Prima di iniziare con la lettura del capitolo ci va di diritto un bel
N.B. Quindi...
N.B.
I contenuti di questo capitolo non vogliono essere una guida per
maneggiare le armi da fuoco, né incentivarne l'uso, sia esso
sconsiderato, che cauto. Le ricerche che ho fatto per scrivere la scena
in questione sono servite per cercare di rendere al meglio la storia ed
evitare di scrivere vaccate (sì, avete letto bene,
vaccate!).
Nel mio piccolo, cerco di fare del mio meglio, un po' per me stessa
(perché ho il mio amor proprio e non mi va di pubblicare
schifezze) e un po' anche per farvi leggere una storia quantomeno
scritta con criterio.
Detto questo...
...Buona lettura!
XXIV
Philadelphia
I locali dell’agenzia investigativa, al secondo piano della
palazzina, erano deserti e avvolti nella penombra delle persiane
chiuse. Aiolos aprì la porta e si guardò attorno;
poi,
con molta cautela, vi si addentrò. Quell'ambiente non aveva
nulla di particolare, era scialbo e anonimo come la prima volta che vi
aveva messo piede, pochi minuti prima, quando era stato a colloquio con
Burton. Eppure adesso gli faceva uno strano effetto, era quasi
spettrale.
Sentì i singhiozzi del bambino: a volte lievi, a volte
invece
più violenti, proprio nello sforzo di trattenersi. Non
c’erano molti posti dove avrebbe potuto rifugiarsi, a parte
naturalmente una delle altre stanze comunicanti, ma ciò che
era
arrivato alle sue orecchie non era stato filtrato da alcun tipo di
barriera. Fece un paio di passi verso la scrivania, senza
però
avvicinarsi troppo.
«Mike?» disse con voce pacata, che però
tradiva
comunque poca serenità. «Mike, io mi chiamo Aiolos
Foster.
Possiamo parlare un momento?» chiese, anche se non si
aspettava
che il piccolo sbucasse fuori dal suo nascondiglio e gli desse subito
retta. Come con qualsiasi bambino impaurito, prima doveva guadagnarsela
quella fiducia.
Sentì provenire di fronte a lui un rumore e
accennò un
sorriso: il bambino era rintanato proprio dove pensava e gli era stato
confermato dal movimento della sedia, che si era spostata un poco di
lato, cigolando con le ruote.
«Non voglio farti del male, ma solo parlare»,
continuò, immaginando che il ragazzino si fosse rannicchiato
il
più possibile per non farsi notare; e di nuovo
sentì un
singhiozzo.
Si avvicinò ancora di qualche passo, fermandosi e rimanendo
al
di là della scrivania, per non correre altri rischi e non
spaventarlo ulteriormente.
«Mi dai una possibilità di dimostrarti che non
sono la persona che pensi io sia?»
L’altro continuava col suo ostinato silenzio. «Va
bene», concesse Aiolos, senza demordere.
Fece qualche passo verso le sedie e le poltroncine nella parte della
stanza, che era adibita a sala d’aspetto e, trascinandone
rumorosamente una sul pavimento col braccio sinistro che gli doleva, la
portò fino alla scrivania, accomodandovisi.
«Sai, non è la prima volta che qualcuno della tua
famiglia
mi scambia per quell’uomo», iniziò, con
tono
vagamente sarcastico; anche se non c’era poi tanto da
scherzare.
«Non posso negare che la somiglianza ci sia, ma posso
garantirti
che io non sono lui, altrimenti non sarei qui, tranquillo, a parlare
con te.»
Si appoggiò allo schienale della sedia e fece un respiro
profondo, accavallando le gambe e prendendo una posizione
più
comoda: prevedeva che sarebbe stata una cosa lunga.
«Bene, proviamo a partire dall’inizio»,
disse con un
mezzo sospiro. «Vengo da Boston e ho ventisei anni. Negli
ultimi
anni ho vissuto per la maggior parte del tempo a New York e non ero mai
stato qui a Philadelphia prima del febbraio scorso.»
«Bugiardo…» mormorò il
bambino, tirando su col naso.
«È la verità»,
confermò lui,
mantenendo la voce calma. «Puoi chiedere a tuo zio Phil. Lui
sicuramente avrà fatto dei controlli su di me, dopo la
nostra
prima conoscenza.»
«Lui è mio padre!» replicò
con stizza il
bambino, accennando a voler uscire da sotto la scrivania, ma
rinunciandovi subito.
Aiolos aggrottò un poco la fronte nel sentire quella
risposta
così scontrosa. Non che si fosse scandalizzato per un poco
di
maleducazione, ma era stato il timbro rabbioso, dietro la voce da
fanciullo offeso, che lo aveva lasciato perplesso. Quel tipo di rabbia
che prima aveva fatto agire in modo violento il bambino e che ora lo
aveva fatto rispondere in quella maniera, sapeva di averla
già
vista, anche se non ricordava dove e quando.
«Per tua sorella è uno zio. Che strana dinamica
familiare avete», mormorò.
«Davvero non sei lui?» chiese Mickey con un filo di
voce,
fra i singhiozzi trattenuti. Con le braccia teneva le gambe raccolte al
petto e la fronte appoggiata alle ginocchia.
«Pensi che questa sia la faccia di una persona
pericolosa?»
disse Aiolos, ora accovacciato di fronte a lui; nella sua mano, che
stava tendendo al bambino, teneva un fazzoletto bianco. «Ti
va di
raccontarmi cosa vi ha fatto?»
Il sorriso comprensivo che in quel momento gli stava mostrando, ebbe
l'effetto di incrinare la cupola di diffidenza e paura dietro la quale
Mike si ostinava a nascondersi.
«Io non so bene com’è andata»,
iniziò a
raccontare il piccolo, stringendo i pugni e nascondendo ancora di
più la testa fra le gambe. «Ma so che è
cattivo! Ha
fatto del male a tante ragazze. Ha fatto del male alla mia sorellona.
Mamma e papà non ne parlavano mai davanti a me, ma qualche
volta
li ho sentiti. Quando Caroline era in ospedale che non si risvegliava
più, loro litigavano sempre. Una volta la mamma lo ha
mandato
via da casa e poi ha pianto tanto, e ha pregato tanto perché
il
Signore non portasse la mia sorellona in cielo con sé come
aveva
fatto con il mio vero papà.»
La voce del bambino era rotta dal pianto che tratteneva a fatica,
nonostante le guance fossero invece rigate da copiose lacrime. Eppure
stava cercando con tutto se stesso di non sembrare un mocciosetto
piagnucoloso. Era ancora arrabbiato con sua sorella, ma il raccontare
quelle poche cose, che non aveva mai rivelato a voce alta a nessuno, lo
stava facendo vergognare del suo comportamento e temere per una sicura
punizione. Le aveva urlato addosso tutto il suo malessere, si era
liberato di un peso gravoso, però non si sentiva affatto
meglio.
Nessuno lo avrebbe biasimato troppo se fosse esploso prima; persino per
un adulto, ciò che aveva passato, sarebbe stato difficile da
superare e lui… lui era ancora solo un bambino, ma
già un
piccolo eroe, perché era stato quello che all'inizio aveva
reagito meglio di tutti.
«La mia sorellona…»
singhiozzò di nuovo Mickey, tirando su col naso.
«Lei sta bene», disse Aiolos, con un sorriso
fraterno
disegnato sulle labbra, accarezzandogli piano la testa, cercando di
rassicurarlo.
Vedere quel ragazzino così indifeso gli riportava alla
memoria
Aiolia, quando tornava a casa tutto abbattuto e nella tasca del
cappotto il foglio di richiamo del preside dopo aver fatto a botte nel
cortile della scuola.
Aiolos alzò un poco la testa sopra la scrivania, sentendo un
rumore leggero provenire dall’ingresso, intravide Caroline
che se
ne stava appoggiata allo stipite della porta. Lei si era portata un
dito alle labbra e gli aveva fatto segno di non parlare, di non svelare
al fratellino che era lì. Nonostante la penombra che la
nascondeva un poco alla sua vista, lui aveva notato – o forse
intuito – che la ragazza aveva gli occhi lucidi per le parole
pronunciate dal bambino. La conferma la ebbe pochi secondi dopo, quando
lei si avvicinò piano, senza far rumore e gli
mostrò un
foglio stampato, sgualcito e con diverse pieghe marcate. Battendo piano
sul volantino, gli indicò una data e poi fece un cenno con
la
testa, per incoraggiarlo a parlarne a Mickey, quindi puntò
l’indice prima verso di lui, poi verso dov’era
nascosto il
bambino e infine su di lei, in un messaggio muto. Prima di lasciargli
il volantino, puntò ancora una volta il dito sulla data
riportata e la scritta che indicava che l’indomani, sabato 29
maggio, ci sarebbe stata l’inaugurazione del nuovo impianto
del
poligono di tiro, tutto dedicato al paintball e che avrebbe occupato
l’intero secondo piano interrato.
