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di titania76
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXIX ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXX ***
Capitolo 32: *** Capitolo XXXI ***
Capitolo 33: *** Capitolo XXXII ***
Capitolo 34: *** Capitolo XXXIII ***
Capitolo 35: *** Capitolo XXXIV ***
Capitolo 36: *** Capitolo XXXV ***
Capitolo 37: *** Capitolo XXXVI ***
Capitolo 38: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

Questa storia è totalmente dedicata a Manichan, che da diverso tempo non era più in grado di leggerla, né di darmi i suoi preziosi consigli e opinioni, o anche solo allietarmi con le sue battute, nel corso della stesura degli ultimi capitoli.
P
urtroppo, non ha potuto vedere la conclusione di questa lunga storia.




*****




Autunno 1983
Una fastidiosa foschia stava scendendo, veloce e silenziosa, a formare il solito velo di triste grigiore che la faceva da padrone in quell'autunno. Sembrava un'entità superiore che si divertiva ad avviluppare ogni cosa con il suo sottile e impalpabile manto, rendendosi a tratti più densa e a tratti più lieve e mistica. Cortine biancastre rendevano ancora più lugubre quel luogo tanto inconsueto per un appuntamento.
Il deposito dei treni non era nulla di più che un tratto di stazione in disuso e isolato dal resto, con tronconi di binari arrugginiti sui quali erano state dimenticate locomotive obsolete e vagoni inutilizzabili. In breve tempo, quel luogo era divenuto il territori di gang locali per lo spaccio e qualche resa dei conti.
Non erano ancora le quattro del pomeriggio e quella giornata stava già virando verso la notte, pesate e dall'atmosfera mortifera, con tutto quel biancore che aleggiava immobile. Fra le sue pieghe, un lontano eco di passi si stava facendo strada. Come colonna sonora, cigolii metallici creati da sporadiche folate di vento, e il gracchiare di un corvo, appollaiato su un vecchio traliccio ormai privo dei cavi dell'alta tensione.
Quei passi, dapprima calmi, diventarono via via più affrettati e agitati. Un respiro affannoso, teso, poi ancora solo passi di una figura misteriosa che si stringeva in un lungo cappotto grigio di lana. Il suo viso era avvolto da una sciarpa di cashmere scura e in testa un borsalino a celarne quasi del tutto le fattezze. I suoi occhi erano febbrili e acuti, scrutavano tutt'attorno a lui. L'andatura era svelta, ma resa incerta e irregolare dal pietrisco della massicciata che scricchiolava e faceva affondare un poco i suoi piedi a ogni passo, rendendo il tutto più faticoso.
L'uomo si guardò attorno con circospezione, girandosi spesso a osservare dietro di sé; il cuore gli batteva forte per la tensione. Rimuginava in continuazione sul perché avesse accetto di essere lì quel giorno.
Il prolungato fischio di un treno in lontananza, che in quel momento entrava in stazione, lo fece sobbalzare.
«Maledizione!» si lasciò sfuggire fra i denti in un sibilo roco, ancora con il cuore in gola.
Istintivamente si mise una mano nella tasca, afferrando e stringendo un oggetto dalla superficie fredda e metallica che gli diede un momentaneo senso di sicurezza. Si concesse un minuto, poi rilassò i muscoli delle spalle e riprese il suo percorso attraverso la nebbia, fermandosi infine nei pressi di un palo, sottile e basso, innestato nel cemento del marciapiede, sul quale era fissata una scatola metallica, di quelle per le chiamate di emergenza.
Si abbassò la sciarpa dal viso e scrutò i paraggi, strizzando gli occhi per cercare di vedere un poco attraverso la nebbia che nel frattempo si era inspessita. Dalla tasca interna estrasse il portasigarette in argento. Prese una sigaretta e se la mise subito in bocca. Le sue labbra tremavano ed erano livide dal freddo pungente, nonostante la sciarpa. Dalla tasca destra del cappotto recuperò l'accendino, anch'esso in argento. Provò due, o tre volte, prima di riuscire ad accenderla. Fece un tiro, poi un altro e un altro ancora, fino a terminarla; senza riuscire a godere dell'effetto calmante della nicotina. Anzi, lo rese ancora più nervoso.
«Che diavolo ci faccio ancora qui?» si chiese, fumando un'altra sigaretta, con la pressante idea nella testa di girare i tacchi e tornarsene da dove era venuto.
Buttò a terra il mozzicone accanto all'altro già schiacciato. Il tempo sembrava non passare mai.
Le istruzioni che aveva ricevuto nel suo ufficio di New York erano state chiare: una volta arrivato al deposito dei treni avrebbe dovuto raggiungere a piedi quel punto specifico e attendere. Ma per quanto tempo?
Fumò nervosamente altre due sigarette, nell'attesa che qualcuno si facesse vivo. I suoi occhi non si fermavano mai, scrutando ogni ombra, scattando a ogni rumore.
Rabbrividì, nonostante il pesante e caldo cappotto che indossava. Quel freddo incipiente della sera iniziava a insinuarglisi fin dentro le ossa; ma, ancor più del freddo, a infastidirlo era l'irritazione che gli attanagliava lo stomaco per quella lunga attesa.
Sussultò nel sentire alle sue spalle lo squillo del telefono di servizio. Fissò lo sguardo sulla scatola metallica. Lasciò suonare diverse volte prima di decidersi ad aprire lo sportellino ammaccato e arrugginito e afferrare la cornetta. Titubò ancora qualche istante. Poi, se l'appoggiò all'orecchio.
«Benarrivato. Hai avuto difficoltà a trovare il posto?» chiese una voce all'altro capo della linea.
«Perché mi hai fatto venire in questo postaccio? Perché proprio a Springfield?»
«Perché è a metà strada. È un terreno neutrale dove le loro mani non possono arrivare», rispose con tono pacato la voce misteriosa.
«Non mi piace perdere il mio tempo in questo modo! Dove sei, perché non ti sei presentato?» disse l'uomo in grigio, irritato. Si guardò attorno ancora una volta, ma non vide nessuno.
«Non te la prendere in questo modo, fa male alla salute», lo canzonò la voce. Fece una pausa. Attraverso il microfono del telefono si sentirono alcuni colpi di tosse e un rantolo. «Ti ho lasciato qualcosa nel gabbiotto di controllo, qualche metro più avanti. Spero apprezzerai il regalo.»
«Non voglio niente da te!» esclamò l’uomo, pronto a concludere la conversazione.
«Mi fido di te.»
A quelle semplici parole, la rabbia dell'uomo in grigio tentennò. Era stato un colpo a tradimento. Provò a replicare, ma sentì un click dall'altra parte della linea: la comunicazione era stata interrotta.
«Pronto? Pronto?» gridò, senza ricevere risposta.
Scagliò via la cornetta del telefono con uno scatto rabbioso, soffocando un'imprecazione; e rimase a fissarla penzolare dal filo, a pochi centimetri da terra. Fece un respiro profondo, per recuperare la calma. Gli era stato detto di guardare nel gabbiotto. La struttura era a pochi metri da lui: fatta di ferro, legno e vetro. Vi entrò a passo svelto, ma a una prima occhiata non vi era nulla di strano. Poi, abbassando lo sguardo, vide uno scatolone ficcato sotto la consolle di controllo. Era grosso, quasi interamente occupato da una pesante coperta di lana. Lo fissò a lungo prima di accovacciarsi e tirarlo fuori.
«Il regalo...» mormorò sarcastico.
Era tutto il giorno che aveva una brutta sensazione. Non avrebbe dovuto farsi immischiare in quella faccenda, ma rimanersene a New York, a farsi gli affari suoi. Nessuno lo obbligava a continuare quella farsa. Sarebbe stato semplice lavarsene le mani, fare finta di nulla, perché se avesse alzato quella coperta era sicuro che la sua vita sarebbe cambiata radicalmente.
Indugiò per qualche secondo: senza rendersene conto si ritrovò ipnotizzato dal desiderio di scoprire cosa ci fosse dentro. Quando alla fine si decise, sgranò gli occhi.
Uscì all'aria gelida e umida: il suo viso era tirato. La nebbia si era fatta più scura e fitta.
Fece qualche passo, sperava che prima o poi l'altro trovasse il coraggio di mostrarsi, ma in cuor suo non ci credeva. Continuò a camminare avanti e indietro per diversi minuti, a capo chino, fumando una sigaretta dopo l'altra. Raramente si era trovato nella posizione di non sapere cosa fare e quella sembrava proprio una di quelle. Si guardò indietro, verso il gabbiotto. Vi rientrò dopo aver buttato a terra l'ultimo mozzicone. Afferrò la cornetta del telefono della consolle e, dopo aver preso la linea esterna, fece una breve telefonata, dal tono decisamente perentorio.
«Metti in auto quello che c'è dentro e poi andiamocene da qui», ordinò al suo autista, arrivato una manciata di minuti dopo la telefonata. Schiacciò l'ennesima sigaretta con la punta della scarpa. «Sul sedile posteriore. E usa molta cautela», specificò, bloccandolo per un braccio.
Il vecchio annuì. Si tolse il cappello, adagiandolo sul sedile davanti ed eseguì senza fare domande.
«Se posso permettermi, signore», esordì il vecchio, con voce pacata e paterna, una volta ripartiti. «Che cosa...» provò a domandare, subito però frenò la lingua, notando dallo specchietto retrovisore lo sguardo accigliato del suo giovane padrone che fissava la strada dal finestrino.
«È il ricordo di un'amante senza coraggio. È questo che diremo, una volta tornati a casa, se ci chiederanno qualcosa», rispose Shion Hayes, togliendosi il cappello e allentando la sciarpa.
«Strano modo di farglielo avere, se posso permettermi», osservò l'autista. La conversazione non ebbe più seguito. Sempre dallo specchietto, osservò come l'altro si stesse ormai estraniando.

******

Profondi e cupi occhi verdi, velati di immensa tristezza, erano rimasti a osservare lo svolgersi del destino. Era stata una visione difficile da sostenere per lui, attraverso la nebbia irregolare che si divertiva a creare ora una barriera impenetrabile, ora un velo leggero. Il suo cuore era pesante. Rimase lì, nel suo nascondiglio, non troppo vicino, ma neanche troppo lontano dal punto dell'appuntamento, finché non fu tutto tranquillo. Diede ancora qualche violento colpo di tosse, sputando sangue ai suoi piedi, ansimando e appoggiandosi con la fronte alla parete del vagone merci, stringendo nella mano il cellulare.
Sorrise amaro quando vide l'auto allontanarsi; fece un sospiro stanco e rassegnato, ma anche liberatorio: gli era costato molto, ma sapeva di aver preso la decisione giusta. Si tolse gli occhiali e, molto delicatamente, pulì le lenti tonde, racchiuse da una sottile e sobria montatura d'oro.
Fece un altro respiro profondo, per ritrovare la determinazione che aveva dovuto imparare a tirare fuori in quegli ultimi mesi. Distrusse il cellulare e scese dal vagone, stringendosi nel cappotto e alzando il bavero. Il vento gelido lo colse di sorpresa. Si girò per un'ultima volta nella direzione presa dall'auto, mormorando fra sé e sé poche parole incomprensibili, forse in una lingua straniera. Poi, si incamminò nella direzione opposta.







Note del capitolo:
Ebbene sì, c'è una piccolissima nota. La perplessità che potrebbe sorgere alla fine della lettura di questo prologo è: Come è possibile che ci possano essere i telefoni cellulari nel 1983? Non so voi, ma a me questa perplessità è venuta alla fine della stesura di questo prologo. Ebbene, sono andata a controllare e guarda la fortuna, proprio nel 1983 la Motorola ha prodotto il suo primo modello di telefono cellulare, anche se non era per così dire molto discreto nelle sue dimensioni, se lo paragoniamo a quelli di oggi.


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Capitolo 2
*** Capitolo I ***





I


Ci vollero più di due ore e mezzo da Springfield, luogo dell'appuntamento, sul confine col Connecticut, a Winchester, piccolo centro abitato alle porte di Boston, nel Massachusetts. Il viaggio si rivelò decisamente più lungo del previsto e scomodo, troppo scomodo. La nebbia era stata una compagna costante che non li aveva abbandonati sin da quando avevano lasciato il deposito dei treni. Li aveva seguiti, circondati, nascosti alla vista di occhi indiscreti, per proteggerli e farli arrivare a destinazione nella sicurezza dell'anonimato. Ma era stata anche una compagna inquietante, che portava con sé ombre e inganni.
Per buona parte del tragitto, il vecchio Fernando Morales, il fedele autista della famiglia Hayes, aveva rivolto discretamente lo sguardo a osservare il suo giovane padrone. Lo aveva visto sempre più teso e nervoso a ogni telefonata che faceva. Fin quando non aveva appoggiato la testa al finestrino, chiudendo gli occhi e cedendo a un leggero sonno. Il vecchio sorrise nostalgico al ricordo di quel ragazzino sempre all'inseguimento dell'approvazione del padre che era dovuto crescere in fretta e caricarsi sulle spalle responsabilità troppo grandi per un animo sensibile qual era stato. Scosse la testa, rivolgendo poi l'attenzione al carico che stavano portando. Si grattò la fronte, mormorando che una volta arrivati a casa sarebbe toccato a lui dare parecchie spiegazione.
Erano passate le sette di sera quando l'auto lasciò la statale per immettersi sulla strada privata che attraversava l'immensa proprietà della famiglia Hayes. Rallentò, una volta imboccato il viale ghiaioso e si arrestò di fronte all'ingresso della villa.
Villa Hayes era una vecchia costruzione di tre piani in stile Liberty, risalente agli anni '30, appena fuori Winchester e si affacciava direttamente sulle sponde del lago Mystic.
Shion Hayes aprì gli occhi non appena sentì il crepitio della ghiaia sotto le ruote dell'auto. Il suo viso era tirato per il sonno scomodo e la giornata così stancante per lui. Si sentiva indolenzito. Col dorso della mano nascose uno sbadiglio; poi, scostò per un momento la coperta che celava il contenuto dello scatolone, assicurandosi che tutto fosse in ordine. In quel momento sentì dentro di sé una moltitudine di sensazioni che non riusciva a comprendere.
Aprì la portiera senza attendere che lo facesse l'autista per lui e scese. Non badò ai grossi fiocchi di neve che avevano preso a cadere da qualche minuto e che ora imbiancavano le sue spalle. La nebbia, che era stata tanto amica nella prima parte del viaggio, era diventata un lontano ricordo, sostituita dalle candide mani di un'altra amica, silenziosa e più rassicurante, che con la sua coltre copriva ogni traccia, ogni colpa e ogni dolore passato.
Si guardò attorno, stringendo il borsalino nella mano. L'aria era pungente. Rabbrividì. Poi, senza altro indugio, entrò in casa.
«Shura! Nanny!» tuonò, secco e impaziente, avvicinandosi allo scalone principale.
Si sentiva un leone in gabbia ogni volta che rientrava in quella casa, che viveva come il reliquiario del padre. Fece qualche passo nell'atrio, spolverando la neve dal cappotto con la mano.
«Shura! Nanny! Dove diavolo vi siete cacciati?» chiamò ancora, più irritato di prima, camminando impaziente. «Ma non c'è nessuno in questa casa?»
«Cosa succede, Shion? Perché urli in questo modo?» chiese un giovane moro, affacciandosi nell'ampio atrio già addobbato per Natale. Era alto e longilineo, poco più che ventenne, con uno spiccato accento spagnolo e dall'atteggiamento fin troppo confidente e disinvolto verso il padrone di casa.
Stretto fra le labbra penzolava il mezzo corpo di un omino di pan di zenzero, mentre altri due o tre erano malamente avvolti in un tovagliolino di carta rosso e oro, che teneva in mano.
Forse era ancora troppo presto per iniziare a preparare i dolci natalizi, del resto il Ringraziamento era passato da appena una settimana, ma Nanny amava avere tutto già bello e pronto, per non trovarsi in seguito impreparata. Quel giorno in particolare poi, più del solito la donna aveva sentito la necessità di tenersi occupata.
«Dai una mano a tuo padre», ordinò Shion Hayes, spolverandosi ancora una volta il cappotto dalla neve, nonostante non ce ne fosse ormai più traccia. «Portali da Nanny, che se ne occupi immediatamente! Ma che fine ha fatto quella donna?» borbottò, posando un piede sul primo gradino dello scalone e guardando su, verso il piano superiore.
Sospirò e tornò sui suoi passi. Posò il borsalino su una poltroncina dorata Luigi XVI, appoggiata alla parete e, alzando lo sguardo, i suoi occhi indugiarono sullo specchio antico. Ciò che esso gli rimandava non gli piacque affatto. Era la figura di un uomo d'affari con lo sguardo cinico e arido, nonostante la sua giovane età, senza veri legami e senza una famiglia, con il solo lavoro come ragione di vita.
«Quando hai fatto, vieni in biblioteca», si rivolse ancora a Shura, abbandonando la contemplazione del suo riflesso e slacciandosi il cappotto scuro. «E chiama il vecchio Doc! Fallo venire il prima possibile. E mi raccomando, metti in chiaro che non deve fare parola con nessuno di questa visita!» terminò, prima di chiudersi in biblioteca.

*****

Rimase per qualche secondo di fronte alla doppia porta di legno massiccio della biblioteca, con la mano appoggiata sulla pesante maniglia di ottone lucido, senza riuscire ad aprirla. Poi, entrò nella stanza come un uragano, dirigendosi verso il monumentale camino di marmo rosso. Riattizzò il fuoco che languiva e si sedette sulla poltrona.
Di nuovo si concesse il lusso di chiudere gli occhi, scivolando piano in una rilassatezza pericolosa, che lo stava avvolgendo nel torpore. La stanchezza di quella giornata gli pesava addosso. I suoi respiri si fecero lenti e profondi, finalmente calmi, ma non si addormentò. Avvertiva l'odore familiare e nostalgico dei libri riposti sugli scaffali di mogano pregiato delle librerie che occupavano per intero ogni parete della stanza. Gli sembrava di riconoscere il lieve odore della muffa che gli riportava alla mente il vecchio e antiquato padre. E c'era anche l'odore acre della legna che bruciava nel camino, che di tanto in tanto scoppietava, facendo zampillare scintille e piccoli pezzetti di brace oltre il parascintille. Trovava confortate il calore che si diffondeva nella stanza, anche se non era sufficiente a dissolvere il freddo che si era insinuato nelle sue ossa in quel pomeriggio nebbioso.
«Shion, ma si può sapere cos'hai combinato?» chiese Shura, entrando nella biblioteca dopo pochi minuti, sfregandosi le braccia per il freddo.
L'uomo non parve dar peso a quella domanda, borbottando invece fra sé, con lo sguardo ora fisso sulle fiamme nel camino. «Quel bastardo lo ha fatto ancora. Mi ha fregato un'altra volta.»
«Di chi stai parlando? Chi ti ha fregato?» gli chiese nuovamente il giovane, avvicinandosi al camino. Ancora una volta però, era stato ignorato dal padrone di casa, troppo concentrato sui suoi pensieri, ma che Shura immaginava dovessero riguardare il lavoro.
L'uomo infatti, Shion William Hayes, era l'unico erede della Hayes Corporation e, nonostante avesse solo ventotto anni, già da tempo era a capo del gruppo finanziario di famiglia che controllava ben dodici fra aziende, società ed enti di beneficienza.
Shion si alzò con molta lentezza dalla poltrona, si sfilò il cappotto e la giacca grigia e abbandonò entrambi sull'altra poltrona lì vicino. Si avvicinò al camino, vi gettò un ciocco di legno e rimase appoggiato con il braccio alla cornice di marmo rosso, illuminato da quelle fiamme rinvigorite.
Era innegabilmente un uomo attraente, uno scapolo molto ambito nell'alta società di Boston, anche in quella parte più tradizionalista e bigotta. “Dal fascino esotico”, dicevano di lui le donne che lo frequentavano, per via dei leggeri tratti orientali ereditati dalla madre. E forse era anche per quella sua caratteristica che si mostravano interessate. A vederlo, il suo corpo poteva sembrare esile; in realtà era atletico e ben proporzionato. Un altro pregio che gli veniva sempre riconosciuto era l'impeccabile eleganza; la stessa che sfoggiava anche quel giorno: camicia celeste con colletto e polsini bianchi, cravatta blu scuro perfettamente annodata e gilet dal taglio classico in gessato grigio.
La sua storia non era diversa da quella di tanti altri rampolli delle famiglie più blasonate del New England, non solo di Boston. Figlio di Abraham Harrison Hayes, era nato dal secondo matrimonio del ricco imprenditore, un uomo che si era costruito la sua fortuna tutto da solo, con una giovane orientale. Ad appena ventidue anni, costretto a rinunciare ai propri sogni – ritenuti troppo poco ambiziosi dal padre – subentrò suo malgrado al genitore nella gestione degli affari di famiglia quando il vecchio Hayes, ormai settantaduenne, aveva dovuto “forzatamente” lasciare il mondo degli affari per concedersi una duratura vacanza in un paese senza accordi di estradizione. In realtà, com'era facilmente intuibile, quel suo repentino ritiro fu solo una scaltra misura d'emergenza per sfuggire alle affabili cure della Giustizia e del Fisco statunitense.

«Shion, in che traffici ti sei immischiato?» provò a scuoterlo ancora una volta Shura, ricordando come alcuni mesi addietro si erano presentati alla porta di casa della residenza principale in città, alcuni poliziotti per interrogarli.
Il giovane era il figlio di Fernando Morales senior, l'autista di famiglia e, quando era ancora vivo Abraham Hayes, confidente e braccio destro del vecchio. Nessuno però lo chiamava con il suo nome di battesimo, persino i suoi genitori. Fin dall'adolescenza preferiva farsi chiamare con il suo nome di battaglia, datogli dai suoi compagni della gang, ovvero Shura, come i feroci e litigiosi demoni della tradizione buddista giapponese. Era sempre stato un grande appassionato di tutto quello che riguardava il Giappone, soprattutto il kendo, tanto da riuscire a partecipare alle finali di Stato dei campionati scolastici per tutti gli anni delle superiori. Ed ora, proprio com'era accaduto per i loro padri, Shura era diventato, oltre che amico fraterno, anche confidente e uomo di fiducia di Shion.
«Shion, ti senti bene?» gli domandò Shura, ora un poco preoccupato dal silenzio dell'altro.
«Come?» si riscosse all'improvviso l'uomo, ma ancora con un'espressione imbambolata sul volto. «Niente, niente», scrollò lentamente la testa, per rassicurarlo. Si passò una mano sugli occhi e fece una sorta di sospiro silenzioso, ricomponendosi. «Hai fatto come ti ho chiesto?» si informò distrattamente, avvicinandosi al mobile bar.
«Il dottore è di sopra già da mezzogiorno. Georgie...» risposte Shura, esprimendo con un'eloquente smorfia ciò che aveva volutamente lasciato sottinteso. «Quella ragazzina è una gran scocciatura. Si è lamentata per tutto il giorno che non ne poteva più, ma con quel dannato campanello ci ha dato dentro! Eccome se ci ha dato dentro! Pare che il momento sia ormai imminente», sbuffò.
Rimase ancora qualche secondo vicino al camino, sfregandosi per bene le braccia e poi si avvicinò anche lui al mobile bar. Quei pochi minuti che era stato fuori lo avevano raggelato neanche avesse fatto il bagno nel lago.
«A proposito, bello il regalo che ci hai portato a casa dal tuo viaggetto fuori programma. Anche se a Natale manca ancora un mese», scherzò, nonostante il momento non fosse dei più adatti. Poi, si fece un poco più serio. «Siamo rimasti tutti allibiti nel vedere cosa c'era nel “pacco”. Nanny non sembrava affatto contenta. Anzi, era a dir poco furibonda. Già non sta prendendo bene quello che la figlia le sta scodellando sul letto. Quando scenderà, preparati al finimondo.»
Per un momento, Shura si voltò verso la porta della biblioteca, pensando di aver udito delle voci – le urla della giovane – provenire da una delle camere degli ospiti.  Si aspettava di sentire anche il vagito del neonato, ma c'era solo il crepitio delle fiamme nel camino. Sbuffò di nuovo, grattandosi la testa.
«Prima che me ne dimentichi e me lo porti in giro tutta la notte, c'era questo nascosto nella coperta, sul fondo dello scatolone.»
Dalla tasca posteriore dei jeans prese una cartelletta di cuoio, lunga e stretta, tenuta legata con un cordoncino nero, e la porse a Shion senza fare domande.

*****

«È nato! È nato!»
Le urla giubilanti di Nanny riecheggiarono per tutta la casa, in quel momento avvolta da una strana quiete d'attesa, amplificata dalla grande nevicata che in quelle ore stava imbiancando tutta la zona del lago. Poi, arrivarono i potenti vagiti di un bimbo, sano e forte, che si fece sentire a pieni polmoni, sovrastando gli ansimi della giovane madre, che invece si sciolse in un pianto di gioia e di sollievo, per aver portato a termine il proprio compito e perché tutto era andato per il meglio.
Scapicollandosi giù per le scale, ancora euforica, la donna fece irruzione nella biblioteca, spalancando i due battenti e sostando lì, per qualche secondo, con il fiatone e il viso sconvolto dalla felicità.
«Il mio nipotino è nato! Sano, robusto e bello come il sole!» annunciò, con tutto l'orgoglio di donna, madre e ora anche nonna.
Era raggiante. Entrò e, a passo di carica, si diresse verso Shion, che in quel momento la fissava impietrito con un bicchiere di scotch in mano già vicino alla bocca. Gli prese il viso fra le mani e gli schioccò un bacio sulle labbra, lasciandolo ancora più di stucco. Poi, gli prese il bicchiere e bevve tutto d'un fiato, posandolo infine con veemenza sul piano del mobile bar, chiudendo gli occhi e barcollando un poco, aggrappandosi a lui.
La donna era mrs Angelina Foster. Al secolo Angelina Potter, prima di sposare, a ventidue anni, un cameriere suo coetaneo: Franklin Foster. Oggi, Nanny si presentava come una robusta e vigorosa signora di quarantacinque anni, forte nel corpo e nello spirito. Caratteristiche che l'avevano distinta anche in gioventù, tanto da cacciare il marito dal talamo nuziale – e da casa – dopo quattro anni di turbolenta vita coniugale fatta di tradimenti e occasioni sprecate. Ma nonostante tutto, era stata troppo buona d'animo da perdonarlo e riprenderlo ogni volta, nei successivi quattro anni, provando a recuperare il matrimonio. Da una di quelle che lei aveva definito come “scappatelle”, proprio per la natura occasionale delle loro riconciliazioni, era poi arrivata Georgina, che all'inizio era sembrata il giusto collante per tenere insieme il matrimonio. Non era stato destino e lei si era ritrovata divorziata, con il giovane adolescente Shion da accudire e una figlia a carico.
A dispetto dei dispiaceri familiari che l'avevano segnata, Nanny aveva ancora un aspetto decisamente giovanile e dinamico; era discretamente attraente nonostante iniziasse a intravedersi sul suo viso qualche timido segno del duro lavoro che da quasi trent'anni svolgeva in quella casa: dapprima come semplice cameriera – appena arrivata da un paesino del sud dell'Inghilterra – passando con gli anni al ruolo di tata di Shion, e successivamente di Fernando jr. Il suo ruolo nella famiglia Hayes si era fatto poi sempre più fondamentale quando, con l'avanzare dell'età di Concita Morales, la madre di Shura, ne aveva preso il posto come governante della casa.

Sciaff!
Un improvviso ceffone si stampò con forza sulla guancia pallida del giovane padrone di casa, facendole prendere subito colore. Dopo l'euforia adrenalinica dimostrata poco prima, l'espressione della donna mutò in una più severa, da sergente di ferro.
«E questo per cosa sarebbe?» domandò un esterrefatto Shion, massaggiandosi la guancia dolorante con la mano, mentre un poco compassionevole sogghigno gli faceva eco alle sue spalle.
«Incosciente!» esclamò la donna, per tutta risposta. E il tono usato in quel momento non ammetteva repliche. Anche se un attimo prima lo aveva abbracciato e baciato, non si era certo lasciata sfuggire l'odore dell'alcool che aveva sentito venire da lui. «Bere così alla tua giovane età! Vuoi forse diventare in tutto e per tutto come tuo padre? E poi, adesso che ci sono dei bambini in casa hai delle responsabilità!» lo rimproverò aspramente.
«Ma se ho quasi trent'anni! Non sono certo un bambino e un bicchiere ogni tanto non mi farà certo diventare un ubriacone», obiettò Shion con voce contrita, continuando a massaggiarsi la guancia. Non era il tipo da farsi mettere i piedi in testa da nessuno, ma di fronte a Nanny, l'unico riferimento materno che avesse mai avuto nella sua vita, si sentiva ridimensionato e insicuro.
La donna però non stava già più ascoltando, intenta a passare ai fatti anche con il mascalzone che si nascondeva alle sue spalle.
Sciaff!
Un altro poderoso ceffone scosse l'atmosfera quasi sacrale della biblioteca e fece sparire all'istante il sorrisetto beffardo sul volto imberbe del giovane. Ma questa volta, lo schiocco risuonò addirittura più pungente del precedente.
«E questo è per te, Fernando Morales jr!» esclamò. E quando usava il suo nome completo voleva dire che era davvero arrabbiata.
«E io cosa c'entro?» domandò Shura, massaggiandosi anch'esso la guancia offesa. Era stato il suo turno di assumere un'espressione instupidita.
«Visto che quel tuo amico, responsabile della situazione su, al piano di sopra, se n'è scappato in Europa con la coda fra le gambe per evitare le conseguenze e le responsabilità, sarai tu a farne le veci!» lo apostrofò con veemenza la donna. Al solo ripensare a quel disgraziato che aveva messo incinta sua figlia ancora minorenne, le ribolliva il sangue. Se avesse potuto lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani. Era stato un bene per lui scappare il più lontano possibile dalle sue grinfie.
«Non è scappato in Europa. Si è arruolato nei Marines, quell'idiota», precisò Shura, lanciando mentalmente una lunga sequela di maledizioni all'indirizzo dell'ex compagno di corsi, reo di quel pasticcio e di aver scansato la punizione di Nanny.
Dopo un respiro profondo, per recuperare un po' di calma, la governante di casa Hayes si girò di nuovo verso Shion, trovandolo di nuovo con il bicchiere in mano, intento a portarselo alla bocca. Questa volta glielo tolse con un gesto più calmo, ricompensandolo con una carezza affettuosa e uno sguardo che si stava velando di lacrime.
«Mio dolcissimo tesoro», gli disse, con la voce rotta dalla commozione. Si prese ancora qualche secondo e lo abbracciò; ma lo fece con tale trasporto che si sentirono distintamente le vertebre del giovane scricchiolare. «Finalmente la casa è piena di pargoli. Quei due piccoli... sono così belli e delicati, due angioletti biondi. Ormai non ci speravo più, perché se aspettavo che tu ti decidessi a fare sul serio con almeno una di quelle donne che frequenti... ma il Signore ha esaudito le mie preghiere», terminò in un sospiro. Gli fece un'altra carezza e lo guardò con orgoglio materno.

L'espressione sul volto dei due giovani era a dir poco interdetta, soprattutto per i repentini cambi di atteggiamento della donna. Non era mai successa una cosa del genere. Entrambi si chiesero tacitamente cosa avesse fatto accettare tanto facilmente la situazione a Nanny, invece di trasformarla in una bomba pronta a esplodere. Forse era dovuta alla tensione di quella giornata, strana per tutti; forse era stata la gioia nel vedere nascere il nipotino, che le aveva aperto il cuore e fatto accettare quelle due nuove presenze in casa. E pensare che per tutti i nove mesi della gravidanza della figlia era stata un continuo borbottare su come sarebbe stato duro e impegnativo per lei, con tutto quello che aveva da fare, crescere un bambino. Perché una cosa era certa, e lo andava ripetendo ormai da settimane, intanto che il parto si avvicinava: non avrebbe lasciato quella piccola creatura innocente nelle mani di quell'irresponsabile della figlia se prima non le avesse dimostrato di essere in grado di badare a se stessa, cominciando con il prendere il diploma delle superiori e poi trovandosi un lavoro.
Ora invece... tutto sembrava cambiato. Aveva accolto con entisiasmo quella nuova vita e anzi, ne aveva accolte ben tre.
«E ora dimmi, Shion Hayes», riprese Nanny, puntando il dito accusatore contro il petto del giovane padrone di casa. «È questo il modo di trattare quei due bimbi? Come dei pacchi postali? Chi è quella madre snaturata che si disfa così delle sue creature? Forse quella Janette, che fa solo finta di essere una filantropa? Non mi è mai piaciuta... Oppure è quella Sarah, erede dei grandi magazzini Mainor? No, decisamente no! È troppo concentrata sulle sfilate di moda, le feste e a mantenere la sua “perfetta” linea scheletrica, per pensare di fare figli. Allora deve essere...»
Nel riversare quel fiume di parole, gli occhi Nanny non smisero di esprimere il suo disappunto e il suo dispiacere per quello che avevano passato quei due bimbi.
«Non è nessuna di cui tu ti debba preoccupare, Nanny. I miei figli sono solo miei», la interruppe Shion, dandole un bacio sulla guancia.

*****

«Ma questo bambino è enorme!» esclamò Shion, strabuzzando gli occhi, quando la giovane madre glielo mostrò, avvolto con cura nella copertina calda e soffice di lana bianca che Nanny aveva confezionato a maglia apposta per lui.
Era rimasto sorpreso dalle dimensioni del neonato, soprattutto se messo a confronto con i due gemelli che in quel momento erano stati sistemati sul letto, accanto a Georgina.
Ora erano svegli, con i loro grandi occhi verdi ben aperti, ma sembravano un po' spaesati. Indossavano due pigiamini azzurri, uguali, mentre le tutine imbottite e i cappellini di lana – con i quali erano stati vestiti quel giorno – erano stati ripiegati con cura e messi sul comodino libero, dall'altra parte del letto.
La giovane mamma, comprensibilmente stravolta, in quel momento sembrava tutto fuorché felice di quell'invasione di uomini nella sua camera e soprattutto del commento del padrone di casa sul suo bambino.
«Si chiama Aiolos, signore. E non è affatto enorme!» rispose piccata.
Georgie, come veniva chiama in famiglia, era una scapestrata adolescente di quindici anni compiuti da poco, ma dentro un corpo di donna già ben sviluppato e che attirava non poco le attenzioni degli uomini. Era il ritratto della madre Angelina, ma di carattere era fin troppo simile a suo padre, ovvero un'inguaribile romantica che crede che la vita sia un eterno gioco, e dal quale aveva ereditato anche l'indole da artista. Infatti, alla vita agiata e più conformista che le offriva la madre – e la generosità degli Hayes – aveva preferito quella precaria e bohémien del padre, fatta di arte, divertimento e spensieratezza.
«No, no, mr Hayes», intervenne una voce maschile, roca e dal tono professionale, nella quale però si avvertiva tutta la fatica e la stanchezza dell'anziano medico per quella giornata. «La nostra Georgina è stata molto brava e ha dato alla luce un bambino perfettamente normale. Più o meno sarà sui tre chili e mezzo, forse poco più», rassicurò i presenti, mentre terminava di risistemare le ultime cose nella sua vecchia borsa di pelle. «Sono gli altri due bimbi, i gemelli che avete portato, che sono troppo piccoli per il tempo che hanno. E... credo che siamo attorno ai cinque o sei mesi, dico bene?» disse, guardando in tralice il padrone di casa. Fece un respiro profondo, srotolando le maniche della camicia e risistemandosi a dovere i polsini, prima di proseguire. «A una visita preliminare sono disidratati e molto sottopeso, ma potrò fare una diagnosi più precisa quando li visiterò in ospedale», terminò, prendendo la giacca dalla sedia lì vicino.

Facendo piano, per non spaventarli, Nanny si avvicinò ai gemelli e ne prese uno in braccio. Dopo averlo cullato per qualche momento, intanto che si avvicinava a Shion, senza dire nulla glielo mise davanti, limitandosi a sorridere indulgente. L'uomo fu preso totalmente alla sprovvista e il forte imbarazzo dipinto sul suo volto ne era la prova evidente. Con movimenti goffi, Shion lo prese sotto le ascelle, tenendolo scostato da sé e guardandolo come un animale strano. Era chiaro a tutti che non aveva mai avuto a che fare con i neonati, ma nessuno dei presenti accennò una parola in proposito.
Con pazienza materna, Nanny lo corresse, mostrandogli il modo migliore per tenere in braccio il pargolo. Poi, diede una carezza a entrambi. La stessa cosa fece col fratellino che mise in mano a Shura, imbarazzato almeno quanto Shion, soprattutto quando il bimbo – un poco più reattivo del suo gemello – gli afferrò il naso, gorgogliando felice.
«Due bimbi innocenti, mezzi assiderati, narcotizzati; lasciati per strada con il clima di questi giorni...» borbottò con rabbia il dottore, nell'osservare quella scena tanto tenera attraverso lo specchio del comò, mentre faceva scattare la chiusura della sua borsa. Fece un respiro profondo, scrollando la testa.
«Bene, adesso però tutti via da qui. Sciò! Sciò! Georgie e i piccoli hanno bisogno di calma e di tanto riposo!» ordinò Nanny, riprendendo in mano la situazione e scacciando gli uomini dalla stanza.
Poi, sistemò meglio i gemelli sul lettone. Con cura e attenzione li coprì – quasi li infagottò – con una coperta calda, lasciandoli accanto alla giovane mamma che già era intenta ad allattare il piccolo Aiolos che poppava felice. Quindi rivolse tutta la sua attenzione a sua figlia e al suo nipotino. Si sedette sul bordo del letto e per qualche momento li osservò con affetto, prima di tornare a darsi da fare e risolvere il problema che era venuto a crearsi: non erano preparati per ospitare tre neonati in quella casa.

*****

Gli uomini si ritirarono in biblioteca, dove il vecchio Doc fu fatto accomodare sulla poltrona vicino al camino e Shion Hayes gli offrì del buon whisky, preso dalla riserva speciale di suo padre. Occupando l'altra poltrona, il padrone di casa offrì all'uomo anche un prezioso cubano: per festeggiare la nascita di Aiolos.
«Come stanno veramente, dottore?» domandò in tono serio Shion, mentre Shura alimentava il fuoco con un altro ciocco di legno.
«Tutto sommato stanno bene», confermò il dottore, sbuffando fuori dalla bocca una nuvoletta di fumo azzurrognola. Poi, ci fu qualche momento di silenzio, nel quale assaporò anche un sorso di whisky. «Come ho detto anche di sopra, sono disidratati, denutriti e presentano una strana letargia, dovuta sicuramente alla somministrazione di qualche leggero sonnifero. Forse per farli stare tranquilli. Dove li avete trovati, mr Hayes?» domandò, portandosi di nuovo il sigaro alla bocca.
«Questo non la riguarda, dottore.»
L'anziano Doc ribatté con uno sbuffo di protesta, ma non insistette troppo. D'altronde, era abituato ad avere a che fare con vicende che si potevano definire “nebulose”: sapeva quando fare domande e quando no.
«Come preferisce», sospirò.
Da quasi quarant'anni, Arthur Mitchell era il medico di casa Hayes. Stimato primario di chirurgia al Boston Medical Center, negli ultimi anni aveva diradato i suoi interventi in sala operatoria per dedicarsi all'ambulatorio gratuito che aveva aperto in uno dei quartieri più disagiati della città.
«Dottore, hanno subito... abusi?» chiese con un certo disagio Shura, sentendosi subito immensamente stupido per aver posto una domanda del genere.
«Giovanotto, se per abusi intendi affamarli, drogarli e lasciarli morire assiderati... allora sì!» lo rimbrottò il dottore, tossicchiando poi per qualche secondo. «Ma riflettendoci, erano ben vestiti, puliti, e non avevano alcun segno di maltrattamenti fisici. Erano sicuramente amati», sospirò in ultimo, svuotando il bicchiere.
Ancora una volta, nella biblioteca si fece tutto silenzio, lasciando spazio al crepitio del fuoco nel camino.
«Bisognerà comunque portarli in ospedale per fare le analisi e degli esami più approfonditi», riprese il vecchio.
«No! Niente ospedali», dissentì Shion, con un tono di voce intriso di un nervosismo stonato.
«Ma, mr Hayes, è necessario! Non si può fare altrimenti, i bambini devono essere visitati», obiettò il dottore.
Con un sorriso conciliante, da bravo affarista qual era, Shion Hayes offrì al dottore un altro bicchiere di quell'ottimo whisky, quindi lasciò la bottiglia sul tavolino lì vicino, a portata di mano, affinché il suo graditissimo ospite se ne servisse ancora, se ne avesse avuto voglia. Si accomodò meglio sulla poltrona e rilassò le braccia sui braccioli, tamburellando distrattamente le dita sul tessuto di broccato verde. Il suo respiro si fece più calmo, mentre fissava il fuoco nel camino.
«Va bene, Doc. Ha vinto lei. Ma li porteremo al suo ambulatorio», acconsentì il padrone di casa. «Ho però bisogno di un favore da lei. Dovrà provvedere a preparare due certificati di nascita per quei bambini: sono nati oggi, mercoledì 30 novembre. Siamo intesi?»
Non spostò lo sguardo di un millimetro, sempre concentrato su quelle fiamme scoppiettanti, nonostante sentisse su di sé due paia di occhi carichi di stupore e perplessità che lo stavano fissano con insistenza.
«Naturalmente sarà ben ricompensato per il suo lavoro», aggiunse Shion Hayes, anticipando con un gesto della mano l'obiezione che sicuramente l'integerrimo Dr. Mitchell avrebbe sollevato.
Tutti sapevano che la reputazione di Arthur Mitchell era solida e cristallina. Non si parlava quindi di bustarelle, ciò che Shion Hayes intendeva era una ricompensa di ben altra natura, forse meno discreta, ma più legale.
«Se le può rendere più facile prendere la decisione giusta, posso farle avere un defibrillatore per l'ambulatorio e una fornitura di attrezzature e medicinali generici per almeno un paio di mesi. E il prossimo anno, tramite una delle mie imprese edili, si potrebbe intervenire dove lei riterrà necessario.»
Il vecchio Doc tossicchiò per qualche secondo; poi si bagnò la gola con il whisky e ci riflettè seriamente.
«Beh, se la mette su questo piano...» Il dottore si prese un altro minuto per pensarci, portandosi il sigaro alla bocca. «Dovrò riscuotere parecchi favori, ma non è impossibile arrangiare la cosa», cedette alla fine.
Con non poco sforzo, a causa degli acciacchi dell'età, si alzò dalla poltrona e si chinò a prendere la sua borsa di pelle che per tutto il tempo aveva tenuto ai suoi piedi. Si soffermò per un momento con lo sguardo sul ritratto del suo vecchio amico, Abraham Hayes, appeso alla parete. Gli rivolse un vago pensiero, considerando che ora sarebbe stato fiero e orgoglioso del figlio, della persona importante che era diventato e di come sapesse condurre in modo vantaggioso gli affari, anche quelli privati. Poi, zoppicando un poco, accennò ad avvicinarsi alla porta della biblioteca.
«Non si affanni a riprendere la via di casa, dottore. Le strade per Boston sono impraticabili per la neve che è caduta in queste ore e anche tornare adesso alla sua casa di Winchester è quasi impossibile. Per questa notte lei sarà mio graditissimo ospite. E domani mattina la farò accompagnare da Shura.»
Shion Hayes non si mosse dalla poltrona, né spostò lo sguardo. Avvicinò il bicchiere di whisky – che ancora non aveva assaggiato in quell'occasione – e bevve un piccolo sorso, assaporandolo con grande piacere.



Note del capitolo:
- Nel 1983 il Thanksgiving Day, ovvero il giorno del Ringraziamento, (che solitamente si festeggia il quarto giovedì di Novembre) cadeva il 24 di Novembre.
Dalle ricerche che ho fatto, pare che non ci siano vere e proprie tradizioni tipiche americane, per quel che riguarda la preparazione al Natale, come da noi che invece in quasi la totalità della penisola iniziamo a preparare gli addobbi l’8 Dicembre. Almeno, dalle mie parti è così! E da voi?
Le tradizioni americane sono quindi “affidate” alle singole famiglie (o gruppi etnici, o città, ecc...), ovvero ognuna ha le proprie, considerando che l’America è multi etnica.
Dunque, facendo riferimento ai tanti film di genere, ho notato che si tende ad iniziare ad addobbare le case e le strade già per il Ringraziamento. Quindi ho preferito anch’io appoggiarmi a questa “tradizione” cinematografica.
- L’omino di pan di zenzero è un classico dolce natalizio della tradizione anglosassone, a forma appunto di omino, decorato con glassa bianca e marrone per simulare i tratti del viso e altri dettagli, ma arricchito anche con palline di zucchero colorate, bottoncini di cioccolato confettati (tipo gli smarties) e chi più ne ha, più ne metta!


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Capitolo 3
*** Capitolo II ***





II



Winchester, Massachusetts, Natale 1998
Shion Hayes terminò la telefonata di lavoro non appena la macchina ebbe lasciato i confini della città. Chiuse la ventiquattrore, lasciandola ancora per un momento sulle sue gambe, quindi la spostò accanto a sé e si passò le mani sul volto in un gesto di rilassatezza. Al suo fianco, il bambino aveva ripreso ancora una volta a dare calci allo schienale del sedile davanti. Prima con un piede, poi con l’altro, guardandosi attorno e sbuffando annoiato.
«Smettila», lo rimproverò l’uomo, con voce piatta e senza prestargli davvero attenzione.
«Scusi, signore», biascicò con la sua vocina il piccolo Aiolia, continuando a ruminare energicamente il chewing gum. Creò una grande bolla azzurrognola, soffiandoci dentro fino a farsela scoppiare in faccia; ripulendosi poi con la mano e rimettendola in bocca, per ricominciare da capo.
Shion si massaggiò la base del naso, sospirando per l’ennesima volta, ormai quasi al limite dell’esasperazione: non aveva mai avuto troppa pazienza con i bambini e ringraziava il cielo che i suoi figli avessero già passato quella fase irritante che ora stava attraversando Aiolia e stessero crescendo senza dargli troppi problemi.
Mancava poco all’arrivo, ma era sicuro che non sarebbe riuscito a resistere oltre, con quel bambino seduto a fianco. Si chinò in avanti e frugò nello zainetto che gli aveva sequestrato poco dopo l’inizio del viaggio, prendendo di nuovo il Game boy e consegnandoglielo.
«Te lo lascio usare solo se questa volta fai il bravo», disse, sperando di trascorrere nella tranquillità quelle poche miglia di strada che li separavano dalla loro meta.
«Signore…» richiamò la sua attenzione l’autista della società, dopo qualche minuto. «Vuole che faccia una deviazione per il Country Club?»
«No, James, andiamo direttamente alla villa. A quest’ora i ragazzi dovrebbero essere già tornati a casa», rispose con tono stanco Shion. «Aiolia, ora ritira il gioco e mettiti il cappotto», si rivolse poi al bimbo, quando l'auto svoltò per imboccare la strada privata che attraversava parte del boschetto che circondava la proprietà.
Fra gli alberi, completamente coperti di neve, si poteva intravedere la villa addobbata con festose luci colorate.
Giusto ancora un paio di minuti di strada e l'auto si fermò di fronte al portico della villa. L'autista scese e aprì la portiera al padrone.
«Grazie, James. Non avrò bisogno di te nei prossimi giorni. Puoi andare.»
«Sì, signore. Buon Natale, signore», salutò il giovane, portandosi la mano al cappello. Risalì subito in auto e si avviò verso il cancello.
«Vieni.» Shion Hayes tese la mano al bambino, richiamandolo all’ordine.
Il giovanotto non aveva perso tempo e si era avventato sui cumuli bianchi, ammonticchiati vicino ai muretti delle aiuole, per fare piccole palle di neve, pronto a lanciarle contro le ombre del giardino. Ne aveva già raggruppate due o tre, belle tonde, e aveva affondato le mani in mezzo a quelle miriadi di cristalli ghiacciati per formarne un’altra, quando era stato richiamato.
L’uomo sospirò e scrollò la testa nel momento in cui il piccolo guanto di lana arancione pieno di neve strinse la sua mano.

