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Autore: titania76    27/12/2014    2 recensioni
La vita di Shion Hayes, giovane uomo d'affari di successo, viene rivoluzionata da un messaggio che non può ignorare e al quale non può sottrarsi; viene così attirato a un appuntamento in un luogo fuori mano, in un freddo e lugubre pomeriggio autunnale. Qualcuno dal suo passato, che pensava di aver cancellato per sempre, torna nella sua vita e lo fa nella maniera più inaspettata e indelebile.
Anni dopo, l'infinita catena degli eventi innescata quel lontano giorno, sconvolge la quotidianità di una tranquilla e serena famiglia americana, portandola a cambiamenti radicali e allontanandola dalla propria casa e dalla propria città.
Quello stesso destino che in passato ha tolto, nel presente dona di nuovo.
La giovane Caroline Miller, da sempre sogna di tornare alla sua natia Boston; un incontro casuale e drammatico le dà la spinta decisiva per realizzare il suo desiderio. Ed è proprio a Boston, quando meno se lo aspetta, che incontra Saga.
Il colpo di fulmine è reciproco, ma fin da subito niente è facile per loro.
Ombre provenienti dal passato di entrambi sembrano spingerli in una direzione dove segreti e omissioni rischiano di spezzare per sempre il loro legame. Saranno in grado di resistere e rimanere assieme?
Genere: Romantico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Aries Shion, Capricorn Shura, Gemini Saga, Nuovo Personaggio, Sagittarius Aiolos
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Legacy'
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Prima di iniziare con la lettura del capitolo ci va di diritto un bel N.B. Quindi...

N.B.
I contenuti di questo capitolo non vogliono essere una guida per maneggiare le armi da fuoco, né incentivarne l'uso, sia esso sconsiderato, che cauto. Le ricerche che ho fatto per scrivere la scena in questione sono servite per cercare di rendere al meglio la storia ed evitare di scrivere vaccate (sì, avete letto bene, vaccate!). Nel mio piccolo, cerco di fare del mio meglio, un po' per me stessa (perché ho il mio amor proprio e non mi va di pubblicare schifezze) e un po' anche per farvi leggere una storia quantomeno scritta con criterio.

Detto questo...

...Buona lettura!





XXIV


Philadelphia
I locali dell’agenzia investigativa, al secondo piano della palazzina, erano deserti e avvolti nella penombra delle persiane chiuse. Aiolos aprì la porta e si guardò attorno; poi, con molta cautela, vi si addentrò. Quell'ambiente non aveva nulla di particolare, era scialbo e anonimo come la prima volta che vi aveva messo piede, pochi minuti prima, quando era stato a colloquio con Burton. Eppure adesso gli faceva uno strano effetto, era quasi spettrale.
Sentì i singhiozzi del bambino: a volte lievi, a volte invece più violenti, proprio nello sforzo di trattenersi. Non c’erano molti posti dove avrebbe potuto rifugiarsi, a parte naturalmente una delle altre stanze comunicanti, ma ciò che era arrivato alle sue orecchie non era stato filtrato da alcun tipo di barriera. Fece un paio di passi verso la scrivania, senza però avvicinarsi troppo.
«Mike?» disse con voce pacata, che però tradiva comunque poca serenità. «Mike, io mi chiamo Aiolos Foster. Possiamo parlare un momento?» chiese, anche se non si aspettava che il piccolo sbucasse fuori dal suo nascondiglio e gli desse subito retta. Come con qualsiasi bambino impaurito, prima doveva guadagnarsela quella fiducia.
Sentì provenire di fronte a lui un rumore e accennò un sorriso: il bambino era rintanato proprio dove pensava e gli era stato confermato dal movimento della sedia, che si era spostata un poco di lato, cigolando con le ruote.
«Non voglio farti del male, ma solo parlare», continuò, immaginando che il ragazzino si fosse rannicchiato il più possibile per non farsi notare; e di nuovo sentì un singhiozzo.
Si avvicinò ancora di qualche passo, fermandosi e rimanendo al di là della scrivania, per non correre altri rischi e non spaventarlo ulteriormente.
«Mi dai una possibilità di dimostrarti che non sono la persona che pensi io sia?»
L’altro continuava col suo ostinato silenzio. «Va bene», concesse Aiolos, senza demordere.
Fece qualche passo verso le sedie e le poltroncine nella parte della stanza, che era adibita a sala d’aspetto e, trascinandone rumorosamente una sul pavimento col braccio sinistro che gli doleva, la portò fino alla scrivania, accomodandovisi.
«Sai, non è la prima volta che qualcuno della tua famiglia mi scambia per quell’uomo», iniziò, con tono vagamente sarcastico; anche se non c’era poi tanto da scherzare. «Non posso negare che la somiglianza ci sia, ma posso garantirti che io non sono lui, altrimenti non sarei qui, tranquillo, a parlare con te.»
Si appoggiò allo schienale della sedia e fece un respiro profondo, accavallando le gambe e prendendo una posizione più comoda: prevedeva che sarebbe stata una cosa lunga.
«Bene, proviamo a partire dall’inizio», disse con un mezzo sospiro. «Vengo da Boston e ho ventisei anni. Negli ultimi anni ho vissuto per la maggior parte del tempo a New York e non ero mai stato qui a Philadelphia prima del febbraio scorso.»
«Bugiardo…» mormorò il bambino, tirando su col naso.
«È la verità», confermò lui, mantenendo la voce calma. «Puoi chiedere a tuo zio Phil. Lui sicuramente avrà fatto dei controlli su di me, dopo la nostra prima conoscenza.»
«Lui è mio padre!» replicò con stizza il bambino, accennando a voler uscire da sotto la scrivania, ma rinunciandovi subito.
Aiolos aggrottò un poco la fronte nel sentire quella risposta così scontrosa. Non che si fosse scandalizzato per un poco di maleducazione, ma era stato il timbro rabbioso, dietro la voce da fanciullo offeso, che lo aveva lasciato perplesso. Quel tipo di rabbia che prima aveva fatto agire in modo violento il bambino e che ora lo aveva fatto rispondere in quella maniera, sapeva di averla già vista, anche se non ricordava dove e quando.
«Per tua sorella è uno zio. Che strana dinamica familiare avete», mormorò.
«Davvero non sei lui?» chiese Mickey con un filo di voce, fra i singhiozzi trattenuti. Con le braccia teneva le gambe raccolte al petto e la fronte appoggiata alle ginocchia.
«Pensi che questa sia la faccia di una persona pericolosa?» disse Aiolos, ora accovacciato di fronte a lui; nella sua mano, che stava tendendo al bambino, teneva un fazzoletto bianco. «Ti va di raccontarmi cosa vi ha fatto?»
Il sorriso comprensivo che in quel momento gli stava mostrando, ebbe l'effetto di incrinare la cupola di diffidenza e paura dietro la quale Mike si ostinava a nascondersi.
«Io non so bene com’è andata», iniziò a raccontare il piccolo, stringendo i pugni e nascondendo ancora di più la testa fra le gambe. «Ma so che è cattivo! Ha fatto del male a tante ragazze. Ha fatto del male alla mia sorellona. Mamma e papà non ne parlavano mai davanti a me, ma qualche volta li ho sentiti. Quando Caroline era in ospedale che non si risvegliava più, loro litigavano sempre. Una volta la mamma lo ha mandato via da casa e poi ha pianto tanto, e ha pregato tanto perché il Signore non portasse la mia sorellona in cielo con sé come aveva fatto con il mio vero papà.»
La voce del bambino era rotta dal pianto che tratteneva a fatica, nonostante le guance fossero invece rigate da copiose lacrime. Eppure stava cercando con tutto se stesso di non sembrare un mocciosetto piagnucoloso. Era ancora arrabbiato con sua sorella, ma il raccontare quelle poche cose, che non aveva mai rivelato a voce alta a nessuno, lo stava facendo vergognare del suo comportamento e temere per una sicura punizione. Le aveva urlato addosso tutto il suo malessere, si era liberato di un peso gravoso, però non si sentiva affatto meglio. Nessuno lo avrebbe biasimato troppo se fosse esploso prima; persino per un adulto, ciò che aveva passato, sarebbe stato difficile da superare e lui… lui era ancora solo un bambino, ma già un piccolo eroe, perché era stato quello che all'inizio aveva reagito meglio di tutti.
«La mia sorellona…» singhiozzò di nuovo Mickey, tirando su col naso.
«Lei sta bene», disse Aiolos, con un sorriso fraterno disegnato sulle labbra, accarezzandogli piano la testa, cercando di rassicurarlo.
Vedere quel ragazzino così indifeso gli riportava alla memoria Aiolia, quando tornava a casa tutto abbattuto e nella tasca del cappotto il foglio di richiamo del preside dopo aver fatto a botte nel cortile della scuola.
Aiolos alzò un poco la testa sopra la scrivania, sentendo un rumore leggero provenire dall’ingresso, intravide Caroline che se ne stava appoggiata allo stipite della porta. Lei si era portata un dito alle labbra e gli aveva fatto segno di non parlare, di non svelare al fratellino che era lì. Nonostante la penombra che la nascondeva un poco alla sua vista, lui aveva notato – o forse intuito – che la ragazza aveva gli occhi lucidi per le parole pronunciate dal bambino. La conferma la ebbe pochi secondi dopo, quando lei si avvicinò piano, senza far rumore e gli mostrò un foglio stampato, sgualcito e con diverse pieghe marcate. Battendo piano sul volantino, gli indicò una data e poi fece un cenno con la testa, per incoraggiarlo a parlarne a Mickey, quindi puntò l’indice prima verso di lui, poi verso dov’era nascosto il bambino e infine su di lei, in un messaggio muto. Prima di lasciargli il volantino, puntò ancora una volta il dito sulla data riportata e la scritta che indicava che l’indomani, sabato 29 maggio, ci sarebbe stata l’inaugurazione del nuovo impianto del poligono di tiro, tutto dedicato al paintball e che avrebbe occupato l’intero secondo piano interrato.
Aiolos strabuzzò gli occhi e trattenne uno sbuffo, non proprio felice di dover essere messaggero di qualcosa che non gli competeva e per di più, come se non lo fosse già stato a sufficienza, essere anche coinvolto in qualcosa che non lo riguardava.
Cora sorrise supplichevole al ragazzo, sperando che accondiscendesse a quella richiesta tacita. Lei e Aiolos si sopportavano a mala pena, eppure sapeva di poter riporre la sua fiducia in lui. Rimase un po' in disparte, al di là della scrivania e abbastanza distante affinché il fratellino non potesse accorgersi di lei, ancora per qualche attimo. Le si stringeva il cuore a sentirlo singhiozzare senza requie.
Forse sarebbe dovuto essere compito suo consolarlo e non un perfetto estraneo che oltretutto era stato la fonte inconsapevole di tutto quel putiferio, ma cosa avrebbe potuto fare per far stare meglio il suo fratellino? Cosa avrebbe potuto dirgli, che lo perdonava per il gesto che aveva compiuto? Che le dispiaceva per le conseguenze che tutta la famiglia era stata costretta a subire per la sua arrogante sconsideratezza?
Ma quello era il suo rammarico più grande e le conseguenze delle sue azioni le avrebbe portate con sé – su di sé – per tutta la vita. L’unica cosa certa, nel suo cuore, in quel momento, era il desiderio di accertarsi che Mickey stesse bene; e la compagnia di Aiolos pareva essere la cosa migliore potesse servirgli.
Si girò giusto in tempo per non mostrare le lacrime che stavano riempiendo i suoi occhi; nelle sue orecchie sentiva in modo persistente il pianto trattenuto del fratellino. Una mano si spostò sul ventre: non sentiva più le fitte acute e lancinanti di poco prima, ma solo un dolore sordo, più leggero, che non destava troppa preoccupazione in lei, abituata ormai a ben altri fastidi. Eppure, appena faceva un respiro più profondo, le mancava l’aria all’improvviso.
Uno sbuffo, una veloce passata sugli occhi col dorso della mano e, così com’era arrivata, uscì.