Aiolos strabuzzò gli occhi e trattenne uno sbuffo, non
proprio
felice di dover essere messaggero di qualcosa che non gli competeva e
per di più, come se non lo fosse già stato a
sufficienza,
essere anche coinvolto in qualcosa che non lo riguardava.
Cora sorrise supplichevole al ragazzo, sperando che accondiscendesse a
quella richiesta tacita. Lei e Aiolos si sopportavano a mala pena,
eppure sapeva di poter riporre la sua fiducia in lui. Rimase un po' in
disparte, al di là della scrivania e abbastanza distante
affinché il fratellino non potesse accorgersi di lei, ancora
per
qualche attimo. Le si stringeva il cuore a sentirlo singhiozzare senza
requie.
Forse sarebbe dovuto essere compito suo consolarlo e non un perfetto
estraneo che oltretutto era stato la fonte inconsapevole di tutto quel
putiferio, ma cosa avrebbe potuto fare per far stare meglio il suo
fratellino? Cosa avrebbe potuto dirgli, che lo perdonava per il gesto
che aveva compiuto? Che le dispiaceva per le conseguenze che tutta la
famiglia era stata costretta a subire per la sua arrogante
sconsideratezza?
Ma quello era il suo rammarico più grande e le conseguenze
delle
sue azioni le avrebbe portate con sé – su di
sé
– per tutta la vita. L’unica cosa certa, nel suo
cuore, in
quel momento, era il desiderio di accertarsi che Mickey stesse bene; e
la compagnia di Aiolos pareva essere la cosa migliore potesse servirgli.
Si girò giusto in tempo per non mostrare le lacrime che
stavano
riempiendo i suoi occhi; nelle sue orecchie sentiva in modo persistente
il pianto trattenuto del fratellino. Una mano si spostò sul
ventre: non sentiva più le fitte acute e lancinanti di poco
prima, ma solo un dolore sordo, più leggero, che non destava
troppa preoccupazione in lei, abituata ormai a ben altri fastidi.
Eppure, appena faceva un respiro più profondo, le mancava
l’aria all’improvviso.
Uno sbuffo, una veloce passata sugli occhi col dorso della mano e,
così com’era arrivata, uscì.
*****
Teresa attendeva la figlia sulla soglia di casa: il cuore ansioso e gli
occhi che non riuscivano a mascherare la preoccupazione di una madre.
«Sta bene. Aiolos lo sta facendo sfogare», disse
Cora, con
un sorriso forzato sulle labbra e la fronte imperlata di sudore. Ad
affaticarla non erano certamente quelle due o tre rampe di scale,
quanto invece i soliti crampi che erano tornati a farsi sentire; ora
più forti e continui.
«E tu?» le chiese la donna; e non intendeva
riferirsi solo
alla sua salute fisica, che naturalmente le destava sempre qualche
pensiero, ma piuttosto al contraccolpo psicologico di quanto era
avvenuto.
«Ha colpito forte», scherzò Cora
«Mi ha fatto
male, ma non poi così tanto», confessò
infine,
cercando comunque di minimizzare la realtà dei fatti e
intendendo le medesime cose che erano rimaste sottintese. Non era
riuscita però a trattenere oltre le lacrime e, lasciandosi
abbracciare dalla madre, si era sfogata un poco anche lei.
«Bambina mia…» le sussurrò
piano la donna,
tenendola stretta e accarezzandole la testa.
«C’è
voluto molto coraggio per fare quello che hai fatto e per affrontare
poi le conseguenze. Non è colpa tua se la legge ha
vanificato il
tuo sacrificio.»
La madre la riaccompagnò in casa, fino in cucina, dove
già si erano ritrovati Chris e Phil, che sembrava stessero
ancora discutendo dell’accaduto. Non appena si affacciarono
nella
stanza, la discussione si chetò di colpo. Chris
lasciò il
suo posto alla ragazza, mentre Phil, in piedi accanto al frigorifero,
beveva una birra dalla bottiglia, con un’espressione sul
volto
che rispecchiava la gravità della situazione.
«Quando tornerà in casa dovrò fargli un
bel
discorsetto», borbottò l’uomo, con un
tono di
rimprovero, prendendo un altro lungo sorso.
«Così rischi di peggiorare la situazione, proprio
com’è successo l’altra volta»,
rispose
distrattamente Teresa, passando accanto al compagno e aprendo il
frigorifero. Con gesti automatici iniziò a prendere della
verdura dal cassetto in basso, e appoggiandola nel lavello. Il tono che
aveva usato era sembrato però piuttosto risentito.
«Non sto dicendo di punirlo severamente e togliergli ogni
libertà, ma almeno di provare a parlargli di nuovo e
spiegargli
che ciò che ha fatto è stato molto grave. Se quel
tizio
dovesse sporgere una querela per aggressione, Mickey potrebbe finire in
tribunale. E il giudice minorile non si limiterà a dargli un
semplice scapaccione e a mandarlo a letto senza cena. Se dovesse
andargli bene, potrebbe essere condannato alla libertà
vigilata
e all’obbligo di una lunga terapia con uno psichiatra. Ma un
periodo in riformatorio sarebbe più plausibile»,
spiegò l’uomo, appoggiando la bottiglia
lì vicino e
avvicinandosi alla donna, posandole le mani sulle braccia per
interrompere quello che stava facendo. «Mickey ha ormai
un’età che gli permette di capire
cos’è
giusto e cos’è sbagliato, cosa può fare
e cosa non
deve fare. Non puoi chiudere gli occhi su ciò che ha fatto.
Non
puoi continuare a proteggerlo in questo modo», le disse con
un
tono molto serio, facendola girare e guardandola dritta negli occhi.
Dentro di sé sapeva che la donna comprendeva di dover
correggere
il temperamento del figlio che in quei mesi era diventato gradualmente
meno gestibile, ma sapeva anche che per lei sarebbe stato difficile. Se
doveva diventare padre anche legalmente, avrebbe dovuto iniziare a
comportarsi come tale, persino nelle punizioni.
Cora corrugò la fronte nel sentire quei discorsi. Avrebbe
voluto
chiedere ulteriori spiegazioni, ma desistì nel sentire sulla
sua
spalla la pressione della mano di Chris. Era perplessa per quella
situazione: non era così che aveva lasciato la sua famiglia.
L’aveva sempre creduta unita e felice; ora invece, sembrava
smembrata e divisa, con cicatrici insanabili che li teneva lontani gli
uni dagli altri.
Teresa rimase indifferente alle parole del compagno, come se le
ritenesse prive di senso, gli diede le spalle e riprese a mondare e
tagliare a tocchetti le verdure, per poi buttare il tutto in una
pentola bassa.
«Mamma?» disse Cora.
«Mamma! Mamma!»
Mickey invase la cucina con eccessivo entusiasmo: aveva il viso tutto
arrossato e gli occhi ancora gonfi per le troppe lacrime, ma le sue
labbra erano piegate in un sorriso pieno di speranza.
«Davvero posso andarci?» le chiese, abbracciandola
forte alla vita.
La donna rimase spaesata per qualche secondo, travolta
dall’euforia del suo bambino, senza sapere cosa rispondere.
«Al poligono di tiro, mamma! Al poligono!»,
insistette, con
voce emozionata e un poco anche frustrata il figlio.
«C’è il paintball! Ci saranno anche i
miei compagni!
Non è pericoloso, ci daranno le protezioni! Allora, posso
andarci?» la supplicò.
Erano settimane che insisteva per quella novità, da quando
aveva
visto il volantino pubblicitario, ma la madre gli aveva sempre negato
il permesso adducendo che era troppo piccolo e che non le piaceva
l’idea che si avvicinasse a un luogo come quello e a uno
sport di
quel tipo.
La donna tentennò ancora qualche secondo, mentre con gli
occhi
cercava quelli del compagno che sicuramente avrebbe avuto qualcosa da
ridire, soprattutto dopo ciò che le aveva detto. Phil
invece, si
limitò a sospirare rassegnato e a prendere
l’ultimo sorso
di birra dalla bottiglia, gettandola poi nella pattumiera.
«Va bene, Mickey», disse, sorridendo allo sguardo
speranzoso del figlio; e dopo quella conferma, il bambino si strinse
ancora di più alla sua vita, ripetendo mille volte un
“grazie” che si perdeva nel sussurro attutito dal
suo petto.
Con la mano ancora umida, Teresa accarezzò i riccioli neri e
spettinati del bambino, rivolgendo lo sguardo alla figlia che la stava
ricambiando con un sorriso e mimando con la bocca un
“domani”, annuendo con la testa.
«È il tuo regalo di compleanno»,
aggiunse Teresa,
dandogli un bacio sulla testa. «E con te verranno anche
papà, Chris e Caroline», disse, trovando conferma
nel
cenno di assenso dei due giovani.
«Davvero?»
«Sì», disse Phil, rilassando il viso e
scompigliando
la testa del bambino: nonostante i propositi di severità,
aveva
ceduto anche lui, ma si riprometteva di punirlo più avanti!
Un toc toc discreto, sullo stipite di legno della porta della cucina,
richiamò l’attenzione di tutti. «Scusate
l’intrusione, ma la porta era aperta», si
introdusse Aiolos.
