interdetto da quella reazione, Marcello la fissò per qualche
istante, prima di rispondere: «Non
ha detto niente, ma sai benissimo che entrambi ti siamo sempre stati
vicini, soprattutto nei momenti difficili, perciò
sicuramente anche lui vorrà darti una
mano».
Tuttavia, di fronte a tale spiegazione, la giovane parve delusa.
«Ah,
in questo senso? Certo, certo, ovviamente»
mormorò, scrollando la testa come a scacciare un pensiero
indesiderato.
Sempre più perplesso, il giovane stava quasi per chiederle
altre
spiegazioni, quando la paffuta cameriera servì loro le
bevande
che avevano
ordinato, accompagnandole con un vassoio contenente una grande
varietà di piccole dolcezze: una gioia per gli occhi e,
sicuramente, anche per il palato.
«Non
mi hai detto come è andata con Carter»
constatò di
punto in bianco Vittoria, cambiando argomento e allo stesso tempo
facendo rapidamente sparire una crostatina
con crema pasticcera e frutti di bosco. «Chiedo a te
perché, sai, non posso parlare con gli assenti».
Anche se ora appariva
più distaccata, il
ragazzo avvertì che, in realtà, l’amica
non aveva affatto
mandato del tutto
giù l’assenza di Gerardo; il modo risentito con il
quale
continuava a citarlo ne era un indizio e, forse, sarebbe stato prudente
parlarne il prima possibile con il diretto interessato, così
da evitare un
litigio
tra i suoi due migliori amici.
«Non
c’è molto da dire»
rispose Marcello, servendo prima il tè all’amica e
poi a se stesso.
«Più che affari, quel tipo sembra che concluda
traffici illegali».
«Ne
avete le prove?»
«No,
ma non mi è piaciuto come si è comportato, si
è visto che non è interessato ad averci come soci.
Voleva semplicemente studiarci e capire se fossimo allocchi raggirabili
o meschini come lui».
Dopo una simile
affermazione, Vittoria
arricciò il naso, come se avesse percepito fisicamente odore
di imbroglio: «Quindi
le voci sul suo conto sono vere. Da come ne parli, sembra proprio
l’essere
viscido che tutti descrivono».
«E
dovresti vedere il suo assistente, è più viscido
del suo
principale» commentò il biondo, ripensando con
disgusto a
quel John Miller, ai suoi toni melliflui e falsamente condiscendenti.
«Grazie,
non ci tengo, ne ho già abbastanza, di esseri viscidi. Sai
che Ascanio mi ha
mandato un mazzo di rose rosse?»
Il
biondo aggrottò la fronte, convinto di aver esaurito le
parole
per descrivere in maniera opportuna Colonna. Non si era mai fatto
scrupoli a corteggiare donne impegnate e, per giunta, Bartolomeo Davoli
non era esattamente il prototipo di fidanzato geloso, ciononostante
quell’imbecille aveva decisamente toccato il fondo. Non gli
bastava fare il cascamorto con le contesse, ai ricevimenti, e con le
commesse nei negozi?
«Mi
auguro tu le abbia buttate dritte dritte
nell’inceneritore»
commentò, pescando un diplomatico al caffè dal
vassoio.
La giovane sorrise, per la prima volta in quel pomeriggio.
«Le
ho donate al centro anziani, almeno hanno reso felici le
amabili vecchiette alle quali faccio volontariato».
«Avresti
dovuto rifilarle alla cassiera della libreria di Via della
Conciliazione, piuttosto!»
«Ah, vero! Vabbè, non è
l’unica alla quale Colonna fa il filo. A
proposito di quell’episodio, non mi avevi detto di
aver preso un libro per Beatrice? Vi siete rivisti? Glielo hai
portato?»
E fu così che venne fuori il nome della fanciulla,
un’occasione per fare a Marcello il terzo grado che Vittoria
non si lasciò certo sfuggire.
«Sai
benissimo che ci siamo rivisti» notò
il biondo, sbuffando. «Ti
ho già riferito che mi ha detto del vostro incontro e del
tuo invito alla
mostra, dimentichi?».
