Richard si gettò sul divano con
il cappotto ancora addosso.
Ricordò quando aveva visto Sweeney
Todd: con Keith, al cinema. Cosa indossava, Keith, quella volta? Com’era
pettinato? Era allegro, nervoso?
Non se lo ricordava.
D’improvviso, Richard venne preso
dalla paura di dimenticare il suo viso; se lo richiamava alla mente, non
riusciva a ricomporlo alla perfezione.
Lo vedeva, questo sì, colto
nell’atto di fare qualcosa – girarsi verso di lui, sorridere –, ma era un flash
di un secondo; se cercava di fermare l’immagine, quella svaniva. Certo,
ricordava i suoi capelli – biondi -, il colore dei suoi occhi, la forma
dell’ovale; ma non riusciva a comporre questi elementi in un ritratto, una
figura salda e immutabile nella sua memoria: il viso di Keith oscillava e
scintillava nel ricordo come una monetina gettata in una fontana, che affonda
catturando i raggi del sole. Un momento si vede, il momento dopo non c’è più.
Richard pensò, angosciato, che
non aveva foto di Keith; nel periodo passato insieme, non c’era mai stata
occasione di farne.
Recuperò il telefonino dalla
tasca del cappotto e fece il numero di Nicole.
Quando rispose, le chiese, senza
nemmeno salutarla: “Puoi darmi una foto di Keith?”
Nicole fu presa alla sprovvista.
Esitò un attimo.
“Ma sì, certo.”, disse infine.
“Quando vuoi. Vieni alla villa, ti mostrerò quelle che ho.”
Meno di mezz’ora dopo, Richard
percorreva il viale di magnolie ed entrava nella villa.
Nicole era seduta sulla poltrona
di suo padre, le gambe ripiegate sotto il corpo. Teneva sulle ginocchia una
scatola di latta, che aveva contenuto dei biscotti, e ne estraeva delle
istantanee colorate.
“Oh, Richard, ciao.”, disse,
alzando gli occhi. Battè la mano sulla poltrona accanto alla sua, invitandolo a
sedersi. “Guarda cosa ho trovato. Sono foto di Keith al college.”
Richard si sedette e prese una
manciata di fotografie dalla scatola. Le sfogliò. Mostravano un Keith
sorridente, in divisa da hockey o con la felpa dell’università – il nome della
scuola stampigliato in lettere maiuscole, o in costume da bagno, insieme ad
altri ragazzi.
Una foto lo colpì più delle
altre. Mostrava un giovanissimo Keith – poteva avere diciassette, diciott’anni
– con le braccia sulle spalle di un ragazzo dai capelli scuri, gli occhi di un
azzurro intenso. Accanto a loro sorridevano Nicole e una ragazzina esile, con
lisci capelli castani, e occhi pure azzurri dietro le lenti. I due ragazzi
sconosciuti erano chiaramente fratello e sorella, e Richard ebbe la curiosa
sensazione di averli già visti.
Avvicinò la foto agli occhi per
guardarla meglio: la sensazione di deja-vù su accentuò, ma contemporaneamente
anche l’impressione di uno sfasamento, una confusione. Gli pareva di essere
davanti a uno di quei giochi di logica che si trovano sui supplementi di
enigmistica dei quotidiani, e di dovere trovare le differenze in due figure
simili ma non identiche.
“Chi sono questi due?”, chiese
infine, volgendo lo sguardo a Nicole.
Lei alzò gli occhi. Indicò con un
dito il ragazzo. “Questo era il migliore amico di Keith, John. E la ragazza è
sua sorella. Eravamo ad una gara di tiro al piattello, al college. Keith aveva
insegnato a me e a lei a tirare.”
“Li conosco?”
“Non credo. Lui è morto anni fa,
una brutta storia. Keith fu coinvolto nelle indagini, ma poi se la cavò con
un’ammonizione… Sai, era il periodo in cui aveva problemi con la droga, e John
è morto di overdose.”
“Oh.” Richard era scosso. Keith
non gliene aveva mai parlato.
“Credo che papà gli abbia dato
una mano, in quell’occasione. Ci fu un processo, sai, ma Keith riuscì a evitare
di parteciparvi. Fu espulso dalla scuola, però, e dopo non è più riuscito a
combinare nulla di buono.”
“Capisco. Dev’essere stato
difficile.”
“Non quanto lo è stato per i
genitori del ragazzo. Credo che la madre si sia uccisa, poco dopo. Soffriva di
depressione.”
Richard guardò la foto per
qualche istante, in silenzio.
“Come si chiamava, lei?”, chiese
infine, indicando la ragazzina.
“Oddio, Richard, non so... Non la
conoscevo bene, ci siamo incontrate pochissime volte. Becky - no, Betty, forse.”
Richard sentì la testa girare.
“Beth?”, chiese, con una
voce che suonò innaturale alle sue stesse orecchie. “Era forse Beth?”
“Sì, credo di sì. Ora che mi ci
fai pensare, era proprio Beth. Aspetta, com’era il cognome? Wilkers…?”
Provò un senso di vertigine.
Tutti i pezzi – particolari,
somiglianze, coincidenze - che si erano agitati nella sua mente, confusi e
sovrapposti, che avevano tormentato i suoi sogni, erano sfilati davanti ai suoi occhi ogni giorno, sfidandolo a comprendere, facendolo quasi uscire di senno; tutti quei pezzi scivolarono al loro posto,
naturalmente, incastrandosi l’uno nell’altro senza sforzo. Composero un mosaico perfetto, un'immagine semplice e luminosa, chiara come se fosse sempre esistita; in attesa solo di un movimento che riunisse insieme tutti i tasselli.
“Richard?”, lo chiamò Nicole,
preoccupata. “Che hai? Cosa succede? Stai male?”
Richard era pallidissimo. Con lo
sguardo fisso davanti a sé, mosse le labbra.
“Portami il numero di cellulare
che Benjamin Wilkes ha dato a tuo padre”, ordinò, in un tono che non ammetteva
repliche. “Subito.”