*****

Teresa attendeva la figlia sulla soglia di casa: il cuore ansioso e gli occhi che non riuscivano a mascherare la preoccupazione di una madre.
«Sta bene. Aiolos lo sta facendo sfogare», disse Cora, con un sorriso forzato sulle labbra e la fronte imperlata di sudore. Ad affaticarla non erano certamente quelle due o tre rampe di scale, quanto invece i soliti crampi che erano tornati a farsi sentire; ora più forti e continui.
«E tu?» le chiese la donna; e non intendeva riferirsi solo alla sua salute fisica, che naturalmente le destava sempre qualche pensiero, ma piuttosto al contraccolpo psicologico di quanto era avvenuto.
«Ha colpito forte», scherzò Cora «Mi ha fatto male, ma non poi così tanto», confessò infine, cercando comunque di minimizzare la realtà dei fatti e intendendo le medesime cose che erano rimaste sottintese. Non era riuscita però a trattenere oltre le lacrime e, lasciandosi abbracciare dalla madre, si era sfogata un poco anche lei.
«Bambina mia…» le sussurrò piano la donna, tenendola stretta e accarezzandole la testa. «C’è voluto molto coraggio per fare quello che hai fatto e per affrontare poi le conseguenze. Non è colpa tua se la legge ha vanificato il tuo sacrificio.»
La madre la riaccompagnò in casa, fino in cucina, dove già si erano ritrovati Chris e Phil, che sembrava stessero ancora discutendo dell’accaduto. Non appena si affacciarono nella stanza, la discussione si chetò di colpo. Chris lasciò il suo posto alla ragazza, mentre Phil, in piedi accanto al frigorifero, beveva una birra dalla bottiglia, con un’espressione sul volto che rispecchiava la gravità della situazione.
«Quando tornerà in casa dovrò fargli un bel discorsetto», borbottò l’uomo, con un tono di rimprovero, prendendo un altro lungo sorso.
«Così rischi di peggiorare la situazione, proprio com’è successo l’altra volta», rispose distrattamente Teresa, passando accanto al compagno e aprendo il frigorifero. Con gesti automatici iniziò a prendere della verdura dal cassetto in basso, e appoggiandola nel lavello. Il tono che aveva usato era sembrato però piuttosto risentito.
«Non sto dicendo di punirlo severamente e togliergli ogni libertà, ma almeno di provare a parlargli di nuovo e spiegargli che ciò che ha fatto è stato molto grave. Se quel tizio dovesse sporgere una querela per aggressione, Mickey potrebbe finire in tribunale. E il giudice minorile non si limiterà a dargli un semplice scapaccione e a mandarlo a letto senza cena. Se dovesse andargli bene, potrebbe essere condannato alla libertà vigilata e all’obbligo di una lunga terapia con uno psichiatra. Ma un periodo in riformatorio sarebbe più plausibile», spiegò l’uomo, appoggiando la bottiglia lì vicino e avvicinandosi alla donna, posandole le mani sulle braccia per interrompere quello che stava facendo. «Mickey ha ormai un’età che gli permette di capire cos’è giusto e cos’è sbagliato, cosa può fare e cosa non deve fare. Non puoi chiudere gli occhi su ciò che ha fatto. Non puoi continuare a proteggerlo in questo modo», le disse con un tono molto serio, facendola girare e guardandola dritta negli occhi.
Dentro di sé sapeva che la donna comprendeva di dover correggere il temperamento del figlio che in quei mesi era diventato gradualmente meno gestibile, ma sapeva anche che per lei sarebbe stato difficile. Se doveva diventare padre anche legalmente, avrebbe dovuto iniziare a comportarsi come tale, persino nelle punizioni.
Cora corrugò la fronte nel sentire quei discorsi. Avrebbe voluto chiedere ulteriori spiegazioni, ma desistì nel sentire sulla sua spalla la pressione della mano di Chris. Era perplessa per quella situazione: non era così che aveva lasciato la sua famiglia. L’aveva sempre creduta unita e felice; ora invece, sembrava smembrata e divisa, con cicatrici insanabili che li teneva lontani gli uni dagli altri.
Teresa rimase indifferente alle parole del compagno, come se le ritenesse prive di senso, gli diede le spalle e riprese a mondare e tagliare a tocchetti le verdure, per poi buttare il tutto in una pentola bassa.
«Mamma?» disse Cora.
«Mamma! Mamma!»
Mickey invase la cucina con eccessivo entusiasmo: aveva il viso tutto arrossato e gli occhi ancora gonfi per le troppe lacrime, ma le sue labbra erano piegate in un sorriso pieno di speranza.
«Davvero posso andarci?» le chiese, abbracciandola forte alla vita.
La donna rimase spaesata per qualche secondo, travolta dall’euforia del suo bambino, senza sapere cosa rispondere.
«Al poligono di tiro, mamma! Al poligono!», insistette, con voce emozionata e un poco anche frustrata il figlio. «C’è il paintball! Ci saranno anche i miei compagni! Non è pericoloso, ci daranno le protezioni! Allora, posso andarci?» la supplicò.
Erano settimane che insisteva per quella novità, da quando aveva visto il volantino pubblicitario, ma la madre gli aveva sempre negato il permesso adducendo che era troppo piccolo e che non le piaceva l’idea che si avvicinasse a un luogo come quello e a uno sport di quel tipo.
La donna tentennò ancora qualche secondo, mentre con gli occhi cercava quelli del compagno che sicuramente avrebbe avuto qualcosa da ridire, soprattutto dopo ciò che le aveva detto. Phil invece, si limitò a sospirare rassegnato e a prendere l’ultimo sorso di birra dalla bottiglia, gettandola poi nella pattumiera.
«Va bene, Mickey», disse, sorridendo allo sguardo speranzoso del figlio; e dopo quella conferma, il bambino si strinse ancora di più alla sua vita, ripetendo mille volte un “grazie” che si perdeva nel sussurro attutito dal suo petto.
Con la mano ancora umida, Teresa accarezzò i riccioli neri e spettinati del bambino, rivolgendo lo sguardo alla figlia che la stava ricambiando con un sorriso e mimando con la bocca un “domani”, annuendo con la testa.
«È il tuo regalo di compleanno», aggiunse Teresa, dandogli un bacio sulla testa. «E con te verranno anche papà, Chris e Caroline», disse, trovando conferma nel cenno di assenso dei due giovani.
«Davvero?»
«Sì», disse Phil, rilassando il viso e scompigliando la testa del bambino: nonostante i propositi di severità, aveva ceduto anche lui, ma si riprometteva di punirlo più avanti!
Un toc toc discreto, sullo stipite di legno della porta della cucina, richiamò l’attenzione di tutti. «Scusate l’intrusione, ma la porta era aperta», si introdusse Aiolos.
«Sei ancora qui...» si lasciò sfuggire Phil.
Aiolos sogghignò. «Mr Burton, come le ho detto prima, sono venuto per Caroline, per riportarla a Boston», disse, lasciando stupefatta la diretta interessata.
«Ecco! Lo sapevo, sei una bugiarda!» urlò Mike alla sorella, rifugiandosi nella sua stanza e sbattendo la porta.