«Sì,
hai ragione, ma l’altra volta avevo poco tempo e non mi sono
soffermata!»
esclamò Vittoria, riprendendo un po’ di colore sul
suo volto smunto. «Ora,
invece, abbiamo tutto il pomeriggio davanti e voglio sapere tutto! Sono
anni che sogno di vederti frequentare una ragazza, fuori i
particolari!»
Il giovane alzò gli occhi al cielo, rassegnato. Suppose che
quelle fossero le condizioni per aver ridato a Vittoria il buon umore.
«È
venuta lei a cercarmi a casa, per riportarmi il soprabito, otto giorni
fa» le riferì, dopo aver inghiottito un altro
pasticcino. Poi fu costretto ad
ammettere:
«Mi sono dimenticato di chiamarla al telefono, seppur
gliel’avessi promesso...»
«Ti sei dimenticato di chiamarla?»
chiese l’altra, incredula, interrompendosi mentre portava,
cautamente, la tazza fumante alle labbra. «Sei incredibile! Beatrice
deve essere molto paziente. Ed anche coraggiosa: lo sa che ha rischiato
di
trovarsi faccia a faccia con quella megera di tua madre?»
«No,
per fortuna lei era uscita in quel momento. Comunque, non
l’ho
fatto apposta» si giustificò lui, un
po’ in
difficoltà, «la
vicenda di Carter mi ha assorbito parecchio. Non volevo mancarle di
rispetto».
Vittoria sorrise, scuotendo la testa.
«Devi
piacerle molto per essersi spinta a tanto. Di solito, le
ragazze aspettano che sia l’uomo a farsi avanti.
Però
è
anche vero che, con un pezzo di legno come te, ci vuole
inventiva».
«Pezzo
di legno?» esclamò il
biondo, risentito, rimanendo con la bustina di zucchero tra le dita.
«Mi
sono scusato con lei e, a dirla tutta...»
«Dai,
non te la prendere, era
una presa in giro bonaria!» si schermì la ragazza,
ridendo.
La conversazione, però, gli aveva fatto improvvisamente
tornare in
mente il fatto che Beatrice, quella mattina, non gli aveva
risposto. Eppure gli aveva garantito che il mercoledì
era il
giorno giusto per telefonarle.
«Marcellino,
stavo scherzando! Non c’è bisogno di mettermi il
muso per
così poco!»
esclamò Vittoria, avendo probabilmente notato il suo cambio
d’espressione.
«No,
non è per quello. È solo che questa mattina non
mi ha
risposto, nonostante mi abbia esplicitamente detto di chiamarla il
mercoledì» spiegò Marcello, rendendola
partecipe
dei propri pensieri.
«Magari
ha avuto un imprevisto ed è dovuta uscire,
riprova».
«Già. Volevo
proporle di vederci anche la settimana prossima» mormorò il
ragazzo, sovrappensiero.
«Secondo te, aspettare un mese non è eccessivo,
prima di poter rivedere una persona che vuoi conoscere meglio?»
«Se
io avessi l’opportunità di uscire con il mio uomo, lo
vorrei vedere tutti i momenti» commentò la
giovane,
malinconica. La particolare enfasi, che aveva impresso alla parola mio, diede al
biondo la fugace impressione che lei non stesse alludendo a Bartolomeo. Tuttavia, Vittoria
tornò presto alla solita allegria, tanto è vero
che insinuò, sorridendo sorniona: «La tua rossa
fiorentina deve essere davvero speciale se le riservi tutte queste
attenzioni;
sarebbe un peccato farla aspettare, non credi?»
Marcello non replicò, limitandosi a fissarla e a sorseggiare
il suo té.
***
Guido, seduto al tavolo della cucina, sfogliava annoiato il giornale,
rimpinzandosi di patatine al formaggio e sbuffando di tanto in tanto:
secondo gli ordini impartiti dalla signora Assunta, avrebbe dovuto
sorvegliare la sorella finché non avesse ultimato le
faccende e
solo allora sarebbe potuto uscire.
Poco più lontano, Beatrice, livida dalla rabbia, stava
lavando i
piatti, stando attenta a sbatterli con quanta più forza
possibile e sperando che si sbeccassero tutti: non poteva sopportare di
essere stata schiavizzata ancora di più di quanto non fosse
già,
senza aver fatto nulla per meritarlo.