Shion Hayes guardò per un momento l'esterno della villa, concedendosi un respiro profondo per prepararsi a ciò che sapeva lo avrebbe atteso oltre quella porta. Già prima di varcarla provava la sgradevole sensazione di essere finito in un altro mondo.
Le due colonne del portico erano avviluppate in spirali di festoni di rami d'abete intrecciate a fili di lucine intermittenti, grappoli di bacche rosse e rametti di agrifoglio. I sempreverdi nani, posti al centro delle aiuole rialzate, erano addobbati come piccoli alberi di Natale multicolore. Altre luminarie seguivano i profili dei muretti bassi e parte del vialetto ghiaioso, mentre sagome di animali stilizzati sbucavano qua e là nel prato, fra cespugli e siepi innevate. Alla porta d'ingresso, appensa al centro del battente destro, era appesa un'elaborata e profumata ghirlanda di vimini in tipico stile Biedermeier.
Quando mise piede in casa, subito fu investito da un'ondata di odori che gli fecero arricciare il naso, tra frutta candita, noci, cannella, arance e mandarini, castagne arrosto e biscotti allo zenzero appena sfornati, che provenivano dalla cucina: tutta quella dolcezza era decisamente troppo per lui.
Ma fu l'impatto visivo a disorientarlo con maggiore intensità, dandogli la conferma di non trovarsi più nella villa di famiglia, ma di essere stato catapultato in una delle celeberrime vetrine a tema dei grandi magazzi di New York che in quei giorni erano prese d'assalto da curiosi e turisti; o peggio ancora, di essere finito sul set fotografico di una rivista di arredamento allestito per il servizio speciale di Natale.
Villa Hayes, sul lago Mystic, alle porte di Boston, che per la maggior parte dell'anno manteneva una veste di pomposa serietà, per quel periodo di festa era stata completamente trasformata: i riflessi cangianti delle luci dei lampadari di cristallo facevano risaltare gli addobbi raffinati che spiccavano a contrasto coi pannelli di legno alle pareti e il marmo del pavimento. Il verde intenso e il rosso sontuoso delle poinsettie, sapientemente assemblate in composizioni in vaso, riempivano ogni angolo dell'ambiente, creando giochi di colori e gradazioni che spezzavano la monocromia dei marroni-rossicci degli elementi architettonici tipici degli anni '30 dell'atrio.
Il corrimano in legno di noce dello scalone principale era stato avvolto con un lungo e ricco festone di rametti d'abete, abbellito con nastri di velluto, sfere dorate e altri fiori di poinsettia, questa volta in seta rosso scarlatto. Ma, a farla da padrona, in quell'ambiente di sfarzosa opulenza quasi fiabesca, era il grande abete argentato, posto strategicamente nella rientranza che formava lo scalone a vista che portava al piano superiore: rigorosamente vero, alto più di tre metri e tutto decorato con luci gialle e adobbi preziosi in vetro soffiato, con riflessi rossi e oro.
«Ehi Nanny!» gridò Kanon, affacciandosi da dietro l’arco che separava il salotto principale dall’atrio. «La best…» Si interruppe di colpo, incentivato da una gomitata al petto rifilatagli da Aiolos, sempre al suo fianco. «La calamità...» riprovò, mormorando un “così va meglio?” all’altro e sogghignando allo sbuffo di risposta. «è arrivata! Nascondi i dolcetti!» Sghignazzò di nuovo nel vedere il piccolo Aiolia sgranare gli occhi e fare un'espressione impaziente, mentre Shion faticava a contenerlo per sfilargli il cappotto.
«I dolci! I dolci!» cantilenò tutto eccitato il bambino; una volta libero, filò dritto come un razzo verso la cucina, passando accanto ai due adolescenti senza guardarli, con l'unico pensiero di abbuffarsi di biscotti.
Shion si limitò a scrollare la testa e fare un grosso sospiro.
«Mi dispiace se mio fratello le ha creato dei fastidi, signor Hayes. Grazie per essere andato a prenderlo a scuola», disse Aiolos, tutto impettito, avvicinandosi all’uomo e liberandolo subito dall'impiccio dello zainetto e del cappotto del fratellino, raggiungendo poi anche lui la cucina.
Subito si sentirono dei brevi ma concitati schiamazzi e i rimproveri del ragazzo nei confronti del bambino. Ma a sovrastare entrambe le voci si fece sentire quella della nonna, che rimise entrambi in riga.
Shion rimase nell'atrio per diversi secondi, osservando il figlio che gli sorrise in modo un po' sfacciato. Ricambiò soddisfatto. Lo vide fare un cenno con la testa, anticipando la domanda che gli avrebbe fatto e, poco dopo, sparire anche lui per raggiungere gli altri in cucina per una merenda tardiva. Di riflesso guardò nella direzione dello scalone e poi su, dove c'erano le camere da letto.
Scrollò di nuovo la testa, corrugando la fronte per un momento. Si diresse in biblioteca per posare la ventiquattrore carica di documenti e bozze di contratti che si era ripromesso di studiare in quei giorni.
Con il passare degli anni, l'austerità di quella stanza era diventata un calmante per lui e Dio solo sapeva quanto ne aveva bisogno, da quando la casa era continuamente infestata da ragazzini urlanti. Si rammaricava il non aver potuto passare quelle due settimane a New York, nell’attico della 94ª strada, nell’Upper East Side, come gli anni precedenti. Si sarebbe certamente trovato più a suo agio fra impegni mondani, party d'affari e raccolte di beneficienza. Invece, quell'anno, anche a causa di forza maggiore, era stato deciso di passare le vacanze alla villa, con tutta la famiglia riunita e al gran completo.
Posò la borsa sulla scrivania, si sbottonò il cappotto e si servì un bicchiere di whisky, allentandosi un poco la cravatta. Inspirò per un momento l'aroma di quel liquido ambrato, ma non lo bevve. Lasciò il bicchiere sulla scrivania e uscì.
Con il cappotto ripiegato sul braccio, salì al piano superiore, concedendosi un sospiro di sollievo: le voci dei ragazzi arrivavano molto attutite e questo faceva bene ai suoi nervi. Con le nocche bussò un paio di volte, in modo discreto, a una delle porte, aprendola senza attendere il permesso; ed entrò. La stanza era completamente al buio. Le tende scure coprivano la finestra senza lasciare passare alcuno spiraglio. Con il solo riverbero che arrivava dal corridoio riusciva a stento a intravedere le sagome dei mobili. Non se la sentiva di accendere la luce, per non disturbarlo più del necessario. Appoggiò il cappotto sulla cassapanca ai piedi del letto e sedette sul bordo del materasso per qualche secondo, respirando lentamente. Infine, accese la abat-jour, che era stata coperta da un panno per smorzarne ulteriormente la luce.
Da sotto il piumone, con movimenti incerti, sbucò lenta una mano pallida. Poi, fece capolino una testa bionda tutta arruffata e, poco alla volta, divenne visibile anche il viso del giovane ammalato, arrossato, sudato e dallo sguardo un po' vacuo.
«Come ti senti oggi?» gli domandò con voce pacata, lisciandogli i capelli lunghi e ribelli, mostrandogli un raro sorriso affettuoso, mentre il giovanotto assonnato si stropicciava gli occhi con il dorso della mano.

*****

«No, Aiolia, questi non si devono mangiare!»
Kanon faticò non poco a strappare dalle piccole mani paffute del bambino la ciotola con i popcorn speciali che Francine, la cuoca che da qualche mese aveva iniziato a lavorare in quella casa, aveva preparato per quello scopo preciso.
«Ma…» obiettò il piccolo con labbra tremanti, mettendo il broncio. Era troppo abituato a casa sua a ottenere ciò che voleva. «Dammeli! Dammeli! Li voglio!» si lanciò di nuovo su Kanon che lo teneva a distanza con un braccio.
«Non li puoi avere! Sono quelli colorati che servono per decorare l’albero!» lo rimproverò il giovane.
«Piantala di fare tutti questi capricci!» intervenne Aiolos, che nel frattempo aveva terminato di annodare l’ultimo nastrino nel foro della testa dell’omino di pan di zenzero.
Una volta posato il biscotto nel cestino lì accanto, si alzò da terra e prese l'altra ciotola di popcorn, quelli al caramello, che emanavano un profumino davvero invitante. Se ne prese un paio, subito spariti in bocca, e mise la ciotola nelle mani del fratello pestifero.
«Quelli da mangiare sono questi. Ma non tutti subito, hai capito? Solo un paio!» gli raccomandò, sospingendolo verso una delle sedie del tavolo, il più lontano possibile da lui e dal lavoro che lui e Kanon stavano facendo. Lo guardò per qualche secondo e gli agitò il dito sotto in naso, intimandogli di rimanersene lì seduto buono. Alla fine però gli scompigliò i capelli, sospirando con pazienza. Quel tormento era pur sempre suo fratello e in fondo, alla sua età anche lui era stato così insopportabile.
Aiolia Cooper era più giovane di Aiolos di poco più di sette anni e, al contrario del maggiore, aveva avuto la fortuna di godere di una famiglia unita, almeno sulla carta. Il padre, Thomas, dopo aver passato alcuni anni all’estero – fra una base militare e un’altra – era tornato a casa per far fronte alle proprie responsabilità. Si era scontrato con la sua futura suocera Angelina, ma era riuscito a sposare Georgina, con la quale era sempre rimasto in contatto. Poi, nel 1993, si era congedato definitivamente dai Marines ed era entrato a far parte dei vigili del fuoco di Boston, per riunire finalmente la sua famiglia, anche se si era dovuto arrendere al fatto che il suo primogenito non ne aveva voluto sapere di lasciare la nonna.
Aiolos si stiracchiò a lungo la schiena, la sentiva tutta indolenzita per il lungo tempo che aveva passato nella stessa posizione, ma forse, anche la caduta sul ghiaccio di quel pomeriggio, in uno scontro di gioco con Kanon, aveva contribuito in una certa maniera a quel fastidio; contemporaneamente si lasciò sfuggire anche uno sbadiglio da fame.
«Dovrebbe andare un po’ più in alto e a sinistra», commentò Aiolos, girandosi a osservare come stava venendo il lavoro. Dalla ciotola che stringeva al petto il fratellino prese una piccola manciata di popcorn caramellati e se li mise tutti in bocca: le sue guance si gonfiarono come quelle di un criceto goloso.
«Tu dici?» rispose Kanon, indietreggiando di un passo.
Incrociò le braccia al petto, piegando la testa prima a destra e poi a sinistra, per studiare l'albero da diverse angolazioni, rimuginando. Eppure, a parer suo, quel filo di popcorn rosso brillante era messo giusto.
«Nanny, tu che ne pensi?» interpellò la donna, seduta un po' in disparte, intenta a lavorare alacremente all’uncinetto.
«State facendo un ottimo lavoro», rispose lei, alzando per un attimo lo sguardo e sorridendo, tornando poi al suo pizzo che pian piano, punto dopo punto, stava prendendo forma dalle sue mani esperte.
Aiolos prese dalla cesta uno degli omini di pan di zenzero e lo appese allo stesso ramo dove passava il filo di popcorn. Quindi aggiunse una sfera dorata, una dai riflessi verdi, un’altra con figure stampate e ancora un biscotto.
«Credo che dopo questo», disse, prendendo in mano l’ultimo filo di popcorn. «dovremmo aver finito.»
Si affiancò a Kanon che nel frattempo se n’era stato qualche passo indietro e osservò nel suo complesso quell’albero di Natale “privato”, che nulla aveva da invidiare a quello più appariscente e maestoso collocato nell’atrio della villa. Ma questo di albero, tutto loro, era un vero tripudio di colori, con i micro pacchettini di carta lucida alternati alle sfere monocromatiche e bicromatiche, agli addobbi in legno, ai fiori e ai fiocchi di stoffa, senza dimenticare i fili di popcorn e i biscotti, che profumavano tutto il salotto. Infine, a dare un tocco di luce in più e rimanere sempre nella più classica delle tradizioni, qua e là sbucavano dei campanellini di ottone.
I due ragazzi annuirono gravemente all'unisono nel contemplare il loro lavoro, il braccio dell’uno sulla spalla dell’altro, dandosi grandi pacche di approvazione.
«E tu che ne dici, peste?» gli domandò Kanon, voltandosi verso Aiolia.
«A casa l’abbiamo già fatto da un pezzo», biascicò il bambino, con la bocca tutta impastata.
Kanon avrebbe voluto spiegargli che quell’anno erano in ritardo perché avevano voluto aspettare che Saga si fosse sentito meglio, anche se poi il gemello non era riuscito a unirsi a loro per condividere quella tradizione, ma rimase ammutolito e con gli occhi sgranati nel vederlo intento a leccarsi con grande gusto le dita appiccicose, il viso paffuto imbrattato di briciole bianche, granella tostata e sottili filamenti marroncini, soprattutto attorno alla bocca. Stava per dire qualcosa, ma ci rinunciò, notando l’espressione sconsolata di Aiolos che si era persino messo una mano sugli occhi per non vedere il fratellino che dondolava la testa contento, lo sguardo in estasi per quell’ammasso di bontà nelle sue mani e che masticava a tutte mascelle, aprendo di tanto in tanto la bocca a scatti perché il troppo caramello gli si attaccava ai denti.

*****

Subito dopo il termine di quella cena molto animata, alla quale si erano aggiunti come da programma Georgina e Thomas, Shion Hayes si era rintanato di nuovo in biblioteca, sprofondato comodo sulla sua poltrona di fronte al camino e con il consueto bicchiere di whisky in mano.
D'abitudine l'avrebbe sorseggiato con calma, assaporandone ogni goccia, ma quella sera non vi stava riuscendo. Sulle gambe teneva appoggiata una cartellina di cuoio, dalla quale spuntavano fuori dei documenti. Nell'altra mano teneva una fotografia, vecchia e malridotta. La sua espressione era difficile da decifrare, mentre la fissava. Rabbia, tristezza, rimpianto... forse ancora voglia di vendicarsi. Tante volte, nel corso degli anni, aveva accartocciato e scagliato quella fotografia per terra, o gettata nel cestino della carta straccia, riprendendola; però ogni volta e provando a rimediare al danno. Ma per quanta cura ci mettesse per eliminare le pieghe, il danno ormai era irrimediabile: il volto del giovane uomo ritratto accanto a lui era quasi del tutto scomparso, corroso da tutti quei maltrattamenti. Maggiore fortuna era toccata all’uomo al centro – che con grande orgoglio posava assieme a loro – e alla giovane ragazza che completava il gruppetto. I loro volti erano ancora distinguibili ed erano sorridenti e compiaciuti.
Sbuffò fuori l'aria dalla bocca in un forte sospiro, nel ritornare con la mente a quel passato. Gli occhi gli si stavano velando di lacrime, ma chissà se erano dovute ai ricordi o all'effetto del whisky che aveva bevuto quella sera. Sul tavolino basso, fra le due poltrone, era posata una bottiglia ormai quasi vuota. Dalla cartelletta prese una lettera: erano solo poche righe scritte a mano, con una scrittura ordinata ed elegante. Sorrise impercettibilmente.
«Ancora una volta... mi conoscevi più di quanto io potrò mai conoscere me stesso. E sei riuscito a fregarmi, amico mio», mormorò.
Dalla cartelletta presa anche due articoli di giornale, ritagliati diversi anni prima e che lui stesso aveva aggiunto. Il primo era un mezzo trafiletto anonimo, l’altro invece era un articolo che aveva avuto maggiore risalto, forse perché si parlava di un nome che aveva un certo peso a Boston. Li fissò per diversi minuti: li aveva letti e riletti così tante volte che ne conosceva a memoria ogni singola parola, ma sapeva cosa c'era di non scritto in quelle righe.
Chiuse gli occhi, appoggiando la testa all'indietro, sullo schienale morbido della poltrona. Per anni aveva convissuto con un grave senso di colpa nel cuore, ma forse, dopo quindici anni, poteva pensare che il debito fosse ormai ripagato.
Si alzò e ripose la cartelletta nella cassaforte a parete, collocata dietro il grande ritratto del vecchio mr Hayes. Quando rimise a posto il quadro, si soffermò a fissare impassibile quella figura austera: seduto su quella stessa poltrona di broccato verde, con il suo completo in gessato, l'orologio da taschino e la catena d'oro agganciata a uno dei bottoni del panciotto e i capelli bianchi leccati all'indietro, in ordine impeccabile. Scrollò la testa. Poi, i suoi occhi incrociarono il suo riflesso nello specchio appeso sopra il camino di marmo rosso e corrugò la fronte; ciò che vedeva era un uomo di quarantatré anni che assomigliava sempre più all'austero genitore. Dentro invece... dentro si sentiva a volte smarrito e a volte arido.
Si servì un altro bicchiere di whisky e, con un sorriso ambiguo sulle labbra sottili, brindò alla salute del padre.

*****

Gli schiamazzi dei ragazzi, uniti ai richiami esasperati degli adulti, si sentivano per tutta casa. Ancora più forti erano arrivati alle orecchie di un cupo Shion Hayes dietro alla scrivania quando Shura aprì le porte della biblioteca, divertito da quell'allegra masnada che animava la casa e che invece metteva a dura prova i nervi del capofamiglia.
Shion si era dovuto sobbarcare entrambi i fratelli Foster-Cooper e tutto quel disagio cercava di sopportarlo solo per la serenità di Nanny. In fin dei conti, erano gli unici nipoti della donna e lui le voleva bene come a una madre e le doveva molto. Angelina Foster lo aveva praticamente cresciuto al posto di un padre troppo impegnato a edificare palazzi, centri commerciali e quant’altro, in giro per lo Stato e totalmente incapace di provare – o dimostrare – affetto per il proprio unico figlio, e di una madre che era letteralmente sparita dalla sua vita quando lui era ancora molto piccolo. Le rare volte in cui Shion Hayes ripensava alla sua infanzia, si diceva che non era stata una gran perdita.
Quando lui aveva solo cinque anni, la madre se n’era andata di casa e dagli Stati Uniti per correre dietro al suo sogno: diventare famosa e sfilare per i più grandi nomi della moda di Parigi e di Milano. E così era stato per i primi anni, ma senza mai sfondare sul serio. Allora, si era stabilita a Montecarlo, abbordando un altro riccone e trovando infine il modo di fare la bella vita. Quella sua fuga, l’anziano marito non gliel’aveva mai perdonata. Era un uomo all’antica lui: le donne dovevano rimanere a casa a curare i figli e non avere grilli per la testa. Ma il vecchio Hayes aveva commesso l’errore di scegliersela troppo giovane, avvenente e con troppa iniziativa. Alla fine l’aveva liquidata con un poco generoso assegno e se n’era lavato le mani.

*****

«Aiolia!» lo richiamò con tono perentorio il fratello maggiore. «Torna subito qui! Non puoi sbirciare i regali prima del tempo!» continuò a sgridarlo, faticando a stargli dietro mentre il piccolo correva su per lo scalone principale, scorrazzando poi lungo il corridoio del piano superiore.
Aiolos riuscì ad agguantarlo solo perché il bambino ebbe un’indecisione, davanti a quelle porte tutte uguali. Aveva creduto alle parole di Kanon che, nella sua sceneggiata, si era lasciato sfuggire che i regali di Natale erano stati riposti in una delle camere per gli ospiti.
«Anche se stasera non puoi farlo, cosa ti costa aspettare fino a domani mattina?» gli domandò un poco ansimante, girandolo verso di sé.
«Dai, fratellone! Guardalo, come si fa a dire di no a questo musetto?» si intromise il colpevole di tale tentativo di spionaggio e sicuro trafugamento. Era salito di corsa dalle scale di servizio e aveva preso alle spalle il piccolo, iniziando a tirargli le guanciotte paffute e facendogli fare, suo malgrado, improponibili smorfie. «Accontenta questa pulce!»
«Per favore, Kanon, non ti ci mettere anche tu. Lo sai che se ci scoprono passeremo dei guai, vero?» sbuffò Aiolos, sentendosi in minoranza. Si grattò la testa di fronte a quello spettacolo, faticando a nascondere le risate. «E lasciagli stare la faccia! Ha già la bocca fin troppo larga, di questo passo gli diventerà come quella dello Stregatto!» rimbrottò il “fratellastro”, schiaffeggiandogli le mani moleste.
«Paura di mammina, eh?» ribattè invece il provocatore di famiglia, che nel frattempo aveva mollato la presa sul piccolo, il quale ne aveva subito approfittato per scappare via come in furetto.
Il bambino però, si fermò proprio di fronte allo scalone e, girandosi verso i due adolescenti, si esibì in una linguaccia impertinente.
Kanon scoppiò in una risata divertita, commentando che quella peste prometteva bene, poi si mise le mani nelle tasche dei jeans, sorridendo malizioso nei confronti dell'altro.
«Lo sai che quella per certe cose è più infantile di tutti noi messi assieme», rispose con fastidio Aiolos. «Anzi, se non sapessi che ora sta discutendo con la nonna, probabilmente sarebbe già lì a frugare tra i pacchetti! E poi, chi credi che mi abbia insegnato la tecnica per rimpacchettare i regali in modo perfetto?» gli disse, gonfiando il petto e mettendosi in posa. «No, purtroppo il problema è la nonna. Lo sai bene anche tu che lei ci tiene molto a queste cose e se ci dovesse beccare, questa volta passeremmo dei guai ben peggiori di quelli che abbiamo passato per il nostro ultimo compleanno», gli ricordò, appoggiandosi con le spalle alla parete del corridoio. «Per colpa del tuo stupido scherzo ci siamo presi un sacco di scapaccioni; e la torta ce la siamo scordata!»
Aiolos non nascose l’evidente fastidio che provava nel ripensare ancora a quell’episodio e poco gli importava se l'amico avesse condiviso la medesima sorte con lui.
Kanon si avvicinò a lui e gli diede qualche pacca compassionevole sulla spalla. Le sue labbra erano incurvate in un sorriso mesto che ben presto si trasformò in uno più sfrontato e che poco aveva di solidale.
«Tu e... Saga», disse piano, ma c'era tanto di canzonatorio nella sua voce. «Devo dire che a Nanny quest'anno la torta è venuta proprio bene! Pere e cioccolato...» mugulò di piacere, leccandosi anche le labbra. Diede le spalle all'altro e iniziò a incamminarsi verso le scale, ma sbagliò a sentirsi troppo sicuro di sé, poiché doveva intuire che Aiolos non avrebbe accettato sportivamente la verità su quell'episodio. E infatti, come una belva assetata di vendetta, il ragazzo si avventò su di lui, buttandolo a terra e sedendosi sopra di lui, bloccandolo per le spalle.
«Imbroglione!» gli gridò in faccia. «Ecco perché sembravi fin troppo calmo durante la punizione. Sapevi bene che quella è la mia torta preferita! A Saga invece neanche piace.»
«Che vuoi farci», rise divertito Kanon, cercando di ripararsi dai colpi che l’altro gli sferrava. «È la fortuna di avere un gemello che è la mia copia perfetta e che mi vuole bene! E soprattutto…» sogghignò ancor più malizioso, incurante della posizione di svantaggio e approfittando di un momento di pausa dell’altro. «che mi è complice! E poi… cavolo, Aiolos, sei un fesso di prima categoria! Come hai fatto a non riconoscere mio fratello?»
Aiolos neanche lo stava più ascoltando, riprese a colpirlo sulle braccia per fare breccia nelle sue difese. Il pensiero che anche l'altro gemello se la stesse magari ridendo ancora adesso lo faceva impazzire di rabbia e vergogna.
«Smettila! Piantala, brutto ciccione, togliti di dosso!» protestò a un certo punto Kanon, alzando forse un po' troppo la voce, messo di nuovo in svantaggio.
«Non sono un ciccione!» ribattè l’altro. «La tua è tutta invidia perché sono più grande e forte di te!»
«Ho capito! Ho capito! Basta! Finiscila una buona volta!» si agitò Kanon, sempre più schiacciato sul parquet, cercando in ogni modo di liberarsi.
Quel baccano stava durando da diversi minuti e nessuno dei due si accorse che la porta di una delle camere da letto si era aperta lentamente e un ragazzo, uguale a Kanon, ma dall'aria decisamente più dimessa, si era affacciato nel corridoio.
«Cosa sta succedendo? Perché fate tutto questo rumore davanti alla mia porta?» biascicò stancamente Saga, passandosi il dorso della mano sugli occhi.
Nonostante la luce del corridoio fosse soffusa, quel riverbero feriva gli occhi già pesanti del giovane e lo costrinse a strizzarli e schermarli con una mano.
«Niente, niente, fratellino. Torna in camera», rispose il gemello. Con uno strattone deciso si liberò della pesante presenza di Aiolos e con destrezza si rimise in piedi, mettendosi al suo fianco, poiché lo vedeva poco stabile sulle gambe.
«Ma stavate litigando», cercò di insistere Saga, con voce debole e assonnata. Con la punta delle dita accarezzò la guancia del gemello, sfiorando un piccolo graffio che si stava già arrossando.
«Ma no, stavamo giocando come nostro solito!» esclamò con un sorriso Kanon. «Non è vero, Aiolos?» si rivolse poi all'altro che era ancora a terra, per ottenere una conferma alla sua affermazione e smorzare le successive proteste del fratello. «Mi dispiace se ti abbiamo disturbato. Vieni, ti riaccompagno a letto.» Con eccessiva premura lo sorresse per un braccio e lo fece rientrare nella camera.
Nessuno, a vederli adesso, avrebbe mai pensato che quei due fossero davvero gemelli. Kanon era bello e solare, dall’incarnato leggermente abbronzato e un fisico asciutto e ben proporzionato, grazie anche al tanto sport che praticava, soprattutto basket e hockey su ghiaccio: passione che condivideva con Aiolos. Il carattere deciso e lo sguardo intenso, quasi indagatore – e allo stesso tempo sfrontato – lo facevano apparire sempre pieno di energie.
Saga invece, che fino a un mese prima esprimeva le medesime qualità del gemello, a causa del lungo periodo in cui era rimasto confinato in casa, era diventato più pallido, sciupato e remissivo. I lineamenti del suo volto, già di per sé delicati, ora lo erano diventati ancora di più, facendolo sembrare stranamente più giovane, nonostante la malattia; e chiunque, a vederlo in quelle condizioni, lo avrebbe potuto scambiare addirittura per una ragazza. I capelli, che amava tenere sempre un po’ lunghi, contribuivano ad alimentare quell’equivoco imbarazzante. Qualche volta era accaduto anche a Kanon di essere schernito a scuola ed era proprio per quel motivo che aveva deciso di tenerli più corti rispetto al gemello.
«Aiolos, non stare seduto lì per terra, dammi una mano!» lo richiamò Kanon, girandosi indietro e trovando l'altro ancora fermo e imbambolato.
«Come al solito! Appena arriva il guastafeste il divertimento finisce e io non esisto», sibilò il ragazzo, sentendosi fastidiosamente il terzo incomodo. Si alzò di mala voglia e seguì i due nella camera di Saga, rimanendo però in disparte, fermandosi accanto alla porta a guardarli.
«Sei di nuovo caldo e sei anche tutto sudato», sospirò Kanon, tastando una guancia del fratello con il palmo della mano. «Questa febbre continua ad andare e venire.» Gli scostò i capelli umidi e gli liberò la fronte, posandovi poi le labbra, per fare un'ulteriore misurazione come faceva sempre Nanny quando da bambini stavano male. «Ti aiuto a rimetterti a letto e vado a chiamare Nanny per farti dare qualcosa. Penso che sia quasi ora dell’iniezione di antibiotico, vero? Intanto Aiolos rimarrà a farti un po’ di compagnia», cercò di rassicurarlo.
Saga sedeva stancamente sul bordo del letto, con le spalle incurvate e la testa un poco bassa e pesante; lo sguardo che si confondeva nella confortevole penombra di quella stanza. «No, per favore», farfugliò sonnolento, mentre l’altro lo incoraggiava a sdraiarsi e lo copriva col piumone, lisciando per bene anche il lenzuolo. «Rimani un po’ con me», pregò il fratello, trattenendolo per il maglione.
Kanon lo guardò con lieve stupore: la richiesta di Saga era stata tanto accorata, nonostante quel filo voce, che gli si strinse il cuore. Non poté fare altro che acconsentire e si sdraiò anche lui sotto il piumone, stringendolo in un abbraccio.
Mentre lo vedeva appoggiarsi al fratello, lo sguardo di Aiolos si incrociò con quello di Saga e, a quel fugace contatto, notò come i suoi occhi scintillassero di una strana luce. Erano occhi stanchi e appesantiti da quelle poche e dispettose linee di febbre che lo intontivano. In quello stesso istante, nel vederlo così indifeso fra le braccia di Kanon, per un attimo dimenticò l'offesa dell'essere stato messo da parte per l'ennesima volta. Sentì un lieve imbarazzo nel soffermarsi sulle sue gote arrossate e così stranamente seducenti. Strinse le labbra e distolse lo sguardo. Il vedere con quanto affetto e con quanta cura Kanon assisteva il malato, gli facevano rodere il fegato. Invidia, gelosia, per quelle attenzioni tanto premurose da sembrare asfissianti.
«Solo per una banale influenza!» borbottò a denti stretti. Fino a pochi momenti prima, lui e Kanon erano assieme che bisticciavano, ma si divertivano; mentre ora era diventato completamente invisibile, un estraneo, spettatore di quel rapporto esclusivo che neanche un mese prima comprendeva anche lui stesso. «Lo sai che se ne sta approfittando, vero? E non stargli troppo appiccicato, altrimenti te la prendi anche tu l’influenza!» sbottò con tono acido. Sembrava però che stesse parlando al vento. L'altro infatti non gli rispose per niente, intento com’era a lisciare dolcemente i capelli del gemello.
«Com’è venuto l’albero?» chiese a voce molto bassa Saga. «E i regali, li avete aperti? Cosa ti hanno regalato? E la cena?» domandò di nuovo. Quelle parole uscirono dalla sua bocca quasi incomprensibili.
«L’albero è venuto molto bene, fratellino. Un vero capolavoro, anche se non c'eri tu a dirigere i lavori come ogni anno. E i regali li apriamo domani mattina, così lo faremo tutti assieme e sarai bello pimpante e in piena forma», gli sussurrò Kanon. Sorrise nell'accomodargli meglio il piumone addosso, evidentemente era stato troppo solo e isolato in quella stanza tutta buia da perdere la cognizione del tempo.
C’erano voluti pochi momenti affinché Saga si riaddormentasse sereno, coccolato dalla presenza rassicurante del fratello. Da diverse settimane il giovane era prigioniero di una coriacea influenza che senza volerlo gli aveva passato proprio Kanon e ancora non accennava a volersi risolvere. In un certo senso si sentiva responsabile delle condizioni del gemello, poiché il fisico di Saga era ulteriormente debilitato dalle conseguenze del ricovero in ospedale avvenuto poco dopo il loro quindicesimo compleanno, a causa di un misterioso incidente.

*****

“Quel giorno era ancora avvolto nel più fitto dei misteri: nessuno sapeva cosa fosse accaduto veramente. Nemmeno Saga, il protagonista di quella brutta avventura, che ne aveva rimosso ogni ricordo.
Tutto ciò che era stato possibile ricostruire di quella giornata, risaliva solamente alle prime ore del pomeriggio. I gemelli e Aiolos avevano passato l’intera mattinata al Country Club assieme a Nanny. Quando la donna era poi tornata alla villa, Kanon e Aiolos avevano deciso di scatenarsi un po' e provare il ghiaccio della pista di hockey. Saga era rimasto a osservarli per una mezz'ora, ma si era annoiato presto di quel gioco troppo di contatto e delle schermaglie nelle quali si esibivano e aveva preferito tornarsene a casa anche lui.
Era il primo di dicembre, ma quel pomeriggio c'era un bel sole che sembrava quasi primavera. Fernando Jr. era appena rientrato da una commissione ed era stato il primo a trovarlo. Aveva raccontato che lo aveva visto camminare con passo incerto, intontito, verso l’ingresso principale della villa. A prima vista non si era preoccupato, ma aveva capito che qualcosa non andava nel momento in cui lo aveva visto appoggiarsi al muretto di una delle aiuole, sedendovisi poco dopo, piegandosi in avanti e reggendosi la testa con le mani. Ulteriore preoccupazione l’aveva avvertita quando lo aveva visto vomitare per terra ai suoi piedi. Quando lo aveva raggiunto di corsa, lasciando quasi cadere a terra le due grosse buste di carta che portava con sé, aveva trovato la conferma alle sue preoccupazioni, ma nonostante le insistenti domande con le quali aveva subissato il ragazzo, non aveva ottenuto alcuna risposta esauriente che spiegasse lo stato pietoso in cui lo aveva trovato.
Saga aveva i vestiti sgualciti e sporchi di fango e foglie secche; il maglione bianco panna era strappato sullo scollo e lasciava intravedere un brutto graffio che scendeva verso la scapola sinistra, ed era imbrattato da alcune grosse gocce di sangue, soprattutto sulla parte davanti. Quello che però aveva destato maggiore preoccupazione nell'uomo era stato un taglio sul lato destro della fronte del giovane, vicino alla tempia: la ferita era aperta e leggermente gonfia.
Dopo una veloce medicazione, fra le tante rassicurazioni che Saga aveva continuato a fargli, nel dire che stava bene – rifiutando gli inviti ad andare al pronto soccorso – il giovane si era ritirato nella sua stanza, rimanendoci per tutto il resto della giornata, saltando la merenda che Nanny aveva preparato per lui e per gli altri due ragazzi che nel frattempo erano tornati dal Country Club con i bastoni da hockey e i pattini sulle spalle, continuando a spintonarsi a vicenda, e saltando persino la cena. Anche il mattino seguente Saga non si era presentato per la colazione, facendo preoccupare tutti, soprattutto il gemello che, dopo aver invaso la sua camera da letto, era corso in cucina a chiamare aiuto con le lacrime agli occhi. Nessuno era riuscito a svegliarlo. E la stessa cosa era avvenuta anche per i due giorni successivi, quando era stato ricoverato al Boston Medical Center, dove gli avevano diagnosticato una commozione cerebrale e un trauma cranico.
Dopo quanto accaduto in sua assenza, ogni giorno Shion Hayes si era rammaricato di aver diviso i due fratelli, acconsentendo che un ragazzo così giovane – seppur serio e responsabile come Saga – vivesse praticamente da solo alla villa, anche se era seguito da Nanny e Shura; e lasciando che Kanon e Aiolos abitassero invece con lui nella casa in città e lo seguissero di tanto in tanto anche a New York.”

*****

«Anche la sera della vigilia di Natale sei rintanato qui a fare compagnia agli affari e agli spauracchi del passato, invece di stare con i tuoi figli?» Shura entrò in biblioteca sbottonandosi il cappotto fradicio di pioggia, avvicinandosi senza invito al camino per scaldarsi. «Nanny ha proprio ragione a chiamarti Scrooge!» Con la coda dell'occhio notò l’espressione contrariata di Shion nel sentirsi paragonato per l’ennesima volta a quel personaggio: un vecchio scorbutico, un piccolo uomo solo, patetico e taccagno.
Con movimenti lenti e misurati il padrone di casa chiuse i fascicoli davanti a sé e si appoggiò allo schienale della poltrona, dietro la scrivania di mogano, dondolandosi un poco e osservando l’amico scaldarsi al fuoco.
«Allora, com’è finita la cena?» chiese Shura, tanto per fare della conversazione, anche se aveva la netta impressione che l’altro preferisse il silenzio. Del resto, come biasimarlo? Appena era rientrato alla villa aveva sentito una tale baraonda che aveva considerato di fare dietrofront e rintanarsi nella dependance a bere birra davanti alla televisione.
La risposta di Shion Hayes fu un prevedibile sbuffo. Si alzò e preparò due bicchieri di whisky, uno per sé e l'altro per Shura, poiché era visibile quanto ne avesse bisogno.
«Dovresti stare un po’ di più con i ragazzi», gli disse Shura, con un tono strano. Nei suoi occhi c'era un'ombra di preoccupazione. «Shion, non sprecare quest’occasione. Questo potrebbe essere l’ultimo Natale che potresti passare assieme a loro», insistette.
«Tu credi?»
Shura rimase in silenzio per qualche secondo, quasi soppesando le parole da dire. «Il prossimo anno avranno sedici anni. Vorranno la macchina, vorranno andare fuori a divertirsi e inizieranno a pensare seriamente alle ragazze. Sicuramente non vorranno stare a casa con due vecchi scapoli!»
Terminò il drink tutto d’un fiato, posando il bicchiere sul mobile bar, e si incamminò verso la porta della biblioteca. Passando davanti alla scrivania gli cadde l’occhio su un particolare: da sotto uno dei report spuntava per metà una fotografia.
«Ancora a pensare a loro», disse atono, riconoscendola.
Subito spostò lo sguardo verso un mobile consolle col piano di marmo rosso, sul quale erano state incorniciate diverse foto dei gemelli. Una in particolare li ritraeva assieme ad Aiolos: era stata scattata l'estate di quello stesso anno, sul pontile privato, e i ragazzi erano in posa con le braccia sulle spalle l’uno dell’altro. Bagnati fradici e sorridenti, dopo essere usciti dall’acqua; ed erano tutti e tre sani e forti.
«Era inevitabile che prima o poi la somiglianza diventasse più evidente e non parlo solo dell’aspetto fisico. La situazione attuale ha accentuato ancora di più questa somiglianza», commentò, prendendo in mano quella foto per qualche secondo e rimettendola poco dopo al suo posto. «Non sono mai riuscito a capire chi dei due amassi di più.»
«Questa è la classica domanda da un milione di dollari», rispose Shion, con tono quasi rassegnato, appoggiandosi con un braccio alla mensola del camino e fissando le fiamme ardenti. «Li ho amati entrambi… e li ho persi», ammise con amarezza. «Ho perso entrambi», ripeté, mormorando quelle parole fra sé e sé, incupendosi ancora di più.
Si riportò alla scrivania, appoggiando il bicchiere davanti a sé e si rimise di nuovo seduto sulla poltrona in pelle.
«Mai legarsi davvero alle persone. Alla fine ti tradiscono… nei modi più diversi», aggiunse, alzando lo sguardo verso quella fotografia che poco prima Shura aveva preso in mano. «Shura, dimmi, sei riuscito a sistemare quella faccenda?» domando poi, ricordando come il suo braccio destro e confidente si fosse dovuto assentare a metà della cena, dopo aver ricevuto una strana telefonata.




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Capitolo 4
*** Capitolo III ***





In questo capitolo si passerà temporaneamente su un altro fronte della storia, quindi non preoccupatevi se non troverete i nostri soliti protagonisti, qui saranno tutti personaggi originali. Stesso anno, stesso Natale, differente...
Non so che altro dire se non...



...Buona lettura!


III



Boston, Natale 1998
Natale è sempre stato per antonomasia il periodo dell’anno preferito da grandi e piccini. È simbolo di gioia e di famiglia, di buoni sentimenti, di condivisione e… vacanze e regali! Tutti, ragazzi e adulti, sono in trepida attesa della mattina del santo giorno per scartare i pacchetti che attendono pazienti sotto l’albero tutto addobbato, o che giacciono nascosti nell’armadio fino all’ultimo minuto, al riparo da mani troppo leste e intraprendenti e occhi curiosi. Ma quello del Natale è sempre stato anche un periodo pericolosamente convulso. Soprattutto il giorno della vigilia che si trasforma in una vera e propria corsa contro il tempo per i regali dell’ultimo minuto, o dimenticati, per esaudire gli improvvisi capricci di figli, consorti o fidanzati.
Come per ogni famiglia media americana, quelli dovevano essere i giorni dell’anno più felici in assoluto anche per Caroline Miller e la sua famiglia. Quell’anno invece, sembrava che le cose in casa non dovessero andare propriamente bene. Non che ci fossero problemi economici in arrivo. Anzi, da quel punto di vista andava a gonfie vele, ma era nel rapporto fra i genitori della giovane dodicenne che iniziavano a intravedersi le prime serie incrinature. O così poteva sembrare a occhi estranei e bocche pettegole.
La madre, Teresa Costantini Miller, italiana di nascita ma trasferitasi con la sua famiglia negli Stati Uniti quando era poco più che una bambina, era una casalinga di trentacinque anni con la passione per la scrittura. Tre anni prima, quasi per caso, aveva visto coronarsi il suo sogno con la pubblicazione del suo primo racconto. Dapprima, apparso sul giornalino parrocchiale – fra gli articoli delle feste di quartiere, la raccolta di beneficenza e gli annunci economici – e, grazie a un poco conosciuto editore indipendente, era stato poi pubblicato all’interno di una raccolta di autori emergenti vari e distribuito in alcune piccole librerie della zona. La provvidenza però non aveva ancora terminato con lei. Un editore con maggiore distribuzione, pochi mesi dopo, ne aveva comprato i diritti e aveva stipulato con lei un vero e proprio contratto.
Gregory Miller, il padre della giovane Caroline, era di un anno più vecchio della moglie. Era un infaticabile lavoratore dalla promettente carriera di poliziotto, la quale proprio in quell'anno era stata gratificata con la promozione a tenente. Era sempre stato l’orgoglio della sua famiglia. Ultimo di tre fratelli – che avevano scelto strade molto diverse – Gregory aveva mantenuto viva la tradizione di casa Miller, seguendo le orme del padre e del nonno nelle forze dell’ordine. L’uomo però, anche se responsabile e ligio ai suoi doveri, non era propriamente un pragmatico come i suoi. Era più un sognatore e celava dentro di sé il desiderio, forse troppo ambizioso, di entrare a far parte dell’FBI.
Gregory era una persona squisita nei modi e nel carattere. Quando si parlava di lui, tutti erano concordi nel dire che era troppo buono per fare il poliziotto, non aveva la tempra del duro uomo di legge. Spesso aveva affiancato il capitano Burton quando questi si muoveva in prima persona per prendere parte a certe indagini delicate o di alto profilo. Però, le sue migliori qualità le dimostrava nell’organizzazione e nelle ricerche; e, per il suo temperamento conciliante e affabile, era spesso chiamato a fare da collegamento con la procura e l'ufficio del sindaco. Per queste sue competenze aggiuntive, aveva scoperto dentro di sé una certa attitudine per le materie giuridiche che lo avevano convinto a frequentare dei corsi serali presso l’Università di Harvard. Ma era apprezzato anche per la grande sollecitudine che dimostrava sul lavoro. Questo però lo portava troppo spesso ad accondiscendere a ogni richiesta di colleghi e superiori, finendo poi quasi sempre incastrato in questo o quel favore. Ed era proprio quest’ultimo aspetto del suo carattere la fonte principale delle divergenze che, durante quel Natale, erano diventate più frequenti in casa. Ogni volta, Teresa gli rimproverava la mancanza di polso e, quando l’esasperazione arrivava oltre misura, lo accusarlo di farsi mettere i piedi in testa da tutti.
Teresa, dal canto suo, era una donna dal carattere un po’ complesso. Era tanto forte e risoluta, quando si trovava nel conforto delle mura domestiche, quanto timida e insicura, quando doveva interagire con gli estranei; e, talvolta, dava la marcata impressione di poter essere facilmente influenzabile nelle sue decisioni. Era una buona moglie e una buona madre, attenta e scrupolosa nel curare la propria famiglia, ma le capitava di eccedere nel suo ruolo, imponendosi forse un po’ troppo con i suoi cari.
Teresa era orgogliosa della grande considerazione della quale il marito godeva presso i colleghi e i superiori, che lui ricambiava con sincera disponibilità, ma anche lei avrebbe voluto, per sé e per la figlia, almeno una piccola porzione di quella stessa disponibilità. Troppo intenta a vedere al di fuori, non si accorgeva invece dell’amore e della devozione che Greg dimostrava in ogni momento verso la propria famiglia: a volte con piccole attenzioni che si davano per scontate, a volte facendo dei veri e propri salti mortali, come l'assistere alle gare sportive della figlia.

Quell’anno comunque, ci sarebbero state tutte le premesse per un Natale da ricordare, se la buona sorte fosse stata dello stesso avviso. Gregory aveva dovuto rinunciare ad alcuni giorni delle sue ferie – vigilia compresa – per sopperire all'improvvisa carenza di personale nel distretto di polizia nel quale prestava servizio. Defezioni dovute in parte a un’epidemia di influenza che girava da qualche settimana, ma tutti sapevano che la maggior parte erano invece dovute a un’agitazione sindacale interna alla polizia stessa.
La famiglia Miller era stata quindi costretta a rinunciare alla breve vacanza alle Cascate del Niagara che era stata programmata fin dall'estate passata e questa situazione aveva creato un po’ di attrito fra i due coniugi, sfociando quella mattina stessa in una troppo vivace discussione, mentre Greg si preparava per andare in centrale.
Avrebbero dovuto trascorrerla assieme, quella mattina, Greg e Teresa: per ultimare i preparativi del pranzo di Natale a casa dei genitori di lui, sistemare i regali sotto l’albero e passare un po’ di tempo fra loro. Non ultimo, organizzare al meglio anche il cenone, al quale ci sarebbe stato come ospite il capitano Phillip Burton, amico di famiglia e padrino di Caroline, che avrebbe portato con sé la nuova fidanzata. Era un’occasione nella quale Teresa non voleva assolutamente sfigurare.
La donna aveva passato tutta la mattina a rimuginare sulle sue parole troppo dure nei confronti del marito e l’occasione per chiarirsi si era presentata durante la pausa pranzo, quando lui aveva chiamato casa. Potevano litigare, ma si amavano tanto e trovavano sempre il modo di fare la pace.

*****

«Mammina, io ho fame! Non è ancora pronta la cena?» si lamentò la bambina, nel vedere come alle sette della sera la tavola era ancora vuota e non c’era nulla neanche sui fornelli.
«Sì, sì, tesoro. Adesso arrivo», rispose distrattamente la madre, mentre Caroline sbucava fuori dalla cucina e si avvicinava a lei con il volto visibilmente deluso.
«Ma sei ancora davanti al computer!» protestò la piccola, puntando i pugni sui fianchi e facendo seguire un sbuffo offeso, neanche fosse stata lei l'adulta.
«Ho quasi terminato, Caroline, riesci a pazientare ancora qualche minuto, eh?» disse Teresa, interrompendosi per un momento e sorridendole con affetto. «Dai che per cena c’è il tuo piatto preferito!» la blandì, per poi immergersi ancora in ciò che stava facendo.
«Uffa! Io però ho fame adesso!» si lagnò la figlia, rientrando in cucina per cercare qualcosa da mettere sotto i denti. «Allora mi mangio una merendina!»
«No, non puoi!» esclamò con voce agitata Teresa, alzando la testa di scatto e bloccandosi a metà di una lunga frase che stava scrivendo.
Sapeva bene che quella golosona della figlia sarebbe stata davvero capace di farlo. Così come sarebbe stata capace di finire un’intera confezione di merendine e poi mangiare tranquillamente anche la cena.
«Ti ricordi cos’ha detto il tuo allenatore di nuoto? Se non perdi quei due chili di troppo, ti rimette nella vasca delle riserve! E tu questo non lo vuoi, vero?» provò a pungolarla facendo leva sui suoi due talloni d’Achille: la gola e l'orgoglio.
Sorrise sorniona nel sentire i successivi mugugni di Caroline. Spesso la doveva rimettere in riga, ma lo faceva per il suo bene e mai con eccessiva autorità, almeno per quelle cose, perché Caroline era una brava figlia.
«E soprattutto, non vuoi che papà ci resti male, no?» rincarò la dose, sicurissima che quell’ultima frase avrebbe fatto maggiore presa.
Caroline aveva un’adorazione particolare per il padre. Solo per lui aveva continuato nel nuoto, impegnandosi duramente negli allenamenti fino a riuscire a far parte del gruppo migliore, quello dove c'erano le ragazze più grandi; e lo scrigno del tesoro – una scatola laccata dove il padre conservava tutte le medaglie vinte da lei – era la miglior testimonianza di quanto gli volesse bene e lo rendesse orgoglioso.