«È lui il tuo nuovo ragazzo, quello di Boston?» chiese Chris, seduto accanto a Caroline e tenendole stretta la mano sotto il tavolo.
«No, è solo un conoscente», rispose lei, a voce molto bassa, ricambiando lo sguardo diffidente di Aiolos che non la stava perdendo di vista un solo istante, in quella situazione di imbarazzante stallo dei presenti.
«E ti fa da guardia del corpo, autista e servitore?» chiese ancora il ragazzo, pronunciando quelle parole con evidente perplessità nella voce, continuando a fissare l'ospite.
Caroline fece spallucce senza dare una vera risposta, perché lei per prima non sapeva come mai l’altro si trovasse a casa di sua madre.
Erano seduti tutti e cinque attorno al tavolo da pranzo, davanti a una tazza di caffè appena fatto, che si scrutavano a vicenda con diffidenza, mentre dalla stanza del bambino arrivava la musica a tutto volume.
«Gli passerà presto», disse Phil, posando la mano su quella della compagna che continuava a tormentare la tovaglietta.
La donna sbuffò sconsolata, deviando per qualche secondo lo sguardo nella direzione della camera del figlio, per poi posarlo di nuovo sul suo ospite. Sentiva un certo disagio nel trovarselo di fronte, le sembrava così strano che potesse esistere al mondo la copia quasi esatta dell’uomo che aveva fatto del male alla sua bambina, ma dopo le rassicurazioni di Caroline e le presentazioni ufficiali, si era in qualche modo tranquillizzata.
«Dunque, Foster…» disse Phillip, invitando l’ospite a spiegare a tutti il motivo della sua presenza.
«Come le ho detto nel suo ufficio, sono venuto per conto di una persona», rispose con semplicità Aiolos. «Mr Hayes sarebbe voluto venire lui stesso, per presentarsi ufficialmente, ma ha avuto dei contrattempi e ha chiesto a me di riaccompagnare miss Miller a casa sua, a Boston.»
«Poteva almeno avvertirmi…» mormorò Cora, mettendo il broncio.
«È tipico di lui fare questo tipo di sorprese, dovresti ormai conoscerlo», disse Aiolos, con una leggera smorfia sulle labbra, fissandola con insistenza. Non gli era sfuggito come l’altro ragazzo le stesse vicino, per non dire appiccicato; e questo lo infastidiva ancora di più che saperla fidanzata con Saga.
«Beh, puoi ripresentarti da lui e riferirgli che non torno solo perché ha deciso che è arrivato il momento di tornare a casa, o perché ha mandato qualcuno a prendermi», ribatté Cora, sotto lo sguardo severo di Phillip e quello preoccupato della madre.
Cora si stava mostrando forse troppo risentita con quella risposta irritata, ma non riusciva a farne a meno. Si stava sentendo come un cucciolo che viene dato in affidamento a una pensione per animali perché il padrone vuole andarsene in vacanza risparmiandosi la scocciatura di doverselo portare appresso.
«E comunque», continuò, usando un tono più pacato, quasi mortificato, «adesso non posso partire. Domenica c’è la nostra festa di compleanno e non ho intenzione di perdermela!»
«Lui vuole infatti festeggiare con te il tuo compleanno.»
«Ti ha appena detto che non ha intenzione di muoversi, amico. Se ci teneva così tanto, questo lui, avrebbe dovuto presentarsi di persona e non mandare un tirapiedi», intervenne Chris.
L'eco di quelle parole, risuonate secche e con un timbro vagamente di disprezzo, nel silenzio della sala da pranzo, fu spezzato dal rumore provocato dalla sedia di Phillip Burton, quando egli si alzò di scatto, con un'espressione molto seria in volto. L'uomo poi uscì dalla stanza senza dire nulla. Si fermò per qualche istante nel corridoio, respirando piano, per calmarsi. Con la coda dell'occhio intravide Mike che si era messo a origliare.
«Non rimanere lì nascosto, Mike, raggiungi gli altri», disse l'uomo.
Entrò nel salotto e, da una scatolina posata sul tavolino, prese una sigaretta, accendendola subito e traendone una lunga boccata. Era da tanti anni che aveva smesso di fumare, ma qualche volta, quando la situazione lo rendeva necessario, se ne concedeva una. E quella era una di “quelle” volte; e se la sarebbe goduta tutta, lentamente, perché doveva riflettere. Quel nome, che non sentiva più da molti anni e che credeva di essersi lasciato alle spalle, era fonte di gravi preoccupazioni.
Mike entrò in punta di piedi nella sala da pranzo, rimanendo in disparte e con la testa bassa. Con lo sguardo cercò quello della sorella, ma non appena lei se ne accorse, ricambiando con un sorriso, lo distolse subito. «Davvero vuoi rimanere qui per festeggiare il nostro compleanno?»
«Certo! Non vorrai che lasci tutta a te la torta della mamma, vero?»
«E verrai anche tu a giocare a paintball?» le chiese di nuovo il bambino.
«Ovviamente!» Caroline sorrise più apertamente al fratellino, gli tese la mano e lo invitò per un abbraccio.
«Allora, cosa devo dire a Saga?» si intromise Aiolos, bevendo un sorso di caffè.
«Chi è Saga?» chiese Mickey.
«È un… “amico”», gli rispose la sorella, pronunciando però in modo incerto la parola “amico”.
«È per lui che hai scaricato Chris?»
«Mickey! Non si dicono queste cose!» lo rimproverò Teresa, notando l’improvviso imbarazzo calato sulla figlia e su Christopher.
«Ma… com’è? Perché non ne hai mai parlato?» Il bambino si rivolse ancora una volta alla sorella.
«Mickey!» lo riprese di nuovo, la madre.
«Ma voglio sapere se è all’altezza di Chris!» insistette il piccolo, sbuffando.
Aiolos trattenne a stento una risatina beffarda all’affermazione del bambino, attirandosi un’occhiataccia da parte di Cora. Poi, prese dalla tasca il cellulare e vi trafficò per qualche secondo. «Avvicinati, ti mostro una sua foto, così potrai giudicare tu stesso», si rivolse quindi al ragazzino. Lì dentro sembrava essere l’unico che non lo trattasse come un bambino, ma come un adulto.
Mike gli corse accanto senza farselo ripetere. Dopo il loro chiarimento sentiva di potergli dare fiducia. Sgranò gli occhi quando Aiolos gli passò il cellulare.
«Siete tanto amici?», chiese, dopo aver visto quel selfie che i due si erano fatti usciti dal ferramenta.
«Siamo cresciuti come fratelli, inseparabili, nella stessa casa», rispose Aiolos, con un sorriso disteso e sincero.
«Allora è il tuo best?» gli chiese ancora Mike.
«Beh, non proprio. Il mio migliore amico è suo fratello. Il suo gemello, Kanon.»
Mickey spalancò la bocca, quando Aiolos gli diede la conferma alle sue parole, mostrandogli i selfie che si era fatto a Capodanno con Kanon.
«Wow!» fu l’unica cosa che riuscì a esprimere il bambino, mentre Aiolos faceva scorrere davanti ai suoi occhi le fotografie: ce n'erano anche alcune di quando erano adolescenti. «Ma ha i capelli lunghi anche da piccolo! A scuola non lo prendevano in giro?» gli chiese il bambino, con innata genuinità, facendolo ridere di gusto e destando la curiosità di Teresa e di Chris, che inconsciamente aveva allungato il collo per tentare di vedere qualcosa.
«Sì, li ha sempre portati lunghi; e sì, qualche volta gli altri ragazzi lo prendevano in giro, ma non a scuola. Lui studiava a casa.»
«Che fortuna! Non era costretto a svegliarsi presto ogni mattina, né avere a che fare con compagni antipatici.»
«Non lo invidierei così tanto», replicò Aiolos, scompigliandogli i capelli. «Era sempre solo, con l’unica compagnia degli insegnanti privati; e poi, con mia nonna che faceva la guardia, non c’era molto da scherzare. Era piuttosto severa quando si trattava di studiare! Tu invece, a scuola avrai tanti amici, no?»
Accorgendosi dell’interesse anche della donna, Aiolos sussurrò qualche parola al bambino.
«Guarda, mamma!» esclamò felice Mike, porgendole il cellulare.
La donna arrossì un poco nel vedere quelle foto, perché la curiosità era stata tanta in lei; e più che lecita, si poteva dire! Del resto si stava parlando del nuovo e “misterioso” fidanzato della figlia, del quale Caroline non aveva detto nemmeno una parola in quei giorni.
«È un bel ragazzo», mormorò, sorridendo e restituendo il cellulare al suo proprietario.
In tutto quel tempo, l’unica rimasta in disparte e che sembrava estranea a quell’interesse generale, era proprio Cora, troppo presa a sentirsi a disagio, imbarazzata e preoccupata per i giudizi dei suoi familiari.
«Bene, credo di aver disturbato anche troppo», affermò Aiolos, alzandosi in piedi e prendendo dallo schienale della sedia la giacca.
«Perché non resti a cena?» lo invitò la donna. «È il minimo che possiamo fare per ripagarti dell’equivoco di prima.»
«Accetto molto volentieri», rispose il ragazzo, scambiando uno sguardo con Cora e sogghignando agli occhi sgranati di lei.
La donna fece un bel sorriso e iniziò a ritirare sul vassoio le tazze sporche. «Chris, naturalmente rimani anche tu, vero?» disse all’altro ragazzo che non indugiò un solo secondo a confermare con entusiasmo.
Cora lanciò un'occhiata al suo ex. Non doveva spremersi le meningi per capire che Chris aveva accettato l’invito solo per gelosia; e lei lo poteva vedere bene dai suoi occhi sempre fissi su Aiolos. Sperava solo che la serata si concludesse senza altri incidenti e di evitare un eventuale terzo grado su Saga, ora che la madre era venuta a conoscenza della sua esistenza. E lo zio Phil, come avrebbe reagito? Tempo addietro l’aveva presa male nel sapere della convivenza, ma c’era stata l’aggravante della poca conoscenza; ora erano passati mesi, ma di aggravanti se ne erano create altre e piuttosto pesanti.
Sbuffò, accasciandosi sfinita sulla sedia, presagendo già una cena difficile.
«Mickey, tesoro, perché non mostri quelle foto anche a tuo padre?» gli propose Teresa, guardando poi Aiolos e chiedendogli il permesso.