La ragazza si scansò, con l’avambraccio, una
ciocca di
capelli dalla fronte e, approfittando del momento di pausa,
lanciò un’occhiata velenosa al fratello.
Questi dovette notarlo, poiché disse: «Avanti,
Cicci, non
mi guardare così».
Beatrice
gettò la spugna nel lavabo dove stava lavando le stoviglie,
facendo schizzare schiuma tutt’intorno, quindi si mise a
braccia
conserte e, così facendo, si asciugò le mani
bagnate sulle maniche: infatti, la cugina non aveva ritenuto
necessario farle indossare dei guanti.
Si avvicinò pericolosamente al tavolo e si rivolse al
fratello, stizzita: «E
come dovrei
guardarti? Mi stai vietando di mettere piede anche in
giardino,
stai assecondando
i lavori forzati che mi comanda
l’Anna Laura
e hai organizzato un appuntamento con
Navarra, senza avere il mio
consenso!»
«Cicci,
sai bene che
dopo quello che
hai combinato era il minimo che
potesse
accaderti»
rispose il giovane, continuando a mangiare patatine.
«Quello
che ho combinato? E cosa avrei fatto di
così
grave, per meritare tutto questo?»
«Ti
sei vista di nascosto con
un ragazzo, uno che
non è il tu’
fidanzato. Per fortuna, Navarra è in Spagna a sistemare
delle
cose, così non
saprà niente di questa storia...»
Beatrice tornò al lavabo e prese una padella insaponata,
agitandola pericolosamente sotto il naso di Guido.
«E, da quando, di grazia, quello schifoso sarebbe il mi’
fidanzato?»
Il ragazzo si decise a guardarla in faccia e sbatté le
palpebre, rimanendo in silenzio.
«Non
rispondi, vero?»
incalzò la ragazza, sbattendo la padella sul ripiano della
cucina.
«Da quando gl’hai
promesso che
sarei stata sua in cambio
di
soldi! Così
da poter estinguere il debito che
hai con lui!»
«Bea, lo sai che
non ho alternative. Vedrai che
Conrado
sarà un buon marito»
le rispose il fratello, piegando con cura il giornale e sistemandolo
sul tavolo.
La fanciulla scoppiò in una risata isterica.
«Buon
marito? Certo,
quando non mi piccherà, violenterà o mi
concederà
ai su’
luridi amici, potrebbe anch’essere
un buon
marito. Perfino ottimo, nel momento in cui sparirà per
concludere
qualcuno
dei su’
sporchi
affari. In fondo, anche
Saddam
Hussein, quando non è impegnato a bombardare
l’Iran,
l’è
una personcina adorabile».
«Beatrice...»
«Come diavolo hai
potuto!»
Guido perse la pazienza e si alzò in piedi, gridando:
«Beatrice, finiscila!
Basta!»
L’altra non si ritrasse, anzi rimase a scrutarlo, furibonda;
l’unico
sentimento che sentiva ora verso il fratello, infatti, era un misto di
pietà e disprezzo.
Il giovane dovette
percepirlo, infatti abbassò lo sguardo e
biascicò: «Io...
Scusa... Non
volevo alzare la voce
con
te...»
«Non
importa, Guido. Hai
ragione,
per stasera basta così»
disse la ragazza, rimettendosi a sciacquare le pentole. Guido
fece per aggiungere qualcosa, ma rimase con la mano alzata a
mezz’aria e la bocca aperta. La richiuse poco dopo,
abbassando
anche il braccio e allontanandosi mestamente, a capo chino.
«Ricordati solo una cosa» aggiunse Beatrice, senza
voltarsi, «la
prossima volta, per sanare i tuoi debiti, impegna solo la tu’
vita e
non quella degli altri».
Il giovane si arrestò quel poco tempo necessario ad
incassare
quelle parole taglienti, poi uscì definitivamente dalla
cucina.
La fanciulla fissò il suo riflesso pallido e triste nel
vetro
della
finestra posta sopra al lavandino: si sentiva debole e sola, come se
fosse esposta alle peggiori intemperie, senza avere un riparo.
Udì la porta d’ingresso che si apriva e si
chiudeva subito
dopo: sicuramente era Guido che usciva per ritrovarsi con i suoi
balordi amici. Suo fratello combinava i guai, a lei toccava rimediare
e lui si prendeva anche la ricompensa: era sempre stato
così.