«Sei ancora qui...» si lasciò sfuggire
Phil.
Aiolos sogghignò. «Mr Burton, come le ho detto
prima, sono
venuto per Caroline, per riportarla a Boston», disse,
lasciando
stupefatta la diretta interessata.
«Ecco! Lo sapevo, sei una bugiarda!»
urlò Mike alla
sorella, rifugiandosi nella sua stanza e sbattendo la porta.
«È lui il tuo nuovo ragazzo, quello di
Boston?»
chiese Chris, seduto accanto a Caroline e tenendole stretta la mano
sotto il tavolo.
«No, è solo un conoscente», rispose lei,
a voce
molto bassa, ricambiando lo sguardo diffidente di Aiolos che non la
stava perdendo di vista un solo istante, in quella situazione di
imbarazzante stallo dei presenti.
«E ti fa da guardia del corpo, autista e
servitore?» chiese
ancora il ragazzo, pronunciando quelle parole con evidente
perplessità nella voce, continuando a fissare l'ospite.
Caroline fece spallucce senza dare una vera risposta, perché
lei
per prima non sapeva come mai l’altro si trovasse a casa di
sua
madre.
Erano seduti tutti e cinque attorno al tavolo da pranzo, davanti a una
tazza di caffè appena fatto, che si scrutavano a vicenda con
diffidenza, mentre dalla stanza del bambino arrivava la musica a tutto
volume.
«Gli passerà presto», disse Phil,
posando la mano su
quella della compagna che continuava a tormentare la tovaglietta.
La donna sbuffò sconsolata, deviando per qualche secondo lo
sguardo nella direzione della camera del figlio, per poi posarlo di
nuovo sul suo ospite. Sentiva un certo disagio nel trovarselo di
fronte, le sembrava così strano che potesse esistere al
mondo la
copia quasi esatta dell’uomo che aveva fatto del male alla
sua
bambina, ma dopo le rassicurazioni di Caroline e le presentazioni
ufficiali, si era in qualche modo tranquillizzata.
«Dunque, Foster…» disse Phillip,
invitando l’ospite a spiegare a tutti il motivo della sua
presenza.
«Come le ho detto nel suo ufficio, sono venuto per conto di
una
persona», rispose con semplicità Aiolos.
«Mr Hayes
sarebbe voluto venire lui stesso, per presentarsi ufficialmente, ma ha
avuto dei contrattempi e ha chiesto a me di riaccompagnare miss Miller
a casa sua, a Boston.»
«Poteva almeno avvertirmi…»
mormorò Cora, mettendo il broncio.
«È tipico di lui fare questo tipo di sorprese,
dovresti
ormai conoscerlo», disse Aiolos, con una leggera smorfia
sulle
labbra, fissandola con insistenza. Non gli era sfuggito come
l’altro ragazzo le stesse vicino, per non dire appiccicato; e
questo lo infastidiva ancora di più che saperla fidanzata
con
Saga.
«Beh, puoi ripresentarti da lui e riferirgli che non torno
solo
perché ha deciso che è arrivato il momento di
tornare a
casa, o perché ha mandato qualcuno a prendermi»,
ribatté Cora, sotto lo sguardo severo di Phillip e quello
preoccupato della madre.
Cora si stava mostrando forse troppo risentita con quella risposta
irritata, ma non riusciva a farne a meno. Si stava sentendo come un
cucciolo che viene dato in affidamento a una pensione per animali
perché il padrone vuole andarsene in vacanza risparmiandosi
la
scocciatura di doverselo portare appresso.
«E comunque», continuò, usando un tono
più
pacato, quasi mortificato, «adesso non posso partire.
Domenica
c’è la nostra festa di compleanno e non ho
intenzione di
perdermela!»
«Lui vuole infatti festeggiare con te il tuo
compleanno.»
«Ti ha appena detto che non ha intenzione di muoversi, amico.
Se
ci teneva così tanto, questo lui, avrebbe dovuto presentarsi
di
persona e non mandare un tirapiedi», intervenne Chris.
L'eco di quelle parole, risuonate secche e con un timbro vagamente di
disprezzo, nel silenzio della sala da pranzo, fu spezzato dal rumore
provocato dalla sedia di Phillip Burton, quando egli si alzò
di
scatto, con un'espressione molto seria in volto. L'uomo poi
uscì
dalla stanza senza dire nulla. Si fermò per qualche istante
nel
corridoio, respirando piano, per calmarsi. Con la coda dell'occhio
intravide Mike che si era messo a origliare.
«Non rimanere lì nascosto, Mike, raggiungi gli
altri», disse l'uomo.
Entrò nel salotto e, da una scatolina posata sul tavolino,
prese
una sigaretta, accendendola subito e traendone una lunga boccata. Era
da tanti anni che aveva smesso di fumare, ma qualche volta, quando la
situazione lo rendeva necessario, se ne concedeva una. E quella era una
di “quelle” volte; e se la sarebbe goduta tutta,
lentamente, perché doveva riflettere. Quel nome, che non
sentiva
più da molti anni e che credeva di essersi lasciato alle
spalle,
era fonte di gravi preoccupazioni.
Mike entrò in punta di piedi nella sala da pranzo, rimanendo
in
disparte e con la testa bassa. Con lo sguardo cercò quello
della
sorella, ma non appena lei se ne accorse, ricambiando con un sorriso,
lo distolse subito. «Davvero vuoi rimanere qui per
festeggiare il
nostro compleanno?»
«Certo! Non vorrai che lasci tutta a te la torta della mamma,
vero?»
«E verrai anche tu a giocare a paintball?» le
chiese di nuovo il bambino.
«Ovviamente!» Caroline sorrise più
apertamente al
fratellino, gli tese la mano e lo invitò per un abbraccio.
«Allora, cosa devo dire a Saga?» si intromise
Aiolos, bevendo un sorso di caffè.
«Chi è Saga?» chiese Mickey.
«È un…
“amico”», gli rispose la
sorella, pronunciando però in modo incerto la parola
“amico”.
«È per lui che hai scaricato Chris?»
«Mickey! Non si dicono queste cose!» lo
rimproverò
Teresa, notando l’improvviso imbarazzo calato sulla figlia e
su
Christopher.
«Ma… com’è? Perché
non ne hai mai
parlato?» Il bambino si rivolse ancora una volta alla sorella.
«Mickey!» lo riprese di nuovo, la madre.
«Ma voglio sapere se è all’altezza di
Chris!» insistette il piccolo, sbuffando.
Aiolos trattenne a stento una risatina beffarda
all’affermazione
del bambino, attirandosi un’occhiataccia da parte di Cora.
Poi,
prese dalla tasca il cellulare e vi trafficò per qualche
secondo. «Avvicinati, ti mostro una sua foto, così
potrai
giudicare tu stesso», si rivolse quindi al ragazzino.
Lì
dentro sembrava essere l’unico che non lo trattasse come un
bambino, ma come un adulto.
Mike gli corse accanto senza farselo ripetere. Dopo il loro chiarimento
sentiva di potergli dare fiducia. Sgranò gli occhi quando
Aiolos
gli passò il cellulare.
«Siete tanto amici?», chiese, dopo aver visto quel
selfie che i due si erano fatti usciti dal ferramenta.
«Siamo cresciuti come fratelli, inseparabili, nella stessa
casa», rispose Aiolos, con un sorriso disteso e sincero.
«Allora è il tuo best?»
gli chiese ancora Mike.
«Beh, non proprio. Il mio migliore amico è suo
fratello. Il suo gemello, Kanon.»
Mickey spalancò la bocca, quando Aiolos gli diede la
conferma
alle sue parole, mostrandogli i selfie che si era fatto a Capodanno con
Kanon.
«Wow!» fu l’unica cosa che
riuscì a esprimere
il bambino, mentre Aiolos faceva scorrere davanti ai suoi occhi le
fotografie: ce n'erano anche alcune di quando erano adolescenti.
«Ma ha i capelli lunghi anche da piccolo! A scuola non lo
prendevano in giro?» gli chiese il bambino, con innata
genuinità, facendolo ridere di gusto e destando la
curiosità di Teresa e di Chris, che inconsciamente aveva
allungato il collo per tentare di vedere qualcosa.
«Sì, li ha sempre portati lunghi; e sì,
qualche
volta gli altri ragazzi lo prendevano in giro, ma non a scuola. Lui
studiava a casa.»
«Che fortuna! Non era costretto a svegliarsi presto ogni
mattina,
né avere a che fare con compagni antipatici.»
«Non lo invidierei così tanto»,
replicò
Aiolos, scompigliandogli i capelli. «Era sempre solo, con
l’unica compagnia degli insegnanti privati; e poi, con mia
nonna
che faceva la guardia, non c’era molto da scherzare. Era
piuttosto severa quando si trattava di studiare! Tu invece, a scuola
avrai tanti amici, no?»
Accorgendosi dell’interesse anche della donna, Aiolos
sussurrò qualche parola al bambino.
«Guarda, mamma!» esclamò felice Mike,
porgendole il cellulare.