*****

Aiolos era lì in fila assieme agli altri; fermo nello stesso punto da almeno venti minuti e circondato da una massa di ragazzini con ancora gli zaini di scuola sulle spalle, mentre di ragazzi più grandi, quelli che fumavano e già avevano la patente, non pareva esserci neanche l’ombra. Si guardò in giro, facendo quasi una piroetta su se stesso: spiccava solitario in mezzo a tanti nanetti. E in quel momento, nella chiassosa desolazione di quel piccolo mare vociante che sembrava raddoppiare – triplicare – di dimensione, con tutti quegli zainetti colorati, che si spintonavano e si rincorrevano, si stava pentendo amaramente di aver accettato di unirsi a Caroline e alla sua famiglia per quella giornata; così come si stava anche pentendo di essere voluto venire lui stesso a Philadelphia. Aveva pensato che accettando quell’incarico sarebbe riuscito a scoprire un po’ di più sul conto di lei e della sua famiglia. Certo, era stato Saga a servigli su un piatto d’argento quell’occasione, ma ora si stava chiedendo se ne fosse valsa la pena.
«Cerchi qualcuno?» gli chiese Cora, raggiungendolo in quel momento e sorbendo la Coca-Cola con la cannuccia dal bicchierone e porgendogli un caffè, che aveva preso al fast food dietro l'angolo.
Aiolos continuò a fissare un punto preciso per diversi secondi, prima di rilassarsi, posare nuovamente lo sguardo sull’entrata dello stabile del poligono di tiro e sbuffare come suo solito. La distanza dalla meta era immutata.
«Non mi aspettavo che fosse un’attrazione per i bambini delle elementari», le disse, con tono un poco irritato, bevendo il caffè.
«Non hai letto il volantino?» chiese lei. Pareva sorpresa. «L’ingresso e il noleggio dell’attrezzatura sono gratuiti solo per questo weekend, per i bambini fino ai dodici anni. E poi, il campo da gioco è stato allestito a tema, proprio per attirare i ragazzini!»
Il giovane scrollò la testa. La spiegazione che gli aveva fornito lei non lo convinceva per niente; anzi, iniziava a credere di essere stato incastrato, perché il volantino che lei gli aveva dato il giorno prima non menzionava affatto quelle cose.
«Eccovi, finalmente!» ansimò Chris, raggiungendo a fatica i due giovani.
«Dov’è Mickey?»
«L’ho lasciato assieme ad alcuni compagni di scuola, e al padre di uno di loro. Erano impegnati in un'accesa discussione su quale videogame fosse il migliore in assoluto: se la serie di Final Fantasy, oppure GTA», disse Chris, approfittando della bibita della sua ex per placare la sete improvvisa. Aveva posato la mano su quella di Cora e avvicinato il bicchierone alla bocca. «Quel ragazzino è troppo tenero. A dire la verità non gli importa nulla di quei giochi, ma si mostra tanto interessato solo per poter stare vicino a una bambina che invece è una fan accanita, un vero maschiaccio!» spiegò, sorridendo e passandole il braccio sulle spalle.
«La sua prima cotta.» Gli occhi di Cora si illuminarono di tenerezza nel cercare con lo sguardo il suo fratellino in mezzo a quella piccola folla.
Aiolos si lasciò andare a uno sbuffo silenzioso, girando la testa dall’altra parte, infastidito dall’atteggiamento di entrambi, che mostravano troppa confidenza l’uno con l’altra. Ma se da una parte non poteva giudicare lui, dall’altra gli dava fastidio il comportamento di lei che reputava inappropriato, considerato che era legata sentimentalmente a qualcun altro. E fastidio maggiore lo provava perché lei dava l’impressione di incoraggiare in maniera eccessiva quel ragazzo; poco importava che fosse il suo ex fidanzato. Contrasse la mascella continuando a sondare la piccola folla di ragazzini: cosa ne avrebbe pensato Saga se l’avesse vista in quel momento? Sentiva vagamente ciò che quei due si stavano dicendo e quel tono di voce così dolce, che stava usando lei, lo irritava.
«Caroline! Caroline!» chiamò a gran voce qualcuno, sbracciando come un matto.
Era uscito da pochi secondi dalla porta d’ingresso dello stabile per fumarsi una sigaretta e l’aveva vista.
La ragazza si guardò attorno per vedere chi l’avesse chiamata, poi sorrise e rispose al saluto con un cenno della mano. «Jimmy!»
«Che fortuna trovarti qui», disse il ragazzo. James Sandoval, portoricano di origine ma nato in America, era il co-titolare del poligono di tiro ed era anche quello che si occupava della parte amministrativa dell’attività, al contrario di suo fratello maggiore Jorge che invece preferiva il contatto col pubblico. «Mi risparmi una telefonata all’agenzia», continuò, dopo aver salutato anche gli altri due con una vigorosa stretta di mano e un sorriso contagioso. «È venuto anche mr Burton?»
«Sarebbe dovuto venire, infatti. Ma gli è sopraggiunto un impegno improvviso alla centrale di polizia, forse legato a un caso che sta seguendo. Penso però che verrà più tardi. Lo ha promesso a mio fratello. Avevi bisogno di lui?»
«Mmmh…» L’uomo osservò distrattamente l’ora segnata sul quadrante del suo vecchio orologio da polso, una pessima imitazione di un Rolex, e fece un respiro profondo. «Fra poco devo andare via e non riesco a fare una deviazione per lasciarglieli all’agenzia», mormorò. «Ho dei documenti che tuo zio mi ha chiesto di procurargli con urgenza, posso approfittare di te, vero?»
«Certo, non c’è problema», rispose Cora, un po’ sorpresa per essere stata presa a braccetto dal nuovo arrivato. «Ma li puoi dare anche a Chris: ora è lui l’assistente di zio Phil.»
«Dai, venite dentro, vi faccio passare davanti alla fila!» disse con enfasi James, sospingendola verso l’entrata, senza lasciarle il tempo di pensare.
«Aspetta un attimo», tentò di protestare un poco la ragazza. «Aiolos, per favore vai a recuperare mio fratello!»