“… e la macchina sbucò improvvisa dall’oscuro e nebbioso vicolo laterale, annunciata dallo stridore delle ruote sull’asfalto bagnato, travolgendo la sua vittima designata. Incurante dei testimoni che stavano assistendo, aveva puntato l’ignaro uomo, lo aveva seguito nella sua disperata corsa verso la salvezza, accompagnandolo nella sua prematura fine. Lo lasciò riverso a terra, nel mezzo di una grande pozzanghera, nella quale l’acqua inquinata dallo smog dei fumosi bassifondi della città si mischiava al suo sangue e al Bourbon scadente della bottiglia che l'uomo aveva appena acquistato. Con gli occhi sbarrati, nei quali era rimasta impressa solamente l’abbagliante luce dei fari della macchina, il corpo della vittima lentamente si irrigidì, circondato da una moltitudine di persone accorse lì più incuriosite dell’accaduto che per prestare soccorso.
Quella fredda messaggera di morte riparì a tutta velocità, imboccando la strada principale, zigzagando fra le macchine che lente si avviavano ad attraversare l’incrocio, accompagnata dal suono impazzito dei clacson che si sovrastavano gli uni sugli altri. Infine, si dileguò, confondendosi nel convulso traffico della sera…”

«È il nuovo libro?» chiese Caroline, da dietro le spalle della madre, masticando rumorosamente.
Teresa non l’aveva neanche sentita arrivare, tanto era concentrata su quel particolare paragrafo che già più volte aveva riscritto ma ancora non la soddisfaceva appieno. La bambina si sporse un poco più avanti per riuscire a leggere meglio, continuando a sgranocchiare con noncuranza un pezzetto di carota trafugata da una delle ciotole in cucina, dove tutti gli ingredienti erano stati disposti con cura e ordine sul piano di lavoro, pronti per essere trasformati in un delizioso stufato di pollo.
«Ehi! Ma che fai? Non puoi leggere! Via, sciò! Sciò! Questa non è roba adatta a te. Sei ancora troppo piccola!»
«Ma se praticamente tutti i miei compagni leggono i tuoi libri! E persino la biblioteca della scuola ha una copia dei tuoi racconti», ribatté la bambina con uno sbuffo. «Sono io l’unica che ancora non li conosce.»
«Davvero?» si sorprese Teresa. «La biblioteca scolastica ha… Oh, cielo! Non me lo aspettavo proprio», farfugliò imbarazzata. Nonostante fosse diventata famosa con i suoi libri, non era ancora abituata alla notorietà e questo la metteva a disagio. «Comunque li leggerai quando sarai più grande! E non provare a chiederli in prestito, perché lo verrei a sapere!» terminò, riprendendo di nuovo in mano le redini della situazione. «Piuttosto, hai terminato i compiti per oggi?» le domandò, salvando e chiudendo il file di word, alzandosi infine dalla sedia. Avrebbe continuato più tardi a scrivere quel capitolo.
Caroline trattenne il fiato per qualche secondo, colta in flagrante. I compiti li aveva fatti quasi tutti, le mancavano giusto un paio di problemi di matematica, che proprio non riusciva a risolvere, e scrivere il commento su un capitolo di storia, ma quel pomeriggio aveva fatto di tutto per scansarli.
«Ti va di darmi una mano a cucinare?» le propose la madre, sorridendole e sospingendola piano verso la cucina. Poi, si mise il grembiule e spostò sul fuoco la pentola dello stufato, per iniziare a far rosolare i pezzi del pollo.

*****

Erano ormai passate le dieci di sera e Caroline si era rifugiata da tempo nel confortevole tepore del suo letto. Anche se le vacanze di scuola erano già iniziate, la sua giornata era stata ugualmente impegnativa. Da quando era rientrata a casa dall’ultimo allenamento dell’anno, accompagnata dal suo allenatore a metà pomeriggio – ovvero prima del solito – non aveva fatto altro che correre qua e là per il giardino assieme ad alcuni amici del vicinato e giocare come un maschiaccio. Se l'era potuto permettere, poiché aveva sfruttato l'intera mattina per fare la maggior parte dei compiti di scuola che il padre le aveva programmato per quel giorno: fin da subito infatti, Gregory le aveva suddiviso la montagna di compiti in modo che lei non arrivasse a doverli fare tutti all'ultimo momento, com'era capitato l'anno precedente. E si aspetta da lei che rispettasse l'impegno.
Quella sera, Teresa tradiva una finta tranquillità. Stava rassettando la cucina, ma continuava a volgere lo sguardo verso l'orologio a parete, sospirando delusa, o si fermava a fissare quello sul display del microonde, domandandosi come mai Greg fosse così tanto in ritardo. Si concesse un piccolo sbuffo nel passare lo strofinaccio sulla maniglia del frigorifero, pensando che era stata costretta a ritirarvi la cena del marito. Era davvero inusuale che lui tardasse in quel modo, soprattutto senza avvertire, né con una telefonata, né con un messaggio sul cellulare. Lei era certa che quella sera Greg non fosse di pattuglia. Poteva dunque non aver trovato il tempo o l’occasione per avvisarla?
A un tratto sentì una strana sensazione di disagio, come un lieve formicolio allo stomaco che si faceva largo fra l’improvvisa voglia di sottaceti e quella di crostata ai lamponi. Non era la prima volta che capitava, in quegli ultimi tempi. Allora, quando si presentava, così tangibile come quella sera, lei interrompeva ciò che stava facendo e iniziava a fare dei respiri profondi, accarezzandosi il ventre che iniziava a mostrare i primi rigonfiamenti. E, quando si concentrava sul pensiero del maschietto che stava crescendo dentro di lei, l'apprensione si calmava fino a sparire. Pochi gesti, per un rituale tutto suo che aveva il potere di scacciare le sue paure.
«Quattro mesi», sussurrò, nel silenzio della cucina.
Quando ci pensava, diceva a se stessa di essere stata fortunata. Le nausee erano meno forti rispetto a quando aspettava Caroline e anche le prime voglie si erano manifestate più “normali”. Un altro pensiero la fece sorridere: il lieto evento sarebbe avvenuto in primavera, nella seconda metà di maggio. Forse, sognava, nello stesso giorno suo e di Caroline. Stava esagerando con la fantasia?
Eppure, a Teresa piaceva perdersi in quel tipo di fantasticherie, la rilassava e la faceva sentire più ottimista. Poter festeggiare tre complenni come fossero uno sarebbe stato un evento unico e ancor più speciale.
Fece un respiro profondo, prendendo un sorso d'acqua dal rubinetto, riprendendo a riordinare. La sua fiducia nei confronti del marito era solida: lui non avrebbe tardato ancora molto e lei lo avrebbe accolto con un sorriso. Ma la sua mente viaggiava rapida da un pensiero all'altro, incastrandosi fra le righe di un turbolento capitolo che aveva lasciato in sospeso per preparare la cena e che non voleva saperne di vedere la luce. Più ci pensava, meno la soddisfaceva come l'aveva scritto.

La casa era immersa in una tranquillà soave. In sottofondo si sentiva il lieve ronzio delle lucette intermittenti dell'albero di Natale che campeggiava nel salotto di casa e sotto il quale, poco prima, aveva provveduto a sistemare i regali: ce n'era uno anche per Phillip.
Seduta finalmente di nuovo al computer, poteva provare a dare forma a tutte quelle mezze idee che affollavano la sua testa. Con cautela aprì il cassetto della scrivania, strapieno di dolci vari, caramelle, tavolette di cioccolato bianco, biscotti e cracker. Pescò la sua prima vittima, mentre con lo sguardo era concentrata sul foglio bianco del word e quel cursore che lampeggiava impaziente. Mise in bocca un cioccolatino al latte e diede uno sguardo all'orologio sul desktop. Poi, senza rendersene, si distrasse nel fissare la lettera del suo editore, appoggiata lì vicino. La prese in mano, con il cuore che aveva iniziato a battere emozionato, proprio com'era stato quando la lesse la prima volta. La lettera non era una di quelle precompilate e firmate dalla solita assistente, che mandava le comunicazioni standard o gli auguri di Natale ai dipendenti e agli scrittori sotto contratto. Era scritta a mano, da lui in persona, come si faceva una volta, nella quale le comunicava che la casa editrice le offriva, come premio per il successo delle vendite degli ultimi libri, una settimana a New York per lei e tutta la famiglia. Ed era per giunta la settimana di Capodanno!
«Il Capodanno a Time Square. Un sogno...» sospirò.
Era stato un regalo sorprendente e inaspettato, del quale non ne aveva ancora parlato a Caroline, ma sicuramente ne sarebbe stata entusiasta anche lei. Un'occasione sulla quale contava per poter avere la famiglia riunita per qualche giorno. Tutto stava andando bene. Cosa mai avrebbe potuto rovinare i suoi programmi?
Si mise al lavoro, più carica che mai; non prima però di infilarsi gli auricolari e attivare la playlist preferita dal media player. Le piaceva tenere la musica molto alta, l'aiutava a mantenere la concentrazione.
Il cane iniziò ad abbaiare con insistenza. Era un pastore tedesco di cinque anni, che Greg aveva voluto a tutti i costi e che adorava, buono e docile con i membri della famiglia e diffidente con gli estranei; quella sera sembrava essere molto nervoso. Il suo abbiare era convulso, forte e senza tregua, quasi rabbioso. Era riuscito a sovrastare il volume della musica, inducendo la donna a togliersi per un momento gli auricolari e accertarsi di cosa stesse accadendo fuori.
Con un sonoro sbadiglio, vista anche l'ora ormai tarda, Teresa si decise ad andare a controllare, ma tutto era tornato silenzio. Sbuffò: il filo dei pensieri si era ormai spezzato. Si alzò ugualmente, anche se il cane si era ormai chetato. Uscì dalla porta d'ingresso stringendosi il maglione addosso e rimase per qualche minuto nel porticato a osservare la strada. Il giardino anteriore era illuminato solo dalle luminarie e dai lampioni per strada. Davanti al cancellino c’era la sagoma di un uomo, semi confusa nell’oscurità e poco riconoscibile, perché chinato ad accarezzare la testa dell’animale, che ora emetteva dei leggeri guaiti. Teresa si sentì sollevata. Il cane faceva così solo con Greg e con pochi altri: solitamente poliziotti, poiché aveva fatto parte dell'unità K9 della polizia. La donna fece un passo in avanti, scendendo il primo gradino, ma si fermò subito dopo, notando che anche l’uomo nel frattempo si era mosso: riconobbe il capitano Burton.
Con passo cauto e lo sguardo basso, seguito dal cane ancora festante, l’uomo si avvicinò all'ingresso. Di slancio abbracciò la donna, che mai si sarebbe aspettata in tale gesto quando non era presente anche il marito, facendola preoccupare.
«Teresa», disse, con il viso stravolto e la voce spezzata dal dolore, staccandosi da lei. «Per favore… entriamo in casa.»
Le mise una mano sulla schiena, accompagnandola dentro, nel tiepido conforto della sua casa, nella quale l’uomo sperava – forse ingenuamente – che la notizia che era venuto a darle sarebbe stata accolta con minor trauma.

*****

Teresa rimase sul divano del salotto: assente, catatonica, totalmente inerme. Era cullata dalle rassicuranti braccia di Phillip che la teneva stretta a sé, con la testa appoggiata al proprio petto. La notizia l’aveva travolta in pieno, facendola precipitare in un assoluto blackout. E ora, non riusciva a sentire più nulla attorno a sé: nessuna parola, nessun rumore, nessun pensiero.
Il tempo sembrava essere passato in un attimo, fra la veglia e il sonno leggero; sempre lì, sempre sostenuta dalla preziosa presenza dell’amico. Fuori stava già iniziando ad albeggiare e il cane di famiglia aveva ripreso ad abbaiare. Non era il suo solito tono rabbioso di chi difende il proprio territorio, era più lamentoso, triste, come se anche lui fosse consapevole della situazione. Ma Teresa non riusciva ad accorgersene di quel cambiamento, completamente straniata.
Tempo addietro, quando tutto era ancora bello e il futuro roseo e pieno di promesse, Teresa aveva deriso – nella privacy della sua casa, accoccolata fra le braccia del marito – quell’iniziativa del comitato delle mogli dei poliziotti che avevano insistito per formare un gruppo di sostegno per le famiglie dei caduti in servizio. A lei non sarebbe mai capitato, si ripeteva sempre. Il suo Greg faceva soprattutto lavoro d’ufficio, non aveva mai sparato a nessuno, neanche portava la pistola con sé. Quale pericolo avrebbe potuto correre?
E ora…
Ora le sembrava di essere diventata suo malgrado la protagonista di uno di quei vecchi film polizieschi, nel quale l’agente di turno arriva a casa della moglie del collega per annunciarle la morte del marito. Casi che accadevano spesso nella finzione, ma che accadevano anche nella realtà.
Era dunque per quel fatidico momento che serviva quello stupido gruppo di sostegno? Ma lei si era sempre ritenuta abbastanza forte da poter far fronte a ogni evenienza. In cuor suo ne era sicura. Si credeva pronta. Ma non lo era affatto.
L’ultimo ricordo che avrebbe portato nel cuore sarebbe stata una futile discussione avuta proprio quella mattina, nella quale lo rimproverava per l’ennesima volta di aver ceduto alle richieste dei colleghi e coprire un turno non suo, invece di restare con la propria famiglia. Questo era ciò che aveva fatto e detto, mentre lo accompagnava alla porta di casa per l’ultima volta. Poco importava se poi si erano riappacificati per telefono. Ora non lo avrebbe rivisto mai più.
E Caroline? Come l’avrebbe presa lei? Come avrebbe potuto darle la notizia proprio il giorno di Natale?
Teresa iniziò a singhiozzare, sempre stretta fra le braccia di Phillip.




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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***




IV



Winchester, 1999
Il nuovo anno esordì nel migliore dei modi per Shion W. Hayes e le sue imprese. Da ormai quasi un ventennio i suoi interessi si erano diversificati: non solo quindi nell’edilizia – trampolino di lancio e base solidissima delle sue fortune – e tutti i suoi derivati, come lo sviluppo energetico, ma aveva puntato anche su investimenti prettamente finanziari, con partecipazioni azionarie in diverse compagnie di vari settori. Negli ultimi anni aveva iniziato a guardare con maggiore interesse anche oltreoceano, puntando su possibili investimenti in alcune grandi compagnie del settore tecnologico e dell’energia. In quel mese di gennaio, Shion Hayes aveva instaurato buoni rapporti – e concluso un paio di contratti molto vantaggiosi – con alcuni esponenti di spicco del mondo finanziario e politico del Sol Levante. Grazie a conoscenze trasversali aveva allacciato rapporti d’affari con Mitsumasa Kido, presidente delle industrie Kido e Ministro del governo giapponese, con l’incarico anche di presidente del comitato governativo per lo sviluppo energetico. I due uomini fin da subito si erano capiti alla perfezione, nonostante le differenze culturali.
Gli occhi di Shion si animarono di un’avida luce quando comunicò al suo braccio destro l’esito che aveva dato la teleconferenza con il magnate nipponico. Non solo in quell’occasione si era assicurato la conferma di una partnership importante, battendo sul tempo i suoi diretti concorrenti arabi e cinesi, ma aveva contrattato – nel vero senso della parola – il suo stesso nome e parte del futuro della sua famiglia, legandoli fin da subito al nome Kido, almeno in terra straniera.
«Ma sei impazzito, Shion?» sbottò incredulo Shura, paonazzo in volto per le parole insensate che aveva udito uscire dalla bocca dell’amico. «Non ti pare di esagerare, ora?»
«E perché mai? Lo sai anche tu com’è fatto il mondo degli affari», rispose l’altro, serafico, ritornando alla scrivania dopo aver attizzato il fuoco nel camino. Sciolse il nodo della cravatta e se la sfilò, sbottonandosi anche il primo bottone del colletto della camicia bianca. Poi, riunì alcuni documenti, battendoli sul tavolo per riordinarli e li ripose nella ventiquattrore.
«Forse un tempo si faceva così, ma al giorno d’oggi chi è quel pazzo che combina ancora i matrimoni?» Shura si sedette sull’angolo della scrivania, scrollando la testa e sospirando. «Più passano gli anni e più ti stai avvicinando all’esempio che non volevi seguire.»
«Si tratta di accordi di base per più di cinquanta milioni di dollari, con la possibilità di decuplicarne il valore già nei prossimi cinque anni», gli rispose con voce inflessibile Shion, sedendosi sulla poltrona di pelle dietro la scrivania.
«Soldi! È solo questo che ti preme? Soldi e potere!» esclamò Shura, alzandosi e fronteggiando l’altro, sbattendo violentemente le mani sulla scrivania di mogano. «Stai vendendo uno dei tuoi figli per denaro! Come se tutti i milioni che già hai non fossero sufficienti!»
Ancor più che la pazzesca situazione che aveva prospettato Shion, a scatenare la reazione furibonda del sempre compassato Shura era l’atteggiamento troppo calmo dell’amico. Si stava parlando del futuro di una persona, eppure Shion Hayes trattava la cosa come una semplice compravendita.
«Ricordo ancora la lite furibonda che avesti col tuo vecchio. Le vostre urla si erano sentite per tutta casa. Le parole che vi diceste erano talmente forti e cariche di cattiveria che mia madre ne rimase sconvolta. E ricordo bene anche quando poi ti rifugiasti di corsa da noi. In lacrime le raccontasti che il vecchio aveva minacciato di farti arruolare a forza per il Vietnam, se tu non avessi accettato le sue decisioni.»
«Già. È stato un momento di debolezza», confermò Shion, dondolandosi un poco sulla poltrona. «Avevo solamente un paio di anni in più dei ragazzi…» disse, mentre sul suo volto maturo e al tempo stesso giovanile si formava un mezzo ghigno, nel far riaffiorare alla mente quell'episodio. D’istinto si portò una mano a massaggiare la guancia, che aveva iniziato a pizzicargli, rendendo quel ricordo di nuovo vivido e attuale. «La situazione era diversa. Feci l’errore di confidarmi con lui, di svelargli i miei desideri e ciò che provavo, pensando che avrebbe capito. E per tutta risposta il vecchio se ne uscì con quell’ultimatum: o accettavo un matrimonio combinato oppure il mattino dopo avrebbe firmato lui stesso per il mio arruolamento.»
«Appunto! Come puoi fare ora lo stesso errore di tuo padre?» ribadì con forza Shura, agitando le braccia.
«Non è la stessa cosa!» insistette Shion, perdendo per un attimo la sua flemma. «E comunque, sono sicuro che non avrà obiezioni. Lui è abbastanza ambizioso per accettare una cosa del genere. Ce l’ha nel sangue!»
«Sono ancora praticamente dei bambini, cosa ti fa essere così sicuro che chiunque di essi sceglierai, sarà in grado di convivere con questa decisione?» domandò l'altro, ora più calmo.
«È sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni, quando si sfidano a basket, o a hockey; in qualsiasi cosa facciano», spiegò Shion, sorridendo orgoglioso. «Lui è competitivo. E gli affari... beh, quelli sono pura competizione!»
Shura si morse il labbro, riflettendo sulle parole dell'amico. Come poteva accomunare sport e affari? Come poteva usare quelle sfide infantili come metro di giudizio per una cosa tanto importante che avrebbe segnato il prescelto per gran parte della sua vita?
«E sentiamo, chi sarà la fortunata e chi invece lo sfortunato?» inquisì Shura, incrociando le braccia al petto.
«La nipote di Kido, la giovane Saori, l’ultima nata.»
«Questo mi sorprende molto! Pensi davvero che il vecchio Kido, che si vanta di discendere da un ramo cadetto della famiglia imperiale e così attaccato alle antiche tradizioni del suo paese, permetterà a un gaijin di sposare sua nipote?»
«Fosse stata purosangue non avrebbe mai acconsentito; ma la bambina è un sangue misto, un’illegittima. Una bastarda! La figlia ultimogenita di Kido l’ha avuta da una relazione extraconiugale con un europeo, un avvocato mi pare, che si è ben guardato dal riconoscerne la paternità. O forse lo hanno dissuaso dal farlo, ciò comunque per me è irrilevante.» Shion fece una pausa, sogghignando a quell’ultima considerazione. «Dopo la morte della donna, suo marito non ne ha voluto sapere della bambina e il vecchio ha dovuto prendersene carico. Ma stai certo che anche lui non vede l’ora di liberarsene. L’hai detto tu stesso, Shura, quell’uomo è molto all'antica ed è attaccato alle tradizioni più conservatrici del suo paese; e quella bambina, che ora ha poco più di cinque anni, la considera solamente un’onta, una macchia per il suo buon nome, nonostante l’abbia adottata ufficialmente.»
Shion Hayes si alzò e si avvicinò alla consolle di marmo, dando le spalle a Shura. «Quell’uomo è stato davvero sfortunato con i figli», considerò ad alta voce, prendendo in mano una delle fotografie dei gemelli. Il suo sguardo era pieno di orgoglio, misto però a tristezza. «Di tre figli che ha avuto, gli sono morti tutti in giovane età e ora sono rimasti solamente due nipoti maschi e quella bambina.»
Si voltò verso Shura, guardandolo negli occhi e continuando a parlare, incurante di quanto potesse risultare cinico. «Gli affari a volte contano più del sangue e delle tradizioni. È stato Kido stesso a proporre questo accordo, dicendosi ben lieto di poter unire le nostre due famiglie e creare un duraturo e proficuo rapporto di amicizia e di affari.»
«Ti prego, Shion, ripensaci. Vorresti davvero svendere così uno dei tuoi figli solo per degli affari? Obbligare chiunque sceglierai dei due a una vita che non vuole, solo per dare ancora più prestigio al nome della tua famiglia? È questa l’eredità che ti ha lasciato tuo padre e che vorrai lasciare ai tuoi figli in futuro? La smania di potere?»
Era diventata palpabile la preoccupazione nella voce di Shura, nel tentare di far ragionare il suo vecchio amico. Lo sguardo di Shion invece era risoluto nel voler portare avanti quella folle situazione. Shura sapeva che poteva fidarsi dell’altro, eppure questa volta sentiva che non sarebbe stato facile.
«Sono ancora dei ragazzi, praticamente dei bambini», ripetè in un sussurro. «E su chi cadrà la scelta? Chi hai intenzione di sacrificare per gli affari? Forse… Saga?» domandò, pronunciando quel nome temendo di aver azzeccato la risposta.
Un lieve rumore – forse un breve e sommesso cigolio – e un respiro ansioso, arrivarono da oltre la porta della biblioteca, rimasta incautamente socchiusa. A quell’ora di pomeriggio non ci doveva essere nessuno in casa, a parte proprio il giovane Saga, ancora convalescente, che riposava in camera sua al piano superiore; e probabilmente per questo motivo il padrone di casa aveva abbassato la guardia. Shion fece uno scatto verso la porta, spalancandola e guardando con occhi attenti nelle vicinanze. Sembrava tutto tranquillo lì fuori.
«Che succede?» chiese Shura.
«Un rumore. Non è niente», rispose l’altro, scrollando la testa e rientrando, chiudendosi per bene la porta alle spalle. «È una vecchia casa…» mormorò, poi. Alle volte si preoccupava troppo, mantenendo un atteggiamento eccessivamente cauto, quasi da cospiratore. «Bene, non c’è altro, Shura. Puoi andare», disse, tornando alla sua calma serafica, sedendosi alla scrivania.
«Hai glissato di nuovo sulla domanda», lo rimbrottò l’altro, ma accettò la decisione del suo capo e uscì dalla biblioteca.

*****

Febbraio stava arrivando agli sgoccioli e la vita alla villa era tornata alla consueta sua quiete e normalità. Kanon e Aiolos, anche se continuavano ad abitare alla villa di Mystic Lake, avevano ripreso a frequentare la scuola privata a Boston, Aiolia veniva alla villa nei week-end per stare con la nonna e il fratello, e Saga… lui era ancora inchiodato a letto, più per volere degli adulti che per vera necessità.
Anche Shion Hayes aveva ripreso la sua solita routine lavorativa, adattandola però alla nuova situazione. Aveva infatti privilegiato l’ufficio in città, dirottandovi la maggior parte dei suoi impegni di New York e affidando la gestione della sede nella Grande Mela ai suoi collaboratori più fidati, ma rimanendo costantemente in contatto tramite videoconferenze, e-mail e chat.
Le giornate si facevano via via più luminose e la primavera, nonostante le temperature ancora troppo basse, sembrava proprio dietro l’angolo. Il giovane Saga sbirciò da dietro le tende della finestra l’immenso giardino della proprietà; poco più in là, le placide acque del lago scintillavano ai raggi del sole. Sospirò, stringendo con la mano la stoffa del tendaggio, mentre con l’altra si tormentava il bordo della giacca del pigiama, sgualcendolo ancor più che dopo una notte di sonno agitato. I suoi occhi erano lucidi di invidia repressa: lui era ancora costretto in quella stanza, controllato a vista da Nanny e Shura, mentre il gemello e Aiolos erano liberi di fare ciò che volevano. Vide arrivare un'auto scura fermarsi sul vialetto e scendervi di corsa il gemello. Sgranò gli occhi e, con uno scatto improvviso, si ributtò sotto il piumone, cercando di nascondere il fiatone che quella piccola corsa gli aveva causato.
«Ehi, fratellino!» esclamò Kanon, sbucando neanche un minuto dopo dalla porta del guardaroba comunicante ed entrando come un uragano nella sua camera. «Come va oggi?» gli chiese tutto entusiasta, buttandosi di peso sul lettone del fratello. Con un dito abbassò il libro che l'altro teneva davanti a sé, mostrandogli un viso ancora paonazzo dal freddo e dalla corsa che aveva fatto, ma raggiante. «Ci sono grandi novità!» disse.
Accantonò il cappotto in fondo al letto e si sedette vicino al gemello, fissandolo negli occhi. Quel pomeriggio non era stato particolarmente diverso dai soliti, per Kanon: dopo le lezioni aveva partecipato agli allenamenti di hockey con la squadra della scuola, ma l’evento straordinario era stato che il padre era andato a prenderlo al posto di Shura.
Lo sguardo di Saga invece esprimeva tutt’altro, così come le sue guance bianche come un lenzuolo erano l’opposto di quelle del fratello.
«Mi annoio a morte, Kanon. Voglio uscire di qui», sbuffò stancamente, chiudendo il libro ma usando il dito per segnare la pagina.
«E allora fallo! Che aspetti? Dai, prendi la vestaglia e andiamo giù a guardare un po’ di tv!» gli propose, sdraiandosi accanto a lui come se il letto fosse suo, portandosi le braccia dietro la testa e incrociando i piedi.
«Ci ho provato», ribattè mestamente Saga. «Ma sembra che tutti in questa casa non facciano altro che riportarmi qui dentro», terminò in un sospiro pesante.
«Non esagerare! Scendi da questo letto, piccolo Colin.»
«Non prendermi in giro. Questa mattina volevo andare nella biblioteca a prendere altri libri, ma Nanny non me l’ha permesso. Mi ha riportato qui dentro quasi di peso!»
«Ma davvero?» Kanon sgranò gli occhi dallo stupore. Si girò sul fianco e fissò il gemello che se ne stava appoggiato con la schiena a una vera e propria montagna di cuscini. «E dimmi, ti ha caricato in spalla come un sacco di patate, oppure ti ha trascinato per un orecchio fino al letto e messo in castigo?» lo canzonò, ridendo fra sé e sé nel visualizzare entrambi gli scenari che la sua mente vulcanica aveva ideato.
Gli strappò il libro di mano e lesse il titolo – stampato a caratteri dorati sulla copertina monocroma – rigirandoselo per benino per esaminarlo meglio. Senza sopracopertina, assomigliava molto agli altri libri accatastati sul comodino lì vicino.
«Un saggio sul diritto economico e la contrattualistica internazionale?» domandò, meravigliato. «Da quando ti interessi a queste cose?»
«L’ho preso per sbaglio l’altro ieri, quando sono riuscito a sfuggire al controllo di Nanny, con la complicità di Shura. Che è durata poco però, visto che anche lui mi ha rispedito qui. Mi ha concesso giusto il tempo di prendere qualche libro, senza neanche farmi controllare e, al primo starnuto…» Sbuffò, aggiustandosi il piumone addosso e girandosi verso il fratello. «Lo credevo un amico», borbottò sottovoce.
«È solo un adulto, Saga, non un amico», ribattè comprensivo, Kanon.
Saga sospirò ancora una volta, guardando il gemello con occhi tristi. Iniziava a sentirsi caldo.
Kanon si avvicinò di più al fratello e gli liberò la fronte dai capelli sudati, pettinandoglieli con le dita. Poi, si mise fronte a fronte, adagiandosi anch'egli alla montagna di cuscini, per stargli più vicino.
«Avevi detto che ci sono novità», gli ricordò, Saga. Il ragazzo chiuse gli occhi, accarezzando la guancia del gemello: sotto quel suo tocco sentì distintamente il sorriso dell'altro.
«Papà ha detto che sto lavorando bene. È soddisfatto del mio rendimento scolastico. Ha detto anche che mi darà qualche lezione supplementare e presto mi portà in ufficio con lui e mi farà fare pratica negli affari; e lo stesso farà anche con Aiolos!»
Saga rispose con uno sbuffo deluso, cercando di girarsi dall’altra parte, ma il suo viso fu subito catturato dalle mani del fratello.
«Non preoccuparti, Saga», gli sorrise lui. Aveva capito alla perfezione quello che stava passando nella mente dell’altro. «Papà è contento anche di te. Sa quanto sei bravo negli studi. Vedrai, ci metterai poco a recuperare le lezioni perse e allora ti unirai a noi», provò a blandirlo. Poi gli diede un bacio sulla fronte.

«Ehi, voi due!» li richiamò la voce perentoria di Nanny, entrata energicamente nella camera di Saga per annunciargli l’arrivo del dottore, facendo sobbalzare i gemelli, colti di nuovo in flagrante. «Ogni volta che arrivo qui vi trovo sempre abbracciati, neanche foste attaccati come due siamesi!»
La donna si avvicinò al letto a grandi passi e, con un ampio gesto del braccio, diede una forte pacca sul sedere all’intruso. «Giù dal letto, Kanon, che fra poco arriva il dottor Dalton per visitare tuo fratello!»
Alzò di nuovo il braccio per dargli una seconda sculacciata, ma il ragazzo fu più lesto, sgusciando fuori dall’altro lato – non senza però aver travolto nella sua capriola il povero Saga – mettendosi in piedi e facendole la linguaccia.
«Sei troppo manesca, Nanny», si lamentò, massaggiandosi il fondoschiena. «Non abbiamo fatto nulla di male!»
«Non mi piace il dottor Dalton», disse Saga facendo sentire la sua voce un poco vattata dal piumone sotto il quale si era rintanato. «È strano, fa cose strane», mormorò, imbarazzato.
«Non mi vorrai far credere che hai paura del dottore, vero? Non dopo tutte le volte che è venuto a visitarti in questi ultimi mesi!» Nanny si sedette sul bordo del letto, con la mano scostò il piumone dal viso del ragazzo e gli fece una carezza sulla guancia.
«Ma… lui mi tocca in modo strano», confessò il ragazzo con un filo di voce, tentando di nascondersi di nuovo, mentre il suo viso prendeva una lieve sfumatura rossa, per la vergogna.
«Lo so che sei stanco, tesoro. Ma non dovresti dire cose del genere», lo riprese la donna con tono materno e affettuoso, facendolo uscire ancora una volta allo scoperto. «Non crederai davvero che possa avere cattive intenzioni, vero? È un dottore! Ti esamina solamente.»
Il dottor Jason Dalton, un atletico e giovanile cinquantenne afroamericano, era stato per molti anni il pupillo del vecchio medico di famiglia degli Hayes, il dottor Mitchell. Molto stimato da quest’ultimo, si era fatto carico di tutte le attività del suo mentore, ereditando la direzione dell'ambulatorio che, nel corso degli anni – grazie al generoso contributo della famiglia Hayes – si era trasformato in una piccola ma rinomata clinica, che aveva mantenuto la sua natura gratuita.
«Saga!» esclamò Kanon, avventandosi sul letto. «Dove ti tocca? Dove ti tocca?» cantilenò, martoriando il povero corpo dell'altro, ridendo divertito e facendo ridere, sotto quelle torture, anche il fratello.
«Lascialo stare, scalmanato!» lo rimproverò Nanny, tirando Kanon a sé. Anche la donna stava però ridendo di cuore alla complicità e all’affiatamento di quei due. Si alzò dal letto e alzò di peso anche Kanon; poi, risistemò con cura il piumone sul malato.
«Dopo la visita mi permetterai di alzarmi, vero Nanny?» le domandò Saga, con il viso arrossato e il respiro affannoso per la lotta.
«Solo se lo dirà il dottore. L’influenza pare ormai passata e di febbre già da qualche giorno non ne hai più, ma non ti sei ancora rimesso», gli spiegò lei, tornando ad accudirlo come una mamma troppo apprensiva, appoggiando il dorso della mano sulla fronte leggermente sudata del ragazzo. Poi, scrollò la testa, verificando la presenza di qualche linea.
«Certo però che sei stato davvero sfortunato, fratellino: prendersi tre volte di seguito l’influenza è da guinness dei primati!» si intromise Kanon, ridendo ancora più forte allo sguardo truce e al seguente sbuffo del gemello.
«Non starlo a sentire. Piuttosto, hai ancora le vertigini e le emicranie?» domandò la donna, facendogli un’altra carezza sulla guancia imporporata.
«Ma sono quasi tre mesi!» piagnucolò il ragazzo, allontanando la mano e girandosi sul fianco, dando così le spalle a entrambi.
«Non mi farai mica i capricci adesso, vero? E poi, come pensi di poter star bene se non mangi quello che ti faccio preparare? Anche oggi hai lasciato il pranzo a metà, per la disperazione della povera Francine che non sa più cosa prepararti; e la merenda?» disse, indicando il vassoio sul quale c'era il piattino con un sandwich al burro di arachidi, una ciotolina di macedonia di frutta fresca e un bicchiere di latte al cioccolato, che era stato accantonato sulla scrivania. «È ancora tutta lì! Mi stai diventando di gusti difficili?»
«Beh, nonna», intervenne Aiolos, presentatosi alla porta della camera di Saga con ancora lo zaino in spalla e il bastone da hockey in mano. «se la principessina si muovesse un po’, forse “le” tornerebbe l’appetito, oltre che un po’ di colore, naturalmente. È così “bianca” che la neve sui rami degli alberi sfigura al suo confronto!» Entrò nella stanza senza fare tanti complimenti e si avvicinò al letto per salutare la nonna con un bacio sulla guancia. «Scommetto che se fa due passi, si accascia a terra come uno straccio usato.»
Come niente fosse si avvicinò alla scrivania e afferrò il sandwich, addentandolo con un gran morso. Il ragazzo era appena rientrato alla villa con Shura e Aiolia al seguito. Anche quel week-end il fratello l’avrebbe passato con loro.
«Vieni, Kanon», chiamò l’amico, con la bocca ancora piena. «La peste vuole sfidarti a Tekken 3! Ha detto che questa volta userà Yoshimitsu, che non ti darà nemmeno il tempo di rimetterti in piedi e che ti farà piangere chiedendo pietà!»
«Aiolos, non parlare in questo modo di tuo fratello!» lo rimbrottò, Nanny.
«Ma è la verità, nonna!» rispose il nipote, alzando le spalle e dando un altro morso al sandwich.
«Ah sì? Ma guarda un po’ che piccolo impertinente!» commentò Kanon, alzando un sopracciglio e facendo un ghigno degno del miglior Joker di Jack Nicholson. Già la sua mente aveva iniziato a elaborare la punizione più adatta da infliggere al piccolo di casa, per lesa maestà.
«Cerca di non sporcarmi la camera di sangue!» lo avvisò Aiolos, ben sapendo cosa potesse passare per la testa dell’altro.
«Anch’io voglio giocare», azzardò Saga, strattonando il gemello per il maglione.
«Tu? Ma se non ci sai nemmeno giocare! E poi, alla prima sconfitta ti lagneresti subito», rispose acido Aiolos, gesticolando con il mezzo sandwich ancora in mano, attirandosi lo sguardo severo della nonna.
«Fratellino, Aiolos ha ragione», intervenne il gemello, per placare subito le timide proteste di Saga. «È un gioco nel quale ci vogliono riflessi e abilità manuale e tu, beh, non ci sei molto portato», gli disse, prendendogli la mano. Il giovane non aveva affatto torto, le dita di Saga erano irrigidite e fiacche a causa del lungo riposo forzato. «Quando il dottore sarà andato via, ti prometto che tornerò a farti compagnia e se vuoi mi aiuterai a fare i compiti, va bene?» gli propose, sorridendo e dandogli un altro bacio sulla fronte.
«Dai, Kanon, non facciamolo aspettare oltre. Non voglio che mi devasti la camera! Quando eravamo in auto stava ruminando un chewing gum, se non lo teniamo d'occhio chissà dove me lo attacca!» lo richiamò di nuovo Aiolos con voce scocciata, girandosi e uscendo dalla stanza senza attenderlo oltre.
Kanon rivolse ancora una volta l’attenzione al gemello, gli sorrise – questa volta in modo più malizioso – e, prima di uscire, agguantò il bicchiere di latte al cioccolato dal vassoio, precipitandosi a impartire una lezione alla peste.
La delusione era più che evidente sul volto di Saga. Quando il gemello lo lasciò da solo i suoi occhi diventarono subito lucidi.
«Hai visto cosa succede a non mangiare quando ti si porta la merenda?» gli disse Nanny, con un sorriso. «Ti hanno preso le cose più golose e ti hanno lasciato solo la frutta.» La donna si alzò, prese la ciotolina di macedonia e la porse al malato.
Saga non badò alle parole della sua tata. Invece, si girò di nuovo dall'altra parte, nervoso e arrabbiato. Con quel movimento si scoprì involontariamente la schiena e svelò agli occhi della donna un'enorme macchia scura quasi all'altezza dei reni.
«Piccolo mio, come ti sei fatto questo brutto livido?» chiese Nanny, precipitandosi a controllare la schiena del ragazzo.
Saga si risistemò il pigiama senza rispondere, tirando poi il piumone fin sul naso, nonostante sentisse caldo ed era sudato.
«Ti fa male?» provò ancora la donna, senza ottenere alcuna risposta. «Saga, per favore…» insistette lei, accarezzandogli la testa e facendolo finalmente voltare.
«Sono caduto dalle scale e ho battuto la schiena sui gradini.»
«Sei sicuro di essere caduto, oppure hai avuto un altro mancamento?» inquisì lei, ricevendo stavolta un’alzata di spalle. «Quando è successo?»
«Due settimane fa, credo. Ero sceso per…» Saga fece una pausa, mordendosi il labbro, pensando a cosa fosse meglio rispondere. «Per fare due passi. Mi annoiavo», dovette ammettere, sperando di essere abbastanza convincente e di poter finalmente porre termine a quell’interrogatorio.
«Dovremo farlo vedere al dottore appena salirà in camera. Quando l’ho lasciato per venire da te era in biblioteca che parlava con tuo padre.»
Nanny sorrise materna allo sbuffo del ragazzo, si chinò su di lui e gli diede un bacio. Poi, iniziò a mettere un po’ d’ordine nella camera.

*****

Boston, 1999
«Non sono passati neanche due mesi e già avete intenzione di chiudere le indagini? Perché non andate avanti? Perché non insistete?» gridò furibonda Teresa. Aveva invaso l’ufficio del capitano Burton pochi minuti prima, dopo aver saputo che il caso stava per essere ufficialmente archiviato e sarebbero stati rilasciati i permessi per poter celebrare il funerale del marito.
«Non c’è più niente che possiamo fare, Teresa. Non sono stati trovati testimoni attendibili, le prove raccolte sono compromesse e inutilizzabili per un eventuale processo, non c’erano telecamere di sorveglianza che coprivano quel punto e neppure quella dell'ATM che sta quasi di fronte è servita a molto. Non abbiamo nulla di nulla!»
L’uomo distolse lo sguardo da lei, cercando una qualsiasi cosa su cui concentrare la propria attenzione per tentare di mantenere un minimo di controllo. Lui per primo aveva una gran voglia di sfogare tutta la sua rabbia repressa, per ciò che riteneva un vero e proprio affronto alla memoria del collega e amico.
«Sono davvero mortificato, ma non si può fare molto di più»
Si sentiva in colpa nei confronti della moglie di Greg, per la situazione che lo vedeva purtroppo con le mani legate.
«Dunque finisce così, con un nulla di fatto? Sarà un caso irrisolto come un altro? Una semplice scatola bianca dimenticata in mezzo a chissà quante altre scatole identiche e contrassegnata da una serie di numeri?»
La donna si lasciò cadere sul divanetto dell’ufficio, facendosi sfuggire quelle ultime parole in un sussurro colmo di amarezza. Il suo sguardo, prima tanto battagliero, divenne in un attimo spento e rassegnato. Si portò le mani sul pancione già preminente e lo accarezzò con indolenza, neanche avesse avuto la forza per rassicurare la creatura che stava portando dentro di sé.
«Per favore, Teresa, non fare così.»
Phillip accorse vicino alla donna; la vide completamente svuotata della volontà e temette per la sua salute e per quella del bambino in arrivo. Si sedette accanto a lei e la strinse in un abbraccio, cercando di confortarla.
«Credimi, ho cercato di tenerlo aperto il più possibile, ma non posso fare di più. Non sono stati trovati elementi sufficienti che facessero sperare in una svolta. Mi sono battuto con le alte sfere per farmi affidare questo caso. Ma sai come vanno queste cose, sono troppo coinvolto. Tutto quello che ho potuto fare è stato seguire gli sviluppi da dietro questa stupida scrivania e prendere visione dei rapporti degli agenti incaricati.»
L’uomo si alzò lentamente e si avvicinò alla scrivania. Prese in mano la cartellina gialla che conteneva i vari rapporti sul caso, i risultati dell’autopsia che riportava come causa della morte un non precisato “incidente” e “trauma causato da forte impatto” e le analisi scientifiche preliminari sui pochi reperti raccolti sulla scena del crimine.
«Incidente», mormorò, stringendo quei fogli in un impeto di rabbia soppresso malamente. Era scandaloso che le conclusioni finali catalogassero la morte del tenente di polizia Gregory Miller come un semplice incidente.
«Ti prego, Phil, non ti arrendere! Continua le indagini, fallo per Greg!» lo supplicò la donna; la sua voce era rotta dalla commozione. Si alzò con una certa fatica e si accostò all’uomo, appoggiandogli la mano sul braccio.
«Ma cosa pretendi che si possa fare con i pochi elementi che abbiamo in mano? Se almeno sapessimo perché si trovava lì… o se ci fosse un testimone decente…» sospirò Phillip. Non aveva il coraggio di fissare gli occhi supplichevoli di Teresa.
«Come sarebbe a dire “cosa pretendi che si possa fare”? Che continuiate le indagini!» urlò di nuovo la donna, riconquistando tutto il suo spirito battagliero. «Greg era uno di voi! È così che viene ripagata la sua devozione verso la polizia, la devozione verso di te?» Batté disperatamente i pugni sul petto dell'uomo, che li incassò senza scomporsi, come se sentisse di meritarseli tutti quanti.
«Per quanto vorrei farlo, non posso. Cerca di capire, quelli della procura hanno ordinato di chiuderlo», provò a spiegarle ancora una volta, con voce pacata. Ma dentro di sé anche lui era furioso; soprattutto perché aveva saputo che gli affari interni avevano aperto un’inchiesta parallela sulla morte di Greg e lo avevano escluso del tutto. E quando si muovevano gli affari interni, voleva dire che indagavano sul poliziotto. Ma questo non lo poteva rivelare a Teresa, che era già fin troppo provata.
«No! No! No! Tu lo stai abbandonando!» insistette la donna. La sua voce era alterata dalla collera e dalla disperazione. «Non mi interessa cosa dice qualche avvocatucolo della Procura appena uscito dall’Università! Voglio che tu mi dica cos’è successo e perché il mio Greg è morto! Voglio il colpevole! Voglio che paghi!»
«Stai straparlando, Teresa.» Phillip l'afferrò per le braccia, cercando di calmarla. «Non sei in te.»
Per alcuni secondi, la donna lo fissò con occhi sgranati e la bocca tremante; le lacrime scendevano a rigare il suo viso sconvolto.
«Sì», ammise con tono fioco. «Hai ragione, Phil. Non so più quello che dico.» Abbassò lo sguardo e si portò una mano alla bocca, mentre l’altro allentava la presa.
«È comprensibile quello che stai passando.»
Phillip Burton era profondamente amareggiato per la prostrazione della donna. Sapeva quanto fosse sempre stata forte di spirito, benché lei stessa lo negasse; e vederla in quello stato lo rattristava. Nella sua preoccupazione però non si dimenticava della piccola Caroline, che era in quell'età in cui perdere la figura paterna poteva risultare devastante. E poi, c'era quella creatura non ancora nata, che sarebbe cresciuta senza mai poter conoscere il proprio padre.
Teresa si appoggiò all'uomo, la sua ancora di salvezza, e si sentì stringere in un abbraccio: era davvero grata a Phillip per quella vicinanza. Si sentiva spaurita e sola. Posò involontariamente lo sguardo su una scatola di cartone bianco, un poco nascosta dallo schedario di ferro. Era uno di quei contenitori che solitamente venivano usati per archiviare i reperti di prova. Nonostante fosse chiusa con il coperchio, non faticò a intuire cosa potesse contenere e strinse la mano sul braccio di Phil in una contrazione involontaria. La fissò a lungo, in silenzio.
«Sono gli effetti personali di Greg», le disse lui, accorgendosi che la donna stava fissando la scatola. «Li ho raccolti il giorno dopo la sua morte e li ho tenuti qui per tutto il tempo. Ora però è tempo che te li restituisca.»
La donna rimase immobile, come irrigidita. «Non li voglio», rispose con voce atona.
«Sei sicura?»
«Se li portassi a casa con me sarebbe come ammettere che è tutto finito. Quegli oggetti sono sempre stati sulla scrivania di Greg. Averli ora con me vorrebbe dire che lui… no, non potrei sopportarlo.» Chiuse gli occhi e si portò le mani al volto.
Il Capitano Burton la sorresse di nuovo; la vide così fragile e debole che temette da un momento all’altro potesse svenire.
«Ora voglio tornare a casa», disse Teresa, tentando di fare un respiro profondo. «Grazie per quello che hai fatto.»
La donna provò ad abbozzare un sorriso di gratitudine, ma era difficile nelle sue condizioni. Si voltò e, dal divanetto, riprese la borsa, uscendo poi dall’ufficio.
Phillip non trovò la forza di trattenerla. Non poteva permetterselo: non in quel momento, non in quel luogo, non davanti ai suoi uomini. Poté solo accompagnarla con lo sguardo finchè lei non raggiunse le scale e le scese. Il dolore che lui stava provando era molto simile a quello che provava la donna. Quella notte di vigilia di Natale aveva perso un caro amico. Si avvicinò a uno degli schedari di metallo e vi si appoggiò con il braccio, trattenendo il respiro per un tempo indefinito. Poi, all’improvviso, vi assestò un tremendo pugno.

*****

Il clima che si stava assaporando nel febbraio di quell’anno era davvero insolito. I capricci del tempo, che si stavano registrando nelle ultime due settimane del mese – soprattutto in città – stavano regalando un incredibile anticipo di primavera. Giornate serene e piacevolmente tiepide avevano risvegliato la natura e tutto respirava di nuova vita. Anche quel giorno, il cielo era sereno. Il sole, fiero e amorevole, scaldava e illuminava ogni cosa con i suoi carezzevoli raggi. La rugiada del mattino, che luccicava sui fili d’erba, inumidiva dispettosa le scarpe di chi camminava sul soffice e curato manto erboso del cimitero cittadino.
Le giovani foglioline dei cespugli, di un delicato e vivido verde, erano rinvigorite di nuova linfa; le piante che delimitavano naturalmente i confini e che, grazie al lavoro di persone dall’animo sensibile, rallegravano le lapidi di un grigiore monotono, offrivano uno spettacolo meraviglioso coi loro teneri boccioli che, coraggiosi, si nutrivano avidamente di quel tepore benedetto. Piano avevano iniziato a vivacizzare con i loro gentili colori i rami ancora spogli.
Tutto pulsava di vita.
Un piccolo capannello di persone, vestite di un rigoroso e austero lutto, dall’animo prostrato dalla tristezza e dal dolore, si era riunito nei pressi di una semplice lapide di pietra, posta sopra una buca scavata nella nuda terra che ancora per poco sarebbe rimasta vuota. Sembrava così ironica quella giornata. Intorno a loro vi era un’esplosione di colori, soffusi cinguettii e versi di piccoli animali, che intonavano canti armoniosi. Eppure, tutto ciò che quelle persone vedevano e udivano, erano una scura e fredda bara di legno dinanzi a loro e la voce solenne e severa del sacerdote, intento a recitare le preghiere rituali che avrebbero accompagnato il defunto nel regno del Signore.
Al termine di quella mesta cerimonia, con ammirevole compostezza i colleghi e gli amici si concessero un ultimo saluto, camminando in lenta processione, facendo le loro condoglianze a Teresa e ai membri della famiglia Miller.
La piccola Caroline – impettita e orgogliosa nei suoi quasi tredici anni di età – che per tutta la durata della cerimonia era rimasta seduta accanto alla madre, si allontanò di qualche passo, isolandosi dal resto della gente. Alzò lo sguardo verso la madre e, nonostante fosse circondata dalle persone, la vide completamente sola. Alle sue orecchie arrivavano i sussurri di qualcuno che diceva sembrasse troppo indifferente, che evidentemente non amava abbastanza il marito, se neanche riusciva a farsi vedere addolorata.
«Sono solo delle malelingue», le disse Phillip Burton, avvicinandosi alla bambina e stringendole la mano. Le si accovacciò di fronte e le sorrise.
«Vai dalla mamma, zio Phil, è sola.»
La ragazzina non si rendeva ancora davvero conto di ciò che avrebbe significato per lei quella giornata particolare. Soprattutto, non riusciva a immaginare come sarebbe stata la sua vita da lì in avanti, senza la presenza del suo papà. Fino a poco prima era stata attorniata dagli zii e dal nonno, ma li aveva sentiti freddi e distaccati, come se quel filo che li teneva uniti – e tutti appartenenti alla stessa famiglia – fosse stato reciso e la madre e lei fossero diventate tutto d’un tratto delle complete estranee.
«Anche tu hai bisogno di conforto», le rispose l’uomo, abbracciandola.
Caroline sentì quell'abbraccio così forte e vigoroso, ma allo stesso tempo gentile e protettivo, proprio com'era sempre stato quello del suo papà. Anche il profumo di Phillip era molto simile a quello che usava Gregory; le era così familiare. Nascose il viso nel petto dell'uomo e iniziò a singhiozzare. Quell'uomo, che lei era abituata a chiamare zio, non l'aveva scrutata come invece avevano fatto tutti gli altri fino a un attimo prima, non l'aveva giudicata, né compatita, perché ora era diventata orfana. Si sentiva al sicuro con lui, fra le sue braccia. A lui, poteva affidare le sue lacrime.