La donna arrossì un poco nel vedere quelle foto,
perché
la curiosità era stata tanta in lei; e più che
lecita, si
poteva dire! Del resto si stava parlando del nuovo e
“misterioso” fidanzato della figlia, del quale
Caroline non
aveva detto nemmeno una parola in quei giorni.
«È un bel ragazzo», mormorò,
sorridendo e restituendo il cellulare al suo proprietario.
In tutto quel tempo, l’unica rimasta in disparte e che
sembrava
estranea a quell’interesse generale, era proprio Cora, troppo
presa a sentirsi a disagio, imbarazzata e preoccupata per i giudizi dei
suoi familiari.
«Bene, credo di aver disturbato anche troppo»,
affermò Aiolos, alzandosi in piedi e prendendo dallo
schienale
della sedia la giacca.
«Perché non resti a cena?» lo
invitò la
donna. «È il minimo che possiamo fare per
ripagarti
dell’equivoco di prima.»
«Accetto molto volentieri», rispose il ragazzo,
scambiando
uno sguardo con Cora e sogghignando agli occhi sgranati di lei.
La donna fece un bel sorriso e iniziò a ritirare sul vassoio
le
tazze sporche. «Chris, naturalmente rimani anche tu,
vero?»
disse all’altro ragazzo che non indugiò un solo
secondo a
confermare con entusiasmo.
Cora lanciò un'occhiata al suo ex. Non doveva spremersi le
meningi per capire che Chris aveva accettato l’invito solo
per
gelosia; e lei lo poteva vedere bene dai suoi occhi sempre fissi su
Aiolos. Sperava solo che la serata si concludesse senza altri incidenti
e di evitare un eventuale terzo grado su Saga, ora che la madre era
venuta a conoscenza della sua esistenza. E lo zio Phil, come avrebbe
reagito? Tempo addietro l’aveva presa male nel sapere della
convivenza, ma c’era stata l’aggravante della poca
conoscenza; ora erano passati mesi, ma di aggravanti se ne erano create
altre e piuttosto pesanti.
Sbuffò, accasciandosi sfinita sulla sedia, presagendo
già una cena difficile.
«Mickey, tesoro, perché non mostri quelle foto
anche a tuo
padre?» gli propose Teresa, guardando poi Aiolos e
chiedendogli
il permesso.
*****
Aiolos era lì in fila assieme agli altri; fermo nello stesso
punto da almeno venti minuti e circondato da una massa di ragazzini con
ancora gli zaini di scuola sulle spalle, mentre di ragazzi
più
grandi, quelli che fumavano e già avevano la patente, non
pareva
esserci neanche l’ombra. Si guardò in giro,
facendo quasi
una piroetta su se stesso: spiccava solitario in mezzo a tanti nanetti.
E in quel momento, nella chiassosa desolazione di quel piccolo mare
vociante che sembrava raddoppiare – triplicare – di
dimensione, con tutti quegli zainetti colorati, che si spintonavano e
si rincorrevano, si stava pentendo amaramente di aver accettato di
unirsi a Caroline e alla sua famiglia per quella giornata;
così
come si stava anche pentendo di essere voluto venire lui stesso a
Philadelphia. Aveva pensato che accettando quell’incarico
sarebbe
riuscito a scoprire un po’ di più sul conto di lei
e della
sua famiglia. Certo, era stato Saga a servigli su un piatto
d’argento quell’occasione, ma ora si stava
chiedendo se ne
fosse valsa la pena.
«Cerchi qualcuno?» gli chiese Cora, raggiungendolo
in quel
momento e sorbendo la Coca-Cola con la cannuccia dal bicchierone e
porgendogli un caffè, che aveva preso al fast food dietro
l'angolo.
Aiolos continuò a fissare un punto preciso per diversi
secondi,
prima di rilassarsi, posare nuovamente lo sguardo
sull’entrata
dello stabile del poligono di tiro e sbuffare come suo solito. La
distanza dalla meta era immutata.
«Non mi aspettavo che fosse un’attrazione per i
bambini
delle elementari», le disse, con tono un poco irritato,
bevendo
il caffè.
«Non hai letto il volantino?» chiese lei. Pareva
sorpresa.
«L’ingresso e il noleggio
dell’attrezzatura sono
gratuiti solo per questo weekend, per i bambini fino ai dodici anni. E
poi, il campo da gioco è stato allestito a tema, proprio per
attirare i ragazzini!»
Il giovane scrollò la testa. La spiegazione che gli aveva
fornito lei non lo convinceva per niente; anzi, iniziava a credere di
essere stato incastrato, perché il volantino che lei gli
aveva
dato il giorno prima non menzionava affatto quelle cose.
«Eccovi, finalmente!» ansimò Chris,
raggiungendo a fatica i due giovani.
«Dov’è Mickey?»
«L’ho lasciato assieme ad alcuni compagni di
scuola, e al
padre di uno di loro. Erano impegnati in un'accesa discussione su quale
videogame fosse il migliore in assoluto: se la serie di Final Fantasy,
oppure GTA», disse Chris, approfittando della bibita della
sua ex
per placare la sete improvvisa. Aveva posato la mano su quella di Cora
e avvicinato il bicchierone alla bocca. «Quel ragazzino
è
troppo tenero. A dire la verità non gli importa nulla di
quei
giochi, ma si mostra tanto interessato solo per poter stare vicino a
una bambina che invece è una fan accanita, un vero
maschiaccio!» spiegò, sorridendo e passandole il
braccio
sulle spalle.
«La sua prima cotta.» Gli occhi di Cora si
illuminarono di
tenerezza nel cercare con lo sguardo il suo fratellino in mezzo a
quella piccola folla.
Aiolos si lasciò andare a uno sbuffo silenzioso, girando la
testa dall’altra parte, infastidito
dall’atteggiamento di
entrambi, che mostravano troppa confidenza l’uno con
l’altra. Ma se da una parte non poteva giudicare lui,
dall’altra gli dava fastidio il comportamento di lei che
reputava
inappropriato, considerato che era legata sentimentalmente a qualcun
altro. E fastidio maggiore lo provava perché lei dava
l’impressione di incoraggiare in maniera eccessiva quel
ragazzo;
poco importava che fosse il suo ex fidanzato. Contrasse la mascella
continuando a sondare la piccola folla di ragazzini: cosa ne avrebbe
pensato Saga se l’avesse vista in quel momento? Sentiva
vagamente
ciò che quei due si stavano dicendo e quel tono di voce
così dolce, che stava usando lei, lo irritava.
«Caroline! Caroline!» chiamò a gran voce
qualcuno, sbracciando come un matto.
Era uscito da pochi secondi dalla porta d’ingresso dello
stabile per fumarsi una sigaretta e l’aveva vista.
La ragazza si guardò attorno per vedere chi
l’avesse
chiamata, poi sorrise e rispose al saluto con un cenno della mano.
«Jimmy!»
«Che fortuna trovarti qui», disse il ragazzo. James
Sandoval, portoricano di origine ma nato in America, era il co-titolare
del poligono di tiro ed era anche quello che si occupava della parte
amministrativa dell’attività, al contrario di suo
fratello
maggiore Jorge che invece preferiva il contatto col pubblico.
«Mi
risparmi una telefonata all’agenzia»,
continuò, dopo
aver salutato anche gli altri due con una vigorosa stretta di mano e un
sorriso contagioso. «È venuto anche mr
Burton?»
«Sarebbe dovuto venire, infatti. Ma gli è
sopraggiunto un
impegno improvviso alla centrale di polizia, forse legato a un caso che
sta seguendo. Penso però che verrà più
tardi. Lo
ha promesso a mio fratello. Avevi bisogno di lui?»
«Mmmh…» L’uomo
osservò distrattamente
l’ora segnata sul quadrante del suo vecchio orologio da
polso,
una pessima imitazione di un Rolex, e fece un respiro profondo.
«Fra poco devo andare via e non riesco a fare una deviazione
per
lasciarglieli all’agenzia», mormorò.
«Ho dei
documenti che tuo zio mi ha chiesto di procurargli con urgenza, posso
approfittare di te, vero?»
«Certo, non c’è problema»,
rispose Cora, un
po’ sorpresa per essere stata presa a braccetto dal nuovo
arrivato. «Ma li puoi dare anche a Chris: ora è
lui
l’assistente di zio Phil.»
«Dai, venite dentro, vi faccio passare davanti alla
fila!»
disse con enfasi James, sospingendola verso l’entrata, senza
lasciarle il tempo di pensare.
«Aspetta un attimo», tentò di protestare
un poco la
ragazza. «Aiolos, per favore vai a recuperare mio
fratello!»
Quel posto non era proprio come loro se lo erano immaginato,
soprattutto il piccolo Mike. Assomigliava a un parcheggio sotterraneo,
ma essendo un piano interrato forse lo era stato fino a quando non era
stato riconvertito. L'area adibita al paintball era così
grande
che erano stati ricavati diversi recinti, diversi per dimensioni e
conformità del terreno di gioco a seconda della
difficoltà. Le colonne squadrate di cemento armato erano sia
degli ostacoli naturali, sia dei ripari altrettanto efficaci che si
integravano perfettamente con quelli gonfiabili, creando dei percorsi
obbligati.