Quel posto non era proprio come loro se lo erano immaginato, soprattutto il piccolo Mike. Assomigliava a un parcheggio sotterraneo, ma essendo un piano interrato forse lo era stato fino a quando non era stato riconvertito. L'area adibita al paintball era così grande che erano stati ricavati diversi recinti, diversi per dimensioni e conformità del terreno di gioco a seconda della difficoltà. Le colonne squadrate di cemento armato erano sia degli ostacoli naturali, sia dei ripari altrettanto efficaci che si integravano perfettamente con quelli gonfiabili, creando dei percorsi obbligati.
Al momento di vestire le protezioni, Cora decise di passare la mano, asserendo che preferiva fare da spettatrice e vedere “i suoi uomini” in azione. Quell’affermazione imbarazzò un poco il bambino, ma al tempo stesso lo lusingò perché la sorella gli aveva assicurato che avrebbe fatto il tifo solo per lui.
La ragazza li osservò entrare tutti e tre nel campo di gioco da uno dei sedili della prima fila della piccola tribuna costruita sul lato più lungo, protetta da un’enorme parete di plexiglass. Li vedeva accucciarsi e strisciare dietro i gonfiabili, aggirare gli avversari, alzarsi di scatto e sparare a raffica le pallottole di vernice fluo in una battaglia serrata. Durò quasi mezz’ora, ma alla fine la squadra di Mickey capitolò, dopo la conquista della bandiera da parte degli avversari.
«Grazie per esserti sottoposto a tutto questo», disse Cora, accogliendo Aiolos nella piccola tribuna, lasciando libero il posto che aveva tenuto occupato con la borsa a tracolla, mentre lo zainetto di scuola del fratellino lo teneva vicino a sé, fra le gambe.
«È stato divertente», ammise lui, massaggiandosi la spalla che sentiva di nuovo dolorante dopo quegli sforzi.
Cora si sorprese positivamente della strana accondiscendenza del ragazzo. Non sapeva come giudicarlo, non lo conosceva bene, ma il suo sguardo e la sua voce in quel momento esprimevano sincerità. Gli porse una bottiglietta d’acqua e tornò a seguire la nuova gara che si stava svolgendo.
«Davvero sei venuto solo per riaccompagnarmi a Boston? Non c’è nient’altro dietro?» gli chiese, senza distogliere l’attenzione dai giocatori.
Mickey e Chris erano ancora nel piccolo spazio adiacente al campo di gara che si stavano ripulendo e cambiando la pettorina, per poi tornare dentro per un’altra manche, assieme agli amichetti del bambino: questa volta avevano formato una squadra di sette.
«Mi pareva di avertelo detto ieri. Non c’è alcun secondo fine: sto solo facendo un favore a Saga.»
Cora mantenne lo sguardo fisso davanti a sé, respirando piano e silenziosamente; sembrava concentrata su altro più che ascoltare la risposta di Aiolos. Si alzò senza alcun preavviso e prese le sue cose; poi si avvicinò a Chris che era tutto intento a spiegare la strategia di battaglia ai bambini. Gli disse alcune parole all’orecchio e gli consegnò lo zainetto del fratellino. Infine, prima di tornare da Aiolos, diede un bacio sulla guancia a Mickey, incoraggiandolo per la vittoria.
«Vieni con me.»
Presero le scale che portavano al piano terra, dove c’era l’accettazione e il bancone dell’armeria. Dietro il bancone, Jorge era impegnato in una conversazione con alcuni ragazzi che nulla avevano a che fare con i giovani arrivati per il paintball. Nonostante stessero parlando di cose innocue, chi lo conosceva bene poteva giurare che invece lui stesse flirtando in modo fin troppo sfacciato.
Aiolos fissò l'uomo con insistenza, piegando le labbra in una smorfia di disgusto, alleggerendo l’espressione solo quando l’altro ricambiò quello sguardo con un mezzo sorriso. Jorge aveva tutto il fascino esotico dei giovani caraibici e sapeva ben sfruttarlo per le sue conquiste, soprattutto per quelle occasionali.
«Cora, mi niña hermosa. È da un pezzo che non ti fai vedere da queste parti», la salutò, con un abbraccio e baciandola su entrambe le guance. «Che posso fare per te?»
«Vorrei esercitarmi un po’», rispose lei, mostrandogli la tessera d’iscrizione.
«Da sola? Non c’è il grande capo?»
«Ho portato lui», disse, indicando Aiolos. «Ti va di sparare qualche colpo?» gli chiese.
Il ragazzo rimase per qualche secondo sorpreso e perplesso. Davvero lei voleva sparare con armi vere? Non le sembrava affatto il tipo. Forse, sentendosi a casa, si credeva una dura; forse lo voleva impressionare in qualche modo. Eppure lo sguardo di Cora era sicuro e determinato, come non gliene aveva mai visto prima, ma era anche sereno e luminoso.
«Sei già stato al poligono prima d'ora? Non hai paura delle armi da fuoco, vero? Non ci sarebbe alcuna vergogna», gli disse lei, quasi sollecitandolo a prendere una decisione.
Aiolos sbuffò, borbottando poi un “non quando te ne puntano una alla testa” e riprendendo quella sua solita aria di superiorità che tanto era diventata una difesa contro gli altri e che gli permetteva di mantenere le distanze con chi non gli piaceva; e Caroline Miller non gli piaceva affatto.
«Mi prepari la solita, per favore?» chiese lei, rivolgendosi di nuovo Jorge. «E tre caricatori da quindici!»
Dal portafoglio tirò fuori la carta di credito e l'appoggiò sul bancone.
«Oggi offre la casa.»
Con un gesto della mano, mostrando la grossa pietra incastonata nell’anello massiccio, Jorge gliela restituì, rifiutandola. Sul computer inserì solamente i dati della tessera e registrò il noleggio dell'arma e della cabina numero cinque. Infine, espletate tutte le formalità amministrative e di legge, solo perché era lei, le consegnò l’equipaggiamento, anziché farlo portare da un addetto del poligono di tiro, augurandole buon divertimento.