Note del capitolo:
Gaijin: in giapponese significa straniero, usato nella sua accezione dispregiativa.
La citazione del personaggio di Colin è preso dal romanzo "Il giardino segreto". Il paragone viene usato da Kanon come presa in giro verso il gemello, in quanto, il personaggio letterario vive praticamente confinato nel suo letto perché ritenuto troppo debole e malato per sopravvivere a lungo; allo stesso modo, Saga viene trattato con eccessivo riguardo e costretto a stare a letto anche se non ne necessiterebbe più.
Tekken 3: videogioco della casa produttrice NAMCO per la piattaforma Playstation. Rilasciato (in Italia) nel 1997 per la playstation 1. Il capitolo successivo ovvero Tekken Tag Tournament, invece è stato rilasciato in America nell'Ottobre 2000 per playstation 2. Yoshimitsu è un personaggio del videogioco della serie Tekken.
ATM: ovvero Automated Teller Machine, sono il corrispettivo americano dei nostri bancomat.






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Capitolo 6
*** Capitolo V ***







V


Philadelphia, 2010
Erano da poco passate le undici e trenta di giovedì 25 febbraio. Era già mattina tarda e un manto grigio soffocava ancora la città. Una fine pioggerellina, iniziata quando ancora l’alba non era spuntata, rincarava la dose di malinconia di quella giornata, rendendo ogni cosa viscida e fredda.
Per molti era una giornata come un’altra, ma per quella giovane invece, aveva una valenza speciale; e poco importava se era triste e grigia, per lei era radiosa e liberatoria come l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive, nonostante si stesse affrettando perché era terribilmente in ritardo per il suo appuntamento.
Infatti avrebbe dovuto presentarsi davanti al capo della sicurezza, Robert Thompson, alle nove e trenta del mattino – prima dell’orario di apertura del museo al pubblico – per consegnare dei documenti. Invece, era ormai quasi mezzogiorno e lei era ancora per strada. Stava correndo a perdifiato, incurante di quella fastidiosa pioggerellina che l’aveva infradiciata tutta e delle pozzanghere che le imbrattavano i jeans e le scarpe. L’ombrello era ben chiuso con il suo laccetto e stretto nella mano; le sarebbe stato altrimenti impossibile correre come un maschiaccio. L’entrata est del Museum of Art era la più vicina nel suo percorso e anche la solita che usava per quel tipo di commissioni. E come usava fare in quelle occasioni, scalava tutta d’un fiato la Rocky Steps: la scalinata resa celebre dal cinema, che attirava ogni anno centinaia di migliaia di turisti, tutti desiderosi di cimentarsi nelle medesime gesta del famoso pugile.
Con un piccolo saltello a piedi uniti, Cora si fermò pochi centimetri oltre l’ultimo gradino, quasi rischiando di perdere l’equilibrio e capitombolare all’indietro. Lasciò cadere ai suoi piedi la borsa a tracolla e si piegò in avanti, appoggiando le mani alle ginocchia per riprendere fiato. Il cuore le batteva forte nel petto, la gola le bruciava per l’aria gelida che aveva inspirato e i polmoni faticavano a riempirsi, costretti nella morsa delle costole; il fianco destro pulsava come non aveva mai fatto prima, ma lei sorrideva di soddisfazione: ancora una volta ce l’aveva fatta! Il suo viso, incorniciato da riccioli castani disordinati e inzuppati di pioggia, era diventato pallido come la neve, ma ravvivato sulle guance da chiazze di un rosso deciso che la facevano assomigliare a una Heidi troppo cresciuta.
Nonostante una vita passata a fare sport e un corpo ancora discretamente allenato, non aveva mai avuto molta resistenza per la corsa. Poteva nuotare tutto il giorno, poteva giocare interminabili partite a pallavolo o a tennis, poteva persino giocare a soccer, nel ruolo del portiere naturalmente – ed era per questo che a scuola, soprattutto l’ultimo anno, era diventata popolare e aveva vinto una borsa di studio – ma correre… no grazie!
Con il sorriso sulle labbra, ansimando e allentandosi la sciarpa che teneva al collo, Cora si volse ad ammirare il panorama che quella scalinata offriva.
«E ora, da Cerbero!»
Con le gambe che sentiva un po' tremanti dalla fatica, riprese la borsa da terra e si incamminò verso il museo, per portare a termine il proprio compito.

*****

Per più di due ore era rimasta nell'ufficio della sicurezza del museo. Quando ci si metteva, mr Thompson – irreprensibile capo della vigilanza del museo e suo personale incubo – sapeva essere pignolo come pochi altri. Aveva preteso di verificare parola per parola l’intero dossier e il rapporto della simulazione di intervento d’emergenza che lei gli aveva consegnato. L’aveva tenuta lì, sull’attenti, alzando di tanto in tanto la testa da quei fogli per scrutarla con il suo solito sguardo accigliato e severo. E Cora, durante tutto quel tempo aveva sentito lo stomaco iniziare a reclamare con ruggiti simili a quelli di un leone affamato. Del resto, aveva dovuto saltare la colazione.
Quando finalmente riuscì a uscire dall'ufficio di Thompson, si ritrovò catapultata in un'altra realtà: il sole era tornato unico protagonista in quel cielo azzurro così terso che sembrava da fiaba. Si stupì di tale piacevole cambiamento. Respirò a pieni polmoni quell'arietta frizzante così rigenerante e si stiracchiò, lasciandosi andare anche a uno sbadiglio, prontamente coperto con la mano. Non le pareva vero di essere libera.
Trattenne un altro sbadiglio.
Nonostante le temperature ancora decisamente fredde, che le davano una sferzata di energia, iniziava a sentire il peso della bravata della notte precedente. Tante volte si era ripromessa di non cedere più alla “serata playstation”, nella quale finiva irrimediabilmente per perdere il controllo della situazione e dei nervi; eppure, quella sera non aveva resistito alla tentazione di rispolverare un vecchio videogioco e di sfidare Chris un'ultima volta.
Loro due si erano conosciuti alle superiori. Era stato il classico colpo di fulmine, almeno per lei, ma per quasi tutto il primo anno non si erano mai rivolti la parola, nonostante avessero gli armadietti vicini e un paio di corsi in comune. In classe, lei lo fissava sempre, ma senza trovare il coraggio di avvicinarlo. Ma una volta rotto il ghiaccio, non ci misero molto a trovarsi affiatati e a iniziare a frequentarsi con regolarità anche fuori dalla scuola. Infine, come succede nelle fiabe moderne, lui le aveva fatto la dichiarazione alla serata del ballo dell'ultimo anno. Poco importava che avesse scelto proprio il momento in cui tutti erano raccolti sotto il palco per la proclamazione di Roy, un tipo snob ma dal promettente futuro da DJ, e Shirley, la sua migliore amica, come re e la reginetta del ballo. Quella dichiarazione, per Cora era stata la più bella ed emozionante del mondo. In seguito, dopo il diploma, nonostante i pareri contrari di tutti – dei genitori di lui soprattutto – erano andati a convivere, senza però rinunciare a continuare gli studi.
Quella era stata la condizione imprescindibile imposta da Teresa affinché desse il suo benestare ai due giovani; acquistò per loro un appartamento, ma pretese che si trovassero un lavoro part-time per mantenerlo.

Cora chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, sorridendo felice. Era consapevole che stava per aprirsi un nuovo capitolo della sua vita. Iniziò a scendere i gradini uno alla volta, guardandosi attorno: sembrava tutto uguale a come era sempre stato, eppure ai suoi occhi tutto era diverso, più bello. Imboccò uno dei vialetti del giardino che costeggiava l'ala sinistra del museo e passò davanti alle statue di bronzo. Sorrise quando arrivò di fronte a quella dedicata a Rocky.
«Ciao, sfigato!» salutò, facendo anche un cenno col capo, come una bulletta di strada. «Non fare quella faccia triste, non ti hanno mica gonfiato come un sacco! Almeno non negli ultimi giorni, giusto? Dai, sorridi un po’!» lo esortò, girandogli attorno un paio di volte e ridendo apertamente. In quel momento nei paraggi non c'erano turisti e lei poteva parlargli senza problemi. «Oggi credo che sarà l’ultimo giorno che tu e io ci vedremo.»
Per Caroline “Cora” Miller quel luogo aveva rappresentato una parte importante della sua vita fin dalle prime settimane dal suo arrivo a Philadelphia. Si era sentita spaesata e abbandonata, in quella nuova città a lei del tutto sconosciuta, quando con la madre e il fratellino si era trasferita per ricominciare da capo. In quella figura statica aveva trovato una persona silenziosa che era disposta ad ascoltare i suoi turbamenti di adolescente in crisi. E lei… lei aveva sfogato tutto il peso che a quel tempo si portava addosso: la cupezza che regnava nella sua famiglia, monca della sua colonna portate e la mancanza di attenzioni della madre, che nel suo dolore legittimo di vedova pensava solamente al nuovo membro della famiglia. Quel fratellino nato nel giorno tanto sognato dalla madre, quello stesso 30 maggio che accomunava ora tutti e tre. La piccola Caroline, un tempo al centro dell’attenzione di tutti, si era ritrovata sola e messa da parte. E doveva imparare a essere indipendente e responsabile, per non pesare sulla madre. Ma a quel tempo era troppo per lei.
Cora abbassò la testa, per nascondere gli occhi lucidi che le stavano venendo nel ricordare il suo primo incontro con il suo “amico”.
Era stata una giornata in cui tutto era andato storto. Aveva preso lo zaino ed era scappata di casa. Aveva girovagato per le strade di quartieri che non conosceva; si era avventurata fra i sottopassaggi della metropolitana; aveva preso un paio di treni, senza avere una meta precisa e, infine, una volta tornata in superficie, aveva camminato ancora, ritrovandosi per caso di fronte a “lui”. Lo aveva scrutato per diversi minuti, con gli occhi gonfi di lacrime. Sapeva di averlo già visto da qualche parte, ma era troppo stanca perché la sua mente riuscisse a ricordare dove e quando. Aveva lasciato cadere lo zaino a terra e si era seduta ai suoi piedi, appoggiando la schiena al basamento, iniziando a piangere e a parlare, a sfogarsi, fin quando non si era addormentata. Quella fu anche la volta in cui incontrò per la prima volta Robert “Cerbero” Thompson, quando una delle guardie giurate, che stava entrando per iniziare il turno di notte, la vide e la portò nel suo ufficio.
Il suo periodo di ribelle terminò poco dopo, quando verso la fine dell'anno, Phillip Burton fece domanda anticipata di pensionamento e si trasferì anche lui a Philadelphia, per mantenere la promessa che aveva fatto a Greg e adempiere ai suoi doveri di padrino di Caroline.
Ora Cora era cresciuta, era diventata donna e da tempo aveva lasciato la casa materna per vivere la sua vita. Cosa più importante però, aveva scacciato da sé quel senso di solitudine e incomprensione che l’aveva attanagliata da ragazzina, recuperando l’amore della madre e imparando ad amare il fratellino. Tutto questo era avvenuto anche grazie al sostegno di Phillip che, con la sua sola presenza – che voleva essere autoritaria e di guida, ma che tradiva la benevolenza di un vero zio – aveva riunito e reso più forti i legami della famiglia, restituendo loro un confortante senso di sicurezza.
Cora tirò su col naso. Le era difficile frenare la commozione nel ripercorrere con la mente quegli anni difficili. «Sono libera, adesso», disse, guardando dritto negli occhi il suo “amico”. «Ho assolto l’ultimo impegno e posso partire. Posso tornare a casa… finalmente.»
Si rattristò nel pronunciare quelle ultime parole: non era mai riuscita a considerare Philadelphia come una possibile casa, il suo chiodo fisso era sempre stato quello di tornare a Boston. E ora stava per realizzare quel desiderio. Sapeva che quello era il momento giusto.
Si passò rapida una mano sugli occhi, per intercettare una lacrima che voleva scappare via. Fece un respiro profondo con la bocca aperta, sforzandosi poi di sorridere, perché il futuro era incerto e meraviglioso allo stesso tempo, pieno di possibilità che lei doveva solo cogliere. Rivolse un altro cenno di saluto alla statua di bronzo di Rocky e si allontanò con l'animo più sereno. La prossima tappa sarebbe stato l'ufficio dello zio Phil e lì sarebbero stati guai. Ma prima... prima aveva bisogno di mettere a tacere i crampi allo stomaco che si stavano facendo sentire di nuovo.
Percorse quel vialetto a passo spedito. Davanti a sé, a poche decine di metri, già si intravedeva l'incrocio e le strisce pedonali che doveva attraversare. Si distrasse un momento abbassando la testa e sfregandosi gli occhi sotto le lenti scure, quando dalla curva incrociò, quasi all'improvviso, due ragazzi. Quello che sembrava il più giovane – anche lui distratto – le urtò il braccio, proseguendo senza scomporsi, né voltarsi o fermarsi per scusarsi. Pochi passi più indietro invece, l'altro abbozzò un sorriso e fece un lieve cenno del capo.

«Aiolos! Eccolo, è qui!» lo chiamò il giovane, gesticolando col braccio verso un punto preciso. La voce entusiasta di Aiolia risuonò nell’aria, vivace e un po’ infantile.
Percorse quegli ultimi metri che lo separavano dalla statua di bronzo di Rocky accelerando il passo sempre di più; e, quando infine vi si fermò di fronte, si girò verso il fratello con gli occhi luccicanti di gioia.
«Che delusione però…» mormorò, una volta scemato l’entusiasmo. «Non vedevo l’ora di fare la scalinata e alzare le braccia al cielo accanto al mio eroe. Invece hanno relegato la statua qui, praticamente nascosta.» Si avvicinò di più per studiarne meglio i dettagli «Ha un qualcosa di strano. È diversa da come me l’ero immaginata e da come appare nelle foto», commentò, mentre ci girava attorno.
«Ma dai, Aiolia, quello che dici tu era solo finzione scenica, era un film. Sai bene che sullo schermo appare tutto più grande, diverso. E poi, la corsa su per la scalinata la potevi fare ugualmente», rispose con estrema calma Aiolos, che non condivideva affatto lo stesso entusiasmo del fratello, né gli piaceva dare di sé l’immagine di un turista fanatico.
«Sì, ma… sarei sembrato un cretino», ribattè mestamente il primo, trovando conferma nell’espressione del fratello, che gli stava sorridendo malizioso.
«Anche a correre in quel modo per le strade, agitandoti come un ossesso, fai la figura del cretino. Per non parlare del fatto che vai addosso alle persone e neanche ti scusi. Comunque sia, alla fine l’abbiamo trovata lo stesso, no? Non è questo l’importante?»
«Però non è la stessa cosa trovarla in questo parchetto invece che al suo posto», insistette Aiolia, non ancora convinto e sempre più deluso.
«Ma te l’ha spiegato la guida del museo: la collocazione abituale della statua è questa! Solamente in occasioni particolari viene spostata in cima alla scalinata.»
Aiolos lo guardò con esasperazione, sbuffando stancamente. Sapeva che far capire le cose al fratello, quando si metteva in testa un’idea tutta sua, era un’impresa ardua e ci voleva tanta pazienza.
«Dai, mettiti in posa che scatto questa benedetta foto, così possiamo riprendere i nostri affari», gli disse, non troppo gentilmente, controllando l'ora e valutando quanto tempo ancora poteva permettersi di perdere appresso a quelle stupidate. «L’appuntamento con il direttore del museo è fra meno di venti minuti», gli ricordò. Si tolse il guanto di pelle e tirò fuori dalla tasca del cappotto l’iPhone 3GS, selezionando la funzione di fotocamera. Poi, inquadrò il fratello e scattatò la foto.
«Aspetta! Un’altra ancora. Facciamoci un selfie!» lo trattenne Aiolia, dopo che l'altro, avvicinatosi a lui per mostrargli il risultato, stava per riporre l'apparecchio in tasca, pronto a ritornare sui suoi passi.
Il giovane gli prese di mano l’iPhone e gli mise un braccio sulle spalle, sballottandolo un poco per metterlo in posa accanto a sé. «Sorridi!» lo incitò con la bocca già tirata in un sorriso esagerato. Lo scatto fu rapido e, subito senza pensarci due volte, iniziò a smanettare.
«Che stai combinando?» chiese Aiolos, risistemandosi il cappotto.
«Sto mandando la foto a mamma e papà!» rispose Aiolia, tutto contento. «E poi la posto sul mio profilo facebook! Così la vedranno anche i miei amici.»
Aiolos si limitò a sbuffare e, senza aspettare oltre, si incamminò verso l'entrata del museo.

*****

Cora rientrò in ufficio rilassata e di buon umore, dopo una lunga passeggiata, durante la quale aveva soddisfatto le esigenze del suo stomaco. Ad attenderla, sulla scrivania c’era ciò che si poteva definire “la consueta montagna di scartoffie” se non fosse stato che, nei giorni precedenti, aveva programmato tutto affinché non le rimanessero arretrati. E invece, eccoli lì: appunti sparsi su qualsiasi cosa potesse essere usata per scrivere che andavano riordinati, trascritti al computer e inseriti nei fascicoli dei rispettivi casi; cartellette di casi aperti mischiati a quelli già chiusi e da archiviare per la centesima volta; e materiale di vario genere da visionare, catalogare, etichettare e smistare.
Nessuno aveva ancora capito come il suo capo riuscisse a raccogliere tanto materiale in così breve tempo; e altrettanto mistero era come ancora non vi fossero rimasti seppelliti, visto che in quell'ufficio la tecnologia sembrava bandita, se non si contavano i due computer vecchi di cinque anni, comprati a un discount e che servivano giusto per svolgere qualche semplice operazione, come: ricerche superficiali, trovare indirizzi, ordinare la cena in qualche locale che faceva servizio da asporto, scrivere lettere e rapporti per i clienti e mandare email. Phillip Burton era affezionato ai metodi tradizionali, per quel che riguardava le indagini, ovvero scarpinate per le strade, appostamenti a ogni ora del giorno e della notte – se necessario –, macchina fotografica sempre a portata di mano, scorte di rullini e contatti di persona con informatori di ogni tipo. Insomma, l'abc della vecchia scuola!
Cora fissò sconfortata quella massa informe che giaceva lì, in sua attesa. In mano reggeva un enorme bicchiere di tè verde ghiacciato – nonostante fosse febbraio – e nell’altra stringeva l’ombrello e la tracolla della borsa. In bocca invece, reggeva un sacchettino di carta con dentro due ciambelle glassate, comprate al chiosco in fondo alla strada, all’incrocio con una via molto trafficata.
Fece vagare i suoi occhi a ispezionare quel marasma, arrendendosi poco dopo all’evidenza dei fatti: non c’era il ben che minimo spiraglio per poter appoggiare uno spillo, figurarsi la sua roba.
«Ma quell’uomo lo fa apposta a riempirmi di lavoro per non farmi più partire?» biascicò con il sacchetto fra i denti. «Ieri pomeriggio non c’era un foglietto fuori posto, se pensa che così facendo io cambi idea… si sbaglia di grosso!»
Col piede spostò più indietro la sedia e vi appoggiò la borsa e l’ombrello. Poi, con una sbracciata attenta fece spazio fra vhs, cd-rom e dvd vari, riuscendo a recuperare un angolino per poter posare i “rifornimenti”.
Non aveva però ancora appeso il cappotto e la sciarpa quando, sostando un attimo di troppo davanti alla porta di vetro dell’ufficio privato di Phillip, le giunsero alle orecchie strani mugolii e rumori non proprio discreti, che poco si confacevano a un ambito lavorativo professionale. Scrollò la testa, volgendo lo sguardo verso Mickey, che se ne stava seduto tranquillo sul divanetto in fondo alla stanza, con gli auricolari alle orecchie e impegnato a fare i compiti di scuola.
Stava provando a tenersi impegnata a mettere ordine in quel caos, per non dover pensare a ciò che succedeva nell'altra stanza, ma un orecchio era sempre ben teso. Era una situazione così surreale e anche imbarazzante. Dall’altra parte di quella porta c’erano due adulti che si stavano comportando come dei ragazzini con gli ormoni impazziti.
Cora alzò lo sguardo sul bambino: Micheal Gregory Miller, il suo fratellino ormai quasi undicenne. Era l’ultimo nato nella famiglia Miller ed era il ritratto vivente del suo defunto padre; almeno di come lei lo ricordava con gli occhi di bambina e di come appariva nelle vecchie fotografie scattate durante le vacanze estive. Ciò che del padre era maggiormente impresso nella sua mente erano i morbidi riccioli neri e gli occhi castano scuro, profondi e scrutatori, ma anche vivaci, curiosi e fiduciosi: esattamente gli stessi di Mickey. Tutto aveva ereditato dal padre, dalla forma armoniosa degli occhi, a quella delle orecchie, sottili e ben proporzionate. Anche il particolare modo che aveva di sorridere – lo stesso che la madre le aveva confidato che l’aveva fatta innamorare a prima vista – era in tutto e per tutto simile a quello del padre. Perfino nel carattere del bambino si poteva ritrovare quello del genitore scomparso, nonostante lui non avesse avuto la possibilità di prenderlo a modello perché non l’aveva mai conosciuto: gentile, disponibile, socievole con tutti, semplice, eppure maturo e responsabile. Mickey riusciva a trovarsi a suo agio sia con i ragazzi della sua età, sia con gli adulti, grazie all'innata capacità di farsi voler bene da tutti. Con le ragazze poi, era un vero rubacuori. Negli anni passati, ma qualche volta capitava anche ora, Cora si soffermava a guardare il suo fratellino e provava una certa invidia: per lui tutto sembrava facile. Quando era bambina, anche per lei era stato così, poi c'era stato il lutto; e tutto divenne complicato. La spontaneità e l'entusiasmo si erano tramutati in diffidenza e distacco, mentre negli ultimi due anni era sopraggiunta un bel po' di incoscienza.

Si girò di nuovo verso la porta dell'ufficio di Phillip, da dove arrivavano mugolii e risate divertite. Come poteva lavorare in quelle condizioni?
Sbuffò, mormorando che era meglio se controllava le email. Però quei “rumori” si facevano più forti e indiscreti. Si massaggiò le tempie per qualche secondo; poi, dopo essersi alzata con cautela, spalancò la porta beccandoli in flagrante.
«Ancora a tubare come due colombi in amore? Vi prego, almeno non in ufficio!» esclamò, a metà fra lo scandalizzato e lo scocciato. «Siete fortunati che Mickey è di là, tranquillo, con la musica nelle orecchie e non vi sente. Ma se fosse entrato qui che razza di spettacolo avreste offerto a quel povero bambino? Avreste potuto traumatizzarlo!» li rimproverò, dando loro le spalle e socchiudendo la porta, così da nascondere l'imbarazzo che provava nel vederli avvinghiati in quel modo.
Sua madre era una donna ancora molto attraente e, nonostante le due gravidanze – e nessuna frequentazione assidua di palestre di alcun genere – era riuscita a mantenere un fisico invidiabile; addirittura sembrava più in forma che in passato. Non dimostrava affatto i suoi quarantasei anni di età; anzi, quelle volte che uscivano assieme per fare shopping, o pranzavano da qualche parte, o magari facevano anche solo una passeggiata, venivano facilmente scambiate per sorelle.
Quando si girò di nuovo, Cora dovette distogliere lo sguardo: proprio non riusciva a vederli abbracciati e farsi le coccole teneramente, ma non perché disapprovasse che la madre si fosse rifatta una vita, né la scelta del compagno, solo... era sua madre!
I due avevano ormai una relazione più o meno esplicita da circa otto anni e Cora aveva sempre voluto bene a Phillip Burton: era un secondo padre per lei e aveva cresciuto Mickey come fosse stato suo figlio. Praticamente erano diventati una famiglia anche senza una vera e propria ufficializzazione legale.
«Se proprio volete fare certe cose, la porta alla vostra destra conduce dritta al vecchio bilocale. Varcatela e buon divertimento!» Cora alzò involontariamente la voce, il suo livello di imbarazzo era arrivato alle stelle.
«Che succede, sorellona?»
Mickey sbucò fuori dal nulla, curioso di sapere il motivo della discussione e di tanta agitazione da parte della sorella.
La giovane si voltò di colpo, colta alla sprovvista e rossa in viso. «Niente, non è niente, sono cose da adulti. Torna di là a finire i compiti oppure gioca al computer.»
Sospinse il fratellino fuori e chiuse di nuovo la porta. Per qualche secondo rimase appoggiata con la fronte al vetro, sbuffando per lo scampato pericolo. Poi, si girò verso i due adulti e si avvicinò alla scrivania. «Allora, vi decidete a formalizzare la cosa una volta per tutte e comportarvi come persone della vostra età oppure…» iniziò a dire, incrociando le braccia al petto e fissandoli per diversi secondi. «oppure volete continuare a chiudervi in questo ufficio a fare… quelle… quelle… Oh cielo, avete capito, vero?» terminò, con l'imbarazzo che ormai aveva preso il controllo, facendola addirittura balbettare.
«Ma di cosa stai parlando?» chiese Teresa, scendendo con estrema calma dalle gambe dell’uomo, che a quel punto sembrava imbarazzato almeno quanto Cora, anche se per motivi diversi. «Ti prego di non essere così teatrale», le disse la madre, risistemandosi i vestiti. «Invece di dire tutte queste sciocchezze da bacchettona perbenista, perché non torni a casa più spesso e stai attenta ai discorsi che si fanno? Così sapresti che il matrimonio è stato fissato per settembre e che Mickey è a dir poco entusiasta! Si è anche proposto come testimone, il mio piccolo caro.»
La donna addolcì il tono di voce nel riportare alla mente con quanto fervore il bambino avesse dato la sua approvazione e si fosse auto nominato testimone, nonostante l’età glielo impedisse.
«Ma in fondo, che ne puoi sapere tu che vieni a trovarci sì e no una volta ogni sei mesi? Quando ti ricordi, naturalmente. E sì che abitiamo proprio sopra l’agenzia! Piuttosto, Caroline», cambiò argomento la donna, fissando la figlia con piglio severo. «dove sei stata fino a quest’ora? Sono le quattro passate e tu dovevi essere in ufficio dalle undici di questa mattina!»
«Cora, mamma, mi chiamo Cora!» sbuffò la ragazza, tornando alla sua scrivania.
«Ancora con questa storia? Il tuo nome è Caroline! Questo è quello che ho scelto assieme a tuo padre per te e questo hai!» la rimbrottò Teresa, seguendola a grandi falcate, lasciando così modo a Phillip di “rilassarsi” e rimettersi in ordine.
«Sì, sì, il solito ritornello», borbottò Cora, accovacciandosi davanti alla cassettiera della scrivania e iniziando ad armeggiare con uno dei cassetti che non voleva saperne di aprirsi. «E comunque, papà non ci badava a queste cose.»
«No! Tuo padre ti assecondava in questo tuo gioco infantile di cambiare il nome, solo per farti felice. La questione è diversa! E dimmi, quanti ne hai cambiati finora di nomi? Cinque? Sei? Uno più strambo dell’altro, oltretutto.»
«E tu invece, quante volte li hai usati per i tuoi personaggi? Eh? Ogni volta che ne trovavo uno che mi piaceva, tu me lo rubavi per uno dei tuoi racconti!» rispose per le rime la giovane, distogliendo per un attimo la sua attenzione dal suo lavoro di scassinatrice in erba.
«Beh, puoi stare tranquilla che questo non te lo rubo di certo. Santo cielo, sembra il nome di un cane!» E con quella stoccata finale Teresa attese la reazione seccata della figlia.
Cora dal canto suo non ribatté, ma si vedeva che si stava innervosendo. Ciò che agli occhi della madre non era però chiaro era se lo fosse con lei, oppure con il cassetto che continuava a maltrattare. Dopo qualche secondo, la donna uscì dalla sala d'attesa dell'agenzia investigativa portando con sé il figlio, visto che era l'ora della merenda.
«A papà sarebbe piaciuto…» si lasciò sfuggire sottovoce Cora, mettendo il broncio come una ragazzina. «Ah, a proposito, mamma, più tardi passo a prendere un paio di cose che voglio portarmi via!» urlò, prima di arrendersi e mandare al diavolo quel cassetto che proprio non voleva saperne di cedere.
«Potresti almeno darle una piccola soddisfazione», la rimproverò Phil, appoggiato con la spalla allo stipite della porta del suo ufficio, rivolgendole uno sguardo triste e paterno.
Cora sbuffò: sapeva che l'uomo aveva ragione. Certe volte le era più facile escludere la madre, piuttosto che darle la possibilità di lasciarsi avvicinare. «Te la caverai qui in ufficio senza di me?» gli chiese con tono mogio, senza guardarlo in faccia. Poi, gli fece indendere che ci avrebbe provato a darle una chance.

*****

Lo aveva promesso, ma ora non ne era più molto sicura; soprattutto non voleva discutere ancora una volta con lei. Cora rimase ferma di fronte alla porta dell’appartamento per qualche minuto, strusciando nervosamente le suole delle scarpe sullo zerbino nuovo. Quando era stata l’ultima volta che era entrata in quella casa? Si portò le mani a nascondere il viso per la vergogna: era stato per il pranzo di Capodanno.
Non aveva tutti i torti la madre a rinfacciarle che poteva farsi vedere più spesso: erano davvero pochi i gradini che dividevano l’ufficio dell’agenzia investigativa dalla casa della sua adolescenza.
Tutto il suo mondo era racchiuso in una piccola palazzina di tre piani, collocata in una zona molto tranquilla di Philadelphia, in un quartiere con i viali alberati, le case dai classici mattoni a vista e le cancellate in ferro battuto, scure ed eleganti. E l’agenzia investigativa di Phillip Burton si trovava al secondo piano.
Cora non sapeva bene cosa la tratteneva dal varcare più spesso quella porta, non erano certo gli attriti con la madre e non era neanche la tanto desiderata indipendenza dal nido materno. Fece un sospiro profondo e aprì la porta. Era esattamente come se la ricordava, con quella sua rassicurante e nostalgica atmosfera familiare, sempre uguale a se stessa in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo; con gli stessi mobili, le stesse cianfrusaglie disposte nello stesso modo, gli stessi quadri alle pareti, sempre dello stesso colore. Poteva sembrare che la vecchia casa di Boston avesse preso il posto di quella di Philly, anche l'odore era lo stesso, ma in realtà non lo era.
«Alla buon’ora! La cena sarà pronta fra mezz’ora.» La voce di Teresa risuonò forte e allegra dalla cucina, come se quel pomeriggio non fosse accaduto nulla fra loro due. «Vieni ad apparecchiare la tavola e non ammetto un “no” come risposta, Caroline!» aggiunse, per smorzare subito le eventuali proteste della figlia.
«Ma come hai fatto a capire che ero io?» le domandò, affacciandosi in cucina.
«Perché sei l’unica che chiude piano la porta d’ingresso e lo fai per non dare nell’occhio.»
«Comunque sia», riprese lei, con leggero imbarazzo per la disponibilità della madre, «sono venuta solo per prendere alcune cose, non posso fermarmi», disse, avviandosi verso lo studio.
«Caroline, per piacere… Almeno per questa sera, resta a mangiare con noi.» Lo sguardo della donna si intristì subito, mentre si asciugava le mani con lo strofinaccio. Sapeva bene cosa la figlia era venuta a prendere: quel momento l'aveva sempre temuto. «Anche se non sono d’accordo con la tua decisione di tornare a Boston, non vuol dire che tu debba evitarmi in questo modo», le disse, fermandosi sulla soglia del suo studio.
«Eccolo qui. Finalmente è arrivato il momento», mormorò Cora, afferrando il vecchio e polveroso scatolone bianco, che per anni era rimasto in cima a quella libreria. Barcollando un poco, scese dalla sedia con lo scatolone fra le mani. I suoi occhi non vedevano che quello, sulle sue labbra era stampato un sorriso emozionato.
«Caroline...» la pregò di nuovo la madre.
«Non ti sto evitando, mamma, lo sai bene. Ma devo attraversare mezza città per tornare a casa e voglio terminare di inscatolare le mie cose.»
«Peccato, avevo preparato la torta al limone che ti piace tanto. Saremo costretti a mangiarla tutta noi», sospirò la donna, facendo dietrofront e tornando in cucina.
«No! Non è giusto!» esclamò, Cora. «Questo è un ricatto morale bello e buono! Non puoi fare il mio dolce preferito e non darmene neanche un pezzetto…»
Ancora scalza, a passo svelto seguì la madre fino in cucina, dove la trovò intenta a togliere il dolce dalla tortiera. Lo fissò con occhi languidi, mentre il suo stomaco iniziò a farsi sentire.
«Devi solo rimanere a cena.»

*****

«Oh merda!» urlò Caroline, dalla camera da letto, rompendo l'armonia di quella tranquilla serata in famiglia.
Subito dopo cena, con il piattino del dolce in mano, Caroline si era riappropriata per un paio di ore della sua vecchia camera. Il suo letto a una piazza e mezza era pieno di fogli di giornali vecchi, tanti oggettini che attendevano solo di essere imballati, libri, quaderni e un paio di fotografie incorniciate.
«Tesoro, modera il linguaggio!» la rimproverò la madre dalla cucina, impegnata a finire di sistemare. La donna non aveva mai tollerato tali volgarità, soprattutto se uscivano dalla bocca della figlia. Se da ragazzina poteva tenerla a bada e punirla, ora che era diventata adulta poteva solo riprenderla a voce e sperare che, in cuor suo, almeno il figlio più piccolo non ne venisse influenzato.
La ragazza uscì dalla camera come un uragano e si precipitò nel salotto, dove Phillip, seduto comodamente in poltrona, stava leggendo il giornale. Si avvicinò a lui a grandi passi e, con un impeto dettato dalla rabbia e dal terrore, gli sventolò sotto il naso un’edizione vecchia di alcuni giorni del Philadelphia Inquirer che stava usando per imballare le sue cose.
«Zio Phil, che… che…» balbettò, iniziando a respirare a fatica. «Che significa questa storia?»
L’uomo alzò lo sguardo dall'articolo che stava leggendo, rimanendo per qualche secondo inebetito dallo stato di agitazione della giovane. Prese dalla sua mano tremante il giornale e diede una scorsa, aggrottando poi la fronte nell'individuare cosa stesse sconvolgendo la figlioccia.
«Lo hanno scarcerato!» gridò ancora una volta lei, furibonda. «Ma ti rendi conto? Saranno passati quanto, neanche due anni! E lo hanno già scarcerato!» Cora si avvicinò a lui e col dito iniziò a battere insistentemente sulla carta spiegazzata.
«A quanto pare il suo avvocato ha ottenuto l’invalidamento dell’arresto e il conseguente annullamento del processo e della condanna», commentò con voce pacata l’uomo, nascondendo molto bene la rabbia che ribolliva furiosamente anche in lui. Sapeva che era importante mantenere calma e lucidità, soprattutto in casa. «Non possiamo farci nulla, questa è la legge.»
Con molta lentezza si tolse gli occhiali da lettura, li appoggiò sul tavolino lì accanto e si massaggiò la base del naso, insistendo molto nel punto dove i poggia naso avevano lasciato un segno profondo. Si alzò e diede le spalle alla ragazza.
«È inconcepibile una cosa del genere!» inveì di nuovo Cora, riprendendo in mano quel giornale e stringendolo tanto forte da strapparlo in alcuni punti. «Dopo tutto quello che quel mostro ha fatto… e loro lo hanno lasciato andare in questo modo, per un cavillo!» continuò, accalorata dalla collera che aumentava sempre di più.
Tanta indignazione in Cora era giustificata dalle sofferenze che aveva patito per riuscire a far arrestare e condannare quello squilibrato. Eppure, adesso che pensava fosse tutto passato e che finalmente aveva rimesso in piedi la propria vita, le sembrava dovesse di nuovo andare in pezzi.
«Non si è fatto neppure due anni di galera», mormorò, camminando irrequieta avanti e indietro: le sue braccia si erano strette allo stomaco che aveva iniziato a farle male. Poi, dopo qualche minuto di silenzio, alzò lo sguardo sull'uomo che ancora le dava le spalle. «Tu lo sapevi, non è vero?» gli chiese, ora con una strana calma nella voce, ma nei suoi occhi c'era già la voglia di piangere.
Non attese la risposta della persona di cui si era sempre fidata ciecamente. Sbatté con violenza il giornale sul tavolino e, con passi pesanti, si rifugiò di nuovo nella sua vecchia stanza, dalla quale però ne uscì poco dopo. Non rivolse più la parola a nessuno, prese uno degli scatoloni che si era preparata e infine uscì, sbattendo la porta.

Quel giornale, tutto spiegazzato, sembrava ora giacere dimenticato sul tavolino del salotto, con quel maledetto articolo di cronaca ben in vista.


*****



Accusato di cinque aggressioni e un omicidio, ora è libero. Arresto invalidato, pena sospesa
Scarcerato Johnson Deline, il "maniaco di Philly"
Una decisione che non mancherà di suscitare accese polemiche


Edward Jenkins, Philadelphia.
Una nuova controversia giudiziaria dai contorni poco chiari sta attualmente suscitando scalpore tra l’opinione pubblica: oggi, 15 febbraio 2010, Johnson Deline, meglio conosciuto come "Il maniaco di Philly" è stato scarcerato. Arrestato e processato nel 2007, era stato dichiarato dall’allora giuria colpevole di cinque aggressioni di natura sessuale e un omicidio. In risposta all’indignazione dei legali delle vittime di Deline, il giudice Samuel Lee Richardson ha giustificato con fermezza la sua decisione spiegando come la sentenza fosse da ritenersi invalida, poiché caratterizzata da un’irregolarità procedurale. Un piccolo e insignificante cavillo, al quale tuttavia l’avvocato difensore di Deline – Frank Goletti – ha fatto lungamente leva sin dal primo verdetto. Appena uscito dal carcere, Deline è stato preso d'assalto dai giornalisti che hanno cercato di strappargli una dichiarazione per ricevere invece nient’altro se non un sorriso disteso – ma c'è chi sostiene fosse di scherno – e una frase enigmatica quanto la vicenda che l'ha visto protagonista. "Sono felice che la giustizia abbia fatto il proprio corso", ha affermato tranquillo Deline, circondato dal suo avvocato e dal fratello minore.
Le zone d'ombra, tuttavia, non mancano. Chi è realmente Deline?
Trent'anni, altezza decisamente sopra la media, atteggiamento composto da bravo ragazzo, sottolineato dalla sua chioma riccioluta che sembra portare una nota sbarazzina in una figura altrimenti indecifrabile. Il prototipo del “ragazzo della porta accanto”, riassumendo. Eppure, malgrado l’apparenza insospettabile, tra il 2006 e il 2007 la metropolitana era divenuta il palcoscenico ideale per le sue efferate aggressioni ai danni di giovani donne, perlopiù studentesse universitarie di età compresa fra i 19 e i 25 anni, l'ultima delle quali, Cecily Gibson – nipote del giudice della corte suprema, ora in pensione, Jack Gibson – era stata trovata strangolata vicino all’uscita della metropolitana all’interno della stazione ferroviaria. Fu grazie alla preziosa collaborazione nelle indagini dell'investigatore privato Phillip Burton – ex capitano di polizia di Boston – se nel 2007 fu possibile l’arresto di Johnson Deline, da lui identificato come il "maniaco di Philly": ad incastrarlo fu il risultato del riscontro dei campioni di DNA in possesso della polizia con quelli trovati durante la perquisizione nell'abitazione dell'uomo. Il processo, che lo vedeva imputato per cinque aggressioni sessuali e un omicidio, terminò con una condanna a 45 anni di carcere. Sentenza che ovviamente aveva scontentato le vittime e i familiari che avevano fino all’ultimo sperato nel carcere a vita.
L’unica consolazione era che almeno Deline fosse destinato a scontarla interamente finché, qualche giorno fa, mr Goletti, dopo innumerevoli ricorsi, riuscì a far invalidare l'arresto per un vizio di procedura, chiedendo l'annullamento del processo e l'immediata scarcerazione del suo assistito. Richiesta incredibilmente accolta: il riesame del caso ha fatto decadere tutte le accuse a suo carico e rese inammissibili le prove raccolte. Rimangono forti le perplessità in merito alle motivazioni emerse, laddove la legge – e chi trae guadagno da essa – appare più intenta a raggiungere la perfezione formale che non a tutelare i cittadini.
Permangono forti dubbi sul mantenimento della sicurezza pubblica, ora che questo personaggio è tornato a circolare libero.





Note del capitolo:
Rocky's Steps: letteralmente gli scalini di Rocky; quelli apparsi nella pellicola cinematografica del primo film della serie di Rocky e che appunto portano all'entrata est del Museum of Art.
Penn Law: è la facoltà di giurisprudenza dell'università della Pennsylvania, ubicata a Philadelphia, è una delle più antiche e prestigiose università degli Stati Uniti.
Selfie: praticamente sono degli auto scatti fatti con i cellulari, smartphone e simili. Anche se pare che questa moda si stia diffondendo in modo esponenziale solo in questi ultimi anni, questo tipo di foto è stato reso celebre dal film Thelma e Louise del 1991, nel quale proprio le protagoniste si prestano ad un autoscatto.
Philly: è il nome con cui familiarmente viene chiamata la città di Philadelphia dai suoi abitanti.
The Philadelphia Inquirer: è il quotidiano più diffuso nella città di Philadelphia;
Per l'articolo, ringrazio in mio cronista d'assalto Edward Jenkins e per l'ultima revisione finale, ringrazio il mio correttore di bozze "anonimo" (spedito oltremanica a farsi le ossa) che gli ha dato gli ultimi ritocchi per renderlo più in stile "anglosassone". Per quel che riguarda il contenuto dell'articolo invece, la condanna comminata è volutamente inferiore all'effettiva pena che andrebbe comminata per un omicidio, ovvero l'ergastolo o in casi estremi anche la pena capitale.
(Le persone e i fatti riferiti all'interno dell'articolo non sono reali.)






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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***




VI



«Uffa! Ma perché siamo finiti qui?» chiese Aiolia, camminando qualche passo dietro al fratello. «Non potevamo prendere l'auto che avevamo oggi pomeriggio?» sbuffò, continuando nella sua andatura un po’ ciondolante, borbottando altre lamentele che arrivavano alle orecchie del fratello come un ronzio fastidioso.
«Forse, se qualcuno di mia conoscenza non avesse tanto insistito per assistere alla mostra dedicata al cinema, perdendosi poi più e più volte in contemplazione per ogni oggetto di scena presente…» intervenne Aiolos, «per non parlare che sempre quella stessa persona», e alla parola “persona” diede un’inflessione particolarmente sarcastica, «si è comportato come un fanatico dodicenne, nella sezione privata dedicata a Rocky Balboa, attirando gli sguardi di tutti gli invitati su di noi, facendomi di conseguenza vergognare…» continuò con noncuranza, guardando distrattamente davanti a sé. «E, non contento, a mia insaputa ha pure licenziato il nostro autista dicendo che non serviva più la sua presenza… non ci troveremmo in questa situazione!»
«Perché devi rigirare il coltello nella piaga in questo modo?» sospirò Aiolia, in tono colpevole. «Non pensavo certo di attardarmi così tanto e... non immaginavo che tu alla fine avessi rifiutato l’invito a cena del direttore del museo», sbuffò di nuovo.
L’andatura del ragazzo si fece più lenta e svogliata, aumentando il divario con l'altro. «Però, perché non ne hai chiamata un’altra? Se avessi fatto il nome degli Hayes te l’avrebbero mandata in un attimo!»
«Non ce n’erano altre disponibili con autista», fu la semplice e diretta risposta del fratello maggiore. «E il nome degli Hayes, benché influente anche fuori dai confini del Massachusetts, non apre tutte le porte. Non qui almeno!» continuò, ma questa volta, con un'inclinazione di fastidio.
«E non potevamo prendere almeno un taxi, per tornare in albergo? Perché proprio la metropolitana?»
A volte, Aiolia sapeva essere petulante come un bambino, soprattutto quando vedeva che non gli si dava soddisfazione; ma in quell’occasione era difficile che potesse accadere e le sue parole assumevano via via l’aspetto di strazianti miagolii alle orecchie del fratello maggiore.
«Ma di che ti lamenti? Sei abituato a usare la metropolitana, no? Boston, New York o Philadelphia… che differenza vuoi che faccia?» rispose Aiolos, portato quasi all’esasperazione. Lui voleva solo tornarsene in albergo per farsi una doccia calda e controllare le email in santa calma, prima di coricarsi. «E poi, non eri tu che volevi fare il turista e vivere la città? Quella vera, hai detto! Quale occasione migliore di questa?»
Si girò di tre quarti e lo osservò con un mezzo sorrisino sulle labbra. Le mani ben ficcate nelle tasche del lungo cappotto scuro di cashmere; la destra impegnata a far tintinnare alcuni spiccioli.
«Non è per questo», rispose con tono sottomesso Aiolia, guardando il fratello dal basso in alto, tenendosi a debita distanza, procedendo lungo il passaggio sotterraneo poco illuminato della metropolitana. «È che…»
«Non mi verrai a dire che sei già stanco, vero?» inquisì allora il maggiore, sempre con tono sarcastico. «Forse, passi troppo tempo appiccicato a Saga e ti stai impigrendo», affermò con una punta di veleno nella voce.
Si girò completamente verso Aiolia, fermandosi e lasciandosi superare, per gustarsi appieno l'espressione offesa sul volto del più giovane. La sua attenzione però si rivolse quasi subito al distributore automatico di snack poco più avanti.
«Non è vero! Non sono pigro!» esclamò indignato Aiolia, raggiungendolo di corsa davanti alla macchinetta. «Ti ricordo che faccio parte a pieno titolo della squadra di atletica dell’Università! Sono in perfetta forma fisica!»
Aiolos però non lo stava ascoltando, intento a inserire le monetine nella fessura del distributore, concentrando poi la sua attenzione a valutare l’ampia offerta di merendine e dolci vari disposti in maniera ordinata nei vari scomparti.
«E per quel che riguarda Saga, lui…» riprese Aiolia, pronunciando la parolina magica che fece drizzare le orecchie al fratello, ottenendo di nuovo la sua attenzione. «Credo che tu non lo conosca così bene come pensi, se credi che sia pigro», ribattè con soddisfazione nel vedere l’espressione incuriosita di Aiolos; e i suoi occhi, per la prima volta in quella lunga giornata, si animarono di spavalderia, cancellando in un solo colpo le tante sciocchezze che aveva combinato durante il loro soggiorno a Philadelphia.
«Oh, ma davvero? E allora sentiamo, cosa mai potrebbe fare un tipo come lui che sono anni che non mette fuori il naso dalla villa di Mystic Lake?» disse Aiolos, guardandolo con una smorfia eloquente sulle labbra. «Anzi, è da quando lo conosco che praticamente non ha mai messo piede fuori dalla proprietà! Le rare occasioni in cui ha seguito il padre a New York, o da qualsiasi altra parte, si contano sulle dita di una mano», continuò, anticipando qualsiasi cosa potesse dire il fratello in difesa dell’oggetto della discussione, tornando a guardare la vetrina del distributore di snack.
Ci furono alcuni secondi di silenzio: uno era impegnato nella delicata scelta, mentre l’altro invece non sapeva cosa ribattere.
«Credo proprio che per lui il mondo inizi e finisca entro i confini di quella proprietà; ne ha fatto un vero e proprio santuario. Servito e riverito di tutto punto neanche fosse un re! E so bene cosa dico. La nonna non fa altro che parlare di lui, Shura non la smette di fare paragoni con lui, persino Shion Hayes, quando ne parla, lo tratta come se fosse una cosa santa!» concluse Aiolos, con un certo disprezzo nella voce.
«Ti sbagli! Lui…» Aiolia si trattenne a stento dal parlare troppo.
Si morse nervosamente il labbro per alcuni secondi, vedendo come la bocca di Aiolos, giratosi verso di lui, si stesse inesorabilmente piegando in un ghigno, mentre il suo sguardo diventava sempre più canzonatorio. Cosa doveva fare ora? Aveva forse rivelato troppo per salvare il segreto dell’amico? Aiolos era molto bravo a estorcergli anche le cose più imbarazzanti senza neanche farsene accorgere. In un attimo la sua mente andò a qualche giorno prima.