Ma questa volta non si trattava di marachelle di bambini,
c’era
in gioco la sua felicità e la sua vita.
Beatrice sospirò, sentendosi improvvisamente vuota.
Finì di mettere a posto le stoviglie, quasi meccanicamente,
poi
cominciò a salire i gradini, con tutta
l’intenzione di
mettersi a letto il prima possibile, un po’ per riposarsi dal
duro lavoro, un po’ per porre termine a quella
giornata infernale.
Mentre si spogliava per mettersi il pigiama, si sentì come
spiata, anche se convenne che doveva essere tutto frutto della sua
immaginazione, violentemente scossa dall’ingombrante e
minacciosa presenza di
Navarra nel suo futuro.
Quell’essere le faceva ribrezzo e non avrebbe mai potuto
rassegnarsi all’idea di diventare sua moglie, soprattutto non
dopo aver conosciuto Marcello, per il quale ormai era certa
di
provare più che una semplice simpatia.
Si mise a letto e tirò fuori, da sotto al cuscino, il libro
che
le aveva regalato il giovane: meno male che aveva nascosto quel regalo
in borsa, prima che lo potesse vedere sua cugina, altrimenti Anna Laura
se ne sarebbe appropriata senza fare tanti complimenti.
Sfogliando le pagine, emananti quel buon odore di carta nuova stampata,
Beatrice si perse ad ammirare i contrasti di luce e di ombra, tipici
della pennellata caravaggesca: contrasti che erano sempre presenti
anche nella sua vita, anche se ora, a dirla tutta, sembrava proprio che
stesse prevalendo l’oscurità. Si fermò,
così
da lasciare lo sguardo libero di vagare sulla parete bianca di fronte a
lei e
divenne improvvisamente molto triste, come se avvertisse di non poter
essere più felice.
Aveva una gran voglia di piangere, eppure era troppo stanca anche per
quello, per tanto lasciò che fosse la spossatezza a prendere
il
sopravvento, guidandola nel mondo dei sogni, unico luogo in cui, al
momento, poteva sperare di essere più libera.
***
Per la revisione, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
che si rivela, ogni volta, un’ottima consulente.
***
[N.d.A]
1. consigliere di
legazione: è il secondo grado della carriera
diplomatica italiana;
2. centrali nucleari:
le
centrali nucleari italiane sono state in realtà cinque. Di
queste, quella di Montalto di Castro non ha mai funzionato,
poiché la sua costruizione non era ancora terminata quando
ci fu
il Referendum del 1987.
Quella di Sessa Aurunca ha smesso di lavorare nel 1982, in seguito ad
un guasto. Le altre tre sono Latina, Trino e Caorso, le quali hanno
smesso di lavorare tutte in seguito al già citato Referendum.
***
Salve a tutti!
Come promesso, questa volta ho aggiornato secondo i tempi previsti! E,
per me, è una conquista, considerando che sono riuscita a
far
passare anche un anno prima di riprendere questa storia.
La buona notizia è che ho già scritto buona parte
dei prossimi capitoli e, spero, aggiornerò con costanza.
Scrivendo, mi auguro di non aver preso sfondoni storici: ricordo che
questa vicenda
è ambientata negli anni ’80, pertanto i riferimenti ai
fatti storici citati li ho inseriti per renderla più
veritiera, tuttavia mi sto basando su racconti fatte da altre persone,
che erano presenti, o resoconti letti qua e là,
poiché all’epoca dei fatti non c’ero ancora.
Se voi doveste notare qualcosa di poco preciso, non esitate a farmelo
presente.
Ringrazio chi legge,
chi segue in silenzio,
chi trova tempo e forza
di volontà per farmi sapere la sua, chi ha messo questo racconto in
uno dei suoi elenchi, chi
mi farà sapere la propria opinione in seguito.
So bene che è una storia da “tè delle
cinque”, tuttavia sto cercando di metterci impegno: a mio
parere,
la semplicità non è una scusante ad un modo di
scrivere
grossolano.
Il prossimo appuntamento sarà i primi di Novembre;
intanto, vi lascio il link al mio blog,
dove troverete uno spoiler tratto dal quinto capitolo.
Saluti,
Halley
S. C.
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