Il luogo adibito al poligono di tiro vero e proprio, quello almeno per le armi corte, era un lungo e buio stanzone dalle pareti di cemento armato, ricoperte da una speciale membrana per attutire la detonazione degli spari, e con una zona di tiro di circa cinquanta metri. Nella parte più vicina, quella accessibile al pubblico, erano state montate una decina di cabine larghe un metro e mezzo e separate le une dalle altre da semplici divisori di compensato spesso tre centimetri. Ogni postazione aveva una piccola pulsantiera che azionava il braccio meccanico per spostare il bersaglio e un monitor dal quale si potevano controllare i risultati dei tiri, molto simile a quello che veniva usato nelle gare olimpiche.
Cora posò la 22 semi-automatica, assieme ai caricatori, sulla mensola davanti a sé. Con le mani si acconciò i capelli in una semplice coda di cavallo, fermandola con l’elastico colorato che teneva al polso e si sgranchì collo e spalle; infine si liberò della giacchetta leggera di jeans, appoggiandola sopra la sua tracolla che aveva collocato a terra, appena sotto i ripiani della cabina. Per un breve momento, il suo corpo venne pervaso da un brivido di freddo. Eppure la temperatura era piacevole; anzi, forse l’aria risultava un poco afosa e viziata.
Si concentrò su ciò che aveva davanti a sé. Impugnò la pistola, la puntò verso il basso e verificò che fosse completamente scarica e con la sicura fosse inserita. Nonostante quei controlli fossero già stati fatti in precedenza da Jorge, lo zio Phil le aveva insegnato che quando si maneggia un’arma, ci si deve affidare solo a ciò che si fa in prima persona e soprattutto: controllare, ricontrollare e ricontrollare ancora!
Provò l’impugnatura e simulò la posizione di mira e di sparo, distendendo le braccia e facendo aderire per bene le mani nella posizione giusta. Sentiva le braccia e le spalle un po’ rigide; era da diverso tempo che non si esercitava, ma tutto sommato era abbastanza soddisfatta della reazione dei suoi muscoli.
Aiolos la osservò per tutto il tempo con sguardo scettico. Non sapeva che pensare di quella specie di dimostrazione, se non che lei lo volesse solo impressionare.
La vide posare di nuovo l’arma sulla mensola e chinarsi per prendere un grosso foglio, grande quanto un poster, dal ripiano inferiore, che subito agganciò al braccio meccanico; poi prese delle cuffie imbottite e un paio di occhiali protettivi.
«Indossale!» gli disse, passandogli le cuffie.
Dalla tasca dei jeans prese una scatolina che conteneva dei tappi per le orecchie e subito se li infilò: avrebbero attutito il rumore della detonazione del colpo. Come ultimo passo, indossò gli occhiali protettivi.
«Ma stai facendo sul serio?» le disse Aiolos, con ancora le cuffie in mano, mentre il bersaglio si allontanava.
«Iniziamo con venticinque metri?» disse lei, con un sorrisetto e il tono vagamente arrogante di chi è consapevole delle proprie capacità e della propria bravura, voltandosi verso di lui.
Soddisfatta della distanza afferrò l’arma con la destra, mentre con l’altra mano prese uno dei caricatori. Un colpo deciso e lo inserì. Caricò il colpo in canna e di nuovo si mise in posizione. L’indice destro era ben appoggiato sul lato della pistola, sul guardamano del grilletto. Fece qualche respiro profondo per aumentare la concentrazione. Il suo sguardo divenne ancora più determinato e serio, nulla l’avrebbe potuta distogliere; il suo corpo era rilassato ma al tempo stesso in tensione. Le braccia erano tese davanti a sé, la mano destra teneva saldamente l'arma, mentre la sinistra faceva da sostegno.
Era pronta.
Aiolos si mise in fretta le cuffie alle orecchie, con gli occhi sgranati si spostò un poco dietro di lei per osservare meglio, ma senza darle intralcio.
Bang! Bang! Bang!
Tre spari in rapida successione.
Bang! Bang! Bang!
Un’altra serie di tre spari. Proprio come le aveva insegnato l’ex capitano Phillip Burton; proprio come insegnavano all’accademia di Polizia.
Le braccia di Cora tremarono un poco per lo sforzo di reggere il rinculo dell’arma. Di nuovo si concentrò prendendo un bel respiro; di nuovo altri tre colpi in rapida successione, come una breve scarica. E così per altre due volte, fino a vuotare il caricatore.
La giovane rilasciò l’aria in uno sbuffo, come a volersi liberare di un peso, nascondendo però un piccolo gemito: un lieve ma improvviso crampo al ventre le provocò un movimento incerto nella procedura che stava eseguendo. Con le mani tremanti rimise la sicura, estrasse il caricatore vuoto e tirò l’otturatore per controllare che l’arma fosse completamente scarica. Poi, la posò sulla mensola. Tornò a respirare in modo normale, come se nulla fosse successo. Si tolse gli occhiali protettivi, posandoli accanto alla pistola e riprese il bersaglio.
«Poteva andare meglio», commentò, esaminandolo e mettendolo da una parte, sostituendolo subito con uno nuovo. «Tocca a te», esortò l’altro.
Aiolos continuò a fissare quel bersaglio anche dopo che era stato accantonato. Il risultato che aveva ottenuto Cora era stato di nove centri nei punti vitali, di cui tre alla testa e sei al cuore, e gli altri sei colpi andati a segno in pieno stomaco.
Deglutì, incredulo. Ora era veramente impressionato. Eppure, a prima vista la ragazza non sembrava affatto avvezza alle armi da fuoco, invece aveva dimostrato molto bene che ci sapeva fare.
«Se è la prima volta per te, non aver timore, ti spiego tutto io.»
Cora non aveva l’abilitazione per insegnare a sparare, ma non c’era nessuno a darle una bacchettata sulle mani per quell’infrazione ed era più che sicura che non ci sarebbero stati problemi. Si scostò di un passo e gli lasciò spazio.
In quel breve momento, Aiolos si sentì letteralmente sotto esame. Se avesse rifiutato l’invito si sarebbe dimostrato un vigliacco, ma se invece avesse accettato?
Come un flash stordente riaffiorarono in lui quegli attimi di terrore che aveva assaggiato mesi prima, in quella stazione della metropolitana deserta, mentre il freddo metallo della canna della pistola aveva accarezzato la sua testa. Lì, in quel luogo, ugualmente deserto, gli si presentava l’occasione per scacciare quell’ombra ingombrante. Anche se con riluttanza, era pronto a coglierla, ma i suoi piedi non ne volevano saperne di muoversi da dove si erano piantati. Fece quasi violenza a se stesso quando si avvicinò a lei e sfiorò con la punta delle dita l’arma posata sulla mensola.
«Prendi la pistola e prova l’impugnatura; vedi come te la senti in mano», disse lei. «Stringi forte con l’anulare e il medio, quindi rilassa un poco le dita. L’altro dito, il mignolo, deve solo appoggiare, fare da sostegno. L’indice mantienilo lontano dal grilletto.»
Con entrambe le mani, Cora lo stava aiutando a prendere la posizione corretta, spiegandogli passo per passo, sfiorando la sua mano, spostandogli un poco le dita per migliorare la sua presa.
«Ricordati di puntare l’arma sempre verso il basso e mai nella direzione delle altre persone. Stringi saldamente. Aiutati con l’altra mano per rendere più stabile la presa. Quando sei in fase di preparazione, non tenere mai il dito sul grilletto: se l’arma è carica potrebbe partire un colpo accidentale.»
Mentre ascoltava le sue parole, ad Aiolos sembrava di essere tornato adolescente, a quando in uno strano momento di condivisione familiare il padre aveva portato lui e Aiolia al poligono di tiro, appena fuori Boston, e aveva mostrato loro come sparare.
«Mi stai ascoltando?»
«Certo», rispose lui, con un certo imbarazzo nella voce.
«Ora, prova a distendere le braccia e a prendere la mira. Ricorda, l’altra mano serve solo come supporto e per rendere più stabile e sicura la presa. Tutto il lavoro lo fa la mano dominante. Sei destrorso come me, vero?»
Aiolos fece un cenno di assenso con il capo.
«Bene. Sovrapponi la sinistra alla destra e allinea i pollici, non troppo in alto, altrimenti il movimento del cane potrebbe ferirti; mantieni ancora l’indice destro appoggiato lungo la canna.»
Cora fece una pausa, lasciando il tempo all’altro di assorbire tutte quelle nozioni e provare la presa corretta. Annì nell’osservarlo prendere una cauta confidenza.
«Passiamo alla postura delle spalle e della gambe.» Di nuovo gli si fece vicino, mentre con le mani gli toccava gli arti. «Il braccio destro deve essere ben teso, il sinistro invece leggermente col gomito piegato. Ricorda: il sinistro serve solo per sorreggere e stabilizzare», gli ripeté, posizionandosi dietro di lui e aggiustandogli l’altezza delle braccia.
Non era facile per lei correggerlo, perché la corporatura di Aiolos era troppo massiccia, almeno rispetto a lei.
«Le gambe vanno divaricate leggermente, devono essere alla stessa altezza delle spalle. Col piede destro fai un piccolo passo indietro, mentre le ginocchia devono flettere un poco...» Per un attimo le mancò il fiato e fu costretta a fare una breve pausa. «per mantenere meglio l’equilibrio», terminò, cercando di fare come niente fosse. «Ora, per prendere correttamente la mira dei allineare il mirino anteriore con quello posteriore. Non ti preoccupare se ne vedi uno sfocato, o se vedi il bersaglio sfocato; non possono essere tutti messi a fuoco. Concentra lo sguardo su quello anteriore. Una volta che i mirini saranno allineati, avrai la certezza che la pistola è ben dritta. Questa è una tecnica base; poi, col tempo e con l’esperienza, potrai trovarne una più adatta a te.»
Si portò di nuovo a fianco del ragazzo per avere una visione globale della sua posizione.
Aiolos seguì tutte le indicazioni senza lamentarsi. Era strano come l’insofferenza che di solito provava per lei, fosse come scomparsa. Ancora più strano era che si lasciasse guidare in quel modo, quando con il padre invece aveva fatto maggiore resistenza. E tutto quello che non aveva voluto apprendere da Thomas, con lei era invece interessato a imparare; anche se, teoricamente, le conosceva già tutte le basi che lei gli stava spiegando. Sapeva persino smontare, pulire e rimontare diversi tipi di armi, praticamente a occhi chiusi.
Cora si appoggiò con una mano alla mensola della cabina di tiro e fece un paio di respiri profondi; le sue labbra tremolarono un poco e all’improvviso sentì caldo. Si sfiorò il ventre con l’altra mano, ancora una volta i crampi le stavano dando una strana sensazione.
«Tutto bene?» chiese Aiolos, osservandola con la coda dell’occhio; era rimasto in posizione, ma ormai la concentrazione era tutta per la ragazza che stava avendo delle reazioni poco normali. Abbandonò la postura di mira, tenendo mollemente la pistola con la destra e si girò verso di lei.
Cora si dovette appoggiare anche con l’altra mano, ansimando. Il viso era completamente imperlato di sudore, sentiva un gran caldo, eppure era pallida come un cencio.
«Sei sicura di stare bene?»
«Sì, sì. Scusami, ora è passato», lo rassicurò lei, seppur in modo poco convincente. «Riprendi la posizione», lo esortò, ma Aiolos questa volta non le diede retta, rimanendo a fissarla con strana preoccupazione.
Il ragazzo fece appena in tempo a posare la pistola, tralasciando tutte le norme di sicurezza di quando si maneggiano le armi, che lei si era piegata in due dal dolore, trattenendo un forte gemito, accasciandosi infine a terra, fra i bossoli dei colpi che aveva sparato poco prima.