«Perché non vuoi che si sappia?» gli aveva domandato Aiolia con genuino stupore, spezzando un rametto secco da una delle siepi basse che contornavano il vialetto secondario.
«Perché non me lo lascerebbero fare», aveva risposto Saga, sospirando e guardando la strada che si intravedeva fra gli alberi del boschetto.
«Io continuo a non capire. Cosa c’è di male? In fondo non sei mica un bambino e quello che fai non è illegale, giusto?» aveva insistito il giovane, continuando a camminare a fianco del più grande.
«Lo sai come sono fatti in famiglia», aveva iniziato a spiegare Saga, facendo subito un altro sospiro, quasi penoso. Poi avevano iniziato a incamminarsi sulla stradina che portava al pontile del lago. «Papà e Shura sicuramente direbbero che è una perdita di tempo, che non è qualcosa di adatto a me, che dovrei concentrarmi su altro. Kanon, a lui penso che l'idea piacerebbe e forse vorrebbe anche partecipare, ma poi… so che in qualche modo rovinerebbe le cose.»
Saga aveva tenuto lo sguardo basso nel lasciarsi andare a quella confidenza sul gemello e Aiolia aveva visto come all’altro non sarebbe stato affatto dispiaciuto condividere quella cosa con il fratello. Negli anni aveva visto quanto fossero sempre in sintonia e soprattutto quanto Kanon avesse sempre fatto di tutto per renderlo felice. Per questo non riusciva a comprendere le reticenze dell’amico. Fra le tante fortune di cui godeva, aveva un fratello che lo riempiva di attenzioni, quando le occasioni lo permettevano; non come lui che invece vedeva nell’atteggiamento di Aiolos perlopiù una persona scocciata e sempre troppo calata nel suo ruolo di manager.
«E poi», aveva continuato Saga, «si porterebbe dietro tuo fratello», aveva detto con una punta di delusione nella voce che Aiolia purtroppo ben comprendeva: non era quasi mai divertente fare le cose con Aiolos. «E questa cosa è solo mia. Mi capisci, Aiolia, vero?» gli aveva detto con voce accorata, fermandosi e prendendolo per un braccio. «Quindi, per favore, non dire nulla. Promettimelo!»
In quegli occhi verdi c’era tutta la disperazione del ragazzo che, sebbene ormai adulto al pari di Kanon e Aiolos, manteneva ancora l’entusiasmo e la repentina demoralizzazione dell’adolescente; e Aiolia, ogni volta che lo vedeva in quello stato, si chiedeva come fosse stato possibile per Saga rimanere così “indietro”. Alla fine non aveva potuto sottrarsi a quella promessa.
«Vedrai, sarai ben ricompensato. E comunque, ora che tu l’hai scoperto, sei diventato mio complice!» aveva esclamato Saga, con un sorriso birbante sul viso tornato sereno e disteso.

Per darsi coraggio e togliersi da quell’impiccio, Aiolia sfoderò il suo sguardo più determinato, il medesimo che lo contraddistingueva nelle gare di atletica e che intimoriva i suoi avversari. «Che vuoi che ti dica…» disse, facendo spallucce con finta aria innocentina. «La proprietà è vasta! E poi, che ne puoi sapere tu! Saranno… quanti, quattro anni che non mostri il tuo brutto muso alla villa, se non per qualche visita furtiva? Scommetto che ti sorprenderesti nel sapere che…» si bloccò di colpo: di nuovo stava parlando troppo.
Tentennò. Se il suo scopo era quello di attirare l'attenzione del fratello, ci era riuscito fin troppo bene. Aiolos infatti era visibilmente incuriosito dalla faccenda, tanto da dimenticarsi della barretta al caramello che nel frattempo era scesa nello scomparto basso del distributore automatico.
«No! Non ti dico più nulla! Lo vedrai da te quando torneremo a casa», terminò tutto impettito, ma pronto a fuggire al minimo accenno di insistenza da parte dell'altro. Poi riprese la strada per i binari del treno della metropolitana, lasciando indietro il fratello.
«Non da quella parte, Aiolia! Quella è la direzione sbagliata!» tentò di richiamarlo Aiolos, ma sembrava che il giovane non lo avesse sentito e fu costretto a rincorrerlo di corsa e a salire sul treno, giusto in tempo per evitare che la chiusura delle porte lo lasciasse fuori.

*****

Cora era decisamente nervosa, mentre camminava a passo veloce per le strade semideserte del quartiere residenziale, allontanandosi dalla casa di sua madre. Non si era voltata indietro nemmeno una volta per dare un ultimo sguardo alle finestre illuminate di quella casa che l’aveva vista trascorrere la sua turbolenta adolescenza. Aveva proceduto spedita verso la fermata dell’autobus che l’avrebbe riportata a casa sua e del fidanzato Chris. Quell’articolo aveva fatto riaffiorare un passato scomodo e doloroso per lei, per tanti motivi; e la discussione avuta con lo zio Phil, nella quale si era accalorata troppo, l’aveva lasciata più scossa di quel che avrebbe pensato. Le fitte allo stomaco non erano cessate con il passare del tempo, costringendola a fermarsi almeno un paio di volte e ad appoggiarsi a qualcosa per riprendersi. La nausea era diventata tanto forte da farle sentire la necessità di rimettere, ma si era fatta forza e l’aveva ricacciata giù. Era stato così per tutto il tragitto e anche per il tempo che aveva poi atteso alla fermata.
Da ormai dieci minuti era passato l’orario dell’autobus e lei se ne stava ancora lì seduta su quella scomoda panca di cemento, con lo scatolone appoggiato sulle gambe, aggrappandocisi come una specie di ancora di salvezza. Continuava a rimuginare, giocherellando con l’anello sotto il guanto, in quella lunga attesa che diventava sempre più vana. Solo dopo altri cinque minuti si ricordò che quello stesso pomeriggio era iniziata l’agitazione del sindacato degli autisti dei mezzi di superficie e il servizio era stato sospeso. Si alzò lentamente, con poca voglia e, con un grosso sbuffo, si incamminò verso la stazione della metropolitana più vicina, che distava un paio di isolati. Forse non avrebbe fatto in tempo a prendere neanche l’ultimo treno, ma non le andava di ritornare sui suoi passi e chiedere allo zio Phil di accompagnarla a casa in macchina. A rifletterci, la soluzione migliore sarebbe stata quella di chiamare Chris e poi attenderlo da qualche parte, magari in un bar. Poco più in là di dove si trovava in quel momento, ce n'era uno che conosceva bene, frequentato spesso da poliziotti.
Accelerò il passo, ma all'improvviso sentì uno strano timore crescerle dentro.

*****

«Era Caroline, quella che è appena uscita, vero?» disse con apprensione Teresa, guardando il compagno fermo sulla soglia della cucina.

La donna aveva terminato di rassettare diversi minuti prima e, sentendo la discussione, aveva preferito rimanere in disparte, seduta al tavolo da pranzo. Si era rattristata molto per la reazione della figlia, sapeva come la giovane si sentisse in quel momento e ne era turbata e preoccupata. Quegli ultimi anni non erano stati difficili solo per Caroline, tutta la famiglia aveva sofferto.
«Sì, cara. Se n’è andata come una furia senza lasciarmi il tempo di dire o fare nulla», rispose Phillip, in tono mortificato.
Sospirò.
Conosceva il carattere della figlioccia e voleva darle qualche minuto per calmarsi un poco, perché sapeva che in quello stato niente sarebbe riuscito a farla ragionare.
«Provo a parlarle e a riportarla qui. Sicuramente non sarà nelle condizioni per tornare a casa da sola.»
«Avrei dovuto far sparire quel giornale giorni fa. È colpa mia se ora vivrà di nuovo nella paura», ammise la donna, portandosi le mani al volto e iniziando a singhiozzare. «Dimmi, Phil», disse poi, alzando nuovamente lo sguardo sull’uomo che si era accovacciato di fronte a lei per confortarla. «C’è davvero pericolo che quel mostro possa farle del male? Pensi che attuerà le sue minacce su Caroline?»
«Non ti dare la colpa di quanto è accaduto stasera. Sono io che avrei dovuto informarla. Ma stai tranquilla, non credo che quello sia così stupido da provare nemmeno ad avvicinarsi a lei. Non gli conviene torcerle neanche un capello, non dopo che tanti testimoni hanno udito le minacce che ha urlato in tribunale. E comunque, subito dopo la notizia della sua scarcerazione, ho ottenuto un ordine restrittivo dal giudice. Quel bastardo non può avvicinarsi a Caroline a meno di cento metri; a lei e a nessun altro membro della nostra famiglia!» le spiegò Phillip, stringendole le mani per rassicurarla.
Lasciò la donna in cucina e uscì di casa; vi rientrò solo pochi minuti dopo e, dal mobiletto dell'ingresso, prese le chiavi dell'auto e la pistola.
«Perché quella?» domandò Teresa, col volto pallido e la voce agitata.
«Non ti preoccupare, è solo una precauzione», le rispose l’uomo, con un sorriso tirato, dal pianerottolo di casa.
Phillip rientrò di corsa per sostenerla, vedendo che la donna stava tremando e rischiava di svenire da un momento all’altro. La riportò in cucina e le diede un bicchiere d’acqua.
«Voi siete le persone più importanti della mia vita», le disse con tono affettuoso. «Tu, Caroline, Mike… non permetterò a nessuno di farvi del male. Non esiterò un istante a usarla, se sarà necessario, per proteggere la mia famiglia.»

*****

Era davvero strano trovare la metropolitana così poco frequentata, visto lo sciopero; ma ormai tutto in quella serata sembrava fuori dalla solita routine. Cora iniziò a camminare circospetta; vecchi ricordi e sensazioni amare si accavallavano nella sua mente. Strani brividi le correvano lungo la schiena e non erano certo dovuti agli spifferi che soffiavano nei sottopassaggi. Erano carezze gelide che si insinuavano direttamente nelle ossa: fredde, umide, spiacevoli. La nausea non aveva accennato ad attenuarsi e ora anche un forte mal di testa, pulsante alle tempie, ampliava la gamma di malessere che le si era rovesciato addosso. Respirava con la bocca. A ogni passo si guardava attorno e, quando sentiva un rumore, anche minimo, l’ansia le saliva alla gola e si girava indietro in tutta fretta. I suoi occhi si piantavano su qualsiasi persona incrociasse il suo cammino, controllandone anche il più piccolo movimento, fin quando non si allontanava da lei; a ogni passo la sua tracolla sbatteva ritmicamente sul suo fianco; stringeva a sé lo scatolone, come a proteggersi e al tempo stesso a farsi coraggio.
Man mano che si inoltrava in quei sottopassaggi sempre più desolati – e con l’eco dei suoi stessi passi che le rimbombava cavernoso nelle orecchie – vedeva ombre dappertutto, reali o finte che fossero. Muoveva di scatto la testa a captare ogni rumore, ogni sussurro portato da quell’aria puzzolente di carburante e pessimi detergenti, persino ogni respiro che sentiva l’allarmava.
In alcuni punti l’illuminazione delle lampade al neon era fioca, insufficiente, a causa delle vernici spray che ne coprivano gran parte, oppure vibravano instabili. Il suono macabro che producevano era come il ronzio di grossi insetti. Quando ci passò vicino, le si accapponò la pelle. Le sembrò di essere la protagonista di un thriller, ma a differenza della finzione cinematografica, sentì distintamente la paura strisciarle addosso subdola, distorcendo la realtà.
Continuò a camminare, sempre più di fretta, guardandosi insistentemente alle spalle.
«Suggestione, solamente suggestione», mormorò fra sé, per rassicurarsi. «Tutta colpa di quel dannato articolo!»
Il suo respiro divenne affannoso e non era dovuto solo per la fatica di portarsi appresso quel peso fra le mani. I ricordi che non voleva riesumare, avanzavano imperterriti nella sua mente, oscurando il tempo presente per catapultarla di nuovo nel suo calvario passato. Aveva trascorso mesi d’inferno dopo la conclusione di quel terribile caso. Si era data della stupida per essersi offerta così impulsivamente – e con grande insistenza – come esca per cogliere sul fatto quel criminale. Indignata e furiosa per la sorte della sua migliore amica, aveva sentito il dovere di fare qualcosa.
Nessuno sembrava voler rendere giustizia a Shirley, uscita a pezzi dopo la violenza subita. Non erano state trovate prove sufficienti, non c’erano stati altri testimoni: Shirley non era stata una testimone attendibile, perché quel bicchiere di troppo che aveva bevuto quel giorno e le medicine per il raffreddore che aveva preso, l’avevano alterata un poco. Eppure, lei era stata la terza vittima di quel maniaco e, durante il confronto, l'aveva riconosciuto con molta sicurezza.
Sfruttando le competenze dello zio Phil, si era buttata a capofitto nelle indagini, coinvolgendo il suo padrino e costringendolo a seguirla in quell’impresa. Lo aveva fatto senza pensare alle possibili conseguenze che avrebbero potuto causare anche a se stessa, arrecando alla fine un grosso dispiacere alla madre. Era sempre stata convinta di agire nel giusto. Lo zio Phil l’aveva appoggiata come aveva potuto e, quando tutto sembrava doversi concludere per il meglio, grazie al lavoro della polizia e dell’ufficio della procura, era finita invece nel peggiore dei modi: dopo che l'uomo aveva tentato la fuga, era sopraggiunto uno scontro a fuoco durante il quale era rimasta ferita al ventre da un colpo di rimbalzo, lasciandola in fin di vita.
Quell’episodio causò un’immensa angoscia nella madre, terrorizzata all’idea di perdere anche lei dopo che anni addietro aveva perso il marito; ma da quella terribile prova erano uscite più unite e più forti che mai.

Le mancavano ancora poche decine di metri da percorrere. Intravedeva davanti a sé parte dell’ampia banchina della fermata del treno. Avrebbe finalmente abbandonato il claustrofobico tunnel del sottopassaggio che le provocava una tensione angosciosa. Di sicuro sarebbe stata confortata dalla presenza di altre persone, estranee e di certo indifferenti, ma non l’avrebbero fatta sentire intrappolata nelle sue asfissianti paure.
Quando arrivò alla tanto agognata meta, un getto di aria fredda la investì all’improvviso, portando con sé gli sgradevoli odori di gas di scarico, carburanti e aria pesante. Arrivavano a zaffate alle sue narici, con un effetto narcotizzante che aumentava in lei un senso di straniamento.
Si sedette sulla prima panchina libera, posando lo scatolone di fianco a sé. Si sentiva fiacca, esausta. Si appoggiò con le braccia alle ginocchia, massaggiandosi lentamente le tempie. Di solito l'aiutava a far passare il mal di testa. Faticava a tenere gli occhi aperti, sentiva le palpebre pensati. Tutte quelle reminiscenze l’avevano stancata più di quanto avesse pensato e poi c'era il sonno arretrato della notte precedente.
Chiuse gli occhi per qualche secondo, la sua testa era diventata un unico formicolio. Era conscia che l'assopimento nel quale si stava abbandonando stava diventando troppo difficile da combattere, ma non poteva farci nulla: i suoni, gli odori, tutte le sensazioni che provava in quel momento, arrivavano a lei ovattate e confuse; nonostante la tensione crescente, che le acuiva i crampi allo stomaco, la serata sembrava paradossalmente calma.
Anche quella volta c'era stata una calma simile: all’apparenza priva di pericoli, eppure così minacciosa.

Cora si era guardata attorno con insofferenza: due giovani, sicuramente un po’ brilli, amoreggiavano in modo troppo sfacciato, seduti su una panchina a qualche metro di distanza da lei. Le risatine della ragazza erano civettuole e i bisbigli che si scambiavano, fra un bacio e l’altro, erano volgari. Se non avesse avuto altro a cui pensare in quel momento, di certo li avrebbe trovati disgustosi e imbarazzanti. La sua attenzione era stata distolta da un improvviso scoppio: una ragazza, alta e molto magra, quasi scheletrica, camminava avanti e indietro lungo la linea gialla, calpestandola, un piede avanti all’altro, come se stesse procedendo sulla trave d'equilibrio. Aveva un look bizzarro per i suoi gusti: un pessimo esempio di punk underground che donava alla giovane un’aura macabra e malsana: troppo finta con tutto quel trucco pesante addosso, quasi una maschera di Halloween. Ultimamente se ne vedevano spesso di adolescenti conciati in quel modo. Tutta colpa della televisione e delle mode estreme, si era detta.
Un altro scoppio, anche se questa volta era stato più debole. Con un movimento celere della lingua, quella finta punk aveva recuperato il chewing gum che si era appiccicato al viso e aveva ripreso a masticare.
Da un’altra parte, un gruppetto di impiegati di mezza età aveva guardato con sospetto quella ragazza, tornando poi a chiacchierare dei loro affari.
Cora aveva provato a concentrarsi sullo scopo per il quale si trovava lì, per tentare di frenare l’ansia che quella situazione le stava creando. Un respiro profondo, poi un altro. Aveva chiuso gli occhi per alcuni momenti.
Il treno si era fermato sulla banchina e i pochi passeggeri a bordo stavano scendendo in modo ordinato, senza fretta, lasciando il posto a chi era in attesa. Dalla sua posizione un po’ defilata, quella concordata con gli agenti, riusciva ad avere una buona visuale di tutte le persone presenti e dell’intero spiazzo. Era rimasta appoggiata al muro, non era ancora arrivato il momento per lei di andare. Aveva controllato l’ora sul cellulare: lui era in ritardo. Da diversi giorni aveva iniziato a fare quel percorso, a prendere quel particolare treno, a fermarsi in un punto abbastanza isolato da poter essere una preda appetibile. Si era anche vestita in modo sufficientemente disinvolto, come quelle che piacevano a lui, per attirare la sua attenzione.
Che fosse tutto troppo facile?
Forse, questa volta lui avrebbe scelto un’altra stazione; forse, per questa volta, non avrebbe rischiato.
Era tutto pronto per prenderlo sul fatto.
D’un colpo aveva sentito l’ansia tornare a tormentarla in maniera sempre più crescente. Aveva stretto al petto lo zainetto. Alle orecchie aveva gli auricolari del lettore mp3. Erano particolari: dal sinistro ascoltava musica, mentre dal destro le arrivavano le istruzioni degli agenti e la voce di zio Phil che le parlava per rassicurarla. Si era guardata attorno con attenzione. Aveva osservato le persone che imboccavano il tunnel che portava alle scale per uscire in strada, le persone che prendevano i passaggi per cambiare linea e quelle che invece si raggruppavano lì per attendere il treno. Alcuni ricambiavano il suo sguardo, forse giudicandola, la maggior parte invece era indifferente e si faceva gli affari propri.
Era tutto nella norma. Aveva tirato un sospiro di sollievo, concedendosi un momento per perdersi nei suoi pensieri. Di come si rammaricava di aver lasciato in quel modo la sua amica, nonostante lei avesse ammiccato, sottintendendo che sarebbe andato tutto bene; di non aver insistito, di non essere rimasta con lei, solo perché non aveva voglia di fare da terza incomoda; di come avesse avuto tanta fretta di tornare a casa e farsi un bel bagno caldo dopo quella pessima giornata a lezione. E poi, quel ragazzo aveva un sorriso così rassicurante e uno sguardo sincero. Non avrebbe mai immaginato un epilogo di quel genere.
Il tocco gentile di una mano sul suo braccio l’aveva riportata alla realtà. Era stato un giovane dall’aspetto curato e dal sorriso un po’ impacciato a richiamare la sua attenzione. Le si era avvicinato piano, quasi di soppiatto; o almeno, lei non si era accorta di nulla. Aveva provato a chiederle un’informazione. Probabilmente le aveva ripetuto quella richiesta più volte, senza desistere. Avrebbe dovuto capirlo allora. Invece, si era tolta l'auricolare con la musica.
«Mi scusi, signorina», le aveva detto con voce affabile. Non le era sembrato l’accento tipico di Philly.
Lui le aveva sorriso ancora ed era diventato più sicuro, pur rimanendo educato. Cora era rimasta imbambolata, non si era subito resa conto di chi avesse davanti. Non lo aveva riconosciuto. Forse per via di quegli abiti così formali che indossava quella sera.
«Non sono pratico della zona, potrebbe indicarmi la direzione da prendere per…»
Aveva parlato proprio nel momento in cui il treno era sferragliato davanti a loro e, quando lei aveva fatto cenno di non aver sentito, lui ne aveva approfittato. Si era avvicinato ancora di più e le aveva sussurrato qualche parola all'orecchio. Con una mano le aveva strattonato il braccio, mentre con l'altra le aveva fatto sentire la punta di un coltello sul fianco, intimandole di rimanere calma e di fare ciò che le ordinava. L’aveva trascinata di peso in un angolo nascosto, lontano da possibili occhi indiscreti, un punto cieco che non aveva la copertura delle telecamere di sorveglianza. Poi, una volta che la banchina si era svuotata di nuovo, avevano imboccato un passaggio in quei giorni in manutenzione. Aveva iniziato a strattonarla con maggiore insistenza, quasi impazienza, per farla camminare più velocemente, non le aveva rivolto che poche altre parole con voce dura; il suo sorriso si era trasformato in una smorfia subdola, lo sguardo era diventato agghiacciante. Era stato appena un attimo. Cora si era lasciata sorprendere invece di essere pronta; troppo sicura del microfono che le avevano messo addosso e di alcuni agenti che controllavano a distanza, nascosti anche alla sua vista. Il rischio c’era ugualmente ed era grande, zio Phil glielo aveva detto: bastava un imprevisto e sarebbero potuti non arrivare in tempo.

L’improvviso frastuono dello sferragliare del treno, che in quel momento stava sfrecciando veloce davanti a lei, la ridestò da quella visione del passato, riportandola bruscamente alla sua realtà. Alzò la testa di scatto. I suoi occhi erano umidi di lacrime. Uno spasmo nervoso alle gambe le fece scivolare a terra la borsa a tracolla che teneva in grembo, spargendo il suo contenuto ai suoi piedi. Il suo respiro si fece accelerato e ansioso; il suo cuore iniziò a battere con un ritmo frenetico e assordante, furioso, tanto da farle dolere il petto.
Si passò le mani sul volto per scacciare quella sensazione di oppressione e paura. Poi, si chinò a raccogliere le sue cose, mentre lentamente cercava di riprendersi dalla confusione che regnava nella sua testa.
Due colpi secchi, improvvisi, erano rimbombati in rapida successione nell’aria gelida di quella stazione sotterranea. Sobbalzò ancora una volta. Erano stati così simili a due spari che inconsciamente si strinse le mani al petto, girandosi nella direzione della fonte del rumore, anche se era difficile individuarla a causa dell’eco. Lo scatto le fece perdere l’equilibrio e cadde a terra. In quell’istante, una lacrima scese sulla sua guancia.
Altri colpi.
Questa volta meno forti e meno spaventosi, eppure Cora si rannicchiò per terra, coprendosi le orecchie con le mani. Poi, ancora colpi, in rapida successione, provenienti dal fondo della banchina; e imprecazioni pronunciate con tono maleducato. Due teppisti avevano iniziato a prendere a calci il distributore automatico delle bibite, arrivando a scuoterlo fino a ottenere il bottino agognato, allontanandosi infine fra risate sguaiate e insulti ai malcapitati testimoni.
«Idioti!» mormorò lei a denti stretti.
Era tesa come una corda di violino. Si passò la mano ad asciugare la guancia umida di lacrime e riprese a raccogliere le sue cose ancora sparpagliate a terra, ma questa volta con stizza e nervosismo. Sbuffò. Alle sue spalle il treno si era fermato e i pochi passeggeri stavano già scendendo.

«Tutto a posto, signorina? Ha bisogno di aiuto?»
Una mano, coperta da un elegante guanto di pelle nera, si avvicinò a Cora, sfiorandola sulla spalla.
La voce, educata e dal tono affabile, provocò un nuovo scatto nella giovane; e questa volta, nel voltarsi si aggrappò al bordo dello scatolone sulla panchina, trascinandoselo a terra con sé. Sgranò gli occhi pieni di terrore, il suo respiro si fece asmatico, fino ad accelerare e rasentare l’apnea. Un grido uscì dalla sua gola, non appena riuscì a mettere a fuoco la figura di quel ragazzo comparso praticamente dal nulla. Era giovane, alto, castano di capelli e di occhi. Distinto e garbato nei modi. Il classico viso da bravo ragazzo.
Cora non ci poteva credere, proprio di fronte a lei si era materializzato il suo peggior incubo. Provò a indietreggiare, senza riuscirci. Lo vide chino su di lei, con lo sguardo profondo e un sorriso troppo sicuro di sé. Il suo respiro si fece ancora più precario e accelerato, il cuore riprese a battere all’impazzata nel petto: forte e veloce, doloroso. La sua bocca non era in grado di emettere alcun suono, muovendosi muta, sconnessa. Era paralizzata dalla paura. Vedeva quel tipo farsi sempre più vicino, fissarla e parlarle, ma lei non comprendeva le sue parole.
«Si calmi, signorina.»
Cora si guardò attorno con disperazione, arrancando all’indietro in cerca di una via di fuga, provando a scorgere qualcuno a cui implorare aiuto. Nessuno pareva essere rimasto sulla banchina. I suoi occhi terrorizzati non riuscivano a vedere altri all’infuori di quel viso e… dietro di lui, un’ombra. Anch’essa era comparsa all’improvviso: la somiglianza fra i due era agghiacciante.
«Signorina…» provò di nuovo lo sconosciuto. Allungò le braccia e provò a trattenere la ragazza che si divincolava con forza. «Va tutto bene. Non voglio farle del male», continuò, abbozzando un sorriso per rassicurarla.
Era così uguale a quello dell’altro.
«Lasciami stare. Ti prego…» singhiozzò lei, con voce lamentosa e gli occhi pieni di lacrime, provando ad allontanarsi da lì. «No… no… ti prego», balbettò, scansando le mani del ragazzo, completamente terrorizzata.
Lui la guardò confuso, non sapeva spiegarsi cosa nel suo comportamento la potesse spaventare in quel modo. Provò a sorriderle più gentilmente, sfiorandole la guancia con la mano, ma sembrava solo peggiorare la situazione. Nei suoi goffi tentativi di tranquillizzarla non si rendeva conto che, qualsiasi cosa facesse, nella giovane cresceva la disperazione. Incautamente infilò la mano nella tasca del cappotto scuro, frugandovi per alcuni secondi.
«Calmati», le sorrise di nuovo.
«Credo che tu la stia spaventando ancora di più», intervenne l’altro con tono preoccupato.
«Non ti faccio nulla», si rivolse ancora a lei il maggiore dei due, provando a darle più confidenza, sperando così di riuscire a guadagnare un poco la sua fiducia, mentre estraeva qualcosa di bianco dalla tasca, avvicinandola al viso ragazza.
«No! Lontano da me! Stai lontano da me!» gridò Cora, divincolandosi e protendendosi verso la sua borsa lì vicino.
Riuscì a raggiungerla e a frugare al suo interno. La mano le tremava incontrollata e il guanto di lana rendeva i suoi tentativi di afferrare la bomboletta anti stupro ancora più difficoltosi. Più volte arrivò a sfiorarla, senza però afferrarla del tutto. Ci riuscì con la forza della disperazione, girandosi e spruzzandone l'intero contenuto sul volto del suo aggressore.
«Attento, Aiolos!» gridò Aiolia, troppo tardi però perché questi potesse proteggersi.
«Dannazione!» urlò di dolore il ragazzo, portandosi le mani al volto. D’istinto si sbilanciò e cadde a terra. Sentiva gli occhi e il volto andargli a fuoco. «Pazza! Perché diavolo l’hai fatto?» continuò a gridare, rialzandosi di scatto, nonostante stesse lacrimando copiosamente.
A fatica riusciva ad aprire gli occhi in un piccolo spiraglio. Con una mano si sfregava il viso mentre con l’altra provò ad afferrare la ragazza; il suo viso, prima pacifico e gentile, era diventato una maschera di rabbia e dolore.
«Aiolos!» lo chiamò di nuovo il fratello, nella desolazione della banchina della metropolitana. La sua voce era risuonata allarmata, spaventato lui stesso per le ulteriori complicazioni che si erano aggiunte.
Aiolos provò a girarsi, ma avvertì qualcosa di duro premere contro la sua testa e, alle spalle, sentì la presenza di un’altra persona.
«Resta fermo dove sei», gli intimò una voce profonda che celava una grande collera. «Non pensare di muovere un solo muscolo o ti ritroverai quel poco cervello che hai, sparso per il pavimento e le pareti della stazione.»
Quelle parole furono pronunciate con estrema freddezza dall’uomo, sopraggiunto in quel momento. Non aveva esitato un solo istante: aveva estratto la Beretta dalla fondina e l’aveva fatta sentire sulla nuca del giovane accovacciato per terra.
«Cosa… che cosa vuole da me?» chiese Aiolos, in tono confuso e teso. «Non è come può sembrare… non ho fatto niente…» La sicurezza che aveva dimostrato fino a pochi istanti prima, ora gli stava scivolando via; non riusciva a capire come quella serata tutto sommato tranquilla fosse potuta degenerare a tal punto.
Era diventata una situazione davvero paradossale: scambiato per un aggressore solo per aver voluto aiutare qualcuno e ora si ritrovava con una pistola alla testa. Il dolore al viso poi, stava diventando quasi insopportabile; la sua vista era sfocata e confusa, le palpebre pesanti e continuava a lacrimare.
“Aiolia!”
D’un tratto i suoi pensieri si rivolsero al fratello. Era ancora così giovane e impulsivo, se avesse fatto qualcosa di avventato sarebbe potuto succedere l’irreparabile.
«Zitto, Deline!» gli intimò ancora una volta Phillip Burton. «Ti porti dietro anche il fratellino, adesso? Lo stai iniziando al mestiere di stupratore, oppure vuoi riunire la famigliola in carcere?» gli disse con disprezzo, facendo ancora più pressione con la Beretta semi automatica. «Non ti facevo così stupido, Deline. Stavolta non ci arriverai al processo!»
Con un movimento deciso del pollice, Phillip Burton caricò il cane e spinse in maniera più decisa la canna contro la testa del ragazzo, costringendolo ad appoggiare le mani a terra. «Prima un proiettile in testa e poi, “accidentalmente”, il tuo corpo finirà sui binari, così da essere smembrato dal prossimo treno. Solo col test del DNA potranno riconoscerti.»

«Deline?» mormorò Aiolos. «No! No! Non mi chiamo in quel modo. Io mi chiamo Foster! Aiolos Foster!» esclamò con voce disperata, scandendo il suo nome meglio che poté.
Nonostante fosse figlio di un ex ufficiale dei Marines e non gli fosse sconosciuto il mondo delle armi da fuoco, sentirsi sotto la gelida minaccia di una pistola puntata alla testa e, il ritrovarsi in una posizione tanto sottomessa e umiliante, gli stava provocando paura e rabbia. Lentamente e con estrema cautela provò a girarsi verso l’uomo, per guardare negli occhi colui che, con molta probabilità, sarebbe stato il suo giustiziere. La sorte sua e del fratello erano appese a un filo. Anche se non poteva vederlo, sentiva quanto il giovane fosse spaventato; e in lui cresceva la frustrazione di non poter fare nulla, nemmeno tentare, per tenerlo al sicuro. Come sottofondo a quel momento di tensione si udivano chiari i singhiozzi di Cora, ancora rannicchiata a terra e con il viso nascosto fra le mani.
«Non capisco perché ce l’abbia con me», azzardò Aiolos, rompendo quel silenzio snervante. «Non ho fatto niente di sbagliato. Ho solo cercato di aiutare la ragazza.»
«È vero! È vero!» esclamò Aiolia, sperando di aiutare in quel modo il fratello. «Noi non le abbiamo fatto niente! È lei che si è messa a gridare e…»
«Stai zitto, Aiolia!» lo interruppe il maggiore.
La sua voce stava tornando via via più sicura e determinata. Mostrava una risolutezza che iniziava a far sorgere dei dubbi in Phillip. L’ex poliziotto sapeva bene che criminali della risma di Deline, una volta messi alle strette, si mostravano per quelli che erano veramente: solamente dei vigliacchi. Ricordava bene come durante l’arresto, il maniaco di Philly si fosse fatto scudo con Cora e che, una volta con le manette ai polsi, si fosse messo a piangere e a gridare rabbioso. Quel ragazzo di fronte a lui invece, nonostante la legittima paura, non mostrava affatto segni di vigliaccheria.
«Foster hai detto? Fammi vedere un documento! Ma fai attenzione a non commettere imprudenze», gli ordinò Burton, concedendogli una chance. Il suo istinto di poliziotto gli diceva che forse quel giovane poteva anche dire la verità.
Con mano tremante Aiolos prese dalla tasca interna del cappotto il portafoglio, lanciandolo all’uomo.
Burton lo prese al volo e controllò con attenzione. Più volte spostò lo sguardo dalla foto della patente al volto del giovane ora di fronte a lui, sempre inginocchiato a terra. Fece un respiro profondo, mentre glielo restituiva, gettandoglielo contro il petto. Con ancora una certa diffidenza, ripose la pistola nella fondina a tracolla, che teneva ben nascosta sotto la giacca pesante. Si avvicinò quindi a Cora e, chinandosi con cautela su di lei, le accarezzò il braccio.
«Caroline…»
«No… no… no…» mormorò lei, ritraendosi d’istinto a quel tocco, incatenata dalla sua angoscia.
«Caroline», la chiamò di nuovo, Phillip. «È tutto finito. Caroline, guardami. Per favore.» La voce dell'uomo si fece più rassicurante, affettuosa, familiare. L'aiutò a mettersi seduta e l'abbracciò, accarezzandole la testa e la schiena, sussurrandole che andava tutto bene.
«Zio... Phil? Sei tu? Mi dispiace. Mi dispiace, zio Phil», pianse lei, col viso nascosto contro il petto dell'uomo e stringendosi le braccia al ventre. «Fa male…» si lamentò, piegandosi e gemendo di dolore.
«Tranquilla, Caroline. Tranquilla. È tutto finito. Vieni, ti riporto a casa.»
«No! Non voglio che la mamma mi veda così!»
Phillip annuì paterno, accogliendo quella richiesta accorata, continuando ad accarezzarle la schiena per calmarla e rassicurarla. «Ce la fai a rimetterti in piedi?» le chiese, provando a farla alzare, restituendole poi la borsa che lei subito strinse al petto.
Anche se non era obbligato, Aiolia approfittò di quei momenti di calma per raccogliere le cose sparse per terra, rimettendole nello scatolone. Si avvicinò quindi alla ragazza e all’uomo, timoroso e impacciato. «Non era nostra intenzione spaventare a quel modo la signorina», esordì, tenendo lo sguardo basso. Una volta restituito lo scatolone, si allontanò di qualche passo dai due, convinto soprattutto dall'occhiataccia che gli lanciò l'uomo.

«Aiolos, tutto bene?» chiese al fratello, una volta rimasti soli. Con preoccupazione lo vide tremare mentre si rimetteva in piedi. Il suo sguardo sembrava perso nel vuoto.
«Stammi lontano!» gli rispose con stizza Aiolos, scacciandolo con un gesto del braccio, passandosi poi la mano sul volto ancora teso e arrossato dallo spray al peperoncino.
Barcollò nell'avvicinarsi alla panchina, lasciandosi cadere sopra. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Si passò con furia le mani fra i capelli, provando a sfogare in quel modo la frustrazione e la rabbia che lo stavano divorando, ma qualunque cosa facesse non serviva a nulla; anzi, sentiva entrambe crescere ancora di più. I suoi occhi bruciavano: gli facevano dannatamente male.
Aiolia lo guardò con compatimento. Quella brutta esperienza, sebbene fosse stata traumatica per entrambi, gli stava facendo vedere il fratello sotto una luce diversa. E ora, per la prima volta, lo vedeva fragile e in preda alle emozioni.

*****

All’interno dell'auto di Phillip regnava un silenzio mortifero. Cora aveva smesso di singhiozzare, ma le lacrime non si erano fermate del tutto. Continuava a stringere quello scatolone malconcio come un’ancora di salvezza. Il dolore fisico che aveva provato tanto intensamente fino a una mezz’ora prima, ora sembrava svanito. Le rimaneva dentro solo un’immensa vergogna per essersi lasciata trascinare da una paura incontenibile e irrazionale.
Phil era lì accanto a lei, sul sedile del guidatore; le mani riposavano stancamente sulla parte bassa del volante e lo sguardo era fisso su un punto lontano, ben oltre le auto parcheggiate davanti alla palazzina dov’era ubicato l’appartamento della figlioccia.
«Vengo a prenderti verso mezzogiorno e ti accompagno all’aeroporto», le disse, voltandosi verso di lei, provando a sorriderle.
Cora si limitò ad annuire con la testa, passandosi una mano sugli occhi per asciugare le lacrime.
«Forse, per te è davvero un bene partire, cambiare aria e ricominciare.» Sembrava che le parole di Phillip si fossero perse nel vuoto, anche se la ragazza continuava a fare di sì con la testa. «Dopo questa sera, penso che anche tua madre non avrà più da ridire. Sarà però ugualmente preoccupata, perché non potrà starti vicina.»
«Non dirle niente», sussurrò Cora, continuando a tenere la testa bassa sullo scatolone.
«Lo sai che non ho segreti con lei, non posso evitare di dirle quello che è capitato questa sera. Su, su, andrà tutto bene», la rincuorò, accarezzandole il viso e stringendola in un abbraccio.
Phillip l’accompagnò fino al portone d’ingresso dello stabile, dove già la stava attendendo Christopher, consegnando al ragazzo lo scatolone.
«Per quanto riguarda l’alloggio a Boston…» introdusse l’argomento «ho contattato una mia vecchia conoscenza e mi sono messo d’accordo perché tu sia sistemata per i primi tempi. Quindi, stai tranquilla», le disse, vedendo l’espressione titubante di Cora. «È un tipino strano, ma innocuo; e poi mi deve diversi favori. Mi ha detto che ha un piccolo bilocale libero nella casa dello studente che gestisce. Purtroppo l’ambiente non è proprio dei migliori, la zona è caotica e sempre piena di movimento. Però mi ha assicurato che potrai stare per tutto il tempo che ti serve.»
Prima di lasciarla sola, Phillip l'abbracciò forte, cullandola ancora e ancora, staccandosi da lei solo nel momento in cui Chris si riaffacciò al portone, dopo aver portato lo scatolone nell’appartamento.
«Mi raccomando, prenditene cura, per questa notte», si rivolse al ragazzo, prima di lasciarli soli e risalire in auto.





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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***





VII


25 febbraio…
«Vecchio bastardo! Stai ridendo di me? Ancora una volta stai ridendo di me, vero?» aveva esclamato con sguardo pieno di odio, barcollando vistosamente. «Mi guardi ancora e ancora e ancora con quel tuo dannato cipiglio e mi giudichi dall’alto della tua moralità bigotta.»
Aveva agitato il bicchiere di whisky davanti a lui, rovesciandone sulla sua mano e a terra buona parte del contenuto.
«Osserva a cosa hanno portato le tue macchinazioni!» Il tono della sua voce si era tinto di un’ira sarcastica, mentre continuava nelle sue invettive. «Ancora adesso, dopo più di cinque anni, le tue parole e le tue azioni influenzano la mia vita», aveva biascicato, impacciato dai troppi bicchieri già bevuti. «Sono solo. Solo come lo sei sempre stato tu. Spero tu sia soddisfatto!» gli aveva urlato in faccia, paonazzo in volto per la rabbia.
Stava in piedi a fatica, gesticolando in modo scomposto e continuando a sbraitare cose senza senso, per chi non conosceva la situazione. La bevanda, dall’odore intenso e ubriacante, si agitava tempestosa nel bicchiere. A ogni movimento, grosse gocce e schizzi incontrollati cadevano a terra e colavano sulla sua mano, stretta attorno a quel cristallo trasparente.
«Me lo avevi detto che sarebbe finita così…» Le sue parole erano uscite fra i singhiozzi. Aveva preso un lungo sorso, la sua gola chiedeva avida qualcosa con cui dissetarsi. «Oh sì, ne eri sicuro. Ne eri proprio sicuro. Perché sei stato tu a fare in modo che accadesse!»
Shion gli aveva puntato il dito contro, il bicchiere vuoto ancora stretto in mano. Lo agitava con furia verso quell’immagine indelebile del ritratto del padre. Gli occhi erano appannati dai fumi dell’alcool, brucianti di rancore e di lacrime; i sensi erano ormai anestetizzati.
«Hai sempre detto che voleva farmi le scarpe, che voleva quello che spettava a me, a cui aspiravo; e quando davvero è successo e tu mi hai guardato… quel sorriso di soddisfazione nascosto dietro il tuo solito cipiglio severo…» Faceva pause come a cercare di concentrarsi. «Mi hai indotto a odiarlo. E io l’ho fatto, l'ho odiato! Dannato bastardo, ti ho dato retta e l’ho odiato!» aveva continuato a sbraitare con un vigore inatteso.
Si era sbilanciato ed era inciampato nel prezioso tappeto iraniano, abbattendosi contro lo spigolo della scrivania. Il bicchiere era andato a infrangersi poco più in là, contro i pannelli di legno della parete, vicino alla poltrona. Era rimasto semi riverso sulla scrivania, con le lacrime che gli scendevano sulle guance, fino alla bocca e poi lungo il mento, cadendo in grosse gocce sulla superficie di legno di mogano.
«E io… per anni l’ho odiato, quando aveva più bisogno di me, perché avevo creduto alle tue parole», aveva mormorato.
Aveva iniziato a singhiozzare come un bambino, con le mani tremanti si era coperto il volto per schermarsi alla vista del vecchio Hayes.
«Ora… è tutto perduto…» aveva mormorato ancora. Infine, lentamente, era crollato a terra.

*****

«Hai detto che è in questo stato da questo pomeriggio?» domandò Shura, dopo essere uscito dalla camera da letto di Shion Hayes, chiudendo piano la porta alle sue spalle.
L'anziana donna rispose con un cenno del capo. Le sue mani ancora tremanti stringevano un fazzoletto stropicciato e umido di lacrime; e nei suoi occhi gonfi e stanchi si poteva leggere il grande spavento che si era presa.
«Non era previsto che tornasse, oggi. Non ha avvertito nessuno», farfugliò con la voce incrinata dalla preoccupazione che provava per quell'uomo che aveva cresciuto come un figlio.
«Come lo hai trovato?» domandò ancora una volta Shura.
«Quando è venuto a salutarmi, l'ho visto un po’ pensieroso, ma ho creduto fosse solo per questioni di lavoro. Sembrava abbastanza normale. Poi, all’improvviso… Dio mio! Non so cosa gli sia preso!» disse disperata, portandosi le mani al volto al pensiero di ciò che era accaduto solo poche ore prima. Lo choc era ancora forte ed era stato un miracolo che il suo cuore malandato non avesse ceduto.
L’uomo, il braccio destro, amico e confidente del capo famiglia Hayes, la guardò perplesso. Non che dubitasse delle parole di Nanny, era però strano un comportamento del genere da parte di Shion: era dai tempi dell'Università che si era lasciato alle spalle comportamenti sopra le righe come quello.
«Un attimo prima era sulla terrazza, tranquillo; poi... come una furia, si è precipitato in biblioteca e vi si è chiuso dentro. È a quel punto che deve aver iniziato a bere», raccontò la donna, passandosi il fazzoletto sugli occhi arrossati. «Quando sono andata da lui… Mio Dio, mio Dio! È stato terribile! È stato tutto come l’altra volta! Lui urlava e imprecava contro il ritratto del padre.»
«Su, su, Nanny, ora è tutto passato», la rassicuò Shura, abbracciandola.
Il pensiero era però rivolto a Shion e a quanto gli era appena stato raccontato dall'anziana governante. Nella sua testa rimuginava per tentare di trovare un collegamento, un qualcosa che avesse potuto scatenare una reazione del genere nell'amico, ma non gli veniva in mente nulla: apparentemente in quel giorno non cadeva alcuna ricorrenza, né sapeva fosse successo qualcosa di particolare. Sospirò, scrollando un poco la testa.
«Riverso a terra… tutto quel caos… è stato orribile!» continuò a ripetere Nanny.
«C’era qualcun altro in casa? Chi lo ha portato in camera?» le chiese lui.
«A parte le due cameriere, ero sola in quel momento.»
«Neanche i gemelli?» domandò stupito Shura. Sapeva infatti che in quei giorni entrambi i figli di Shion erano alla villa.
«Sì, sì! Kanon! È rientrato poco dopo. Povero ragazzo…» disse Nanny, soffiandosi il naso; la sua voce sembrava ora aver ritrovato una certa calma. «Quel ragazzo è tanto forte, ma deve essere stato terribile per lui vedere il padre in quelle condizioni. Con molta fatica è riuscito a metterlo a letto.»
«E Saga? Lui non c’era?» inquisì di nuovo Shura.
«Oh, il mio dolce Saga. No, è uscito questa mattina molto presto. Aveva detto che voleva far incordare le racchette da tennis, la sua e quella del fratello, ed è andato al Country Club, come fa di solito. O almeno così credevo. Però…» La donna fece una pausa, riflettendo per un momento. «Quando Francine è arrivata, mi ha riferito che lo ha visto in paese, in piedi alla fermata dell’autobus per Boston. Benedetto ragazzo…» sospirò, asciugandosi di nuovo il viso col fazzoletto, anche se di lacrime non ce n’erano più. «Si comporta come se avesse dei segreti. Arriva addirittura a stare fuori giornate intere. Il mio Saga, il mio Saga…» ripeté in un sussurro, scrollando la testa, sempre più preoccupata.
«Beh, non mi sembra un gran dramma», rispose l'altro, abbozzando un sorriso.
«Ma…»
«Nanny, Saga ormai è grande. È giusto che abbia un po’ di libertà! Anzi, sarebbe strano il contrario, non trovi? Quei brutti giorni sono passati, cara Nanny e lui ora sta bene.»
«Bisognerà avvertirlo!»
«No, no, non è necessario allarmarlo. Per quando sarà rincasato, Shion si sarà certamente ripreso. Non serve che anche Saga si preoccupi per una cosa da nulla come questa. E poi, sai com’è fatto, no? Ti ricordi come ha reagito quando ti sei slogata la caviglia, l’anno scorso? Aveva quasi le lacrime agli occhi quando ti abbiamo riportata dall’ospedale e durante i primi giorni non ti ha lasciata per un solo minuto!» le ricordò in tono divertito, ridendo e facendo ridere anche la donna. «E tu, per l’esasperazione lo hai minacciato con la stampella, per avere un po’ di tregua!»
«Caro ragazzo… si era spaventato tanto quando mi ha vista cadere sul pontile, vicino alla rimessa delle barche», disse Nanny, ritornando con la mente a quel giorno.
«E cosa c’eri andata a fare lì? Sbaglio o hai paura dell’acqua? Perché ti eri spinta fin lì?» le chiese l’uomo, manifestando interesse.
«A dire il vero ero lì per cercarlo. Ma non ricordo più per che cosa. Poi l’ho visto seduto sul parapetto del pontile, che si dondolava, sporgendosi verso l'acqua. Mi ha fatta spaventare e devo aver messo un piede in fallo. Il mio ragazzo… Ehi!» D’un tratto la donna si ridestò da quei ricordi e diede una pacca sul braccio di Shura. «Non sviare il discorso! So accorgermi quando qualcuno cerca di distrarmi per nascondermi qualcosa!» lo rimproverò, puntandogli il dito contro il petto, punzecchiandolo ripetutamente. «Lo sento che qualcosa non va! Il mio Shion in quest’ultimo periodo è più stressato del solito e si comporta in modo strano. E quello che è avvenuto oggi… tu lo sai che sono in un’altra occasione si è ridotto in quello stato e ci sono voluti giorni affinché si riprendesse! Quindi, parla!» gli intimò lei, nuovamente battagliera com’era sempre stata.
«Non chiedermi nulla, Nanny», alzò le mani in segno di resa Shura. «Ci sono cose che neppure io conosco. Accetto solamente la situazione e cerco di aiutarlo per quanto mi è possibile», disse in un sospiro. «Dai, non dartene pena in questo modo. Quel testone si sarà stancato più del dovuto e senza rendersene conto avrà alzato un po’ troppo il gomito. E poi lo sai, è sempre stato prodigo di “buone parole” verso il padre», le disse con tono ironico, cercando di essere il più convincente possibile. «Vista l’ora, che ne dici se noi due ci prendiamo un bel caffè?» le propose, iniziando a sospingerla verso le scale, per allontanarla da lì.
«Sei sicuro che starà bene?» chiese di nuovo preoccupata la donna. «Non dovremmo chiamare il medico?»
«E disturbarlo per una cosa da niente come questa? No, tranquilla, Shion deve solo riposare e smaltire la sbornia. Ma se vuoi fare qualcosa per lui, perché non prepari anche a lui un buon caffè? Uno molto forte, uno di quelli che sai fare tu e che gli piacciono tanto!»