Al momento di vestire le protezioni, Cora decise di passare la mano,
asserendo che preferiva fare da spettatrice e vedere “i suoi
uomini” in azione. Quell’affermazione
imbarazzò un
poco il bambino, ma al tempo stesso lo lusingò
perché la
sorella gli aveva assicurato che avrebbe fatto il tifo solo per lui.
La ragazza li osservò entrare tutti e tre nel campo di gioco
da
uno dei sedili della prima fila della piccola tribuna costruita sul
lato più lungo, protetta da un’enorme parete di
plexiglass. Li vedeva accucciarsi e strisciare dietro i gonfiabili,
aggirare gli avversari, alzarsi di scatto e sparare a raffica le
pallottole di vernice fluo in una battaglia serrata. Durò
quasi
mezz’ora, ma alla fine la squadra di Mickey
capitolò, dopo
la conquista della bandiera da parte degli avversari.
«Grazie per esserti sottoposto a tutto questo»,
disse Cora,
accogliendo Aiolos nella piccola tribuna, lasciando libero il posto che
aveva tenuto occupato con la borsa a tracolla, mentre lo zainetto di
scuola del fratellino lo teneva vicino a sé, fra le gambe.
«È stato divertente», ammise lui,
massaggiandosi la spalla che sentiva di nuovo dolorante dopo quegli
sforzi.
Cora si sorprese positivamente della strana accondiscendenza del
ragazzo. Non sapeva come giudicarlo, non lo conosceva bene, ma il suo
sguardo e la sua voce in quel momento esprimevano sincerità.
Gli
porse una bottiglietta d’acqua e tornò a seguire
la nuova
gara che si stava svolgendo.
«Davvero sei venuto solo per riaccompagnarmi a Boston? Non
c’è nient’altro dietro?» gli
chiese, senza
distogliere l’attenzione dai giocatori.
Mickey e Chris erano ancora nel piccolo spazio adiacente al campo di
gara che si stavano ripulendo e cambiando la pettorina, per poi tornare
dentro per un’altra manche, assieme agli amichetti del
bambino:
questa volta avevano formato una squadra di sette.
«Mi pareva di avertelo detto ieri. Non
c’è alcun secondo fine: sto solo facendo un favore
a Saga.»
Cora mantenne lo sguardo fisso davanti a sé, respirando
piano e
silenziosamente; sembrava concentrata su altro più che
ascoltare
la risposta di Aiolos. Si alzò senza alcun preavviso e prese
le
sue cose; poi si avvicinò a Chris che era tutto intento a
spiegare la strategia di battaglia ai bambini. Gli disse alcune parole
all’orecchio e gli consegnò lo zainetto del
fratellino.
Infine, prima di tornare da Aiolos, diede un bacio sulla guancia a
Mickey, incoraggiandolo per la vittoria.
«Vieni con me.»
Presero le scale che portavano al piano terra, dove c’era
l’accettazione e il bancone dell’armeria. Dietro il
bancone, Jorge era impegnato in una conversazione con alcuni ragazzi
che nulla avevano a che fare con i giovani arrivati per il paintball.
Nonostante stessero parlando di cose innocue, chi lo conosceva bene
poteva giurare che invece lui stesse flirtando in modo fin troppo
sfacciato.
Aiolos fissò l'uomo con insistenza, piegando le labbra in
una
smorfia di disgusto, alleggerendo l’espressione solo quando
l’altro ricambiò quello sguardo con un mezzo
sorriso.
Jorge aveva tutto il fascino esotico dei giovani caraibici e sapeva ben
sfruttarlo per le sue conquiste, soprattutto per quelle occasionali.
«Cora, mi
niña hermosa.
È da un pezzo che non ti fai vedere da queste
parti», la
salutò, con un abbraccio e baciandola su entrambe le guance.
«Che posso fare per te?»
«Vorrei esercitarmi un po’», rispose lei,
mostrandogli la tessera d’iscrizione.
«Da sola? Non c’è il grande
capo?»
«Ho portato lui», disse, indicando Aiolos.
«Ti va di sparare qualche colpo?» gli chiese.
Il ragazzo rimase per qualche secondo sorpreso e perplesso. Davvero lei
voleva sparare con armi vere? Non le sembrava affatto il tipo. Forse,
sentendosi a casa, si credeva una dura; forse lo voleva impressionare
in qualche modo. Eppure lo sguardo di Cora era sicuro e determinato,
come non gliene aveva mai visto prima, ma era anche sereno e luminoso.
«Sei già stato al poligono prima d'ora? Non hai
paura
delle armi da fuoco, vero? Non ci sarebbe alcuna vergogna»,
gli
disse lei, quasi sollecitandolo a prendere una decisione.
Aiolos sbuffò, borbottando poi un “non quando te
ne
puntano una alla testa” e riprendendo quella sua solita aria
di
superiorità che tanto era diventata una difesa contro gli
altri
e che gli permetteva di mantenere le distanze con chi non gli piaceva;
e Caroline Miller non gli piaceva affatto.
«Mi prepari la solita, per favore?» chiese lei,
rivolgendosi di nuovo Jorge. «E tre caricatori da
quindici!»
Dal portafoglio tirò fuori la carta di credito e
l'appoggiò sul bancone.
«Oggi offre la casa.»
Con un gesto della mano, mostrando la grossa pietra incastonata
nell’anello massiccio, Jorge gliela restituì,
rifiutandola. Sul computer inserì solamente i dati della
tessera
e registrò il noleggio dell'arma e della cabina numero
cinque.
Infine, espletate tutte le formalità amministrative e di
legge,
solo perché era lei, le consegnò
l’equipaggiamento,
anziché farlo portare da un addetto del poligono di tiro,
augurandole buon divertimento.
Il luogo adibito al poligono di tiro vero e proprio, quello almeno per
le armi corte, era un lungo e buio stanzone dalle pareti di cemento
armato, ricoperte da una speciale membrana per attutire la detonazione
degli spari, e con una zona di tiro di circa cinquanta metri. Nella
parte più vicina, quella accessibile al pubblico, erano
state
montate una decina di cabine larghe un metro e mezzo e separate le une
dalle altre da semplici divisori di compensato spesso tre centimetri.
Ogni postazione aveva una piccola pulsantiera che azionava il braccio
meccanico per spostare il bersaglio e un monitor dal quale si potevano
controllare i risultati dei tiri, molto simile a quello che veniva
usato nelle gare olimpiche.
Cora posò la 22 semi-automatica, assieme ai caricatori,
sulla
mensola davanti a sé. Con le mani si acconciò i
capelli
in una semplice coda di cavallo, fermandola con l’elastico
colorato che teneva al polso e si sgranchì collo e spalle;
infine si liberò della giacchetta leggera di jeans,
appoggiandola sopra la sua tracolla che aveva collocato a terra, appena
sotto i ripiani della cabina. Per un breve momento, il suo corpo venne
pervaso da un brivido di freddo. Eppure la temperatura era piacevole;
anzi, forse l’aria risultava un poco afosa e viziata.
Si concentrò su ciò che aveva davanti a
sé.
Impugnò la pistola, la puntò verso il basso e
verificò che fosse completamente scarica e con la sicura
fosse
inserita. Nonostante quei controlli fossero già stati fatti
in
precedenza da Jorge, lo zio Phil le aveva insegnato che quando si
maneggia un’arma, ci si deve affidare solo a ciò
che si fa
in prima persona e soprattutto: controllare, ricontrollare e
ricontrollare ancora!
Provò l’impugnatura e simulò la
posizione di mira e
di sparo, distendendo le braccia e facendo aderire per bene le mani
nella posizione giusta. Sentiva le braccia e le spalle un po’
rigide; era da diverso tempo che non si esercitava, ma tutto sommato
era abbastanza soddisfatta della reazione dei suoi muscoli.
Aiolos la osservò per tutto il tempo con sguardo scettico.
Non
sapeva che pensare di quella specie di dimostrazione, se non che lei lo
volesse solo impressionare.
La vide posare di nuovo l’arma sulla mensola e chinarsi per
prendere un grosso foglio, grande quanto un poster, dal ripiano
inferiore, che subito agganciò al braccio meccanico; poi
prese
delle cuffie imbottite e un paio di occhiali protettivi.
«Indossale!» gli disse, passandogli le cuffie.
Dalla tasca dei jeans prese una scatolina che conteneva dei tappi per
le orecchie e subito se li infilò: avrebbero attutito il
rumore
della detonazione del colpo. Come ultimo passo, indossò gli
occhiali protettivi.
«Ma stai facendo sul serio?» le disse Aiolos, con
ancora le cuffie in mano, mentre il bersaglio si allontanava.
«Iniziamo con venticinque metri?» disse lei, con un
sorrisetto e il tono vagamente arrogante di chi è
consapevole
delle proprie capacità e della propria bravura, voltandosi
verso
di lui.