*****

Cora era stufa di aspettare. Seduta sul lettino delle visite, col camice ospedaliero in dosso – corto e scomodo che le lasciava la schiena nuda – e le gambe a penzoloni, continuava a farle dondolare avanti e indietro, sbuffando annoiata.
«Basta, io me ne vado!» disse, saltando giù dal lettino. Aveva atteso quasi un’eternità lì seduta e ora non era disposta a spendere un minuto di più in quel posto.
Aiolos la guardò alzando un sopracciglio, seduto sullo sgabello di metallo, poco più in là. Strano ma vero, lui che l’aveva portata di corsa al pronto soccorso, si era ritrovato alla fine con una visibile fasciatura alla spalla e il braccio appeso al collo, mentre lei, che fino a poco prima si era lamentata di dolori lancinanti al ventre, ora sembrava essere in perfetta forma, se non si teneva in considerazione qualche linea di febbre.
La giovane si grattò il braccio sinistro, nel punto dove l’infermiera le aveva fatto il prelievo del sangue e dove ora c’era una garzina sterile fermata con lo scotch di carta.
«Come vuoi», disse Aiolos, senza fare alcuna obiezione, né cercare di dissuaderla. Anzi, ironia della sorte, era d’accordo con lei e non vedeva l’ora di lasciare anche lui il pronto soccorso.
Con un gesto forzato e poco naturale, si liberò il braccio dal sostegno e si rimise la camicia che l’infermiera gli aveva lasciato lì vicino. Poi, sempre un poco a fatica, se la riabbottonò. L’antidolorifico che gli avevano somministrato prima della fasciatura stava ormai passando, ma ancora gli provocava un certo intorpidimento ai muscoli.
Cora si guardò attorno, cercando un posto dove potersi rivestire: quando l’avevano obbligata a spogliarsi, perché le avevano detto che le avrebbero fatto un’ecografia all’addome, per accertare la causa di quei dolori, Aiolos era già stato preso in consegna da un’altra infermiera; vista la situazione non poteva certo rimettersi i vestiti davanti a lui. Sbuffò di nuovo, guardandolo di sottecchi. Il tacito messaggio di lasciarle un momento di privacy non gli era arrivato.
Si dovette quindi arrangiare, nascondendosi come poteva dietro il lettino. Piegandosi un poco iniziò a infilare i jeans un piede alla volta, ma non era una buona equilibrista e, per non spostare troppo il camice, per poco non si ritrovò con il sedere per terra. Aveva ancora i pantaloni a metà gamba quando la tenda – che faceva da séparé – venne tirata con un colpo secco e da dietro si materializzò un medico.
«Caroline Miller, la nostra miracolata!» la salutò l’uomo, con un grande sorriso sulle labbra. «Mi era arrivata voce che tu fossi in ospedale ed eccoti qui!»
Si avvicinò al lettino e le strinse la mano con cordialità.
«Salve, Dr. Ferretti», ricambiò lei, in forte imbarazzo.
«Te la stavi svignando prima della visita?» la rimproverò bonariamente lui.
L’uomo era un medico di mezza età, brizzolato e costantemente abbronzato; occhi azzurri, denti bianchissimi che amava mettere in mostra in ogni occasione e dava sempre del “tu” alle pazienti donne, soprattutto se giovani e carine. Al “George Clooney” del reparto chirurgia, l’uomo che le aveva salvato la vita, si poteva perdonare questo e altro.
In mano reggeva la cartella clinica che l’infermiera aveva compilato al momento dell’accettazione e della visita preliminare. Sul primo di quei fogli erano stati riportati tutti una serie di dati e gli esami richiesti.
«Allora, rimettiti sdraiata qui sopra», le disse, battendo la mano sul materassino, per sottolineare l’ordine appena impartito, seppur gentilmente, «e scopri la pancia. Lei, signore, è un parente?» chiese, rivolgendosi ad Aiolos.
«Solo un conoscente.»
«Allora può aspettare in fondo alla sala, per cortesia?» Il medico era tanto cordiale con le pazienti donne, quanto invece formale e serio con gli accompagnatori, soprattutto se non erano dei parenti.
«No, no, dottore. Vorrei che rimanesse», intervenne Cora. Non che non si fidasse del dottore, o che avesse paura di qualcosa, ma la presenza di Aiolos la faceva sentire più sicura.
«In questo caso faremo uno strappo alle regole», concesse l’uomo, rivolgendosi di nuovo alla sua paziente.
Ferretti diede un secondo sguardo a quei fogli, mugugnando qualcosa.
«Mancano ancora i risultati degli esami del sangue e delle urine. Non fa niente, vorrà dire che inizieremo con l’ecografia. Hai dichiarato di aver subito un colpo molto forte, vero? Senti ancora dolore?» le chiese, mentre le faceva la palpazione sulla zona interessata.
Cora scrollò la testa, posizionandosi più comoda sul lettino, mentre il medico, intento ad avvicinare il carrello col monitor e l’ecografo portatile, pareva non aver badato alla sua risposta.
«Magari non è niente, ma noi daremo lo stesso un’occhiata», disse, concedendole un altro un sorriso. «Adesso sentirai un po’ freddo.»
Aveva appena preso in mano il flacone del gel, quando arrivò quasi di corsa l’infermiera che aveva visitato per prima Cora. La donna, senza dire nulla, consegnò il foglio coi risultati al Dr. Ferretti e attese nuove istruzioni.
«Mmmmh…» mugugnò l’uomo.
«Dottore?»
Il medico continuava a controllare e ricontrollare quei risultati, con una smorfia sulle labbra, come se qualcosa non lo convincesse, lasciando i presenti col fiato sospeso.
«Ebbene, secondo questi risultati...» iniziò, facendo una pausa. «Congratulazioni, Caroline, sei incinta», disse, sciogliendosi in un sorriso accattivante. «Vuoi vedere il tuo bambino?» le chiese, apprestandosi ancora una volta a sistemare l’apparecchio e prendendo il gel.
«È sicuro, dottore?» chiese con voce flebile Cora, attonita a quella notizia.
Fissò il vuoto per diversi secondi, boccheggiando e tremando un poco. Non era certa di aver inteso bene. Sarebbe stato troppo bello per essere vero e lei non voleva farsi troppe illusioni. Continuava a pensare che non poteva essere possibile, che da dopo il suo ferimento lei non avrebbe più potuto averne; e ora le stavano dicendo che tutto ciò in cui aveva creduto in quegli ultimi due anni era errato.
«Le analisi del sangue e delle urine non mentono. Sarai presto mamma», confermò il chirurgo. Accese il monitor e, dopo aver usato una generosa quantità di gel, iniziò a muovere la sonda sul ventre della ragazza.
Quelle strane immagini sgranate che si susseguivano sul monitor a un occhio profano erano di difficile comprensione. Erano masse chiare indistinte e ombre che cambiavano forma a ogni movimento della sonda.
Con gli occhi pieni di speranza, Cora provò a dare una sbirciata a quel monitor, emozionata e impaurita al tempo stesso. Le sue labbra erano costantemente piegate in un sorriso e tremavano. Tratteneva il respiro, le sue mani erano nervose e iniziarono a tormentare il bordo del camice.
Contrasse involontariamente il ventre, nel sentire una pressione un po’ più forte.
«Un attimo di pazienza che abbiamo quasi finito», la rassicurò Ferretti.
La voce dell'uomo questa volta risuonò fin troppo professionale, quasi avesse cercato di mascherare una crescente preoccupazione. Di questo se n'era accorta sia l'infermiera che Aiolos, rimasto sempre in disparte e che seguiva con malcelato disappunto.
Ferretti continuò a fissare il monitor, mentre con la mano spostava la sonda dell’ecografo. In quegli ultimi minuti stava insistendo molto su un determinato punto, come se avesse anche lui difficoltà a capire.
«Eccolo», disse, senza alcuna enfasi. «Dovrebbe essere di… quattro, forse cinque settimane», stabilì. La sua giovialità era ormai sparita.
Fece un cenno all’infermiera e, parlando a bassa voce, le ordinò di chiamare su in reparto e far scendere una delle ostetriche di turno per un consulto; poi aggiunse di riferire che era un’emergenza.
La ragazza era ancora così frastornata dall’emozione che non aveva notato lo sguardo serio del medico, né si chiese come mai l’uomo non le avesse indicato sul monitor il suo bambino, né ancora il perché, dopo essersi soffermato così a lungo, avesse riposto la strumentazione tanto in fretta, mutando il suo solito atteggiamento.
«C’è qualche problema?» domandò Aiolos, che invece non si era lasciato sfuggire alcun dettaglio di quella visita. La domanda pareva essere caduta nel vuoto.
«Rimani qui ancora qualche minuto», disse il Dr. Ferretti a Cora, che si stava risistemando il camice, alzandosi dallo sgabello e allontanandosi di qualche passo, non appena scorse arrivare la sua collega.
Aiolos avvertì all'improvviso una strana tensione, si avvicinò alla ragazza che fissava un punto imprecisato con sguardo languido, mentre si accarezzava il ventre e la squadrò severamente.
«Ora cos'hai intenzione di fare?» le chiese sottovoce. Il suo tono non era stato certo amichevole, né partecipe del momento lieto.
Cora strinse la stoffa del camice e sospirò un “non lo so” che testimoniava quanto, in quel momento, si stesse finalmente rendendo conto dell’accaduto. Era un bel dilemma: Saga e lei avevano faticato a convivere, perché in un modo o nell’altro qualcosa era sempre andato storto; non erano ancora riuscire a trovare una certa stabilità e ora c'era in arrivo un bambino.
«Secondo te, come prenderà la notizia? E la sua famiglia?» chiese, con giustificata preoccupazione.
«E la tua invece?» ribatté Aiolos. «Pensi che tuo zio verrà a Boston, pistola in mano, a chiedere la testa del colpevole?»
A quelle parole Cora ridacchiò, immaginandosi la scena. Ma sapeva che non ci sarebbe stato motivo per una cosa del genere. Lo zio Phil avrebbe sicuramente approvato, dopo qualche giorno passato a rimuginare sulla situazione e dopo una colossale opera di convincimento da parte di sua madre, naturalmente; e lei, sua madre… beh, in passato aveva fatto altrettanto, più o meno; e poi, era uno spirito romantico. E una volta che lo avesse conosciuto anche di persona, se ne sarebbe innamorata anche lei, ne era più che certa.
«Credo che saranno un po’ sorpresi», rispose, pronunciando quelle parole con dolcezza e con un sorriso innamorato.
«Caroline», la chiamò il dottore, ritornato dopo qualche minuto e ridestandola dai suoi sogni a occhi aperti. «Dobbiamo portarti in sala operatoria.»
La voce dell'uomo risuonò tetra e greve. Aiolos lo fissò a occhi sgranati, stringendo il pugno. Su tutti i presenti calò una tensione nervosa. Solo da parte della giovane non arrivava alcuna reazione; anzi, sembrava persa nelle sue fantasticherie.
«Caroline, hai capito quello che ti ho appena detto?» disse Ferretti, scuotendola leggermente per la spalla.
Gli occhi di Cora incrociarono quelli del chirurgo. «Che mi dovete portare in sala operatoria, dottore», disse lei, ma ai presenti era chiaro che lei non ne fosse del tutto cosciente. «Non ne vedo però il motivo. Io sto bene.»
«No, Caroline, non stai bene. E anche la gravidanza non va bene. Dobbiamo  interromperla.»
«Ma io sto bene!» insistette la giovane; e questa volta la sua voce aveva in sé un tono decisamente allarmato.
«Miss Miller, purtroppo è una gravidanza extrauterina. Dobbiamo intervenire con urgenza, prima che possano esserci delle complicazioni molto più gravi, per la sua salute», intervenne la collega che era stata chiamata da Ferretti.
«No! No! Io sto bene!» urlò Cora, quasi isterica, saltando giù dal lettino. «E starà bene anche lui! Perché... perché mi state facendo questo...» mormorò, con le guance rigate di lacrime. Quando aveva scostato il lenzuolo aveva svelato sul materassino delle tracce di sangue.
All'improvviso avvertì un forte crampo irrigidirle il ventre e lo stomaco. Era diverso dai soliti con i quali era abituata a convivere. Poi, un dolore più acuto la fece gemere e piegare in due, esattamente com’era successo al poligono di tiro. Si portò entrambe le braccia a stringersi dove sentiva quelle fitte.
«Caroline, non fare pazzie. Segui quello che ti dicono i dottori», disse Aiolos, con particolare preoccupazione, sorreggendola e aiutandola a tornare sul lettino.
Le gambe della giovane si afflosciarono senza forza e Aiolos, con grande reattività, nonostante la spalla dolente, la prese in braccio, posandola sul lettino. Per terra, ai suoi piedi vi era una grande pozza di sangue scuro che era colato fra le cosce di lei.