*****

Il tramonto arrivò quasi senza farsene accorgere e così la sera; tutto nella casa sembrava tornato nella sua normalità, dopo l’uragano Shion che si era manifestato all’improvviso. Shura passò di fronte alla biblioteca, trovando le porte socchiuse e la luce accesa. Da dentro provenivano rumori sospetti e parlottii vari.
«Saga!» chiamò l’uomo, entrando deciso nella stanza. «Ma che fine hai fatto tutto il giorno?» gli domandò, avvicinandosi alla scrivania, sotto la quale spuntava il ragazzo. Le sue parole non erano un’accusa, ma avevano comunque un tono duro di rimprovero.
«Ahi!» Contemporaneamente si sentì un colpo sotto la scrivania. «Ma ti sei ubriacato anche tu stasera, Shura? Sono io, Kanon! Ma cos’è oggi, la giornata degli scambi di persona?» si lagnò il giovane, muovendosi un poco a carponi sotto la scrivania, dove finalmente era riuscito a ritrovare la pen drive.
«E come faccio a riconoscerti se ti si vede solo il sedere?» disse l’altro, alzando le spalle. Il suo sguardo però si era soffermato in maniera insistita sul fondoschiena del giovane.
«Credevo avessi l’occhio fino per queste cose!» ribattè Kanon, muovendosi in modo provocatorio e ottenendo, da parte dell'uomo, dei mugolii di approvazione. «Ah! Dannazione!» imprecò poi fra i denti: nell’indietreggiare ancora per uscire da sotto la scrivania il ragazzo aveva appoggiato la mano su un pezzo di vetro.
Una volta di nuovo in piedi si guardò la mano sanguinante; fece una smorfia e con due dita estrasse il pezzetto di vetro dal palmo. Poi, con rapidi movimenti dell’indice, lo ripulì da altre piccole schegge e dalla sporcizia. Prese il fazzoletto dalla tasca e bendò la mano con un paio di giri stretti, chiudendola a pugno. Quindi, si sedette sulla poltrona, sbuffando.
«Ma che diavolo gli è preso a papà, oggi? Sembrava davvero indemoniato! Se bere qualche bicchiere gli fa questo effetto, sarebbe opportuno mettere in salvo le bottiglie e chiamare gli alcolisti anonimi!»
Con la mano sana radunò i vari documenti, spiegazzati e macchiati di ottimo whisky, impilandoli e mettendoli da parte, lasciandosi andare a un debole sospiro.
«Dovresti mostrare un po’ più di rispetto verso tuo padre», lo ammonì Shura, piazzandosi di fronte alla scrivania.
«Ma guarda qua!» esclamò il giovane, agitando in aria dei fogli. «La relazione che mi aveva preparato Aiolos per l’assemblea degli azionisti di lunedì prossimo è tutta rovinata! È praticamente illeggibile!» Li ributtò sulla scrivania e si passò la mano sulla fronte. «Chissà dove ha salvato il file originale. Spero non in qualche cartella con password, altrimenti mi toccherà attendere fino al suo ritorno. Non ho proprio voglia di ridurmi all’ultimo secondo per studiare questi dati», mormorò stancamente.
«Hai ascoltato quello che ti ho detto?» sbottò Shura.
«No! Non mi interessa sentire anche le lagne della prozia zitella Shura! Ne ho già avute abbastanza con quello di sopra!» scattò iracondo il giovane, battendo il pugno fasciato sulla scrivania. Per diversi secondi si sfidarono con gli occhi. Poi, Kanon si arrese, sbuffando e sprofondando di nuovo nella poltrona. «Che cavolo! Prima mi riempie di baci e carezze, travolgendomi come un fiume in piena di cose delle quali non ho capito neanche la metà. Non contento, attenta alla mia vita abbracciandomi quasi fino a stritolarmi! Immagino che mi abbia scambiato per Saga, tanto per cambiare», brontolò a mezza voce. «E poi, mi chiama... Tony. No, Anthony! E si mette a piagnucolare ancora! Ma chi cavolo è questo Anthony? Ho forse un altro gemello e nessuno me l’ha mai detto? E infine, perché lo spettacolo non aveva ancora raggiunto il culmine, mentre cerco di calmarlo e stupidamente assecondo i suoi vaneggiamenti, fra un pianto e un insulto, lui mi prende a sberle!»
Si alzò e prese a camminare nervosamente avanti e indietro per la stanza, tormentandosi la mano ferita, non facendo caso al fazzoletto che si stava impregnando di sangue.
«Non ce l'ho certo con lui», ammise il giovane Hayes, avvicinandosi al mobile bar e servendosi un whisky liscio. «L’ultima volta che mi sono ubriacato assieme ad Aiolos, questo Capodanno, ne abbiamo fatte anche di peggio... Bah, fa niente», sbuffò, grattandosi la testa. «Non mi resta che rimediare a questo pasticcio. Se almeno ci fosse Saga… Ma dove si è cacciato a quest’ora?»
Si riaccomodò sulla poltrona e, appoggiando i piedi sull'angolo della scrivania, dalla tasca dei jeans prese il cellulare, componendo subito il numero del gemello. Digrignò i denti nel sentire la segreteria telefonica. Riprovò ancora e ancora. Quella sera, non si poteva dire che la pazienza fosse la sua qualità migliore. Cambiò strategia e iniziò a digitare sms su sms, dai toni l'uno più drammatico dell'altro, sghignazzando nel pensare a che punto l'altro avrebbe dato segni di vita. Una volta soddisfatto, lanciò il cellulare sulla scrivania e chiuse gli occhi, in attesa di raccogliere i frutti del suo operato.
«Lascia perdere il lavoro per questa sera, vai a medicarti quella mano come si deve e fatti anche tu una bella dormita», gli consigliò Shura, uscendo dalla biblioteca.

*****

Non c’era stata una sola domenica mattina, da quando aveva iniziato a frequentare le middle school a Philadelphia, che Cora non sgattaiolasse alla stazione ferroviaria e si piantasse davanti al grande tabellone delle partenze, per controllare gli orari dei treni che l’avrebbero riportata a casa sua, a Boston. In tasca aveva sempre i soldi per il biglietto di sola andata – o di ritorno, dal suo punto di vista –, ma non aveva mai avuto il coraggio di comprarlo. Rimaneva col naso all’insù, sotto quel tabellone che si aggiornava continuamente, fissandolo per ore intere. Poi, quando era stanca, ritornava mesta dalla madre, inventando scuse diverse per non farla preoccupare.
E ora, di nuovo era col naso all’insù a guardare il monitor delle partenze, questa volta per cercare il suo volo.
«Non sarà la stessa atmosfera della 30th Street Station, ma la situazione è piuttosto simile, non trovi?» disse Teresa, come se avesse letto nei pensieri della figlia, stringendola a sé e dandole un bacio sulla tempia. «Ti aspetto di là, assieme agli altri.»
Mancava ancora un’ora al check-in. Nonostante l’emozione e il sollievo che provava per l’imminente partenza, Cora sentiva una certa tristezza nel doversi separare dalla sua famiglia. La decisione però era stata presa e la brutta esperienza della notte precedente, della quale sentiva ancora gli effetti negativi su di sé, era un buon incentivo per cambiare aria. Dalla sua posizione li poteva vedere, tutti lì, raccolti in gruppetto, a una ventina di metri da dove si trovava lei: sembravano una comitiva di turisti. Sorrise nel vederli sereni, anche se sapeva essere solo apparenza. La madre chiacchierava con il suo compagno, lo zio Phil; Mickey se ne stava un po’ sulle sue, ma Chris provava in ogni modo a distrarlo e a coinvolgerlo, facendolo infine sorridere.
«Chissà cosa gli ha promesso», mormorò lei, sorridendo a sua volta. Si passò la mano sugli occhi per fermare sul nascere le lacrime. Non voleva ritrovarsi con gli occhi arrossati al momento dei saluti.

«Perché dobbiamo cambiare i programmi e tornare subito a Boston? Mi avevi promesso che saremmo andati a New York!» si lamentò Aiolia, camminando con le spalle curve e le mani in tasca.
«Hai per caso qualche appuntamento del quale non sono a conoscenza?» domandò con sarcasmo l’altro, sperando di placare in quel modo le sue lagne.
«Appuntamento? No, no! Dico solo che…»
Il giovane sbuffò, rinunciando a terminare quel pensiero che gli ronzava in mente da tutta la mattina, prima di sentirsi dire di nuovo dal fratello che si comportava in modo troppo infantile. Con la coda dell'occhio lo osservò aggiustarsi gli occhiali da sole, anche se all'interno dell'aeroporto non erano necessari.
Aiolos tirò mentalmente uno sbuffo. Anche a lui scocciava parecchio dover rinunciare alla tappa di New York. Aveva sperato che, con un giorno in più a disposizione, magari rilassandosi nell'attico degli Hayes, quell’irritazione sul viso sarebbe diminuita quel tanto che bastava da non farci più caso. Invece...
Dalla tasca interna del cappotto prese i documenti d’imbarco. Li esaminò facendo una smorfia, prima di rimetterli a posto. Tanto per aggiungere un'altra scocciatura a quel loro viaggio già pieno di inconvenienti, erano stati costretti a un repentino cambio di programma per il rientro. Si erano già sistemati sul jet privato della società quando il pilota li aveva informati di un guasto tecnico che li costringeva a rimanere a terra. Si erano quindi dovuti accontentare di un banale e scomodo volo di linea in business class. Guardò l'orologio: mancava poco meno di un’ora all’imbarco, avevano quindi tutto il tempo per fare una deviazione verso il bar dell’aeroporto per prendersi qualcosa.
Cora uscì dalla toilette delle signore, asciugando il cappotto che teneva piegato sul braccio da alcune goccioline d'acqua. In quella operazione la tracolla della borsa le scivolò dalla spalla, distraendola e mandandola quasi a scontrarsi con qualcuno.
«Mi scusi», disse, continuando a camminare senza guardare avanti; ma fu subito trattenuta per un braccio e contemporaneamente sentì una voce lamentarsi. Alzò la testa per protestare, ma si bloccò, ritrovandosi di fronte a quei due.
Per diversi secondi rimase a fissarli, ammutolita e scioccata, con il cuore che aveva preso a battere forte. Poi, un improvviso imbarazzo le fece distogliere lo sguardo e balbettare delle altre timide scuse. Anche se il ragazzo contro il quale era andata involontariamente addosso non aveva mostrato troppo fastidio, ma quegli occhiali da sole – e quelle macchie rosse sulla pelle – erano riusciti a intimorirla; la presenza dell’altro poi, con lo sguardo ostile e accusatorio puntato su di lei, completava la situazione.
«Ci incontriamo di nuovo!» esordì Aiolia, digrignando i denti e mettendosi in mezzo fra lei e il fratello. Non aveva dimenticato lo spavento della sera precedente e non voleva una replica del finale. «Hai intenzione di fare come ieri, oppure…»
«Mi… mi dispiace per…» provò a scusarsi di nuovo Cora, sopraffatta dall'ostilità dell'altro.
L’atteggiamento del giovane la fece indietreggiare di un altro passo e, non riuscendo più a sostenere i loro sguardi, accennò a girarsi per andarsene.
«Ehi! Finisce così?» Aiolia le afferrò ancora una volta il braccio, impedendole così la fuga. «Non meritiamo neppure delle scuse decenti, dopo quanto è accaduto?»
«Ma che diavolo vuoi tu. Lasciami andare!» rispose lei, strattonando il braccio per liberarsi. «Devo forse mettermi a gridare “al maniaco”?» lo minacciò, non riconoscendo nei due i protagonisti della disavventura nella metropolitana.
«Non oseresti farlo davvero», ringhiò Aiolia, che a quelle parole si irrigidì.
«Basta così, Aiolia. Lasciala stare», intervenne Aiolos che invece non si era scomposto minimamente nel seguire quella specie di scenata.
«Ma non è giusto!» provò a protestare il primo, perdendo un poco dell’arroganza riservata a Cora. «Ci deve delle scuse, a te soprattutto!»
«Se ti poni in modo così aggressivo, sarai tu a doverti scusare con lei», rispose con tono pacato Aiolos; il suo volto sempre inespressivo, rigido, indifferente. «E comunque, a questo punto non è necessario: non voglio attirare l’attenzione della gente più del dovuto, per una questione già risolta.»
Aiolia abbassò lo sguardo e lasciò andare la ragazza.
«Signorina…» si rivolse a lei Aiolos. «Spero voglia dimenticare lo spiacevole malinteso di ieri, così come il comportamento poco educato di mio fratello.»
La giovane non sapeva di cosa lui stesse parlando, ma annuì titubante, mentre si stringeva il cappotto al petto e indietreggiava di un passo. Quella persona le metteva addosso una strana inquietudine. Una volta sicura di essere fuori dalla portata del giovane, quello più impulsivo, si allontanò correndo via.
«La lasci andare via in questo modo?» si lamentò Aiolia.
«Dovresti cercare di riflettere meglio, prima di parlare e agire», ribatté Aiolos, riprendendo a camminare verso l’area di ristoro.

*****

«E quello da dove salta fuori?» domandò Aiolos, indicando con un cenno del capo il quadernetto nero che spuntava dalla tasca esterna dello zaino del fratello. Attese la risposta da parte dell'altro che invece sembrava nascondersi dietro alla lista delle consumazioni. Si chinò e lo prese, studiandolo per qualche secondo.
«Oh, quello… accidenti!» saltò in piedi come una molla Aiolia. «Ho dimenticato di restituirlo a quella ragazza!» esclamò, voltandosi verso l'entrata del bar.
«Direi che ora è troppo tardi.»
Aiolos iniziò a sfogliarlo velocemente. Dalla copertina sembrava uno di quei taccuini in dotazione alla polizia, almeno per quello che si vedeva in tv, mentre all’interno dava più l’impressione di essere un quadernetto vero e proprio, con rilegatura a brossura e copertina in cartoncino leggero, telato.
«Non hai risposto alla mia domanda»
«Ecco… ieri sera, dopo che…» provò a spiegarsi Aiolia, abbassando il volume della voce e osservando la reazione dell'altro. «Beh, credevo di aver raccolto tutte le cose della ragazza, quando le ho consegnate a quel tipo. Poi, quando mi sono accorto che questo era finito sotto la panchina, vicino al tuo piede, volevo provare a raggiungerli ma non ci tenevo a ritrovarmi con la pistola puntata addosso.»
Aiolos fece un mezzo grugnito, continuando a sfogliare il quadernetto. Per deformazione professionale era abituato a sfruttare ogni cosa e trasformarla in informazioni utili, anche se dubitava di incontrare in futuro quella ragazza – e di conseguenza non gli importava nulla di fare indagini su di lei – per una volta avrebbe utilizzato le sue qualità per svagarsi durante il viaggio di ritorno.
«Se me lo ridai, provo a raggiungerla e glielo restituisco», si propose Aiolia, anche se lui stesso non era molto convinto delle sue stesse parole.
«Dopo il tranquillo incontro che abbiamo avuto poco fa? Penserà che tu la voglia aggredire di nuovo», gli rispose Aiolos, facendo un mezzo ghigno. «E se non fosse sola? Se quel pazzo fosse di nuovo con lei? Non sia mai che permetta al mio fratellino di esporsi a tale pericolo», concluse in tono sarcastico, il quadernetto nella tasca interna del cappotto, sotto lo sguardo sbalordito di Aiolia.
Una voce di donna, dal tono elettronico e cantilenante, si diffuse dall’altoparlante, annunciando l’imminente apertura del Gate e l’inizio delle operazioni di check-in e imbarco per il volo per Boston.

*****

Il suo volo era atterrato da almeno un paio di ore al Boston Logan, l’aeroporto internazionale di Boston, ma ancora non aveva potuto mettere il piede fuori dallo scalo. Era rimasta letteralmente incastrata nell’interminabile trafila burocratica che ormai da qualche anno vigeva negli aeroporti statunitensi, ma anche di tutto il resto del mondo. Aveva aspettato pazientemente il suo turno, fra passaggi al metal detector – senza scarpe –, body scan e controllo bagagli. Non le importava di essere trattata quasi da terrorista, nella sua testa lei già pregustava il panorama che avrebbe visto e l’aria che avrebbe respirato al di là di quelle porte a vetri.
Non appena le porte automatiche si furono aperte dinanzi a lei, Cora fu investita da una folata di aria fredda che le sferzò il volto. Posò a terra il suo bagaglio, un grosso borsone con lo stretto necessario per i primi giorni, e inspirò a pieni polmoni, cercando di risvegliare sensazioni e ricordi sopiti dentro di sé. Assaporò l’aria di casa, l’odore di quello spicchio di oceano che arrivava sin lì; immaginò il caos del traffico cittadino e crebbe in lei il lieve timore di non riconoscere più nulla della sua città natale. Quanto doveva essere cambiata in tutti quegli anni?
Si guardò attorno, la lunga fila di taxi era presa d’assalto e, anche se avesse avuto fortuna a trovarne uno libero, non aveva certo voglia di spendere un capitale per arrivare sino in città. Poco più avanti, a una cinquantina di metri, c’era la fermata degli autobus: per lei sarebbe andato più che bene, soprattutto perché, prima di incontrare “la vecchia conoscenza” dello zio Phil, c’era un posto dove desiderava andare.

*****

«Ciao!» esordì con tono squillante, lasciando subito posto a un certo imbarazzo. Si guardò attorno per qualche momento, anche se non sembrava esserci nessuno nei paraggi si vergognava del suo comportamento un po’ infantile e... sopra le righe, per il luogo in cui si trovava. Era così strano per lei parlare a qualcuno che non c’era più.
«Sono passati tanti anni dall’ultima volta che sono venuta a trovarti. Beh, forse sarebbe più giusto dire “dall’unica volta”», continuò, meno impacciata di prima, ma pur sempre a disagio. La voce era rotta dall’emozione. «Credevano che fossi troppo piccola per capire; non avevano voluto spiegarmi quello che era successo davvero e… la mamma non è più riuscita a venire da te, era troppo difficile.»
Sentì un leggero pizzicore agli occhi e si interruppe. Si portò la mano sul viso ad asciugarsi rapida le lacrime, prima che queste potessero bagnarle le guance.
«Avevo paura di dimenticarti, in questi anni. Fino a poco tempo fa non riuscivo a parlare di te con la mamma; neppure con Mickey. Lui è il mio fratellino. Sai, è proprio uguale a te! Ha persino la tua stessa voglia di fare e di imparare», gli raccontò, interrompendosi e trattenendo un singulto di pianto. «Ma lui non è te…» mormorò, coprendosi il viso con le mani inguantate. «Accidenti, ultimamente mi ritrovo sempre a piangere», ammise sottovoce, strofinandosi gli occhi e accennando un lieve sorriso.
Fece un respiro profondo, poi un altro, e sentì che la voglia di piangere le stava passando.
«La mamma ora è di nuovo serena e… sì, credo di poter dire che sia... felice! C’è lo zio Phil con lei; e anche con Mickey. Lui sta crescendo bene, è circondato da tanto amore. Zio Phil è stato un buon padre anche per me. Sono sicura che tu non sei geloso di questo, vero? Hai sempre dato la priorità alla felicità degli altri, della tua famiglia, soprattutto. Ma nessuno può sostituirti davvero.»
Si accovacciò ad accarezzare la fredda pietra della lapide. «Perché ci hai lasciati? Perché lo hai fatto?» disse, trattenendosi a stento dallo scoppiare a piangere. Si coprì di nuovo il viso con le mani e fece dei respiri profondi per calmarsi. Poi, diede una lunga occhiata a quel settore del cimitero. Si rattristò nel constatare che si era popolato di nuovi ospiti. Ma era naturale, la gente moriva di continuo. «Credevo che avrei trovato tutto in abbandono, dopo così tanti anni, come quella tomba là. Invece… quelle persone che ho visto prima…»
Si girò indietro, nella direzione presa dai due distinti uomini di mezza età che aveva incrociato poco prima, nella speranza magari di riuscire a intravederli ancora. Quando le erano passati accanto, non aveva badato molto a loro, intenta a seguire la piantina che le aveva disegnato il custode del cimitero su un foglietto e a guardarsi attorno per cercare la tomba del padre.
«Erano tuoi colleghi? Magari della procura?» disse, come se Gregory avesse potuto risponderle. «Forse no», sospirò poi. «Vestivano troppo bene per essere poliziotti. Avvocati… sì, ma non della procura. Ne sono sicura. Non hanno proprio l’aspetto di pubblici ufficiali», considerò con un mezzo sorriso. «Ti hanno portato questi fiori freschi. Su nessun’altra ce ne sono e poi, questa composizione sembra anche essere costosa. Io… perdonami, sono a mani vuote.»
Strizzò gli occhi per tentare di fermare le ennesimi lacrime, ma ormai era troppo tardi, queste scorrevano libere e liberatorie. Erano così piacevolmente calde, mentre scendevano sulla pelle del viso arrossata dal freddo della sera che stava calando. Erano lievi e confortevoli come carezze.
Si rimise in piedi e fece ancora dei respiri profondi. Il suo sguardo era tornato sereno, ma al tempo stesso determinato. «Non sono qui di fronte a te a giurare sulla tua tomba che troverò il bastardo che ti ha strappato a noi e che ti vendicherò. Non siamo in un film, né tantomeno in un romanzo; e io non sono certo un’eroina tragica. Però, voglio sapere la verità! La cercherò. Non so ancora con quali mezzi e quanto tempo mi ci vorrà, ma la cercherò e la troverò! In questi anni ho osservato lo zio Phil nel suo lavoro, spesso l’ho anche aiutato, quando mi è stato possibile. Ma non ti preoccupare, mai niente di pericoloso», gli disse con un sorriso, immaginando in quel momento il padre pronto a mostrare la propria preoccupazione. Ma la sua voce uscì con meno convinzione di prima, perché sapeva bene di aver mentito. Si portò istintivamente una mano al ventre, mentre si concedeva ancora un respiro lungo e profondo.
«Non ti preoccupare per me. Ho promesso allo zio Phil, e lo prometto anche a te, che farò attenzione e che non rovinerò la mia vita. Andrò avanti e mi costruirò quella vita della quale tu saresti stato orgoglioso.»
Si accovacciò ancora una volta, allungò la mano e accarezzò le lettere scolpite sulla lapide; lettere che componevano quel nome a lei tanto caro. Si stava sforzando di sorridere, perché sapeva che il padre avrebbe voluto vederla sempre sorridente, ma le lacrime avevano già ricominciato a scendere silenziose e irrefrenabili.
«La tua Caroline è tornata a casa, papà.»


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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***







VIII



Quando Cora giunse all’indirizzo indicato sul biglietto che le aveva preparato lo zio Phil, si erano già fatte le otto di sera e tutto era tremendamente buio, nonostante i lampioni e le varie insegne luminose. Non le piaceva più stare fuori la sera, né vedere quell’arcobaleno di luci al neon e led a intermittenza.
Indugiò per diversi minuti fuori dal locale, dubbiosa che l’indirizzo fosse davvero quello giusto. Di fronte a lei non c’era una casa dello studente, né un ostello, o un pensionato, ma un ristorante cinese; oltretutto era anche chiuso. Ricontrollò più volte il biglietto. Chiamò persino lo zio Phil al cellulare per avere un’ulteriore conferma: nome della strada e numero civico erano esatti.
Passò altri cinque minuti buoni a fare avanti e indietro su quella porzione di marciapiede antistante il ristorante Fiore di Luna, prima decidersi e provare a entrare. Ma quando si sentì finalmente pronta, le si materializzò di fronte un vecchietto cinese con un sorriso talmente esagerato da sembrare finto e la pelle tutta raggrinzita.
«Buonasera, signorina. Io sono Dohko!» si presentò lui, quasi cantilenando, con la classica inflessione cinese di quei film d’importazione che solitamente passavano sulla tv via cavo a notte fonda. «Puoi chiamarmi nonno Dohko, come fanno tutti nel quartiere, oppure semplicemente Dohko!»
Le strinse la mano con vigore, come in una presentazione formale, anche se di formale non c’era proprio nulla. Poi, la trascinò all’interno del ristorante, prendendola a braccetto, senza neanche concederle il tempo di presentarsi a sua volta. Le sorrise, mostrandole orgoglioso la dentiera in tutta la sua scintillante presenza, mentre l’accompagnava attraverso la sala, passando fra i tavoli, facendo ampi gesti con il braccio.
Quando raccontò l’aneddoto che riguardava un piccolo arazzo appeso al muro, raffigurante un grande drago verde acciambellato sul fondo di un lago, ai piedi di una cascata, il suo sorriso si allargò in modo talmente esagerato che d’improvviso la dentiera gli cadde a terra, rotolando vicino ai piedi della giovane e iniziando a saltellare di qua e di là come se avesse vita propria.
Ci furono diversi secondi di silenzio imbarazzato.
«Che strano…» borbottò il vecchio, grattandosi il mento con la mano avvizzita. «La gag di nonno Simpson funziona sempre», considerò, perdendo all’improvviso il suo finto accento cinese, per un’inflessione più bostoniana che suonava ben più strana e finta di quella precedente. «Di solito la gente o si spaventa o ride, quando la vede.»
Sul suo viso rugoso comparve un'evidente delusione nel vedere come la ragazza fosse rimasta perlopiù impassibile.
«Beh, non è che sia così tanto spaventosa, né divertente», rispose lei, fissando per qualche secondo quel coso saltellante che sbatteva contro la sua sacca. «Al massimo fa un po’ schifo», mormorò, scansando con il piede quell’oggetto indemoniato.
«Bah, i giovani d’oggi!» sbuffò l’altro. «Un povero vecchio si impegna per fare qualcosa di simpatico e guarda cosa ottiene», si lamentò, chinandosi agilmente per raccogliere la dentiera finta. La ripulì con un fazzoletto e se la mise in tasca. «Immagino che non avrai ancora cenato. Prima mangiamo qualcosa e poi, con calma, ti accompagno nella tua nuova casa. È proprio qui a due passi! Ti piace la cucina cinese, vero?» le chiese, prendendola di nuovo a braccetto e invitandola a sedersi al tavolo. Con un gesto della mano chiamò una ragazzina minuta e dalla lunga treccia nera, fasciata in un appariscente cheongsam fucsia, che aveva presentato a Cora come sua nipote. Si rivolse alla giovane in stretto cantonese per un paio di minuti e, dopo essersi congedata con un inchino, questa scomparve dietro la porta della cucina.
Quella cena atipica, per Cora trascorse abbastanza gradevolmente. Dohko iniziò a raccontarle di come conobbe Burton e di come, da una collaborazione obbligata, si trasformò in seguito in una sorta di amicizia.
«Sono trascorsi più di trent’anni. All'epoca facevo l’amministratore condominiale di un palazzo assolutamente rispettabile», disse, con espressione pensosa, prendendo una boccata dalla sigaretta che teneva fra le dita magre e ossute. La guardò di sottecchi mentre pronunciava la parola “rispettabile”, per studiarne la reazione. «Un giorno ci fu una retata a causa di una telefonata anonima. L’inquilino di uno degli appartamenti del secondo piano aveva trasformato la casa in un vero e proprio bazar dello spaccio.» Tirò un’altra boccata. «Quello stupido era stato beccato con le mani nel sacco; ma invece di farsi arrestare, era venuto a nascondersi da me. E io, povero erborista…» sospirò, mettendosi una mano sul petto, «sono stato messo in mezzo.»
La storia che il vecchio stava raccontando in realtà era diversa da ciò che successe. L’allora quarantenne Dohko era stato beccato con della “roba” non proprio legale fra le mani, o meglio, sotto il materasso, che lui stesso spacciava, soprattutto agli studenti universitari e dei college che bazzicavano il quartiere. Il cinese aveva giurato e spergiurato che quegli strani intrugli erano innocue erbe medicinali, usate comunemente come tisane e rimedi tradizionali. La sua dichiarazione era sembrata abbastanza convincente, ma le analisi di laboratorio lo avevano smentito. Allora, sfruttando l’opportunità che gli si era presentata con quell’arresto, Burton aveva deciso di evitargli il processo e la conseguente galera, a patto che diventasse un suo informatore. Negli anni seguenti, Dohko aveva saputo rendersi utile in più occasioni, anche se il vizietto delle “medicine” non lo perse mai; e a quel punto però le autorità preferirono chiudere un occhio.

Come le aveva promesso, Dohko l'accompagnò a vedere la sua nuova casa. L’alloggio era situato al quarto piano della vecchia palazzina nella quale, ancora oggi, il cinese faceva l’amministratore. Mentre salivano le scale, lui le raccontò che la situazione era diversa da un tempo: che ci vivevano famiglie perbene e studenti responsabili, che non avrebbe avuto problemi e si sarebbe trovata bene e che, per qualsiasi cosa, avrebbe potuto contare su di lui. Poi la informò che, oltre al suo, vi era un altro appartamento ancora disponibile, ma che sarebbe stato occupato a breve da alcune ragazze che venivano da New York, blaterando qualcosa del tipo “sono sicuro che farete subito amicizia”. Alla fine dell’ultima rampa di scale, iniziò a decantare le qualità di quel piccolo bilocale che si stava apprestando a mostrarle: spazioso, tranquillo, con un’ottima vista...
Cora fu investita da una vera e propria ondata di parole, ma la stanchezza del viaggio e l’apprensione per quel salto nel buio che stava compiendo – e che si mescolavano all’emozione di essere tornata nella sua amata Boston –, le impedirono di accorgersi dei troppi sorrisi melliflui che il vecchio le elargì per tutto il tempo. E ora, sola sulla soglia di quella che, per chissà quanto tempo, sarebbe stata casa sua, rimase letteralmente scioccata nel rendersi conto del vero stato delle cose. Il locale era piccolo e sporco. La mobilia degnia di un ricovero di tossici e le cianfrusaglie, sparse qua e là, completavano il quadro demoralizzante di una situazione al limite. Fece qualche passo all’interno dell’appartamento, guardandosi attorno schifata: la mente svuotata dai castelli di sabbia che si era creata.
«Quel vecchiaccio!» sbottò con rabbia, lasciando cadere a terra la sua sacca da viaggio e alzando una nuvola di polvere che la fece tossire ininterrottamente per diversi minuti. «Altro che amico fidato! Altro che “vedrai come ti piacerà”! Ha tirato il bidone a zio Phil e a me!» esclamò in modo nervoso, trattenendo a stento la voglia di scappare da lì a gambe levate.
Gradualmente, la rabbia scemò per lasciare spazio allo sconforto. Si guardò attorno con un poco più di calma. L’espressione sul suo viso mutò in delusione: non pretendeva certo chissà cosa, per iniziare la sua nuova vita da single, ma non pensava neanche potesse incominciare in modo tanto misero. Aveva sbagliato a far correre la fantasia durante il volo, immaginando una casa accogliente così com’era stata quella che lei e Chris avevano condiviso per anni: ci avevano lavorato assieme con passione per un’intera estate, durante il loro primo anno di convivenza, fra studio, lavoretti part-time e distrazioni più piacevoli, per renderla il loro nido. La cruda realtà che si presentava davanti ai suoi occhi infranse qualsiasi fantasticheria da commedia romantica: una sistemazione così spartana e mal messa come quella era un vero incubo.
Con le luci accese, quelle poche che funzionavano, la situazione si mostrava ancora più tragica. Le finestre erano sì grandi come le aveva detto Dohko – e la vista magari anche interessante – ma i vetri erano sporchi e ricoperti di strati di unto mescolato a polvere e qualcosa di indefinibile; in alcuni punti erano rimasti appiccicati brandelli di fogli di giornale, troppo cotti dal sole. Gli infissi di legno erano tutti scrostati e piccoli mucchietti di scaglie di vernice si erano accumulate per terra. Le tendine a pacchetto, che completavano il quadro disastroso e che sembravano reggersi per miracolo, avevano un aspetto poco rassicurante con quella stoffa dai motivi anni ’70. Se la si fissava per qualche secondo di troppo, poteva dare effetti psichedelici. I muri erano di un improponibile color caffellatte sbiadito; ma non ne era sicura, visto che erano ricoperti da una patina nerastra di fumo di sigarette e chissà che altro.
Azzardò qualche passo per esplorare la stanza, arrivando a sbirciare oltre il muretto basso che delimitava la cucina, forse l’unico ambiente decente, in quella catastrofe che aveva sotto gli occhi. Era completa di mobiletti e pensili, anche se alcune antine erano state scardinate e appoggiate alla parete; gli elettrodomestici invece sembravano ancora in buone condizioni e avrebbe potuto usarli, previa una profonda disinfettata. Nella camera da letto e nel bagno non aveva proprio voglia di avventurarsi, almeno per quella sera. Forse l'indomani, alla luce del giorno, la situazione le sarebbe sembrata meno disperata.
Fece un grande sospiro e si avvicinò al divano, facendo attenzione a dove metteva i piedi: qua e là c’erano scatoloni pieni di bottiglie vuote, vecchi quotidiani e cianfrusaglie varie. Tutti impolverati e coperti da ragnatele spesse come tessuti di lino, così come quelle che pendevano dagli angoli del soffitto: avevano un aspetto davvero poco rassicurante. Si mosse con cautela in mezzo a quello sfacelo, quasi con timore di trovarsi davanti a sorprese raccapriccianti.
«L’ultimo inquilino è stato piuttosto negligente quando ha lasciato la casa. Non si è neanche preoccupato di fare le pulizie. Ben gli sta se quel vecchio imbroglione si è tenuto la caparra!» provò a ironizzare.
Se le parti visibili dell’appartamento erano in quello stato, come sarebbero state le tubature e l’impianto elettrico?
Prima di lasciarla, Dohko le disse, con il suo immancabile sorrisetto da jolly stampato in faccia, che poteva fare qualsiasi lavoro nell’appartamento, che ogni miglioria sarebbe stata ben accetta e che, come ricompensa, non avrebbe pagato l’affitto. Terminò dicendole di rivolgersi a lui per qualunque problema.
Cora continuò a rigirarsi nervosamente le chiavi nella mano, facendole tintinnare.
«Fare qualche lavoro…» considerò. «Per forza, questa “cosa” è una topaia invivibile! Solo un disperato potrebbe accettare di stare qui. Oppure qualche criminale latitante. Qui mi sa che dovrei chiamare la donna dei miracoli: Norma Vally, la diva del fai da te!»
Sbuffò sonoramente. Si accostò al divano, liberandone i cuscini e, vincendo il ribrezzo che stava provando, si sedette, stringendosi nelle spalle.
Se lo sentiva che quella prima notte sarebbe stata difficile: lontana dalla sua famiglia e dai suoi amici, sola in un appartamento devastato e con chissà quali ospiti. Dalla tasca del cappotto prese il cellulare e si rannicchiò fra il bracciolo e lo schienale, portandosi le ginocchia al petto. Provò a chiudere gli occhi, ma ogni rumore, o scricchiolio, glieli faceva riaprire e rabbrividire di paura. Nella sua mano stringeva forte il cellulare, provò la tentazione di telefonare di nuovo a casa, ma se lo avesse fatto, di certo non sarebbe riuscita a mentire e dire che andava tutto bene. Fissò lo sguardo sul display: ancora per pochi minuti portava la data 2/25/10.

*****

Le ci vollero circa due settimane, dal mattino presto fino a mezzanotte inoltrata, per ristrutturare e dare una parvenza di decenza a quelle quattro mura sgangherate. Furono giorni interminabili, nei quali usciva solo per buttare calcinacci e robaccia nei cassonetti e comprare materiale per stuccare buchi, ridipingere e pulire. Le sembrò di non fare altro da tutta una vita: grattare, scrostare, smacchiare, lavare e ramazzare. Il budget che aveva previsto per il primo mese era stato speso così velocemente che neanche se n’era accorta; e anche quello per il secondo era stato intaccato. Dopo appena quattro giorni di lavoro aveva subìto una battuta d’arresto per la presenza di problemi ingestibili per lei. Era dovuta scendere a compromessi con Dohko per poter chiamare un’impresa edile, riuscendo a farlo partecipare alle spese per la metà dell’ammontare. Non si era mai considerata una tirchia, né una spendacciona senza ritegno, ma piangeva lacrime amare ogniqualvolta doveva aprire il portafoglio, anche solo per una spesa banale. Senza lavoro, senza la famiglia vicina, senza Chris – al quale solitamente faceva fare i lavori più pensati –, era veramente dura; e il suo conto corrente si prosciugava senza sosta. Mancavano ancora più di due mesi e mezzo al suo fatidico ventiquattresimo compleanno, una data importante che avrebbe segnato un’altra svolta per lei, ma intanto doveva trovarsi un lavoro. Per sua fortuna ci aveva pensato lo zio Phil, che le aveva mandato una e-mail con i recapiti di un certo Edward Price, un ex collega del suo distretto, ora in pensione.
Approfittando della bella giornata per prendersi una pausa dai lavori, entrò in una caffetteria che offriva anche servizio internet. Ordinò un tè freddo e si sedette al tavolo dove c’era un computer libero. Le bastarono pochi secondi per arrivare alla biografia del titolare dell’agenzia: Edward Price, afroamericano di sessant’anni, ex poliziotto. Dalla foto sembrava robusto e corpulento. Cora sorrise, ripensando allo zio Phil: evidentemente era prassi comune per gli agenti in pensione reciclarsi come investigatori privati. Scorrendo le informazioni lesse che l’uomo era impegnato anche nel volontariato presso un’associazione per il supporto delle donne maltrattate, come istruttore di autodifesa. Sentì una leggera fitta allo stomaco che le fece portare inconsciamente la mano al ventre.
Riprese a navigare sul sito dell’agenzia investigativa, scacciando i brutti pensieri che le erano riaffiorati alla mente. Lesse che Edward Price faceva parte di un nutrito gruppo di consulenti tecnici dei quali si avvaleva niente meno che lo studio legale più famoso e potente di Boston, se non addirittura dell’intero Stato del Massachusetts: il rinomato studio “Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor e associati”, che vantava nomi eccellenti e di alto profilo fra i suoi clienti. Cliccò sul link della e-mail e, dopo qualche minuto di riflessione, scrisse alcune righe di presentazione per richiedere un colloquio di lavoro. Poi, si avviò di nuovo verso casa.

*****

Cora osservò il risultato dei propri sforzi. Aveva la testa piena di dubbi, ma si sentiva anche soddisfatta. Fece una panoramica dell'intera casa. Il colpo d'occhio era eccellente. Mancavano giusto gli ultimi ritocchi affinché tutto fosse perfetto: qualche quadro alle pareti, un paio di lampade e una pianta, per rallegrare il tutto.
“Non è una casa senza un po' di verde!” dicevano le riviste di arredamento che amava leggere.
Le pareti del salotto avevano preso una tonalità luminosa e vivace con quel giallo limone che aveva scelto; e l'effetto spugnato, molto fitto, che aveva dato con due diverse tonalità chiare di corallo, ne smorzava l'eccessiva intensità, donando all'ambiente una sensazione di calore familiare e al tempo stesso di ricercatezza. L'aver poi utilizzato gli stessi colori e la stessa tecnica anche per la cucina dava un senso di continuità ai due ambienti, divisi solo da un tramezzo e un muretto basso al quale era stato fissato il bancone per la colazione in laminato color caffè.
Lo stesso color caffè era poi stato ripreso per rinnovare i pensili e i mobiletti della cucina. Cora li aveva rimessi a nuovo con non poca fatica: stuccati, carteggiati e ridipinti; aggiungendovi infine maniglie e pomoli nuovi, dalle linee classiche e finitura bronzo.
Anche i pochi mobili che si era dovuta procurare – una libreria, lo scrittoio per il computer e un paio di tavolini – erano stati trattati con l'avanzo del color caffè della cucina. Era stata fortunata a trovare ciò che le serviva a un mercatino privato per poche centinaia di dollari. Con una nuova tappezzeria il divano si era trasformato; e un bel pouf tondo, trovato di una stoffa a tinta unita, che ben si accordava con il resto, aveva completato l'arredo.
Il pezzo forte del bilocale però era la camera da letto. Di quelle due settimane di duro lavoro ben tre giorni interi erano occorsi solo per quella stanza.
Tolta l'inguardabile carta da parati che cadeva a pezzi, Cora aveva deciso di tinteggiare le pareti con un sofisticato grigio perla dalla tonalità media, vivacizzandola con dei motivi arabescati in color avorio. Dello stesso avorio aveva dipinto anche il letto, i due comodini, il comò e persino l'anta a persiana della cabina armadio.
In ultimo, per dare un vezzo più femminile, aveva trovato delle tende di cotone pesante, di uno splendido rosa antico, che stavano a pennello appese alla doppia finestra. E non erano costate neanche tanto!
«Ci vorrebbe qualcosa per festeggiare», disse, dedicando all'appartamento un'altra profonda occhiata soddisfatta.
Si concesse un respiro profondo: nella casa si respirava un forte odore di vernice fresca. Ai più poteva dare fastidio, ma per lei era quasi un piacevole profumo. Ora però, sentiva la necessità di uscire e respirare davvero. Ne avrebbe approfittato per dare fondo agli ultimi dollari che le erano rimasti in tasca, per fare una spesa decente, prendere le ultime cose che le mancavano e anche per girare finalmente per le vie del quartiere che ancora conosceva poco.

*****

Il giovane si stava apprestando a chiudere la porta del negozio, una grossa busta di carta appoggiata a terra contro la sua gamba, quando un raggio di sole tinto delle prime sfumature del tramonto si rifrasse su un angolo della vecchia vetrinetta e, per qualche frazione di secondo, lo abbagliò. Si portò una mano sugli occhi, sfregandoli con forza. Poi, guardò di nuovo, con maggiore attenzione, seguendo i fasci luminosi che penetravano fra i pertugi dei vecchi fogli di giornale appicciccati sui vetri. Sorrise nel vedere in controluce il pulviscolo di polvere danzare nell’aria, proprio come quel lontano giorno, quando era entrato nel negozio per la prima volta.