Soddisfatta della distanza afferrò l’arma con la
destra,
mentre con l’altra mano prese uno dei caricatori. Un colpo
deciso
e lo inserì. Caricò il colpo in canna e di nuovo
si mise
in posizione. L’indice destro era ben appoggiato sul lato
della
pistola, sul guardamano del grilletto. Fece qualche respiro profondo
per aumentare la concentrazione. Il suo sguardo divenne ancora
più determinato e serio, nulla l’avrebbe potuta
distogliere; il suo corpo era rilassato ma al tempo stesso in tensione.
Le braccia erano tese davanti a sé, la mano destra teneva
saldamente l'arma, mentre la sinistra faceva da sostegno.
Era pronta.
Aiolos si mise in fretta le cuffie alle orecchie, con gli occhi
sgranati si spostò un poco dietro di lei per osservare
meglio,
ma senza darle intralcio.
Bang! Bang! Bang!
Tre spari in rapida successione.
Bang! Bang! Bang!
Un’altra serie di tre spari. Proprio come le aveva insegnato
l’ex capitano Phillip Burton; proprio come insegnavano
all’accademia di Polizia.
Le braccia di Cora tremarono un poco per lo sforzo di reggere il
rinculo dell’arma. Di nuovo si concentrò prendendo
un bel
respiro; di nuovo altri tre colpi in rapida successione, come una breve
scarica. E così per altre due volte, fino a vuotare il
caricatore.
La giovane rilasciò l’aria in uno sbuffo, come a
volersi
liberare di un peso, nascondendo però un piccolo gemito: un
lieve ma improvviso crampo al ventre le provocò un movimento
incerto nella procedura che stava eseguendo. Con le mani tremanti
rimise la sicura, estrasse il caricatore vuoto e tirò
l’otturatore per controllare che l’arma fosse
completamente
scarica. Poi, la posò sulla mensola. Tornò a
respirare in
modo normale, come se nulla fosse successo. Si tolse gli occhiali
protettivi, posandoli accanto alla pistola e riprese il bersaglio.
«Poteva andare meglio», commentò,
esaminandolo e
mettendolo da una parte, sostituendolo subito con uno nuovo.
«Tocca a te», esortò l’altro.
Aiolos continuò a fissare quel bersaglio anche dopo che era
stato accantonato. Il risultato che aveva ottenuto Cora era stato di
nove centri nei punti vitali, di cui tre alla testa e sei al cuore, e
gli altri sei colpi andati a segno in pieno stomaco.
Deglutì, incredulo. Ora era veramente impressionato. Eppure,
a
prima vista la ragazza non sembrava affatto avvezza alle armi da fuoco,
invece aveva dimostrato molto bene che ci sapeva fare.
«Se è la prima volta per te, non aver timore, ti
spiego tutto io.»
Cora non aveva l’abilitazione per insegnare a sparare, ma non
c’era nessuno a darle una bacchettata sulle mani per
quell’infrazione ed era più che sicura che non ci
sarebbero stati problemi. Si scostò di un passo e gli
lasciò spazio.
In quel breve momento, Aiolos si sentì letteralmente sotto
esame. Se avesse rifiutato l’invito si sarebbe dimostrato un
vigliacco, ma se invece avesse accettato?
Come un flash stordente riaffiorarono in lui quegli attimi di terrore
che aveva assaggiato mesi prima, in quella stazione della metropolitana
deserta, mentre il freddo metallo della canna della pistola aveva
accarezzato la sua testa. Lì, in quel luogo, ugualmente
deserto,
gli si presentava l’occasione per scacciare
quell’ombra
ingombrante. Anche se con riluttanza, era pronto a coglierla, ma i suoi
piedi non ne volevano saperne di muoversi da dove si erano piantati.
Fece quasi violenza a se stesso quando si avvicinò a lei e
sfiorò con la punta delle dita l’arma posata sulla
mensola.
«Prendi la pistola e prova l’impugnatura; vedi come
te la
senti in mano», disse lei. «Stringi forte con
l’anulare e il medio, quindi rilassa un poco le dita.
L’altro dito, il mignolo, deve solo appoggiare, fare da
sostegno.
L’indice mantienilo lontano dal grilletto.»
Con entrambe le mani, Cora lo stava aiutando a prendere la posizione
corretta, spiegandogli passo per passo, sfiorando la sua mano,
spostandogli un poco le dita per migliorare la sua presa.
«Ricordati di puntare l’arma sempre verso il basso
e mai
nella direzione delle altre persone. Stringi saldamente. Aiutati con
l’altra mano per rendere più stabile la presa.
Quando sei
in fase di preparazione, non tenere mai il dito sul grilletto: se
l’arma è carica potrebbe partire un colpo
accidentale.»
Mentre ascoltava le sue parole, ad Aiolos sembrava di essere tornato
adolescente, a quando in uno strano momento di condivisione familiare
il padre aveva portato lui e Aiolia al poligono di tiro, appena fuori
Boston, e aveva mostrato loro come sparare.
«Mi stai ascoltando?»
«Certo», rispose lui, con un certo imbarazzo nella
voce.
«Ora, prova a distendere le braccia e a prendere la mira.
Ricorda, l’altra mano serve solo come supporto e per rendere
più stabile e sicura la presa. Tutto il lavoro lo fa la mano
dominante. Sei destrorso come me, vero?»
Aiolos fece un cenno di assenso con il capo.
«Bene. Sovrapponi la sinistra alla destra e allinea i
pollici,
non troppo in alto, altrimenti il movimento del cane potrebbe ferirti;
mantieni ancora l’indice destro appoggiato lungo la
canna.»
Cora fece una pausa, lasciando il tempo all’altro di
assorbire
tutte quelle nozioni e provare la presa corretta. Annì
nell’osservarlo prendere una cauta confidenza.
«Passiamo alla postura delle spalle e della gambe.»
Di
nuovo gli si fece vicino, mentre con le mani gli toccava gli arti.
«Il braccio destro deve essere ben teso, il sinistro invece
leggermente col gomito piegato. Ricorda: il sinistro serve solo per
sorreggere e stabilizzare», gli ripeté,
posizionandosi
dietro di lui e aggiustandogli l’altezza delle braccia.
Non era facile per lei correggerlo, perché la corporatura di
Aiolos era troppo massiccia, almeno rispetto a lei.
«Le gambe vanno divaricate leggermente, devono essere alla
stessa
altezza delle spalle. Col piede destro fai un piccolo passo indietro,
mentre le ginocchia devono flettere un poco...» Per un attimo
le
mancò il fiato e fu costretta a fare una breve pausa.
«per
mantenere meglio l’equilibrio», terminò,
cercando di
fare come niente fosse. «Ora, per prendere correttamente la
mira
dei allineare il mirino anteriore con quello posteriore. Non ti
preoccupare se ne vedi uno sfocato, o se vedi il bersaglio sfocato; non
possono essere tutti messi a fuoco. Concentra lo sguardo su quello
anteriore. Una volta che i mirini saranno allineati, avrai la certezza
che la pistola è ben dritta. Questa è una tecnica
base;
poi, col tempo e con l’esperienza, potrai trovarne una
più
adatta a te.»
Si portò di nuovo a fianco del ragazzo per avere una visione
globale della sua posizione.
Aiolos seguì tutte le indicazioni senza lamentarsi. Era
strano
come l’insofferenza che di solito provava per lei, fosse come
scomparsa. Ancora più strano era che si lasciasse guidare in
quel modo, quando con il padre invece aveva fatto maggiore resistenza.
E tutto quello che non aveva voluto apprendere da Thomas, con lei era
invece interessato a imparare; anche se, teoricamente, le conosceva
già tutte le basi che lei gli stava spiegando. Sapeva
persino
smontare, pulire e rimontare diversi tipi di armi, praticamente a occhi
chiusi.
Cora si appoggiò con una mano alla mensola della cabina di
tiro
e fece un paio di respiri profondi; le sue labbra tremolarono un poco e
all’improvviso sentì caldo. Si sfiorò
il ventre con
l’altra mano, ancora una volta i crampi le stavano dando una
strana sensazione.
«Tutto bene?» chiese Aiolos, osservandola con la
coda
dell’occhio; era rimasto in posizione, ma ormai la
concentrazione
era tutta per la ragazza che stava avendo delle reazioni poco normali.
Abbandonò la postura di mira, tenendo mollemente la pistola
con
la destra e si girò verso di lei.
Cora si dovette appoggiare anche con l’altra mano, ansimando.
Il
viso era completamente imperlato di sudore, sentiva un gran caldo,
eppure era pallida come un cencio.
«Sei sicura di stare bene?»
«Sì, sì. Scusami, ora è
passato», lo
rassicurò lei, seppur in modo poco convincente.
«Riprendi
la posizione», lo esortò, ma Aiolos questa volta
non le
diede retta, rimanendo a fissarla con strana preoccupazione.
Il ragazzo fece appena in tempo a posare la pistola, tralasciando tutte
le norme di sicurezza di quando si maneggiano le armi, che lei si era
piegata in due dal dolore, trattenendo un forte gemito, accasciandosi
infine a terra, fra i bossoli dei colpi che aveva sparato poco prima.