*****

La giovane si risvegliò in quella stanzetta d’ospedale, su in reparto chirurgia, ancora tutta frastornata dall'anestesia totale che erano stati costretti a farle. Era una singola, essenziale ma dall’aria comunque confortevole. Le luci al neon erano accese e le davano fastidio alla vista. Aggrottò la fronte e strizzato gli occhi. Sentiva i suoni attorno a sé un poco ovattati e le palpebre decisamente pesanti. Il tubicino dell’ossigeno le prudeva al naso ed era troppo tirato dietro le orecchie.
«Mamma», mormorò.
«Caroline! Come ti senti?» chiese la donna che subito si era chinata su di lei, accarezzandole la guancia esangue e dandole un bacio sulla fronte.
«Cosa ci fai qui?» disse la ragazza, con voce impastata.
«L’ho chiamata io, dal tuo cellulare», intervenne Aiolos, appoggiato con la schiena alle veneziane abbassate dell’unica finestra presente. «Doveva saperlo.»
«Bambina mia…» le disse dolcemente Teresa, gli occhi tristi e arrossati. Di sicuro aveva pianto per tutto il tempo che era rimasta accanto al letto di sua figlia, in attesa che lei si svegliasse.
Cora fissò la madre negli occhi, per quanto le sue condizioni le permettessero, senza dire nulla. Non si capacitava di quel che era successo così all'improvviso. Aveva toccato il cielo con un dito e ora si sentiva vuota dentro. Non solo metaforicamente parlando. Le avevano tolto qualcosa che lei anelava e che si era già rassegnata a non avere mai. Le sembrava di vivere un incubo.
«Ci sono anche gli altri?» chiese, con voce flebile.
«No, sono venuta solo io. Phil è a casa con Mickey; gliene ho parlato, ho dovuto farlo, perché la telefonata è arrivata quando lui era presente, ma tuo fratello ancora non lo sa.»
«Non glielo dire. Non voglio che pensi di essere responsabile di quello che mi è successo», disse Cora, con la voce che andava via via facendosi più agitata e il respiro che diventava affannoso. Sul monitor, il battito del suo cuore era accelerato.
«Sssh… sssh… tesoro, stai tranquilla», provò a calmarla la madre.
Cora girò la testa dall’altra parte e incrociò lo sguardo di Aiolos. Temeva del biasimo da parte del ragazzo, ma lui sembrava imperturbabile e i suoi occhi erano altrettanto indecifrabili. Aveva la testa ancora confusa, ma una cosa ricordava bene, nonostante tutto lui le era rimasto accanto e l’aveva aiutata. No, la verità era che le aveva salvato la vita, perché se fosse stata sola in quella cabina del poligono sarebbe morta dissanguata. Le sue labbra si mossero impercettibilmente a prononciare un “grazie”, ma la sua voce era come se fosse scomparsa di colpo, esaurita; allora si limitò a indugiare con lo sguardo su di lui, che la stava ricambiando, senza mutare espressione. Dopo qualche secondo lo vide prendere dalla tasca il cellulare e allontanarsi dalla finestra, per dirigersi alla porta della camera.
«A lui, cosa devo dire?» le chiese Aiolos, facendo un breve gesto con la mano che teneva il cellulare.
Cora strinse le labbra e chiuse gli occhi già velati di lacrime, lasciando che queste scendessero libere fino a bagnare la federa del cuscino. «Niente. Non c’è niente da dire.»
Teresa rimase in silenzio ad assistere a quel dialogo, continuando a starle vicina; percepiva che c’erano diverse cose che andavano chiarite, ma non le pareva giusto dover intervenire in ciò che non la riguardava. Era però pronta a raccogliere i pezzi, nel caso sua figlia glielo avesse permesso. Un’esperienza del genere era traumatica di per sé; per Caroline poi, che già aveva sofferto molto, lo era ancora di più.
«Mamma… voglio andare a casa.»
«Sì, bambina mia. Fra poco arriverà il Dr. Ferretti per controllare se tutto è andato bene e poi, se ci darà il permesso, chiederemo il foglio di dimissioni.»


note del capitolo:
Paintball e Speedball: (per carità non confondete quest'ultimo con le droghe) è un tipo di sport (e relativa specialità) abbastanza recente, nato negli Stati Uniti e diffusosi poi in Europa e nel resto del mondo. Ma bando alle ciance, qui trovate tutte le spiegazione necessarie.


   
 
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