Aveva trovato l'indirizzo di quel luogo su internet, ne aveva memorizzato il percorso, ma ugualmente aveva avuto qualche difficoltà e si era dovuto districare tra fermate dell'autobus mai viste e timide richieste a qualche passante. Proprio lui che non andava molto d'accordo con gli estranei. Più volte, camminando per quelle strade, aveva dubitato di quella sua impresa, compiuta all'insaputa della famiglia. Si potevano contare sulla punta delle dita di una mano le volte che si era avventurato in città da solo. E, a causa di tale inesperienza, la sua testa era piena di un unico pensiero: tornare a casa. Eppure aveva proseguito fino alla sua meta.
Quando aveva varcato la soglia di quella piccola bottega, annunciato dallo scampanellio di una vecchia campanella di ottone, era stato sopraffatto dalle emozioni. Il suo cuore era in subbuglio e l'unica cosa che aveva potuto fare, per non svenire, era stato stringersi al petto quel pacchettino che aveva portato con sé.
L'ambiente che aveva trovato era scuro e polveroso. Sembrava congelato nel tempo. L'unica vetrina, così come la porta a vetri, era ricoperta da fogli di giornali vecchi e ingialliti, tenuti attaccati con dei pezzetti di scotch, ormai secchi e altrettanto ingialliti. In alcuni punti la carta era strappata e faceva filtrare dall'esterno un sole abbagliante che accentuava il gioco di luci e ombre all'interno. In quel momento si era sentito come il giovane Bastian, il protagonista de “La storia infinita”, un libro che aveva amato molto da bambino. E, proprio come in quella storia, un vecchio dall’aspetto burbero lo aveva accolto in malomodo. Saga aveva sussultato, ma aveva resistito, poiché era lì per un motivo per lui importante. Era avanzato con cautela, a passi lenti, trattenendo il respiro e tenendo ben stretto il suo pacchetto, guardandosi attorno stranito. Era circondato da pile di libri e strani strumenti lasciati in disordine. L'aria era impregnata di odori particolari, pungenti, di colla, pelle lavorata, muffa, olii e grassi. Soprattutto, c'era l'odore della carta, quella dei libri vecchi, che gli dava un minimo di conforto, perché molto simile a quello che percepiva ogni volta che entrava nella grande e austera biblioteca di villa Hayes.
«Mi… mi scusi…» aveva balbettato il giovane.
«Che vuoi, ragazzo?» aveva tuonato il vecchio, facendo sobbalzare ancora una volta Saga. «Qui non c’è nulla per te. Vattene e non farmi perdere tempo! Il negozio è chiuso!» aveva detto minaccioso, muovendosi verso il retrobottega. «Chiuso per sempre…» aveva poi mormorato.
Il vecchio era sicuro di aver spaventato a sufficienza quel ragazzotto tutto tremante, che sarebbe scappato a gambe levate e non lo avrebbe più importunato.
«Io, veramente…» Saga aveva detto, facendo un gran respiro, «sono venuto per… ecco…» Stava provando ad articolare qualche parola di spiegazione, ma lo sguardo severo dell’uomo lo metteva in grande soggezione.
«Smettila di balbettare e vattene! Non ho tempo da perdere dietro un moccioso come te. Ho del lavoro da finire», gli aveva urlato senza più guardarlo, sparendo dietro una tendina a frange dal colore sbiadito.
Quando aveva sentito di nuovo lo scampanellio, l'uomo aveva accennato un sorriso. La calma e il silenzio che erano tornati nel suo negozio lo avevano indotto a calare la maschera del burbero, per tornare alla sua tristezza. Si era riaffacciato nel locale principale, sicuro di non trovarci nessuno; invece, con suo grande disappunto quel giovane era ancora lì, in piedi di fronte a un piccolo espositore semi nascosto in un angolo, completamente imbambolato.
Saga era infatti rimasto incantato da ciò che conteneva. Davanti ai suoi occhi vi erano tanti tipi di carte, diverse le une dalle altre, ordinate con estrema cura. Alcune erano sottili come la velina, altre spesse e grezze. Colorate di tante tinte e sfumature, dalle più tenui a quelle più accese e appariscenti; lisce, o con piccoli elementi al loro interno, che le rendevano uniche. Lì vicino c’era una vetrinetta semi coperta da un panno e molto impolverata; al suo interno vi erano piccoli tesori: scatoline e oggetti vari, tutti creati con quelle meravigliose carte. Aveva spostato il telo per guardare meglio; il vetro scorrevole della vetrina era rimasto un poco aperto. Ne aveva sfiorato la superficie lasciandovi l’impronta delle dita nella polvere. Poi, aveva scostato il vetro abbastanza per infilarci la mano.
«Togli quelle tue manacce e stai lontano da lì!» lo aveva minacciato il vecchio, avvicinandosi a lui con furia e incenerendolo con lo sguardo. «Nessuno deve neanche solo sfiorare con lo sguardo quelle cose», aveva tuonato ancora.
Le sue parole erano intrise di rabbia, odio e dolore. Aveva fatto sobbalzare il ragazzo e spaventare a tal punto che nel girarsi aveva urtato contro uno scaffale e, nel seguente impatto, erano caduti a terra diversi oggetti. Anche il pacchetto che teneva gelosamente con sé gli era scivolato dalle mani tremanti, picchiando di punta sul pavimento, aprendosi e mostrando un vecchio libro. Gli occhi di Saga si erano riempiti di lacrime per quello spavento subìto. Aveva iniziato a respirare con grande affanno, stringendosi nelle spalle e cercando di trattenere i singhiozzi. Non era abituato a vivere situazioni simili, non era abituato ad essere aggredito in quel modo, lui che da sempre era stato protetto da tutto e da tutti, coccolato, assecondato, trattato con estremo riguardo. L’espressione sul suo viso imberbe era terrorizzata. A dispetto del suo fisico, alto e atletico, sembrava tanto fragile e indifeso in quel momento, proprio come un bambino che aveva paura della sua stessa ombra.
«Mi dispiace, ragazzo.»
L’uomo gli si era avvicinato con cautela, per non spaventarlo ulteriormente, vedendo come il giovane aveva abbassato lo sguardo, rannicchiandosi sempre di più. Si era chinato con fatica, tenendosi con una mano la schiena dolorante e piena di acciacchi, e aveva raccolto quel libro da terra, dandogli un’occhiata.
«Eri venuto per questo?» gli aveva domandato, provando ad addolcire la voce ancora burbera. «È un libro raro e prezioso. Una prima edizione di “Uno yankee alla corte di re Artù”, autografata da Samuel Clemens.» Ne aveva sfogliato qualche pagina, borbottando nel notare che vi erano molti appunti scritti a mano sui margini delle pagine. Non erano scritte qualunque, ma dell'autore stesso. «La copertina si è danneggiata ancora di più con la caduta. Immagino che tu l'abbia preso senza permesso. Hai voluto leggerlo e lo hai rovinato.» Aveva sospirato, chiudendo il libro con cura. «È un vero peccato. Sono proprio queste note a margine che lo rendono un pezzo davvero unico e di grande valore.»
Il vecchio aveva alzato lo sguardo su Saga che se ne stava tutto rigido e tremante contro lo scaffale, con un’espressione tanto mortificata che all’uomo si era stretto il cuore.
«Vieni con me», gli aveva detto, prendendolo per il braccio. «Ci vorrà molto lavoro, ma lo rimetterò in sesto.»
Quel ragazzo gli aveva fatto una strana impressione: il maglione che indossava era di una scuola privata molto prestigiosa di Boston, i pantaloni e le scarpe erano su misura, si vedeva a occhio nudo, e il libro danneggiato aveva un valore che si aggirava attorno ai sette-ottomila dollari, forse anche di più, in condizioni migliori. Apparteneva quindi a una famiglia benestante, o forse addirittura ricca, eppure quel ragazzo non ostentava le sue origini come un bulletto arrogante.
Con un gesto inusuale per lui, il vecchio aveva fatto accomodare Saga nel salotto di casa sua, un appartamento più che dignitoso sopra il negozio, e gli aveva messo davanti una tazza di caffè fumante.
«Bevi che ti farà bene», lo aveva incoraggiato.
Saga aveva annuito debolmente e si era passato una mano sugli occhi per asciugare le prime lacrime che si erano formate; poi aveva preso la tazza e aveva iniziato a sorseggiare piano.
«Non era mia intenzione spaventarti in quel modo, ma vedi, quelli che volevi toccare sono oggetti molto importanti per me. Sono l’ultimo ricordo che mi è rimasto della mia unica nipotina, con la quale condividevo questa attività. Era tutto ciò che avevo…» aveva sussurrato con gli occhi lucidi.
Ora quel vecchio non sembrava più così spaventoso agli occhi di Saga e, grazie a quell’ambiente più familiare e alla bevanda calda, aromatizzata alla cannella, che lui non aveva mai assaggiato servita in quel modo, aveva iniziato a rasserenarsi.
«Quanti anni hai, ragazzo?» gli aveva chiesto il vecchio.
«Diciassette e mezzo», aveva risposto con imbarazzo Saga.
«Sei un po’ troppo grande per piangere come un bambino», aveva commentato l’uomo, prendendo il mezzo sigaro e l’accendino che teneva nel taschino della camicia e accendendolo con un paio di colpi di fiamma, sbuffando poi nell’aria un fumo molto denso.
«La mia Mina avrebbe avuto più o meno la tua stessa età.»
Il vecchio Josh, così si chiamava, era uno dei pochissimi cartai artigianali, se non l’unico, che erano rimasti in attività nell’intero Stato. Era però famoso soprattutto per il suo lavoro di restauratore. Negli anni passati, molte persone facoltose ed enti rinomati si erano rivolti a lui per le sue abilità. Il lavoro non gli era mai mancato, così come la gioia e la passione che infondeva in ciò che faceva; ma, dopo la morte prematura della sua nipotina Mina, avvenuta quasi dieci anni prima assieme ai suoi genitori, mentre facevano una gita nei cieli del Messico con un piccolo aereo da turismo, non aveva più voluto saperne di niente. Aveva chiuso la bottega, rifiutato altri lavori importanti; persino uscire di casa lo faceva solo perché costretto.
«Per quel libro…» aveva ripreso, «ci vorrà almeno una settimana, ma dovresti parlarne con tuo padre e raccontargli del danno.»
Saga aveva scrollato la testa, continuando a fissare l’uomo.
«Il libro è mio. Era un regalo», gli aveva risposto con naturalezza, sorseggiando ancora un po’ di caffè. «Ma l’ho rotto perché ero arrabbiato; e ora mi dispiace averlo fatto», aveva dovuto ammettere, abbassato di nuovo lo sguardo.
«Allora sarà anche tua responsabilità riparare al danno», lo aveva rimproverato con asprezza il vecchio, che era tornato a guardarlo con rinnovata severità.

Saga indugiò ancora un po’ sulla porta del negozio, appoggiandosi con la testa allo stipite in alluminio, chiudendo gli occhi e incurvando le labbra in un sorriso. Nella sua mente si erano fatti così nitidi quei ricordi nostalgici. Si era rivisto lì ancora ragazzino, spaurito e tremante, che aveva affrontato un orco, tanto burbero e spaventoso, quanto buono e generoso. Quello era stato un giorno pesante per lui, pieno di paura e lacrime, che aveva poi sfogato al sicuro nella sua camera da letto, una volta tornato a casa. Josh gli aveva detto che avrebbe dovuto porre rimedio al danno fatto, ma non si era aspettato che lo avrebbe dovuto fare con le sue stesse mani, imponendogli di presentarsi da lui due volte a settimana, dopo la scuola. Aveva iniziato a insegnargli l’abc di quel lavoro, facendolo esercitare su libri economici e quaderni, passando poi a qualcosa di maggior valore.
Erano passati quasi dieci anni da quando aveva messo piede per la prima volta in quella bottega e tutto, negli anni, era rimasto esattamente come a quel tempo. Perché il vecchio Josh voleva mantenere inalterato il ricordo della sua nipotina e Saga ora voleva mantenere il ricordo del suo maestro. Aveva trascorso tanti altri pomeriggi con quel vechio artigiano, anche oltre il tempo del restauro del suo libro. Di settimana in settimana si erano fatti i mesi; di mese in mese si erano fatti gli anni. E tutto quel tempo lo aveva passato ad ammirare l’artista, a imparare le sue tecniche e i suoi segreti; ad apprendere e far sue la pazienza e la devozione per quell’arte tanto antica che ormai quasi nessuno condivideva, fino a ereditarlo, quel mestiere. Avrebbe voluto apprendere ancora tante cose da Josh, che aveva imparato ad amare come un nonno – e l’altro, in quegli anni, l’aveva a sua volta amato come un vero nipote – ma il vecchio era malato da tempo e alla sua morte, non avendo altri parenti in vita, gli aveva lasciato tutto quello che possedeva: la bottega e l'appartamento con tutto quel che c'era dentro.
E allora Saga ne aveva fatto un luogo tutto suo, dove essere qualcuno di diverso da ciò che era abituato a essere, dove poteva essere semplicemente Saga.
Diede uno sguardo all’ora sul cellulare: erano solamente le cinque del pomeriggio, c’era tutto il tempo di tornare alla villa di Mystic Lake e riprendere il suo ruolo di rampollo della famiglia Hayes. Con l’alibi che gli aveva fornito Aiolia aveva a disposizione ancora due ore di libertà assoluta. Poteva quindi permettersi di portare di persona, alla scuola elementare del quartiere, quella pesante busta piena di libri, tornare indietro per cambiarsi e prendere l’autobus per Winchester.
Sbadigliò, coprendosi la bocca con la mano e si massaggiò il collo e le spalle che sentiva intorpidite.

*****

Con la testa fra le nuvole, le spalle ancora indolenzite e le mani nelle tasche dei jeans, scoloriti e consunti, Saga stava tornando pigramente verso il negozio dopo la sua commissione. Si guardava attorno in modo un po' distratto, osservando le vetrine dei negozi, i portoni delle case, dei ragazzini seduti sui gradini d’ingresso di un palazzo dall'altro lato della strada. Si sentiva sereno. Chiuse gli occhi, continuando a camminare, concentrandosi su quello che sentiva in sottofondo. Di tanto in tanto muoveva la testa, forse per identificare meglio un rumore. Li riaprì dopo qualche minuto e tutto gli sembrò diverso. Spostò lo sguardo verso il cielo, dove lentamente il sole stava sparendo oltre l'orizzonte. Quel giorno il tramonto era uno vero spettacolo.
Sorrise. La sua vita era senza preoccupazioni, né problemi, o affanni. Così sarebbe dovuto essere per tutti, invece spesso vedeva la gente correre qua e là, fare i salti mortali per sbarcare il lunario, contrattare per avere uno sconto su un prezzo già scontato, litigare per un nonnulla perché troppo stressata.
Girò di scatto la testa per l'improvviso latrato di un cane randagio, al quale era seguito un gran frastuono metallico e il miagolio isterico di un gatto. I versi venivano da un vicolo, qualche metro più avanti rispetto a lui. Quella disputa lo stava incuriosendo. Attraversò di corsa la carreggiata e si fermò di fronte al vicolo. Era buio. L'unico lampione presente non era ancora acceso e gli ultimi raggi di sole non arrivavano già più. Fece qualche passo in avanti: il gatto gli soffiò contro, inarcando la schiena, prima di saltare dal cassonetto chiuso a una sporgenza del muro e, di slancio, arrivare al primo pianerottolo della scala antincendio, entrando nell'appartamento dalla finestra lasciata un poco aperta.
Saga seguì i suoi movimenti con curiosità e ammirazione, domandandosi come potesse avere così tanta agilità un gatto che era menomato a una delle zampe posteriori. Poi, gettò uno sguardo lì vicino e, nello spazio fra i due cassonetti, notò alcuni scatoloni pieni di libri, buttati malamente. Si accovacciò e iniziò a studiarli uno per uno. Ce n’erano davvero tanti e di tutti i generi; si dispiacque nel vederli trattati come semplice spazzatura. Il vecchio Josh gli aveva insegnato a trattarli con riguardo e a considerarli tutti come dei tesori, dal più raro al più comune, ma gli aveva insegnato anche a distinguere fra quelli recuperabili e quelli invece che purtroppo dovevano terminare la propria vita al macero.
«Che gran peccato buttare via tutti questi libri.»
Si passò il dorso della mano sulla fronte sudata, spostando i capelli e riportandoli sotto la bandana che teneva legata in testa. In quasi venti minuti che era lì, aveva già fatto una catasta voluminosa che voleva portarsi via.
«Un paio di settimane di lavoro, forse qualcosa di più, e tutti questi torneranno quasi come nuovi. Potrebbero rimpinguare la biblioteca del centro giovanile della chiesa», commentò tutto soddisfatto, passandosi ancora una volta la mano sul volto e aggiungendo nel frattempo altri due libri.
Si spostò un poco verso destra, per meglio arrivare all'ultimo scatolone, che era più nascosto. Con il piede urtò il mucchietto che si era preparato; questo crollò di lato andando a colpire un barattolo di metallo che a sua volta rotolò in mezzo al vicolo. Non si scompose più di tanto e tornò a rovistare nell'immondizia.
«Ehi, tu! Cosa stai facendo?» urlò una voce femminile. La giovane fece qualche passo nel vicolo e si fermò per osservare meglio.
Da dove si trovava, non riusciva a distinguere bene, ma era comunque certa di aver intravisto qualcuno rannicchiato fra i cassonetti. Aguzzò la vista e riuscì a distinguere qualcosa di colore chiaro, forse una schiena. Per un attimo trattenne il respiro, riflettendo che si stava immischiando in una situazione potenzialmente pericolosa: se fosse stato davvero un malintenzionato come avrebbe reagito?
Nel sacchetto che reggeva nella mano sinistra c’erano un martello e un paio di cacciaviti che aveva appena acquistato e che avrebbe potuto usare come armi di difesa. Ma se invece fosse stato solo un animale randagio... quanto si sarebbe sentita sciocca nell’andare nel panico?
Si decise comunque a fare ancora qualche passo nel vicolo.
Saga si girò di scatto nella direzione di quella voce. Perse l’equilibrio e, nel cadere a terra, urtò altri libri, mentre con il piede colpì involontariamente una bottiglia di birra vuota, che rotolò verso la giovane, facendola sobbalzare per il rumore.
In quel momento i loro sguardi si incrociarono. Gli occhi di Saga si spalancarono di sorpresa e subito si sentì avvampare di vergogna, come un ragazzino colto con le mani nella marmellata. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco quella figura che vedeva solo come una sagoma scura che si trovava in controluce.
Anche Cora rimase sorpresa, anche se non per lo stesso motivo. Si aspettava di vedere un derelitto alcolizzato, o uno sbandato dallo sguardo truce e dal viso sfregiato che sarebbe fuggito via una volta beccato in flagrante. Invece... si ritrovò davanti a sé un giovane che, nonostante la miseria della condizione in cui si mostrava, dava l'idea di essere innocuo e, doveva ammettere con molto imbarazzo, anche carino. Si diede della stupida per quel pensiero così frivolo, mentre le sue gambe la portavano passo dopo passo vicino a lui.
Sembrava un senzatetto, con il viso a sporco di grasso, polvere e sudore. Eppure, nonostante la trascuratezza dei suoi abiti, non pareva affatto esserlo da troppo tempo.
Cora abbassò lo sguardo, pentendosi di essersi intromessa e di averlo pescato in quella situazione sicuramente umiliante. Rimuginò fra sé per alcuni secondi. Poi, appoggiò a terra uno dei sacchetti e si frugò in tasca, osservando dubbiosa ciò che aveva in mano. Il suo istinto le suggeriva di riprendere la strada e farsi gli affari propri: non valeva la pena andare a cercarsi guai, soprattutto in quel momento tanto precario della sua vita e non dopo la brutta avventura occorsale nella metropolitana a Philadelphia. Alzò di nuovo lo sguardo su quel ragazzo, vestito con jeans sporchi e un maglione sformato altrettanto sporco, appoggiato con la schiena al cassonetto, che la fissava stranito. Non le dava l'impressione di essere pericoloso. E ciò che aveva in mente di fare sarebbe stato solo un piccolo gesto, tanto era sicura che non lo avrebbe più incontrato. Si avvicinò di più a lui, fermandosi a un passo di distanza, pronta a scappare all’occorrenza. Lo guardò di nuovo: a quella distanza poteva scrutare meglio i suoi occhi, ancora belli e pieni di voglia di vivere; e il suo viso, sporco ma ben rasato. Allungò la mano e, trattenendo il respiro, gli offrì una banconota da cinque dollari.
«Tieni, prendili!» disse, insistendo anche con un leggero movimento del braccio. «Però non spenderli in alcolici o droghe, ma comprati qualcosa di decente da mangiare: un panino, un hot dog…»
Dopo avergli lasciato i soldi in mano, piena di imbarazzo, si allontanò subito da lui, riprendendo il sacchetto e uscendo dal vicolo quasi di corsa, mentre il giovane rimase di stucco e con il medesimo imbarazzo sul volto.

Cora non percorse che poche decine di metri, camminando a testa bassa e continuando a ripensare a quello strano incontro. Non riusciva a credere a come si fosse comportata. «Che cosa ti è saltato in mente? Non hai imparato proprio niente dall’ultima volta!» si rimproverò ad alta voce, guadagnandosi le occhiate sospettose di alcuni passanti.
Si fermò di colpo, in mezzo al marciapiede, voltandosi indietro verso quel vicolo. Nonostante i legittimi rimproveri che si stava facendo, in fondo non si era pentita di ciò che aveva fatto. L’impressione che gli era arrivata da quel ragazzo era stata tutt’altro che brutta. Si morse un labbro, continuando a fissare l'entrata del vicolo che ancora si poteva riconoscere. Poi, di gran carriera tornò sui suoi passi e si stupì di trovare il ragazzo ancora lì, seduto contro il cassonetto e con le ginocchia raccolte al petto. Lo osservò, un poco nascosta dall’angolo del palazzo: le sembrava triste. Aggrottò la fronte, pensando di averlo offeso.
«Mi rendo conto che non è molto quello che ti ho offerto e che tu probabilmente avresti bisogno di ben altro», gli disse, presentandosi di nuovo di fronte a lui, facendogli alzare lo sguardo ancora inebetito. «Mi dispiace», si scusò con tono sincero. Fece l'errore di fissarlo di nuovo negli occhi: erano così limpidi, dolci e malinconici allo stesso tempo; il suo cuore iniziò a battere più forte. «Anch'io sono a corto di soldi in questi giorni. Devo… devo tirare avanti fino al primo del mese…» balbettò con grande imbarazzo.
Anche Cora, a una prima occhiata, non si presentava poi tanto diversamente da lui, che era stato sorpreso a rovistare nell’immondizia. Vestiva una salopette di jeans sporca di vernice, sopra una felpa grigia in jersey con i bordi tagliuzzati e delle vecchie scarpe da ginnastica.
«Però, ecco… questa posso dartela, così avrai qualcosa da bere», disse, prendendo da uno dei sacchetti della spesa una bottiglietta d’acqua e porgendogliela senza aggiungere altro.
«Grazie», rispose Saga, riuscendo a malapena a celare l’incertezza nella sua voce. Abbassò un poco la testa, per nascondere gli occhi che stavano diventando lucidi.
«Ti ho offeso ancora? Mi dispiace, non era mia intenzione», si scusò di nuovo la ragazza, con un filo di voce. «Sono una perfetta idiota. Perdonami, ti prego. Ritiro la mia offerta!» si affrettò a dire, raggiungendo un livello di imbarazzo tale che non riusciva più a ragionare.
«No! Per favore.»
Saga trattenne con inaspettato vigore quella bottiglietta, sfiorando con le dita la mano della ragazza, che subito lasciò la presa, come spaventata. Era stato un attimo tanto fuggevole che lui non era sicuro di cosa avesse provato, ma quel breve contatto lo aveva scosso.
«L’accetto volentieri», le rispose con un timido sorriso di gratitudine.

*****

Saga percorse la strada verso il negozio totalmente in trance, dimenticandosi persino dei libri che voleva portarsi via. Si fece una lunga doccia calda, per togliersi tutta la sporcizia di dosso, ma quel torpore, quelle strane sensazioni che aveva provato in quel vicolo, erano ancora lì. Anzi, se possibile, si sentiva ancora più stordito di prima. Per diverso tempo rimase poi seduto al tavolo da pranzo con lo sguardo perso nel vuoto; il cellulare, lì a portata di mano, continuava imperterrito a suonare e a vibrare. Meccanicamente lo prendeva e rifiutava la chiamata, oppure lasciava che si inserisse la segreteria telefonica.
Sospirò, appoggiando la fronte al tavolo. Se anche avesse risposto a qualcuna di quelle chiamate, di certo non avrebbe afferrato la metà di quello che gli sarebbe stato detto. Continuò a rimuginare su quanto gli era successo quel pomeriggio. Non riusciva a darsi una spiegazione. Era la cosa più assurda che avesse mai vissuto in tutta la sua vita. Alzò la testa e fissò di nuovo quei cinque dollari tutti spiegazzati. Poi sospirò e si riappoggiò al tavolo.
«Scambiato per un accattone.»
Non riusciva a capacitarsene: era stato fatto oggetto di elemosina e compatimento. Lui, che apparteneva a una delle famiglie più ricche di Boston. Si passò la mano sugli occhi e per un secondo sorrise: se fosse accaduto a suo fratello Kenneth... di certo avrebbe reagito con un sorriso e si sarebbe intascato i soldi con tanto di ringraziamenti.
«Basta! È inutile!» esclamò, battendo la mano sul tavolo e alzandosi di scatto.
Uscì dall’appartamento in tutta fretta e le idee ancora più confuse di prima.
Il fresco della sera gli provocò un brivido. D’istinto si srotolò le maniche della camicia, tirando giù anche quelle del maglione, stringendosi poi nelle spalle e sfregandosi più volte le braccia infreddolite. Avrebbe dovuto prevedere una differenza di temperatura di quel genere, visto il periodo, ma quella giornata era stata così particolarmente calda che non sembrava affatto di essere appena a metà marzo. Con la sera però, tutto era tornato nella norma e ora rimpiangeva di aver lasciato a casa il cappotto. Si appuntò mentalmente di tenerne uno anche nell'appartamento sopra il negozio, per non incorrere più in futuro nello stesso errore.
Si incamminò sul marciapiede, le mani ben ficcate nelle tasche dei jeans, la testa bassa e incassata nelle spalle. La sua mente continuava a tornare a quel pomeriggio, a quell’incontro, a quella ragazza. Non stava guardando in quale direzione stava procedendo, ma se avesse prestato attenzione si sarebbe accorto di aver preso la strada sbagliata, opposta a quella che portava alla fermata dell'autobus. Ma forse... forse, tutto sommato, aveva preso quella giusta.

Ancora una volta, Cora ritornò sui suoi passi. Quella giornata bizzarra sembrava non voler proprio finire, così come i guai che si era andata a cercare. Le braccia iniziavano a farle male: quelle due borse della spesa se le stava trascinando da tutto il pomeriggio. Di tanto in tanto si affacciava nella sua mente il pensiero che la sua spesa probabilmente non avrebbe visto il frigorifero ma sarebbe finita direttamente nel cassonetto dei rifiuti, se non si fosse sbrigata a rientrare a casa. Ma come poteva farlo se non trovava più le chiavi?
Se n'era accorta solo una volta arrivata davanti al portone della palazzina. Aveva citofonato con molta insistenza a Dohko, per chiedergli aiuto e un duplicato delle chiavi, ma non aveva risposto nessuno. Era persino andata al ristorante cinese e aveva parlato con la nipote, ma anche lei non le era stata un granché d'aiuto.
«Ma proprio oggi doveva sparire quel vecchio?» borbottò, stanca, demoralizzata e arrabbiata con se stessa.
L'unica cosa che poteva fare era ripercorrere a ritroso la strada che aveva fatto quel giorno: tornare nei negozi dove si era fermata per gli acquisti, fare di nuovo una sosta alla caffetteria con l'internet point dove nel primo pomeriggio si era rilassata un paio di ore, cercare fra gli scaffali della piccola libreria dove aveva guardato alcuni manuali. Quel vicolo buio era l'ultimo luogo in cui era stata, prima di tornare dritta a casa: era la sua ultima spiaggia!
Teneva lo sguardo fisso per terra, mentre camminava a piccoli passi. Cominciava a sentire un certo bruciore agli occhi e la vista iniziava a diventare sfocata, per il troppo insistere nella sua ricerca. Non voleva lasciarsi sfuggire neanche un centimetro di asfalto e, con la luce fioca del lampione, sembrava un'impresa impossibile. Era concentrata al massimo, con le difese completamente abbassate. La sua preoccupazione maggiore era quella di rimanere all'addiaccio, senza soldi e con il cellulare con la batteria quasi morta.
Con la sera che era ormai calata, il vicolo era diventato più tetro e spaventoso. Il rumore sordo delle ventole di aspirazione che andavano a tutto spiano, lo rendevano spettrale; gli sgocciolii delle grondaie lo popolavano di presenze inquietanti, i toc sull'asfalto sembravano i passi di predatori notturni. A ogni rientranza poteva celarsi un pericolo: un barbone matto, un tossico in cerca di soldi per una dose, un maniaco che aspettava la sua prossima vittima, o una prostitura al lavoro, sorvegliata dal suo protettore. Ogni rumore fuori posto poteva indicare una possibile minaccia. Chiunque poteva attendere fra le ombre di quel passaggio tenebroso, osservando con occhi avidi e rapaci l'ignara e incosapevole vittima. E Cora, in quel momento, era la più facile delle prede.

Saga camminò a lungo, sempre con la testa fra le nuvole, e quando tornò alla realtà si ritrovò nello stesso luogo di quell'incontro che lo aveva turbato tanto. Era stato come se una mano invisibile lo avesse accompagnare lì per concludere una questione rimasta in sospeso. Si grattò la testa, osservando quella specie di antro inospitale. Era ormai tardi per recuperare i libri che si era lasciato indietro. Sbuffò, non gli piaceva quel luogo. Era pronto a girare sui tacchi e cercare un taxi che lo riportasse a Winchester; ma, per un breve istante, gli parve di intravedere la stessa ragazza di quel pomeriggio aggirarsi nel vicolo a testa bassa. Le sue labbra si piegarono in un sorriso, mentre continuava a seguire i suoi movimenti. Non sapeva spiegarsene il motivo ma gli faceva tenerezza. Allo stesso tempo però, sentiva dei brividi gelidi salirgli lentamente su per la schiena.
Era quel vicolo.
Gli stava mettendo addosso una strana angoscia. Per qualche secondo si tormentò il labbro, indeciso sul da farsi. Poi, dopo un respiro profondo, si immerse in quell'oscurità umida e sporca.
«Scusa il ritardo!» le disse con voce dolce e decisa, tagliando il nervoso silenzio che aleggiava nel vicolo. Le arrivò velocemente vicino e la strinse a sé. «È tanto che aspetti?»
«Cos…»
Nel sentirsi bloccata, Cora si girò di scatto ma non ebbe neanche il tempo per terminare la prima parola che fu baciata all’improvviso. Era stato lieve, fugace, un semplice sfiorarsi di labbra, ma tanto bastò per farla arrossire e quasi sciogliersi. Completamente inebetita, si lasciò trascinare via dal ragazzo senza reagire.
«Vieni, andiamo a casa», le disse, prendendole entrambe le borse della spesa con una mano, mentre con l'altra afferrò la sua.
Si incamminarono velocemente fuori dal vicolo: quei brividi erano tornati a solleticargli le ossa, facendogli sperimentare un'inquietudine mai provata prima. Girarono subito a destra, procedendo sempre dritti e a passo sostenuto per un lungo tratto. Passaro cinque minuti, forse dieci. Di tanto in tanto sentiva un poco di resistenza, ma non se ne preoccupò. Poi, gradualmente, rallentò l'andatura. L'urgenza di prima era scomparsa, lasciando posto a uno strano formicolio allo stomaco.
Erano sempre mano nella mano e Cora, quella stretta, la sentiva calda e rassicurante, ma anche gentile e decisa. Sulle labbra aveva ancora la sensazione del bacio e più ci pensava, più il cuore le batteva forte nel petto. Si stava lasciando trascinare senza capire cosa stesse succedendo. Poi, qualcosa la risvegliò.
«Ehi! Aspetta un attimo, ma tu chi sei?» domandò, provando a strattonare la mano, sentendo la presa di quel giovane farsi più debole. Una volta libera, si fermò lì, in mezzo al marciapiede, con la gente che camminava di fianco a loro due, volgendo lo sguardo quasi indifferente.
«Cosa succede?» domandò Saga, girandosi verso di lei.
«Come sarebbe a dire “cosa succede”? Mi hai baciata e trascinata per strada con te e non so neanche chi diavolo sei!» ribatté lei tutto d’un fiato, arrossendo sotto lo sguardo dolce e genuino dello sconosciuto. «E poi… non so neanche dove mi stai portando!»
«A dire il vero pensavo che tu sapessi dove andare. Stavo assecondando i tuoi passi», disse, alzando le spalle. Era stata una risposta tanto ingenua e lui aveva un’espressione tanto angelica sul suo viso pulito, che Cora non trovò motivi di dubitare della sua sincerità. «Dai, continuiamo a camminare», le propose, con un sorriso luminoso, offrendole di nuovo la mano.
Cora tentennò, osservando il palmo della sua mano. Rammentava la sensazione che aveva provato pochi istanti prima: una stretta calda, morbida, rassicurante… poi alzò lo sguardo su quegli occhi verdi, limpidi, profondi, che le trasmettevano un senso di sicurezza, che la persuadevano a dargli completa fiducia. Sensazioni che sapeva di aver già provato. «Sei… sei il barbone di questo pomeriggio?» le scappò dalla bocca.
All'improvviso si sentì una sciocca e maleducata. Si morse il labbro abbassando gli occhi, dispiaciuta per quelle sue parole, aspettando che l'altro le rispondesse per le rime. Invece da lui non arrivò alcun reazione negativa.
Saga sorrise imbarazzato. Le tese di nuovo la mano, proponendole ancora una volta di proseguire verso casa.
«A dire il vero era... due portoni più indietro», disse Cora, indicando con il dito nella direzione opposta a quella in cui stavano andando. «Ma non posso tornare a casa. Ho… ho perso le chiavi», ammise con vergogna.
«Capisco. È per questo che eri tornata in quel vicolo? È forse per colpa mia se le hai perse?» le domandò Saga, visibilmente dispiaciuto. «Hai già provato a ripercorrere ogni strada che hai fatto oggi?» chiese ancora, ricevendo un cenno affermativo. «E, hai provato a controllare anche qui dentro?» le chiese, indicando i sacchetti che aveva in mano. «Forse, quando… beh, sì insomma, potrebbero esserti cadute qui, quando ti sei frugata in tasca questo pomeriggio.»
Cora sgranò gli occhi. Sembrava una possibilità troppo ovvia, che lei l'aveva scartata senza neanche pensarci. E in quel momento si diede mentalmente della sciocca. Fissò quei sacchetti per diversi secondi. Che figura ci avrebbe fatto se davvero le avesse trovate lì dentro?
«Vogliamo darci un'occhiata?» le propose lui. Saga li posò a terra ed entrambi si accovacciarono, scrutando per qualche momento ancora quei due sacchetti di pastica.
Cora ne avvicinò uno a sé e iniziò a frugare al suo interno. Con la mano toccò, tastò, girò attorno alla confezione di biscotti, spostò la scatola di tonno, ribaltò i kleenex, andò sotto il pacchetto di wafer alla vaniglia. Fu in quel momento che le sembrò di aver sfiorato qualcosa di metallico. Con la punta delle dita lo toccò con maggiore insistenza, di più non riuscì a fare a meno di svuotare il sacchetto. Provò diverse volte; poi, con la punta delle dita, riuscì ad afferrare l'anello del portachiavi, sfilandolo da sotto un'altra scatola che non riuscì a riconoscere. Alzò lo sguardo sul ragazzo. Era consapevole di essere arrossita, mentre stringeva nella mano le chiavi di casa. Lui le stava sorridendo e questo fece crescere in lei ancora più imbarazzo.
«Eccole qui», mormorò, tenendo le chiavi strette nel pugno, abbassando lo sguardo.
«Sono felice per te», disse Saga. Annuì e si rialzò in piedi, porgendo la mano a Cora per aiutarla. «Ti accompagno, vuoi?»
«Ecco... ti andrebbe di... sì, insomma...» balbettò lei, la sua mano stretta in quella del ragazzo. «Per ringraziarti del tuo aiuto, pensavo... posso offrirti un caffè?»

La giovane saliva qualche gradino davanti a lui, non si voltò mai indietro mentre lo accompagnava su per le scale fino al suo appartamento, nonostante la tentazione fosse forte. Si fermò di fronte alla porta, facendo un respiro profondo. Il cuore ancora le batteva all'impazzata per il pericolo scampato. Non appena mise piede in casa, tutta la tensione le scivolò via. Compì i suoi gesti consueti: buttò le chiavi nel piattino di legno laccato che aveva acquistato in un negozietto e che usava come svuota tasche, le monetine di resto della spesa le inserì nel barattolo del “fondo risparmio per le emergenze e i vizi vari” che teneva sul bancone della colazione; se avesse indossato il giaccone, a quel punto lo avrebbe buttato sul divano. Infine si tolse le scarpe, scansandole sotto lo sgabello. Si girò verso il suo ospite – il viso imporporato a causa dell'aria della sera e gli occhi lucidi per la stanchezza –, gli sorrise timidamente e lo ringraziò ancora una volta per la gentilezza, invitandolo ad accomodarsi, intanto che prendeva le buste della spesa dalle sue mani e le appoggiava in cucina, vicino al lavello.
Gli diede le spalle e iniziò a togliere le cose dai sacchetti. «Dovrai accontentarti di quello istantaneo. La macchina del caffè non me la posso permettere per questo mese, ma fra qualche settimana, chissà!» gli disse. La verità era che non le era mai piaciuto molto il caffè, non quello che beve ogni buon americano che si rispetti. Avendo una madre italiana di nascita, era stata abituata anche lei alla moka tradizionale. Tante cose le preferiva “all'italiana”, come la pasta cucinata a dovere; e detestava i maccheroni al formaggio!
Aprì l’antina del pensile e si allungò più che poté, mettendosi anche sulle punte dei piedi, per riuscire a toccare con le dita il barattolo del caffè. Sbuffò: più cercava di prenderlo, più lo spingeva indietro. Ci provò con maggiore impegno, ma l'unico effetto che ne stava ricavando era un bello stiramento al collo. All'improvviso sentì una presenza alle sue spalle; poi una lieve pressione sulla schiena e una mano che, sfiorando la sua, afferrava il barattolo per lei. Era una sensazione rassicurante.
Lui era rimasto lì, così a contatto, per diversi secondi. Cora si sentì poi cingere la vita. Alle sue narici arrivò un profumo discreto di muschio bianco che per un attimo la inebriò.
Saga le passò il barattolo, rimanendo però ancora a contatto con il suo corpo. Cora trattenne il respiro: il suo cuore iniziò a battere rapido, mentre stringeva al petto quel barattolo di latta.
«Grazie», balbettò. «Siediti pure, faccio in un attimo.»
Provò a calmarsi facendo qualche respiro profondo e impegnando la mente con altri pensieri, ma con scarsi risultati.
Il ragazzo rimase in silenzio; le posò le mani sulle spalle e, con una carezza delicata, le spostò alcune ciocche di capelli castani dalla spalla sinistra, scoprendole il collo e appoggiandovi le labbra in un bacio leggero.
«Cosa… cosa stai facendo?» chiese lei, con voce incerta e rotta dal respiro che si stava facendo affannoso.
A fatica riuscì a girarsi e a guardarlo negli occhi. Quegli occhi verdi avevano qualcosa di particolare, erano così belli e limpidi che l’avevano ammaliata fin da subito, in quel vicolo, ma ora... ora erano così vicini a lei.
Saga le sorrise. Le accarezzò la guancia e le diede un altro bacio, sulla gota imporporata. Poi un altro ancora, breve e timido, sulla bocca appena dischiusa.
«Il tuo invito prevedeva anche altro, vero?»
Pronunciò quella frase scioccante con una serenità disarmante e senza alcun pudore, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Era una domanda alla quale non serviva una risposta. L’aveva già trovata negli occhi languidi di lei, in quel suo viso stupito e al tempo stesso imbarazzato, nel suo respiro irregolare e nel tambureggiare del suo cuore. E, per una strana coincidenza, erano gli stessi sintomi che anche lui sentiva di provare.
«Mi piacerebbe fosse così», le sussurrò, baciandola ancora. Contemporaneamente le slacciò le bretelle della salopette di jeans e le abbassò la pettorina, spostando poi le mani sui suoi fianchi.
Cora era alla completa mercé di quel ragazzo, ma era piacevole. No, non era stata quella la sua idea iniziale, non c’era stato nulla di allusivo in quel suo invito. Era solo un modo per sdebitarsi. Non aveva pensato a un “dopo”. Si stava lasciando andare gradualmente, sentendo le labbra morbide di lui che le accarezzavano il labbro inferiore e i suoi baci che sapevano di dentifricio alla menta. Senza prestare attenzione appoggiò il barattolo del caffè sul piano di lavoro e chiuse gli occhi. Forse, intimamente, l’aveva proposto per rispondere alle aspettative di quella strana attrazione che aveva sentito fin dal primo sguardo e che cresceva sempre di più in lei.
Gli aveva forse dato l’impressione di essere una ragazza facile?
Eppure si presentava quasi come un maschiaccio, sciatto e trasandato. In quelle settimane non aveva avuto tempo per sistemare i vestiti, né di mettere ordine fra le cose del make-up. Non aveva pensato a soddisfare il suo lato femminile: aveva dato la precedenza ad altro. E lui… Lui era così bello e gentile, in quella veste di principe azzurro. Cora se ne accorse subito di quel suo carisma delicato e protettivo, come quello di un angelo custode. Chissà quante altre ragazze erano cascate ai suoi piedi proprio come stava accadendo a lei, ammaliate da quei suoi modi semplici e diretti. Sentiva le sue mani che le stringevano i fianchi e la attiravano di più verso di lui.
Saga le sbottonò il primo bottone da ambo i lati, tanto bastò a far scivolare a terra la salopette. Poi, le accarezzò le cosce, continuando a baciarla senza un attimo di respiro; ma erano baci lenti, piacevoli, quasi rispettosi. Con tocchi gentili tornò sui suoi fianchi, la strinse un poco e, con una spinta, la fece sedere sul bordo del lavello. Era un momento così sensuale e romantico.
Mancava solo una canzone d'amore come sottofondo e sarebbe stato ancora più perfetto di quanto già non fosse. Lei sarebbe stata solamente l’ultima conquista in ordine di tempo di quel bel giovane?
Non le importava.
Davvero il suo invito prevedeva altro?
Perché mentire ancora a se stessa: lo aveva desiderato. Lo stava desiderando. Ma desiderare non l’avrebbe fatta sembrare una ragazza facile. Ora invece non riusciva più a trattenere quel desiderio. Gli accarezzò il volto in una pausa da quei baci; insinuò le dita fra quei capelli biondi, morbidi e setosi, lavati di fresco, e lo guardò negli occhi, mentre i loro respiri si mescolavano. Poi, lo baciò, con passione, con voglia, con desiderio ed eccitazione. Gli tolse il maglione, lasciandolo cadere a terra, gli sbottonò la camicia e gli accarezzò il petto nudo. Si guardarono negli occhi per qualche secondo, ansimando un poco. Lui le sorrise; lei sospirò a quella diabolica tentazione travestita da angelo. Lo sapeva, lo sentiva. Era un’altra ragazza nelle sua collezione, non poteva essere altrimenti, ma in quel momento si sentiva così bene da dimenticare la solitudine di quel suo nuovo principio.
Saga l'attirò a sé, facendosi cingere la vita dalle cosce di lei e facendo aderire i loro corpi. Riprese a baciarla, accarezzandole la schiena e insinuando le mani sotto la felpa. Le sue dita erano calde, il suo tocco delicato come la carezza di una piuma. Le fece alzare le braccia e gliela sfilò, lasciandola solamente con l’intimo. Poi la guardò ancora.
«In camera da letto», sussurrò lei.

*****

Quella mattina sembrava proprio non volerne sapere di dormire ancora un po’, né di alzarsi da quel letto. Dalle tende tirate si diffondeva una fastidiosa luce rossastra, invadente e molesta. Cora aprì gli occhi a fatica, cercando di mettere a fuoco la vista. Poco prima le era sembrato di aver sentito un soffio lieve sulla guancia, poi il letto oscillare un poco e quasi di scorgere, da sotto le palpebre chiuse, un’ombra attraversare quella luminosità. Era stata solo un’impressione, non poteva esserci nessuno. Si girò lentamente e guardò l’ora sul display della radiosveglia: le sette e un quarto. Era ancora decisamente troppo presto per lei. Richiuse gli occhi, strizzandoli e affondando il viso nel cuscino, mugugnando. Si avvolse ancora più stretta nelle coperte, come in un bozzolo. Sentiva un leggero cerchio alla testa e una fiacchezza in tutto il corpo; e poi, non ne era certa, si sentiva anche un po’ calda. Provò ad aprire di nuovo gli occhi: ora la luce le dava già meno fastidio. Inspirò profondamente e avvertì un brontolio sommesso allo stomaco. Non le pareva di ricordare di aver fatto nulla di anomalo la sera precedente per risentire di quegli strani effetti.
Un profumo che non le apparteneva, emozioni intense che l’avevano fatta eccitare, una disavventura che l’aveva angosciata un poco ma che si era risolta bene: sembravano tutte cose che facevano parte di un sogno strano. Allungò una mano verso l’altra metà del letto. Era disfatta, probabilmente si era agitata durante la notte.
Continuò a rigirarsi nel letto come un’anima in pena, con la voglia di dormire ancora e ancora e ancora, ma c'era quella sensazione di qualcosa fuori posto che la tormentava. Non c’era nulla da fare, prolungare quello stato le avrebbe solo fatto aumentare il mal di testa. Si rigirò un’ultima volta, portandosi dal lato opposto in cui dormiva di solito. Sentì un profumo delicato su quel cuscino, che richiamò alla sua mente, più vivido che mai, quel sogno, facendole provare ancora le stesse emozioni. Sulla pelle avvertiva le carezze lievi di mani gentili, il calore e il peso di un altro corpo sopra il suo, delle labbra morbide che la baciavano.
«Ho bisogno di un uomo…» mormorò in un gemito.
Sospirò e sbuffò, cacciando via da sé le coperte, rabbrividendo per un attimo per l’aria fresca che le aveva schiaffeggiato la pelle. Era rimasta lì, sdraiata sul letto, a fissare il soffitto per quasi un minuto, troppo poco lucida per domandarsi come mai fosse completamente nuda. Con una mano si sfiorò il ventre, insistendo su un punto in particolare. Tutto le sembrava normale, eppure normale non era. Cos’aveva combinato la sera prima?
Il crampo allo stomaco si fece sentire di nuovo: era fame. Si mise seduta sul bordo del letto, i piedi nudi toccavano il pavimento. Il programma della giornata prevedeva solo un impegno: il colloquio all’agenzia investigativa di Edward Price verso la metà del pomeriggio. Avrebbe avuto tutto il tempo di mettersi in moto e ritrovare le consuete energie. In più, cosa non meno fondamentale, aveva anche la possibilità di terminare di svuotare gli scatoloni che erano arrivati da Philadelphia qualche giorno prima.
Camminò scalza per la camera, guardandosi attorno ancora un po’ intontita. Dal cassetto del comò prese le prime cose che trovò: una canottiera aderente, un paio di mutandine, dei calzettoni e dei vecchi pantaloni della tuta. Li guardò per un attimo e sbuffò: quelli erano di Chris. Com’erano finiti fra la sua roba?
Poi, si diresse pigramente verso il bagno. Forse una bella doccia l’avrebbe svegliata del tutto e schiarito per bene le idee.
Si sentiva ancora tutta sottosopra, la sua mente voleva tornare a perdersi nei sogni di quella notte, il suo corpo rispondeva a quegli stimoli: sentiva le farfalle nello stomaco, sorrideva da sola, il suo cuore batteva a un ritmo strano che le pareva dovesse scoppiare da un momento all'altro. Sospirò, mentre si frizionava i capelli con l’asciugamano. Non era cambiato nulla, nonostante fosse rimasta sotto il getto dell’acqua calda per quasi venti minuti. Il borbottio della pancia stava diventando imbarazzante. Si guardò allo specchio e vide una faccia stanca. Neanche a tirarla di qua e di là cambiava granché. Si diede un paio di schiaffetti e si impose un bel sorriso.

Il salotto era completamente invaso dalla luce del mattino. Ancora mancavano le tende scure alla doppia finestra e le pareti, con quei colori brillanti, ne amplificava l’effetto. Come un automa si diresse subito ad accendere il computer, allungando poi la mano per afferrare la sua mug gigante che teneva di solito lì. Stranamente non c’era, forse l’aveva lavata la sera precedente e riposta nello scolapiatti, ma non se lo ricordava. Si grattò la testa: i capelli erano ancora umidi e spettinati. Di fronte al frigorifero aperto si lasciò sfuggire uno sbadiglio e si stiracchiò. Era indecisa su cosa prendere. Fissò vogliosa il vasetto di maionese e il sacchetto di insalata già pronta. Se avesse avuto in dispensa anche del tonno… Aggrottò la fronte, lo aveva comprato ieri. Girò la testa di scatto: la spesa era lì, sul piano di lavoro.
«Ma che vado a pensare! Magari per pranzo», mormorò, ripensando a quando, qualche anno prima, aveva sperimentato quel tipo di pazia ed era stata male per tutto il giorno. Prese la bottiglia del latte e chiuse il frigorifero.
Si guardò attorno, in quella piccola cucina: tutto era ancora da sistemare. Frugò velocemente nei sacchetti, per assicurarsi che non ci fosse nulla di andato a male, tirando un sospiro di sollievo. Poi iniziò ad aprire i vari mobiletti, in cerca della sua tazza, lambiccandosi il cervello per ricordare dove l'avesse messa.
«Ti serve una mano?»
Cora sussultò nel sentire quella voce, calma e gentile, ma del tutto estranea. Si affacciò nel salotto e lo vide lì, seduto sul divano, pacifico, con le gambe incrociate e una rivista aperta davanti a sé; il sacchetto di biscotti a fianco, mentre beveva a piccoli sorsi dalla sua mug.
«Tu?» disse, sbalordita. «Non c’era nessuno, prima. Da dove sei sbucato?» gli domandò, avvicinandosi cautamente.
«Mi sembrava maleducato andarmene via prima del tuo risveglio», le rispose lui, pescando un biscotto dietro l’altro.
«Ehi! Ma… quelli non sono i biscotti che ho comprato ieri? E quella è la mia tazza preferita!» disse, indicandola col dito.
«Perdonami. Ero a digiuno da ieri mattina. Avevo davvero fame. Ne vuoi uno?» le disse, offrendole un biscotto con un sorriso angelico sul viso.
Senza neanche rendersene conto e senza staccargli gli occhi di dosso, Cora si avvicinò al ragazzo, rimanendo con la bocca aperta; e lui colse al volo l’occasione per imboccarla. Sentì il viso andarle a fuoco per l’emozione e per l’imbarazzo, chinata in quel modo su di lui, con quella canottiera così aderente e fasciante che il suo seno, libero dalla costrizione dell’intimo, mostrava tutta la sua naturale rotondità.
«Sei reale... Non sei stato un sogno», sussurrò.
Cora gli prese la mano, trattenendola per qualche istante, sentendone il calore e sospirando. Poi, come riportata bruscamente alla realtà, fece un passo indietro, sbilanciandosi e cadendo all’indietro.
«Attenta!» esclamò Saga, alzandosi prontamente e afferrandole la mano per evitarle la caduta, ma non ce n’era stato bisogno: Cora era finita dritta seduta sul pouf.
I loro visi erano così vicini che i loro respiri erano diventati uno. I loro corpi erano a così poca distanza che il battito del cuore di uno faceva eco a quello dell’altra. Il profumo di Saga era lo stesso che lei aveva sentito sulle lenzuola e sul cuscino.
«Sai di caffellatte», sospirò Cora, chiudendo gli occhi, inebriata dal suo respiro caldo.
«Mi avevi offerto un caffè, ricordi?»
«Cosa abbiamo fatto questa notte…» mormorò, accarezzandogli la guancia. «E neanche conosco il tuo nome.» Quando li riaprì, erano lucidi e languidi. Con l’altra mano accarezzò anche l’altra guancia di Saga, guardandolo negli occhi con dolcezza. Con la finestra alle spalle, la sua chioma bionda risplendeva come oro alla luce del mattino.
Saga le scostò i capelli che si erano appiccicati al viso, li accarezzò per tutta la loro lunghezza, sfiorando la spallina sottile della canottiera.
«No», lo fermò lei. «La nostra avventura l’abbiamo avuta. Credo che ora dovresti andartene», gli disse, deviando lo sguardo che si stava rattristando.
La sua voce però era poco risoluta. Trovò ancora il coraggio di guardarlo negli occhi, nonostante l’evidente rossore sulle sue gote. Con la punta delle dita gli sfiorò l’angolo della bocca, pulendola da alcune briciole di biscotto. Quelle labbra erano così morbide e calde al tatto.
«Già», convenne lui, con una punta di rammarico. Con la voce acconsentì, ma tutt’altro era ciò che avrebbe voluto dirle.