*****
Cora era stufa di aspettare. Seduta sul lettino delle visite, col
camice ospedaliero in dosso – corto e scomodo che le lasciava
la
schiena nuda – e le gambe a penzoloni, continuava a farle
dondolare avanti e indietro, sbuffando annoiata.
«Basta, io me ne vado!» disse, saltando
giù dal
lettino. Aveva atteso quasi un’eternità
lì seduta e
ora non era disposta a spendere un minuto di più in quel
posto.
Aiolos la guardò alzando un sopracciglio, seduto sullo
sgabello
di metallo, poco più in là. Strano ma vero, lui
che
l’aveva portata di corsa al pronto soccorso, si era ritrovato
alla fine con una visibile fasciatura alla spalla e il braccio appeso
al collo, mentre lei, che fino a poco prima si era lamentata di dolori
lancinanti al ventre, ora sembrava essere in perfetta forma, se non si
teneva in considerazione qualche linea di febbre.
La giovane si grattò il braccio sinistro, nel punto dove
l’infermiera le aveva fatto il prelievo del sangue e dove ora
c’era una garzina sterile fermata con lo scotch di carta.
«Come vuoi», disse Aiolos, senza fare alcuna
obiezione,
né cercare di dissuaderla. Anzi, ironia della sorte, era
d’accordo con lei e non vedeva l’ora di lasciare
anche lui
il pronto soccorso.
Con un gesto forzato e poco naturale, si liberò il braccio
dal
sostegno e si rimise la camicia che l’infermiera gli aveva
lasciato lì vicino. Poi, sempre un poco a fatica, se la
riabbottonò. L’antidolorifico che gli avevano
somministrato prima della fasciatura stava ormai passando, ma ancora
gli provocava un certo intorpidimento ai muscoli.
Cora si guardò attorno, cercando un posto dove potersi
rivestire: quando l’avevano obbligata a spogliarsi,
perché
le avevano detto che le avrebbero fatto un’ecografia
all’addome, per accertare la causa di quei dolori, Aiolos era
già stato preso in consegna da un’altra
infermiera; vista
la situazione non poteva certo rimettersi i vestiti davanti a lui.
Sbuffò di nuovo, guardandolo di sottecchi. Il tacito
messaggio
di lasciarle un momento di privacy non gli era arrivato.
Si dovette quindi arrangiare, nascondendosi come poteva dietro il
lettino. Piegandosi un poco iniziò a infilare i jeans un
piede
alla volta, ma non era una buona equilibrista e, per non spostare
troppo il camice, per poco non si ritrovò con il sedere per
terra. Aveva ancora i pantaloni a metà gamba quando la tenda
– che faceva da séparé –
venne tirata con un
colpo secco e da dietro si materializzò un medico.
«Caroline Miller, la nostra miracolata!» la
salutò
l’uomo, con un grande sorriso sulle labbra. «Mi era
arrivata voce che tu fossi in ospedale ed eccoti qui!»
Si avvicinò al lettino e le strinse la mano con
cordialità.
«Salve, Dr. Ferretti», ricambiò lei, in
forte imbarazzo.
«Te la stavi svignando prima della visita?» la
rimproverò bonariamente lui.
L’uomo era un medico di mezza età, brizzolato e
costantemente abbronzato; occhi azzurri, denti bianchissimi che amava
mettere in mostra in ogni occasione e dava sempre del
“tu”
alle pazienti donne, soprattutto se giovani e carine. Al
“George
Clooney” del reparto chirurgia, l’uomo che le aveva
salvato
la vita, si poteva perdonare questo e altro.
In mano reggeva la cartella clinica che l’infermiera aveva
compilato al momento dell’accettazione e della visita
preliminare. Sul primo di quei fogli erano stati riportati tutti una
serie di dati e gli esami richiesti.
«Allora, rimettiti sdraiata qui sopra», le disse,
battendo
la mano sul materassino, per sottolineare l’ordine appena
impartito, seppur gentilmente, «e scopri la pancia. Lei,
signore,
è un parente?» chiese, rivolgendosi ad Aiolos.
«Solo un conoscente.»
«Allora può aspettare in fondo alla sala, per
cortesia?» Il medico era tanto cordiale con le pazienti
donne,
quanto invece formale e serio con gli accompagnatori, soprattutto se
non erano dei parenti.
«No, no, dottore. Vorrei che rimanesse», intervenne
Cora.
Non che non si fidasse del dottore, o che avesse paura di qualcosa, ma
la presenza di Aiolos la faceva sentire più sicura.
«In questo caso faremo uno strappo alle regole»,
concesse l’uomo, rivolgendosi di nuovo alla sua paziente.
Ferretti diede un secondo sguardo a quei fogli, mugugnando qualcosa.
«Mancano ancora i risultati degli esami del sangue e delle
urine.
Non fa niente, vorrà dire che inizieremo con
l’ecografia.
Hai dichiarato di aver subito un colpo molto forte, vero? Senti ancora
dolore?» le chiese, mentre le faceva la palpazione sulla zona
interessata.
Cora scrollò la testa, posizionandosi più comoda
sul
lettino, mentre il medico, intento ad avvicinare il carrello col
monitor e l’ecografo portatile, pareva non aver badato alla
sua
risposta.
«Magari non è niente, ma noi daremo lo stesso
un’occhiata», disse, concedendole un altro un
sorriso.
«Adesso sentirai un po’ freddo.»
Aveva appena preso in mano il flacone del gel, quando arrivò
quasi di corsa l’infermiera che aveva visitato per prima
Cora. La
donna, senza dire nulla, consegnò il foglio coi risultati al
Dr.
Ferretti e attese nuove istruzioni.
«Mmmmh…» mugugnò
l’uomo.
«Dottore?»
Il medico continuava a controllare e ricontrollare quei risultati, con
una smorfia sulle labbra, come se qualcosa non lo convincesse,
lasciando i presenti col fiato sospeso.
«Ebbene, secondo questi risultati...»
iniziò,
facendo una pausa. «Congratulazioni, Caroline, sei
incinta», disse, sciogliendosi in un sorriso accattivante.
«Vuoi vedere il tuo bambino?» le chiese,
apprestandosi
ancora una volta a sistemare l’apparecchio e prendendo il gel.
«È sicuro, dottore?» chiese con voce
flebile Cora, attonita a quella notizia.
Fissò il vuoto per diversi secondi, boccheggiando e tremando
un
poco. Non era certa di aver inteso bene. Sarebbe stato troppo bello per
essere vero e lei non voleva farsi troppe illusioni. Continuava a
pensare che non poteva essere possibile, che da dopo il suo ferimento
lei non avrebbe più potuto averne; e ora le stavano dicendo
che
tutto ciò in cui aveva creduto in quegli ultimi due anni era
errato.
«Le analisi del sangue e delle urine non mentono. Sarai
presto
mamma», confermò il chirurgo. Accese il monitor e,
dopo
aver usato una generosa quantità di gel, iniziò a
muovere
la sonda sul ventre della ragazza.
Quelle strane immagini sgranate che si susseguivano sul monitor a un
occhio profano erano di difficile comprensione. Erano masse chiare
indistinte e ombre che cambiavano forma a ogni movimento della sonda.
Con gli occhi pieni di speranza, Cora provò a dare una
sbirciata
a quel monitor, emozionata e impaurita al tempo stesso. Le sue labbra
erano costantemente piegate in un sorriso e tremavano. Tratteneva il
respiro, le sue mani erano nervose e iniziarono a tormentare il bordo
del camice.
Contrasse involontariamente il ventre, nel sentire una pressione un
po’ più forte.
«Un attimo di pazienza che abbiamo quasi finito»,
la rassicurò Ferretti.
La voce dell'uomo questa volta risuonò fin troppo
professionale,
quasi avesse cercato di mascherare una crescente preoccupazione. Di
questo se n'era accorta sia l'infermiera che Aiolos, rimasto sempre in
disparte e che seguiva con malcelato disappunto.
Ferretti continuò a fissare il monitor, mentre con la mano
spostava la sonda dell’ecografo. In quegli ultimi minuti
stava
insistendo molto su un determinato punto, come se avesse anche lui
difficoltà a capire.
«Eccolo», disse, senza alcuna enfasi.
«Dovrebbe
essere di… quattro, forse cinque settimane»,
stabilì.
La sua giovialità era ormai sparita.
Fece un cenno all’infermiera e, parlando a bassa voce, le
ordinò di chiamare su in reparto e far scendere una delle
ostetriche di turno per un consulto; poi aggiunse di riferire che era
un’emergenza.
La ragazza era ancora così frastornata
dall’emozione che
non aveva notato lo sguardo serio del medico, né si chiese
come
mai l’uomo non le avesse indicato sul monitor il suo bambino,
né ancora il perché, dopo essersi soffermato
così
a lungo, avesse riposto la strumentazione tanto in fretta, mutando il
suo solito atteggiamento.
«C’è qualche problema?»
domandò Aiolos,
che invece non si era lasciato sfuggire alcun dettaglio di quella
visita. La domanda pareva essere caduta nel vuoto.
«Rimani qui ancora qualche minuto», disse il Dr.
Ferretti a
Cora, che si stava risistemando il camice, alzandosi dallo sgabello e
allontanandosi di qualche passo, non appena scorse arrivare la sua
collega.
Aiolos avvertì all'improvviso una strana tensione, si
avvicinò alla ragazza che fissava un punto imprecisato con
sguardo languido, mentre si accarezzava il ventre e la
squadrò
severamente.
«Ora cos'hai intenzione di fare?» le chiese
sottovoce. Il
suo tono non era stato certo amichevole, né partecipe del
momento lieto.
Cora strinse la stoffa del camice e sospirò un
“non lo
so” che testimoniava quanto, in quel momento, si stesse
finalmente rendendo conto dell’accaduto. Era un bel dilemma:
Saga
e lei avevano faticato a convivere, perché in un modo o
nell’altro qualcosa era sempre andato storto; non erano
ancora
riuscire a trovare una certa stabilità e ora c'era in arrivo
un
bambino.
«Secondo te, come prenderà la notizia? E la sua
famiglia?» chiese, con giustificata preoccupazione.
«E la tua invece?» ribatté Aiolos.
«Pensi che
tuo zio verrà a Boston, pistola in mano, a chiedere la testa
del
colpevole?»
A quelle parole Cora ridacchiò, immaginandosi la scena. Ma
sapeva che non ci sarebbe stato motivo per una cosa del genere. Lo zio
Phil avrebbe sicuramente approvato, dopo qualche giorno passato a
rimuginare sulla situazione e dopo una colossale opera di convincimento
da parte di sua madre, naturalmente; e lei, sua madre… beh,
in
passato aveva fatto altrettanto, più o meno; e poi, era uno
spirito romantico. E una volta che lo avesse conosciuto anche di
persona, se ne sarebbe innamorata anche lei, ne era più che
certa.
«Credo che saranno un po’ sorpresi»,
rispose,
pronunciando quelle parole con dolcezza e con un sorriso innamorato.
«Caroline», la chiamò il dottore,
ritornato dopo
qualche minuto e ridestandola dai suoi sogni a occhi aperti.
«Dobbiamo portarti in sala operatoria.»
La voce dell'uomo risuonò tetra e greve. Aiolos lo
fissò
a occhi sgranati, stringendo il pugno. Su tutti i presenti
calò
una tensione nervosa. Solo da parte della giovane non arrivava alcuna
reazione; anzi, sembrava persa nelle sue fantasticherie.
«Caroline, hai capito quello che ti ho appena
detto?» disse Ferretti, scuotendola leggermente per la spalla.
Gli occhi di Cora incrociarono quelli del chirurgo. «Che mi
dovete portare in sala operatoria, dottore», disse lei, ma ai
presenti era chiaro che lei non ne fosse del tutto cosciente.
«Non ne vedo però il motivo. Io sto
bene.»
«No, Caroline, non stai bene. E anche la gravidanza non va
bene. Dobbiamo interromperla.»
«Ma io sto bene!» insistette la giovane; e questa
volta la
sua voce aveva in sé un tono decisamente allarmato.
«Miss Miller, purtroppo è una gravidanza
extrauterina.
Dobbiamo intervenire con urgenza, prima che possano esserci delle
complicazioni molto più gravi, per la sua salute»,
intervenne la collega che era stata chiamata da Ferretti.
«No! No! Io sto bene!» urlò Cora, quasi
isterica,
saltando giù dal lettino. «E starà bene
anche lui!
Perché... perché mi state facendo
questo...»
mormorò, con le guance rigate di lacrime. Quando aveva
scostato
il lenzuolo aveva svelato sul materassino delle tracce di sangue.
All'improvviso avvertì un forte crampo irrigidirle il ventre
e
lo stomaco. Era diverso dai soliti con i quali era abituata a
convivere. Poi, un dolore più acuto la fece gemere e piegare
in
due, esattamente com’era successo al poligono di tiro. Si
portò entrambe le braccia a stringersi dove sentiva quelle
fitte.
«Caroline, non fare pazzie. Segui quello che ti dicono i
dottori», disse Aiolos, con particolare preoccupazione,
sorreggendola e aiutandola a tornare sul lettino.
Le gambe della giovane si afflosciarono senza forza e Aiolos, con
grande reattività, nonostante la spalla dolente, la prese in
braccio, posandola sul lettino. Per terra, ai suoi piedi vi era una
grande pozza di sangue scuro che era colato fra le cosce di lei.
*****
La giovane si risvegliò in quella stanzetta
d’ospedale, su
in reparto chirurgia, ancora tutta frastornata dall'anestesia totale
che erano stati costretti a farle. Era una singola, essenziale ma
dall’aria comunque confortevole. Le luci al neon erano accese
e
le davano fastidio alla vista. Aggrottò la fronte e
strizzato
gli occhi. Sentiva i suoni attorno a sé un poco ovattati e
le
palpebre decisamente pesanti. Il tubicino dell’ossigeno le
prudeva al naso ed era troppo tirato dietro le orecchie.
«Mamma», mormorò.
«Caroline! Come ti senti?» chiese la donna che
subito si
era chinata su di lei, accarezzandole la guancia esangue e dandole un
bacio sulla fronte.
«Cosa ci fai qui?» disse la ragazza, con voce
impastata.
«L’ho chiamata io, dal tuo cellulare»,
intervenne
Aiolos, appoggiato con la schiena alle veneziane abbassate
dell’unica finestra presente. «Doveva
saperlo.»
«Bambina mia…» le disse dolcemente
Teresa, gli occhi
tristi e arrossati. Di sicuro aveva pianto per tutto il tempo che era
rimasta accanto al letto di sua figlia, in attesa che lei si svegliasse.
Cora fissò la madre negli occhi, per quanto le sue
condizioni le
permettessero, senza dire nulla. Non si capacitava di quel che era
successo così all'improvviso. Aveva toccato il cielo con un
dito
e ora si sentiva vuota dentro. Non solo metaforicamente parlando. Le
avevano tolto qualcosa che lei anelava e che si era già
rassegnata a non avere mai. Le sembrava di vivere un incubo.
«Ci sono anche gli altri?» chiese, con voce flebile.
«No, sono venuta solo io. Phil è a casa con
Mickey; gliene
ho parlato, ho dovuto farlo, perché la telefonata
è
arrivata quando lui era presente, ma tuo fratello ancora non lo
sa.»
«Non glielo dire. Non voglio che pensi di essere responsabile
di
quello che mi è successo», disse Cora, con la voce
che
andava via via facendosi più agitata e il respiro che
diventava
affannoso. Sul monitor, il battito del suo cuore era accelerato.
«Sssh… sssh… tesoro, stai
tranquilla», provò a calmarla la madre.
Cora girò la testa dall’altra parte e
incrociò lo
sguardo di Aiolos. Temeva del biasimo da parte del ragazzo, ma lui
sembrava imperturbabile e i suoi occhi erano altrettanto indecifrabili.
Aveva la testa ancora confusa, ma una cosa ricordava bene, nonostante
tutto lui le era rimasto accanto e l’aveva aiutata. No, la
verità era che le aveva salvato la vita, perché
se fosse
stata sola in quella cabina del poligono sarebbe morta dissanguata. Le
sue labbra si mossero impercettibilmente a prononciare un
“grazie”, ma la sua voce era come se fosse
scomparsa di
colpo, esaurita; allora si limitò a indugiare con lo sguardo
su
di lui, che la stava ricambiando, senza mutare espressione. Dopo
qualche secondo lo vide prendere dalla tasca il cellulare e
allontanarsi dalla finestra, per dirigersi alla porta della camera.
«A lui, cosa devo dire?» le chiese Aiolos, facendo
un breve gesto con la mano che teneva il cellulare.
Cora strinse le labbra e chiuse gli occhi già velati di
lacrime,
lasciando che queste scendessero libere fino a bagnare la federa del
cuscino. «Niente. Non c’è niente da
dire.»
Teresa rimase in silenzio ad assistere a quel dialogo, continuando a
starle vicina; percepiva che c’erano diverse cose che
andavano
chiarite, ma non le pareva giusto dover intervenire in ciò
che
non la riguardava. Era però pronta a raccogliere i pezzi,
nel
caso sua figlia glielo avesse permesso. Un’esperienza del
genere
era traumatica di per sé; per Caroline poi, che
già aveva
sofferto molto, lo era ancora di più.
«Mamma… voglio andare a casa.»
«Sì, bambina mia. Fra poco arriverà il
Dr. Ferretti
per controllare se tutto è andato bene e poi, se ci
darà
il permesso, chiederemo il foglio di dimissioni.»
note del capitolo:
Paintball e Speedball:
(per carità non confondete quest'ultimo
con le droghe) è un tipo di sport (e relativa
specialità)
abbastanza recente, nato negli Stati Uniti e diffusosi poi in Europa e
nel resto del mondo. Ma bando alle ciance, qui
trovate tutte le
spiegazione necessarie.
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