Note del capitolo:
Cheongsam: è il popolare vestito cinese femminile. Molto aderente, lungo o corto e con il colletto alla coreana.
Norma Vally è una popolare conduttrice americana - nonché esperta del settore delle ristrutturazioni domestiche - del programma "Diva del Fai da te" che andava in onda sui canali Sky qualche anno fa. Forse, da qualche parte, tutt'ora in programmazione.
La data indicata nel capitolo, ovvero 2/25/10 è naturalmente scritta all'americana (gli anglosassoni usano scrivere mese/giorno/anno) del nostro equivalente 25/2/10
Samuel L. Clemens: vero nome di Mark Twain. Non mi dilungo più del dovuto e lascio ogni spiegazione al sito di riferimento. Il libro citato, naturalmente è "Un americano alla corte di re Artù".



 

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***





IX


“febbraio ‘84
… Quel ragazzo mi ha fatto davvero una strana impressione. Non credo che riuscirò mai a dimenticare i suoi occhi.
È da poco che sono stato assegnato al quindicesimo distretto, ma ne ho già viste tante di cose che mi hanno disgustato. Da reati di poco conto trattati come casi di alto profilo, alle più feroci aberrazione insabbiate e dimenticate. Mio Dio! Certa gente era così indegna, eppure è stato salvaguardato ogni diritto; mentre quel povero ragazzo che hanno portato oggi… sì, non un uomo come riporta la sua scheda, ma un ragazzo fragile: ammanettato e malconcio; trascinato in una delle salette per gli interrogatori e lasciato lì per ore, in balìa dell’ignoto. Non sembrava affatto una persona pericolosa, mi è bastato vederlo di sfuggita per esserne più che sicuro. Ma io sono un novellino, le mie sensazioni non contano. Nonostante ciò, gli hanno fatto un bel “trattamento” prima di portarlo in centrale. Sono riuscito a dare un’occhiata al suo fascicolo. C’è scritto che ha ventotto anni. Non li dimostra affatto. Fra i miei colleghi c’è gente più giovane che invece sembra ben più vecchia di lui.
La sua scheda non riporta molti dati, non sono riuscito a sapere altro sul suo conto tranne che è laureato in Legge e che fino a poco tempo fa era l’assistente personale del professor Taylor. Ci sono però parecchie anomalie: molti dati sono mancanti. Ho il sospetto che siano stati omessi volontariamente o addirittura cancellati.

febbraio ‘84
… Sono passati giorni ma non riesco ancora a togliermelo dalla mente. Era così magro e pallido, in uno stato pietoso. Di sicuro non faceva un pasto decente da settimane. Sembrava debole e affaticato, forse era malato. Il biondo dei suoi capelli, lunghi e poco curati, era ormai sbiadito e quegli occhi, erano di uno strano colore, non avevo mai visto un verde così cupo. L’ho visto così fragile e indifeso di fronte al sergente, sembrava un bambino dall’aria spaurita. Nei corridoi del distretto ho sentito alcune chiacchiere degli agenti che lo hanno fermato. Hanno detto che stava scappando e che quando lo hanno preso ha fatto molta resistenza ed è per quello che gli hanno dato una ripassata, prima di leggergli i suoi diritti e condurlo qui al distretto. Se la ridevano mentre ne parlavano. Se chiudo gli occhi posso ancora vederlo: sedeva nervosamente su quella scomoda sedia di metallo, asciugandosi di tanto in tanto il labbro sanguinante con il dorso della mano. Era spaesato, forse nemmeno in sé. Chissà se si rendeva conto dov’era o del perché era lì.
Il sergente Goodmann lo ha incalzato di domande senza dargli un attimo di tregua. Gli urlava in faccia in continuazione e più volte ha sbattuto la mano sul tavolo di metallo facendolo scattare. A ogni colpo anch’io sobbalzavo con il cuore in gola. Dio! Se ci ripenso mi tremano ancora le mani. Che vergogna, non dovrei parlare in questo modo. Non è da poliziotti.
Quel giovane non ha mai risposto alle domande, non ha detto una sola parola; neppure per chiedere un avvocato com’era suo diritto. E sicuramente, i suoi diritti li conosceva. Si è limitato a tenere gli occhi fissi sulle sue mani insanguinate, che tremavano nervose, appoggiate sul tavolo. Le poche volte che ha alzato lo sguardo… Quanto erano spaventati quegli occhi! Pieni di dolore, tristezza, rimpianto e paura. Mi chiedo cosa stessero guardando davvero. Da dietro lo specchio finto riuscivo a vedere perfettamente il suo corpo emaciato scosso dai tremiti. Non ha emesso un fiato neppure quando Goodmann, con una facilità estrema, lo ha scaraventato per terra in un angolo, dandogli poi un paio di calci sul costato.
Non ha reagito.
Si è limitato a rannicchiarsi contro il muro per cercare di ripararsi come poteva e quando ha alzato di nuovo lo sguardo, sul suo volto ho potuto leggere una straziante rassegnazione e accettazione.
Goodmann ha esagerato! Lo ha rialzato di peso trascinandolo per i capelli e lo ha rimesso a sedere in modo brutale, schiacciandogli la faccia sul tavolo. Quelle manette ai polsi non erano necessarie, le accuse a suo carico non erano ancora state formalizzate; a tutti gli effetti era solamente un sospettato. Perché hanno affidato proprio a Goodmann l’interrogatorio?
Tutti al distretto sanno che è un violento, un manesco senza motivo; e i numerosi richiami ufficiali lo testimoniano. Dovrebbe essere cacciato dalla polizia! È una vergogna per la divisa. Non riesco a capire perché quel giorno il tenente Burton non sia intervenuto a fermare il sergente. Era lì accanto a me, vedeva le stesse cose che vedevo io, ma è rimasto sordo e impassibile anche alle mie proteste. Quell’interrogatorio era illegale, irregolare. Doveva fermarlo. Doveva! Lui è il superiore, è suo dovere far rispettare il regolamento. Possibile che a nessuno dei presenti importasse nulla delle violazioni che stavano avendo luogo lì dentro? Neanche l’avvocato della procura. Figuriamoci, hanno mandato uno che è più interessato alla carriera che alla giustizia. Guardava annoiato quell’orribile spettacolo. Era lì solo per avere una facile confessione che gli permettesse di chiudere il caso. Il professor Taylor invece, era rilassato e sicuro.
Nel suo ufficio, Burton mi ha risparmiato un richiamo ufficiale per intemperanze. Mi ha parlato non da superiore, ma da amico. Mi ha detto che se voglio diventare un buon poliziotto e fare carriera devo stare al mio posto e controllare di più le mie reazioni. Queste sono state le parole che ha detto, con un tono calmo, quasi paterno, nonostante la sua giovane età. Però mi sono sembrate un avvertimento di tutt’altro genere. È da poco tempo che lavoro sotto il suo comando, ancora non lo conosco bene e a volte ho soggezione di questo suo carattere così forte.
Tutto questo mi sconvolge. È vero, un buon poliziotto deve controllarsi ma ci sono dei limiti, delle regole da rispettare. Ma come posso accettare una tale brutalità e mancanza di regole? È in momenti come questo che dubito della mia scelta. Come ha fatto mio padre a servire nel corpo per così tanto tempo senza avere mai il minimo dubbio?

febbraio ‘84
… Oggi lo hanno riportato su dalla gabbia: la scusa apparente era che volevano sottoporlo a un confronto. Ho sentito invece che hanno tentato di nuovo di interrogarlo. È tornato anche il professore, che ha voluto assistere assieme al sostituto procuratore. Certamente lo conosce bene, avrà frequentato la sua casa. Se lo considera implicato, perché nelle altre occasioni che ha avuto non ha mai provato a parlargli? Forse gli avrebbe risparmiato tutta quella violenza. Invece è rimasto impassibile, almeno fino a oggi. Sono riuscito a intrufolarmi e ad assistere al nuovo interrogatorio. Non è andato tanto diversamente dal primo. C’era di nuovo Goodmann e di nuovo c’è andato giù pesante. Però questa volta si è lasciato sfuggire una parola di troppo. A un tratto quel ragazzo ha guardato dritto verso di noi e nei suoi occhi c’era una strana luce. Fierezza. Sì, ecco cos’ho visto. Può sembrare strano, ma stava fissando proprio il professore, come se sapesse esattamente dove si trovasse. È stato in quel momento che ho visto Taylor irrigidirsi e poi confabulare con Burton e il sostituto procuratore. Alla fine ha chiesto di poter parlare con lui in privato, senza telecamere, né testimoni. Chissà cosa lo ha preoccupato a tal punto da cambiare atteggiamento in modo così repentino.
Che sia a conoscenza di qualcosa che possa danneggiare il professore?”


«Mmmmh. Sembra un racconto poliziesco scritto in forma di diario, però non è molto lineare e le date sono incomplete», commentò Aiolos, leggendo alcune pagine di quel quadernetto.
Poi le studiò più attentamente: erano scritte fittamente, piene di note e appunti a margine. Il tratto era fluido, chiaro, in qualche modo elegante ma non elaborato. Certamente maschile, considerò. Non troppo dissimile da quello di Kanon, o di Saga, ma solamente quando quest’ultimo scriveva in modo più nervoso e usando la sinistra. Già, perché lui era capace di scrivere con entrambe le mani. Aveva imparato per gioco ed era dannatamente bravo.
Aiolos non aveva alcuna difficoltà a decifrare quella calligrafia. Del resto, nel suo lavoro gli passavano sotto mano un sacco di documenti scritti a mano dai gemelli, era logico che conoscesse perfettamente la scrittura di entrambi.
Sbuffò annoiato, lasciando cadere quel quadernetto sul letto, accanto a sé, alzando lo sguardo sul soffitto che pareva dargli più soddisfazione. Aveva deciso di concedersi un paio di giorni di relax, dopo quell’ultimo intenso periodo; e passarlo nella paradisiaca tranquillità della villa di Mystic Lake sembrava una buona idea. E poi, sua nonna era felice di averlo di nuovo con lei. Invece, quella camera – che era rimasta tale e quale da quando era ragazzo – gli stava dando uno strano senso di claustrofobia, estraneità e insofferenza.
«Bah! Pensavo ci fosse scritto qualcosa di più “scottante”.»
Si mosse scocciato, passando un braccio sotto il cuscino e girandosi sul fianco. Il suo sguardo vagò per quel lato della stanza e si soffermò sul comodino, sul quale era rimasto l’ultimo videogioco a cui aveva giocato assieme al fratello e a Kanon: neanche si ricordava quanto tempo fosse passato da allora. Forse avrebbe fatto bene a fare un bel pacco di tutti i videogiochi e regalarli ad Aiolia, che di certo ne avrebbe fatto buon uso, infantile com'era.
Si girò dall’altra parte, ancora più infastidito; poi, si alzò di scatto e riprese in mano il quadernetto, fissandolo per qualche secondo. Fece uno sbadiglio annoiato e si avvicinò alla sua vecchia scrivania. Aprì il cassetto e ve lo lasciò cadere dentro, richiudendolo con un colpo secco, senza degnare di un attimo del suo tempo gli altri oggetti che giacevano lì dimenticati da anni. Erano ricordi di scuola e della sua adolescenza, era un passato sereno e spensierato che ora non si addiceva più a una persona del suo calibro.
«Ma guarda un po’ chi si è rifatto vivo», commentò, gettando uno sguardo fuori dalla finestra, notando in quel momento il rientro tutto trafelato di Saga. Non gli sfuggì l’atteggiamento colpevole e con quale passo svelto, quasi di corsa, stesse percorrendo il vialetto ghiaioso.
«Guai in vista, per il gemellino. Guai in vista!» disse con un mezzo ghigno sulle labbra.

*****

Il rientro di Saga non passò inosservato neanche a Nanny che subito lo intercettò e lo trascinò in cucina, preoccupata per il comportamento tanto strano che il ragazzo aveva da qualche giorno a quella parte. Lo fece sedere al tavolo e, vedendolo accaldato, gli mise davanti un bicchiere d'acqua. Poi si sedette di fronte a lui. Gli parlò con tanta dolcezza, come una mamma, accarezzandogli la guancia e prendendogli la mano fra le sue. Provò a chiedergli dove fosse stato tutto il giorno precedente e tutta la notte, senza avvisare nessuno. Provò allora a  chiedergli se stesse bene. Nella sua voce non c’era ombra di rimprovero, solo tanta ansia e tristezza, per quel suo ragazzo che era sempre stato bravo e ubbidiente, ma che ora mostrava tanti segreti.
Saga teneva la testa bassa, perché i suoi occhi nervosi avrebbero rivelato la colpa. Si sentiva a disagio nell'essere sottoposto a quelle domande, alle quali non era intenzionato a rispondere per davvero, balbettando invece dei semplici “scusa”, per placare quell’interrogatorio.
Nanny non insistette oltre. Comprendeva che fosse successo qualcosa, ma si arrese all’evidenza che il suo Saga non si sarebbe confidato con lei, non in quel momento almeno.
«Non fare niente di cui potresti pentirti in futuro, tesoro mio», gli disse, accarezzandogli ancora una volta il viso.
Lo abbracciò con amore, indugiando un poco di più, stringendolo forte, come se provasse una inconfessabile paura di perderlo. Poi lo lasciò andare con un bacio sulla fronte, sospirando. Lo guardò uscire dalla cucina e incrociare Aiolos, senza fermarsi, né rivolgergli la parola, passando oltre a testa bassa. Lo stesso fece il nipote di Nanny che invece stava entrando: sul suo volto però c’era un sogghigno che alla donna dispiacque vedere.
I passi di Saga risuonarono di nuovo affrettati. Arrivò fino allo scalone principale, dove poi si bloccò di colpo: la voce del capofamiglia lo aveva chiamato in biblioteca. Il ragazzo trattenne il respiro per qualche secondo, stringendo la presa sul corrimano di legno della scala. Per un momento indugiò con lo sguardo verso il piano superiore, con il solo desiderio di raggiungere la sua camera e ficcarsi sotto la doccia. Il richiamo da parte del padre però non poteva aspettare, né essere ignorato. Quando lo raggiunse in biblioteca, Shion Hayes era seduto dietro la scrivania di mogano, lo sguardo su alcuni documenti, lì vicino un bicchiere di whisky con ghiaccio, nonostante fosse solo prima mattina.
Il sole, che penetrava dalle finestre, smorzava l’aura di austerità che solitamente regnava in quella stanza. Non placava però il malumore che quel giorno aveva l'uomo. Shion lo tenne lì, in piedi di fronte a sé, dall’altra parte della scrivania, come in attesa di una sentenza, mentre continuava a visionare documenti su documenti.
Nei quasi dieci minuti che trascorsero in quel modo, il padre non alzò lo sguardo su di lui neanche una volta. Neppure quando prese il bicchiere per bere un sorso di whisky.
Quel silenzio, per Saga, era più pesante di qualunque sfuriata gli avesse mai fatto, benché si potessero contare sulle dita di una mano le occasioni in cui il genitore lo avesse punito.
Quando Shion lo lasciò andare, congedandolo con un ordine secco, si rintanò di corsa in camera sua, chiudendosi nel bagno privato, che comunicava anche con la camera del gemello. Fissò a lungo la sua immagine riflessa nello specchio: il suo viso, solitamente sereno e disteso, aveva un leggero rossore sulle guance, ma non riusciva a capire a cosa fosse dovuto, se alla vergogna per essere stato punito in quel modo dal padre, oppure a un pensiero particolare che gli faceva palpitare il cuore e lo faceva sentire fiacco. Nei suoi occhi però c’era tristezza e delusione. Fece un respiro profondo e si passò il dorso della mano sugli occhi con un gesto rapido. Poi, si spogliò e si infilò sotto la doccia, lasciandosi cullare dal getto di acqua calda e dal vapore che subito riempì tutto l’ambiente.
Preferì rimanere nella sua camera per tutto il resto della giornata. In piedi, di fronte alla finestra che dava sul lago e sul viale principale, vide il padre salire in auto e uscire dalla proprietà, accompagnato da Aiolos. Tirò un sospiro di sollievo: almeno per qualche ora non avrebbe dovuto fingere, o sopportare sguardi di rimprovero. Si sedette a terra, con la schiena appoggiata alla parete. Respirava piano, tenendo gli occhi chiusi. Il cellulare stretto nella mano e una strana apatia che cresceva in lui con il passare del tempo e che si stava sostituendo a tutto il resto.
Quando riaprì gli occhi, i suoi capelli erano ormai asciutti e il cellulare giaceva a terra, accanto a lui. Compose distrattamente il numero del fratello e lasciò squillare, inserendo il vivavoce.
«Kanon…» lo chiamò con un filo di voce, non appena l’altro rispose.
«Saga? Che succede fratellino, senti la mia mancanza?» gli chiese con tono energico e scherzoso. «È strano che tu mi chiami a quest’ora, visto che la pausa pranzo è passata da un pezzo. Aspetta, a dire il vero sono sempre io a chiamarti! Ma sì, che importa, chi ci fa caso a queste cose», disse, senza nascondere l’ironia nella sua voce e prendendosi tutta la soddisfazione di quella frecciatina. «Dimmi tutto!»
Quel pomeriggio non c’era molto da fare in ufficio, a New York: la riunione sarebbe iniziata solo una mezz’ora più tardi e l'unico appuntamento in agenda era saltato all’ultimo momento. Kanon, che in assenza del padre occupava il suo ufficio, si prese la libertà di mettere i piedi sulla scrivania e allentarsi ancora di più la cravatta che già portava impropriamente lenta, per i canoni imposti dal regolamento amministrativo.
«Secondo te… quanto vale l’amore?» gli domandò il fratello. La sua voce arrivava flebile e stanca, quasi svogliata, dall’altra parte del telefono.
«Ma che domanda assurda mi fai? È uno scherzo?» domandò a sua volta, Kanon. Sogghignava però a quell’uscita tanto stramba da parte del suo sempre serioso e compìto gemello.
«Se tu dovessi dargli un valore come a un bene materiale, quantificandolo in denaro, a quanto ammonterebbe?» insistette Saga, facendo un grande sospiro.
Kanon rifletté un momento sull'insistenza di Saga nell’affrontare quell’argomento; era davvero troppo strana, perché sul fratello non era certo famoso per i suoi scherzi o le battute di spirito.
«Beh, fratellino, nel mio caso vale più o meno cento milioni di dollari. Sai com’è, sono un boccone troppo ambìto.» Il giovane scoppiò in una fragorosa risata. «Lasciami indovinare, sei finalmente rinsavito dopo l’ennesimo show di quella sanguisuga troppo snob, vero? Cosa ti ha chiesto questa volta, Jenny? È tornata alla carica con la questione dell’anello? Questa settimana cosa va di moda: smeraldi o zaffiri? No, lei preferisce andare sul classico: i diamanti! Scommetto che sotto i tre carati neanche li guarderebbe.» La nota sarcastica nella sua voce aumentava vertiginosamente con l'andare avanti a parlare di quella donna.
Con un gesto della mano bloccò e subito congedò la segretaria personale del padre che era appena entrata nell’ufficio per avvertirlo che stava per iniziare la riunione, riprendendo la conversazione. «O forse si è limitata a proporre solamente per la centesima volta il famoso weekend a Miami? Come se tu non le avessi detto, ogni singola volta, che detesti il clima della Florida. Saga, fratellino adorato, solo perché quella è un’ereditiera non è una buona motivazione per continuare con questo supplizio. Tanto lei a Boston non ci vuole vivere. Lei vuole stare qui, a New York, dove si crede una persona importante. Vuole un cagnolino da portare al guinzaglio e sfoggiare davanti ai suoi amici. Del resto, lei è Jennifer Mary Perkins, dei Perkins di Long Island!» aggiunse, alterando la voce con un marcato tono nasale, scimmiottando l'inflessione di voce tipica dell'aristocrazia inglese. Si raddrizzò di colpo, togliendo i piedi dalla scrivania e assunse un atteggiamento più serio e composto.
«Saga, mi caro», disse. E quando lo chiamava in quel modo voleva dire che la faccenda era seria. «Quello che provi per lei non è amore. Ti ci sei affezionato solo perché all’inizio ti riempiva di attenzioni, prima di iniziare con le richieste. Ti voleva solo accalappiare! È successa la stessa cosa anche con le altre. Svengono ai tuoi piedi per il tuo bel faccino e per i modi troppo gentili e ossequiosi che riservi loro, ma poi? Quanto è durato ogni volta? Il tempo di un’estate. Ecco quanto! E poi, Jenny… andiamo!» esclamò, dandosi una spinta con i piedi e girando la poltrona verso l’enorme vetrata che aveva alle sue spalle. «Si era capito fin dall’inizio che mirava a ben altro; ecco perché lei ti gira ancora attorno. Te l’ho sempre detto: spassatela con lei e non pensarci.»
Dopo quel suo lungo monologo, il giovane rampollo Hayes attese per diversi secondi la replica del gemello, ma dall'altra parte della linea non arrivò il solito rimprovero che si beccava ogni volta che parlava male di Jenny. Si sentirono solo sospiri stanchi.
«Credo che questa volta ti abbia preso davvero brutta. Papà ha fatto male a tenerti per così tanto tempo chiuso in una gabbia dorata. Sei troppo buono e ingenuo. Te lo dico con tutto l’affetto che provo per te, devi smaliziarti di più.»
Il suo istinto iniziò a mandargli segnali che qualcosa non andava nel comportamento del gemello. Si alzò dalla poltrona e si avvicinò alle vetrate, dalle quali si godeva una splendida vista di Manhattan.
«Saga» Nella voce di Kanon non c’era più parvenza di scherno o gioco. «Per favore, non farmi preoccupare. Cosa sta succedendo?»
Attese.
«Ascolta, dovrei fermarmi qui a New York fino a tutta la settimana prossima, ma se hai bisogno…» Guardò l’orologio, poi riflettè per qualche istante. «No! Torno stasera e ne parliamo», disse con decisione, radunando alla bell'e meglio i documenti sparsi sulla scrivania e ficcandoli alla rinfusa nella ventiquattrore.
«Non fa niente… forse non puoi aiutarmi», mormorò Saga, sospirando un’altra volta, come se fosse l'unica cosa in grado di fare.
Interruppe la telefonata e si girò verso la finestra, appoggiandosi al vetro con la spalla e la testa, chiudendo gli occhi e ripensando agli ultimi avvenimenti che gli erano capitati e che, se ne stava convincendo, erano la causa del malessere che stava vivendo.
“Ti ha preso davvero brutta.”
Quella frase che gli aveva rivolto il fratello con tono compassionevole gli ronzava  in mente e sembrava calzare alla perfezione con la situazione che stava vivendo, anche se non ne afferrava appieno il significato.

Aveva sentito quella porta chiudersi alle sue spalle con un clack appena percettibile e si era ritrovato lì, fuori dall’appartamento, sullo stretto e semibuio pianerottolo di quella palazzina sconosciuta. Non sapeva cosa pensare. Per lui quella era una situazione insolita. Non era mai stato messo alla porta da nessuno. In quelle ultime ore si erano susseguiti avvenimenti che non pensava gli sarebbero mai potuti capitare. Era forse finito in un film o era diventato il protagonista di un romanzetto rosa?
Quando aveva iniziato quella sua seconda vita non aveva considerato l’ipotesi di poter essere scambiato per un barbone ed essere fatto oggetto di elemosina. Nemmeno si era mai immaginato che solo poche ore dopo, avrebbe incontrato di nuovo quella stessa ragazza e che avrebbero passato la notte insieme. Perché non si era fermato un momento a riflettere, prima di fare una cosa del genere?
Il suo cuore batteva forte nel petto. Si era passato più volte le mani nei capelli, iniziando a camminare avanti e indietro, aggrottando la fronte. Perché era rimasto in quell'appartamento invece di sgattaiolare via non appena si era svegliato?
Perché era rimasto fino al risveglio di quella ragazza?
Perché non aveva pensato alle conseguenze del suo gesto?
Quanti “perché” affollavano la sua mente in quel momento. Si era portato le mani alla bocca, nascondendo il rimorso che stava provando e che stava diventando evidente. Poi, gli era balenata in testa una domanda: cosa avrebbe pensato Kanon, di lui? Avrebbe iniziato a fargli la ramanzina, a tirare in ballo ogni possibile conseguenza, ogni risvolto di quella situazione grottesca. Perché il comportamento che aveva tenuto non era assolutamente da lui: Saga Hayes queste cose non le fa! Saga Hayes non agisce in modo così avventato! Saga Hayes è una persona seria e corretta!
Non era vero. Non sarebbe stato da Kanon. Era lui, Saga, che aveva sempre fatto la morale al gemello perché cambiava una donna a settimana, se non a ogni festa; perché si vantava in pubblico delle sue conquiste; perché viveva il sesso totalmente libero da ogni coinvolgimento sentimentale e senza alcun pentimento.
Ora lui sentiva di aver fatto la stessa cosa. Ma ammetterlo non lo faceva stare meglio. Anzi, se possibile, questo gli pesava ancora di più, perché quell’euforia provata la notte precedente ancora persisteva in lui.
Si era fermato davanti alle scale, con la mano sul corrimano tutto rovinato, guardando verso il basso. Il cuore gli batteva forte. Aveva nascosto il volto fra le mani: non era affatto migliore di Kanon.
Poi, si era ritrovato di nuovo di fronte a quella porta chiusa. Aveva alzato la mano per bussare; l'aveva tenuta in quella posizione per diversi secondi, indeciso se provare o rinunciare. Aveva dato un paio di colpetti con le nocche.
«Vorresti accompagnarmi alla fermata dell’autobus?» le aveva chiesto con voce speranzosa, lo sguardo basso e un sorriso imbarazzato, quando lei aveva aperto la porta.

Quando si risvegliò da quel ricordo così recente, nascose la testa fra le ginocchia: sentiva di nuovo tutta l’amarezza e la tristezza che aveva provato quando la ragazza gli aveva richiuso la porta in faccia, senza neanche guardarlo, sentendola poi piangere.
Cos’era cambiato in quei pochi minuti che era rimasto fuori sul pianerottolo per farle mutare atteggiamento? Probabilmente lei si era pentita. Che si fosse sentita in qualche modo costretta?

*****

Cora si presentò al colloquio con quasi un’ora di anticipo. Non si stupì che l’avessero chiamata di domenica, poiché sapeva che per gli investigatori privati non c'erano giorni di riposo. Uscì di casa con l’intenzione di prendersela con calma, di passare magari una mezz’ora al solito caffè e distrarsi un poco, per essere poi in splendida forma per l’incontro e fare buona impressione; invece, senza rendersene conto, con la testa fra le nuvole, tirò dritto fino alla meta.
Sedeva sulla sedia più nervosa che mai, mentre attendeva di essere ricevuta da Edward Price, il titolare dell’agenzia, ma quella tensione non era solo per il lavoro. Di fronte a lei, la segretaria batteva alacremente sulla tastiera del computer, rispondendo a corrispondenza varia o redigendo chissà quale tipo di documento. Si portò una mano al ventre, nascondendola dietro la borsa a tracolla che teneva appoggiata sulle gambe. Lo stress le provocava delle deboli fitte. E allora, per provare a non pensarci, ripercorse con la mente i programmi che si era fatta per quella mattina e che non era riuscita a portare a termine. Forse avrebbe dovuto ammettere che non aveva combinato proprio nulla, ma la colpa non era sua. No, era di quell'insidioso ragazzo dal viso d'angelo, dai modi troppo gentili e dalla candida sfrontatezza di un bambino, che lo rendevano impossibile da detestare. Aveva avuto il coraggio di ripresentarsi alla sua porta con quel sorriso tanto dolce… Possibile che non si fosse reso conto di ciò che era successo fra loro? Ma forse per lui era una cosa normale.
Lei si era fatta delle domande, prima di cedere a quel fascino così puro e sensuale. Si era detta che non le importava sembrare l’ennesima avventura di una notte; che tanto era uno sconosciuto e non l’avrebbe più visto. Ma quando se l’era ritrovato di fronte che manifestava il desiderio di passare ancora del tempo con lei, non aveva potuto fare altro che chiudergli la porta in faccia. Era rimasta scombussolata per tutto il resto della mattinata e ancora adesso lo era, con le gambe che si agitavano come in preda a un tic nervoso e le mani che stringevano la tracolla della borsa. Sentiva il peso del rimorso e l’imbarazzo per quella pazzia di una notte. E poi, ad aggiungere ansia ad altra ansia, c’era anche l’attesa per quell’incontro di lavoro. Le sembrava di vivere nuovamente il patema di un esame di scuola; ma forse, un esame lo era davvero quello che stava per affrontare. Non sapeva con esattezza cosa attendersi, né che tipo di lavoro avrebbero avuto in serbo per lei, nel caso fosse stata presa.
Cosa si aspettava da lei, mr Price?
Lavorare con lo zio Phil era stato semplice, perché lui era di famiglia. E, anche se molto esigente, aveva creato un clima sereno nella sua agenzia: le aveva sempre facilitato la vita. Lei di questo ne era ben consapevole, così come era consapevole che ora sarebbe stata tutta un’altra cosa, un’incognita.
Si alzò per sgranchirsi le gambe e si avvicinò incuriosita a una delle pareti dove erano appesi dei quadri strani. Era lì, con la testa un poco piegata di lato che li fissava, quando finalmente la porta dell'ufficio di Edward Price si aprì.
L’uomo comparve sulla soglia e fece un cenno alla sua segretaria che subito si attivò per richiamare l’attenzione di Cora, chiamandola per nome un paio di volte, ma senza risultato. E allora, un potente fischio risuonò nella saletta d'attesa, facendo sobbalzare sia la ragazza che la segretaria stessa, nonostante la donna fosse abituata a quel tipo di comportamento poco ortodosso del suo capo.

«Ragazza, mettiamo subito in chiaro un paio di cose: in primo luogo, anche se mi sei stata raccomandata da Big Phil, non ho intenzione di usarti un trattamento di favore. In secondo luogo, di lavoro qui ce n’è ed è anche tanto. Ma è soprattutto di tipo investigativo. Senza una preparazione adeguata non mi servi a molto.» L'uomo non badò alle presentazioni di rito, si rivolse a Cora come a una qualsiasi persona estranea e non come alla figlioccia del suo vecchio amico e superiore, mostrando il classico atteggiamento intimidente del poliziotto.
«Capisco», rispose in tono serio Cora, facendo un cenno con il capo e stringendo le mani sulla tracolla della borsa.
«Sono affiliato a un importante studio legale e non posso permettermi di avere dei collaboratori incompetenti che non conoscono la Legge o la infrangono, durante lo svolgimento del proprio lavoro. Ne andrebbe della serietà della mia agenzia e soprattutto degli interessi dei miei clienti», continuò.
Cora annuì una seconda volta.
L’uomo si sedette dietro la sua enorme scrivania, piena di fascicoli aperti e accatastati uno sull’altro, guardando la giovane dritta negli occhi per diversi secondi. Ne voleva studiare le reazioni sotto pressione. La vedeva che si sentiva a disagio, ma al tempo stesso cercava di recuperare un minimo di sicurezza, provando a concentrare la sua attenzione su un oggetto particolare.
Cora infatti si fissò sul portacenere che si intravedeva appena, sperduto fra i vari incartamenti, stracolmo di cicche di sigarette e mozziconi di sigari. Notò che erano di marche diverse e le sembrò una cosa alquanto strana, soprattutto per un uomo. È risaputo che gli uomini che fumano quando scelgono una marca di sigarette – o sigari – sono assolutamente fedeli. C'era un'altra cosa che non quadrava: l'aria all'interno dell'ufficio era sì un poco viziata, ma non era poi così impregnata di fumo. Guardando più attentamente notò anche che tutte le cicche, nonostante alcune portassero segni rossi, erano state schiacciate nello stesso modo. Lo stesso si poteva dire per i mozziconi dei sigari, che erano tutti leggermente masticati all’estremità. Era evidente che l’uomo di fronte a lei dovesse essere un fumatore accanito, si capiva anche dall’accendino che si intravedeva attraverso la stoffa del taschino della camicia, ma era altrettanto vero che quel portacenere – e soprattutto il suo contenuto – stonava in tutto e per tutto con l’ambiente. Cora fece una strana smorfia, quasi di disgusto, e bofonchiò qualcosa scuotendo leggermente la testa.
Price sorrise. Si alzò, chiudendo e raccogliendo alcuni fascicoli sulla sua scrivania, e si diresse alla porta. Parlò con la segretaria e le consegnò il materiale che aveva preparato, congedandola poco dopo.
«A me servono soprattutto collaboratori esperti per le indagini. Se in un prossimo futuro vorrai diventare un’investigatrice posso consigliarti di frequentare dei corsi parauniversitari di tecniche e procedure d’indagine e psicologia criminale. Si svolgono ad Harvard e sono tenuti da alcuni miei ex colleghi della polizia. E non sarebbe una cattiva idea avere anche un’infarinatura di Diritto», spiegò. «Ma bada che questi corsi non saranno una passeggiata: c'è molto da studiare e richiedono anche tanto lavoro sul campo.»
Mr Price si fermò alle spalle della ragazza accendendosi una sigaretta, inspirando a lungo e soffiando in alto il fumo.
«Quello che per ora ti posso offrire è un part-time per dei lavori di archiviazione. Il materiale da sistemare e catalogare è sempre tanto. E, all'occorrenza, potrebbe anche servirmi un corriere per consegnare documenti e rapporti hai clienti importanti.» Fece di nuovo il giro della scrivania e si riaccomodò sulla poltrona. Con un paio di gesti nervosi scostò alcuni fogli per liberare il portacenere, svuotandolo con un colpo secco nel cestino delle cartacce e lo ributtò malamente sulla scrivania.
Cora non aveva grosse pretese per il lavoro, né grandi ambizioni per il momento. Tutto quello che le si sarebbe presentato l’avrebbe preso al volo. Quindi, annuì alla proposta dell’uomo.
«Molto bene, puoi iniziare mercoledì. Dalle tre del pomeriggio, alle sette. Tutti i giorni, tranne nel week-end: dove verrai chiamata solo in caso di bisogno. Per qualsiasi cosa chiedi a Susan, sarà lei a occuparsi di te.»
Senza perdere altro tempo, Edward Price la congedò, riaprendo uno dei fascicoli che aveva di fronte e riprendendo il suo lavoro. Dopo pochi minuti però, si alzò e si affacciò alla finestra che dava sulla strada sottostante. Con lo sguardo osservò Caroline Miller attraversare la carreggiata e proseguire sul marciapiede opposto, verso nord. Dalla tasca dei pantaloni estrasse il cellulare e subito compose un numero.
«Ehilà, Big Phil! È tutto sistemato. Sì, sì, te la terrò d’occhio», lo rassicurò. «Ha delle buone doti da osservatrice e la prova l’ha superata a pieni voti. Con il giusto addestramento potrebbe diventare anche più brava del padre. No, non mi sono dimenticato di Greg, il distretto non è stato più lo stesso senza di lui e anche la tua assenza si è sentita molto, quando hai lasciato. Ma come ti ho già detto non farò favoritismi. Ah, quasi dimenticavo. Per quell’altra faccenda, ho parlato con qualche vecchio amico al distretto, loro non hanno notizie per il momento. Se quel tipo dovesse farsi vedere da queste parti… beh, sai bene come trattiamo gente del genere.»

*****

La cena in casa Hayes si svolse in un clima surreale. Benché con motivazioni differenti e personali, Aiolos e Kanon tennero d'occhio Saga per tutta la serata e non sfuggì loro quell’estraniarsi e chiudersi a riccio. Lo videro distratto e pensieroso, mentre martoriava il cibo che aveva nel piatto, anziché mangiarlo. Ed era strano, perché Saga era una buona forchetta e soprattutto rispettoso del cibo. Le volte che veniva invitato a partecipare a una conversazione, o che gli veniva rivolta una domanda diretta, scattava sorpreso, senza poi essere in grado di rispondere prontamente.
In più di un'occasione, Saga subì gli sguardi severi e i rimproveri del padre, accettandoli a capo chino, così come non mancarono le frecciatine del gemello, nei suoi tentativi di smorzare la tensione, provando anche a sostituirsi a lui come bersaglio del malumore del padre: tanto era già abituato e sicuramente non aveva bisogno di sforzarsi troppo per riuscire a far adirare il capofamiglia.
Ma Saga… non era mai successa una cosa del genere. Era impossibile, fuori da ogni logica.
«Questa te la manda Nanny. “Per tirarti un po’ su di morale”, ha detto», riferì Kanon, quando lo raggiunse in camera, quasi un’ora più tardi, appoggiando sulla scrivania un piattino con una fetta gigante di Boston cream pie. «Allora, che ti sta succedendo?»
Lo trovò in piedi, di fronte alla finestra e con la mano appoggiata al vetro, come suo solito quando aveva problemi. Attraverso il riflesso Kanon poté vedere il viso triste e abbattuto di suo fratello. Non ricevette alcuna risposta, né notò in lui alcuna reazione. Gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla, scuotendolo un poco da quel torpore, provando a rifargli la domanda, ma con un tono più dolce.
«Al telefono eri strano, ma di persona sembri ancora peggio. Dai, Saga, parlami.»
Kanon si rabbuiò. Era dall'adolescenza che non vedeva il gemello in quello stato, chiuso in un silenzio tanto caparbio e rifiutando qualsiasi aiuto. Eppure, fra di loro si erano sempre confidati. Certo, ora erano cresciuti e i problemi a quanto pareva erano cresciuti di pari passo con loro. Lo abbracciò da dietro, appoggiando il mento sulla sua spalla.
Saga si limitò a sospirare, continuando a guardare fuori dalla finestra, verso un punto lontano e indefinito, persistendo nell'ignorare i tentativi del fratello di farlo aprire.
«Non mi piace questo tuo modo di comportarti», disse Kanon, deluso e scocciato.
Gironzolò un po' per la camera, curiosando distrattamente sulla scrivania e sul comodino, senza trovare alcun indizio che gli facesse capire di cosa potesse trattarsi. Poi, annoiato, si sedette sul letto. Attese ancora per qualche minuto un segno da parte dell’altro, ma del tutto inutilmente. Saga sembrava catatonico. Sbuffò, buttandosi a peso morto sul materasso.
«Mi telefoni, mi fai una domanda assurda senza dare spiegazioni, mi lasci parlare all’infinito e poi, chiudi la telefonata all’improvviso. Ho provato a richiamarti ma è stato tutto vano.»
«Avevo il telefono scarico.»
«Raccontala a un altro!» ribattè, questa volta con tono adirato. «Torno a casa e trovo una situazione tesa.» La voce di Kanon divenne più spazientita. «La cena… beh, sembrava di essere finito in un mondo alla rovescia! Papà era…» Fece una pausa, cercando di trovare la definizione più adatta, ma l’unica che gli venne in mente era “deluso”. «Non l’ho mai visto così! Cos’hai combinato per farlo reagire in quel modo e per ridurti tu in questo stato?» Si avvicinò ancora a lui e questa volta lo girò di forza, per farsi guardare dritto negli occhi. «Insomma, si può sapere che succede?»
Erano a tu per tu, Kanon respirava con un leggero affanno dopo lo sbotto di poco prima, mentre Saga teneva lo sguardo basso, per nascondere gli occhi lucidi.
«Parlami, Saga. Dimmi la verità! Perché ormai è chiaro che il casino che hai combinato deve essere davvero grosso!»
Kanon fece dei respiri profondi per calmarsi e non peggiorare la situazione, perché quando ci si metteva d’impegno, suo fratello era davvero una testa dura e riusciva a fargli perdere la pazienza.
«Siamo solamente tu e io. Come da bambini, com’è sempre stato. Confidati ancora con me.» Provò a essere più accomodante, ma era difficile fare progressi, quando riceveva solamente sospiri. «È Jenny, vero? Ti ha incastrato in qualche modo? Si è fatta mettere incinta?»
Solo con quell’ultima domanda indiscreta Saga alzò la testa e mostrò quanto fosse spaventato. I suoi occhi si velarono di lacrime.
«Stai tranquillo», lo rassicurò il fratello, accarezzandogli la guancia rigata da una lacrima. «Non è così grave come può sembrare. Chiamiamo l’avvocato di papà e sistemiamo le cose in un attimo, tanto lei non lo terrà di certo. Tu però, la prossima volta ricordati di usare il guantino», lo schernì, sogghignando e dandogli una piccola pacca sul braccio in modo malizioso.
«No, no! Jenny non c’entra niente», si affrettò a rispondere Saga, con voce incrinata. Si sedette sul bordo del letto e si mise le mani sul volto. «Mio Dio! Non ci ho pensato... non mi sono fermato a pensare a quello che stavo facendo», mormorò, scrollando la testa.
Kanon gli si inginocchiò di fronte e gli afferrò le mani, scostandogliele dal volto. «E allora cos’è successo per sconvolgerti in questo modo e non farti più ragionare?»
«Non so perché l’ho fatto, Kanon. Io non sono così. Non mi comporto in questo modo. Però…», sospirò, «è stato tutto così spontaneo, così naturale. Eppure… non riesco a capire. Aiutami, Kanon, cosa devo fare?» Saga si passò il dorso della mano sugli occhi pieni di lacrime, strofinandoli come un bambino.
«Non riesco a capire di cosa stai parlando, Saga.»
Kanon gli prese la testa fra le mani e lo guardò di nuovo fisso negli occhi. Vide lo smarrimento di chi non sa cosa fare e un’insicurezza tanto straziante che, se lui non fosse cresciuto in quel modo, non avrebbe mai avuto. Con una mano gli scostò i capelli, liberandogli la fronte, sfiorando con le dita quella piccola cicatrice appena sopra la tempia. Era quasi invisibile, ma sapeva che c'era, tutti in famiglia sapevano che c'era.
Sospirò.
Poi, si sedette accanto al gemello, tirandolo a sé e abbracciandolo forte, accarezzandogli la testa e i capelli, cullandolo dolcemente. Quella disperazione gli spezzava il cuore.

*****

Era rimasto in disparte, come accadeva ogni volta in quelle occasioni, attendendo silenzioso e paziente. Nascosto dietro la porta della camera lasciata socchiusa, aveva osservato l'ennesimo rinnovarsi di quella complicità che a lui era preclusa. Si era quasi divertito nel vedere come persino le attenzioni di Kanon, le sue carezze e i suoi abbracci, avessero faticato a fare breccia; ma alla fine erano riusciti nell’intento di confortarlo, anche se non più come un tempo. Durante quella serata si era compostamente compiaciuto nel vedere Saga in difficoltà. Ma ciò aveva portato malumore e tensioni in casa, coinvolgendo tutti i membri della famiglia. Era come se Saga fosse il termometro dell’umore dell’intera famiglia: se stava male lui, anche gli altri stavano male; se era sereno, allora in casa tutto andava bene. Ne aveva avuto la riprova praticamente ogni giorno, sin da quando era tornato da Philadelphia e questo lo irritava. Al tempo stesso però, sentiva una punta di rimorso. Se quello era il tipo di soddisfazione che aveva cercato in quegli anni, di vederlo non più il cocco di tutti ma solamente uno come tanti, adesso si rendeva conto che non ne valeva la pena, perché la prima a risentirne era sua nonna Angelina.
Si ritirò in camera sua e attese che Kanon scendesse al piano inferiore. Poi, tornò in corridoio, affacciandosi alla balaustra dello scalone e tendendo le orecchie per sentire la voce dell’amico che si rivolgeva adirato contro il padre. Un'altra conseguenza del comportamento di quell'egoista di Saga: ora quei due avrebbero litigato.
Si avvicinò di nuovo alla porta della camera di Saga e l'aprì piano, entrando senza far rumore. All'interno era tutto in penombra. Fece qualche passo fino al letto e lo vide lì, di spalle, sdraiato sul fianco. Il plaid che Kanon gli aveva messo addosso era scivolato di lato. Non era sicuro se stesse dormendo o meno. Il suo corpo però mostrava ancora una certa tensione. Lo osservò per alcuni minuti, senza riuscire a darsi una spiegazione del perché lo attirasse in quel modo. Incrociò le braccia al petto e continuò a osservarlo. Poi, dopo un respiro profondo, fece dietrofront per andarsene. Il debole fruscio che udì provenire da dietro le sue spalle lo bloccò, facendolo voltare con circospezione.
Con un leggero mugolio, Saga si girò sull’altro fianco, rannicchiandosi un poco. Il discreto chiarore della luna che filtrava dalla finestra, rimasta con le tende aperte, permise ad Aiolos di poterlo vedere meglio in viso. I suoi lineamenti si erano contratti leggermente, stava avendo un riposo agitato. Si avvicinò e si chinò su di lui. Alcune ciocche di capelli erano rimaste sul viso di Saga, attaccate alla guancia; altre gli coprivano gli occhi e la fronte. Lo vide rannicchiarsi ancora di più e poi scuotersi per un brivido di freddo.

“L’ho visto così fragile e indifeso… sembrava un bambino dall’aria spaurita.”

Aiolos aggrottò la fronte e si raddrizzò di scatto, mordendosi il labbro. Per un attimo temette che si stesse svegliando. Sarebbe stato imbarazzante per lui farsi trovare lì, a osservarlo così da vicino. Attese qualche altro secondo, poi tirò un sospiro di sollievo: tutto sembrava tranquillo. Allora, con la punta delle dita gli scostò i capelli dal volto. Fu in quel momento che Saga aprì gli occhi, sgranandoli e sobbalzando dalla sorpresa.

“…quanto erano spaventati quegli occhi! Pieni di dolore, tristezza, rimpianto e paura.”

«Aiolos? Che ci fai qui?» domandò dopo qualche attimo di smarrimento, alzandosi e puntellandosi col gomito.
Il ragazzo arretrò subito e gli diede le spalle. Per sua fortuna la scarsa luce che penetrava dalla finestra nascondeva l’improvviso rossore comparso sul suo viso.
«È stata la nonna a chiedermi di passare… per controllare che stessi bene», mentì, cercando di essere convincente. Non sentendo alcuna risposta da parte dell’altro, raggiunse la porta.
«Aspetta!»
«Non era mia intenzione disturbarti», lo anticipò Aiolos, continuando a dargli le spalle. Nella sua voce si poteva distinguere un tono seccato.
«Non mi hai disturbato. Solo… mi sono sorpreso nel vederti qui», si affrettò a giustificarsi Saga. Abbassò lo sguardo, rimanendo in attesa per qualche secondo. Poi, si decise a parlare ancora. «Tu mi detesti, non è così?»
Il giovane Hayes si aspettava una risposta affermativa, considerando l’ostilità che l’altro aveva dimostrato in più occasioni in sua presenza negli ultimi tempi.
«È da tanto tempo che mi hai escluso dalla tua vita. Ora ti preoccupi di quello che provo nei tuoi confronti?» ribattè in tono acido Aiolos, stringendo la presa sulla maniglia della porta. Fece un respiro profondo: sentiva una rabbia antica crescere nel petto. Lentamente si girò verso l’altro, fissandolo con decisione. «Da dopo il tuo incidente mi sono fatto da parte, perché sapevo che avevi bisogno di Kanon e lui aveva bisogno di te. Non hai la minima idea di quanto fosse spaventato al pensiero di perderti», gli disse, avvicinandosi al letto. «Per te esisteva solamente Kanon. Kanon! Kanon! Kanon! Vedevi solo lui, volevi solo lui!» continuò, buttando fuori quel peso che si portava dentro fin dall'adolescenza, faticando a trattenersi dall'andare troppo oltre.
«Da così tanto tempo…» mormorò mestamente Saga.
«Anch’io ero tuo fratello! O almeno, credevo di esserlo stato per i nostri primi quindici anni di vita, anche se non abbiamo lo stesso sangue…»
Aiolos lo guardò per dei lunghi secondi, poi gli voltò le spalle e si passò le mani sugli occhi. La soddisfazione di vedergli anche solo l'ombra di una lacrima non gliela voleva dare.
Saga rimase ammutolito. Abbassò lo sguardo e sospirò. Non sapeva cosa rispondere. Qualunque cosa avesse detto, sarebbe sembrata solo una scusa e probabilmente avrebbe accresciuto il risentimento che Aiolos provava nei suoi confronti. Del resto, se ci rifletteva bene, doveva dargli ragione. Non si era reso conto che nel corso degli anni si erano allontanati così tanto. Si coricò e si girò di nuovo sul fianco.
Anche Aiolos non aveva nulla da aggiungere. Uscì dalla camera da letto chiudendosi la porta alle spalle.
Rimase visibilmente turbato da quanto era accaduto lì dentro, dalla situazione che si era creata e da quello che aveva detto. Anche se finalmente era riuscito a esprimere ad alta voce ciò che provava, non era servito a farlo sentire meglio. Davanti ai suoi occhi era rimasta indelebile l’immagine di quel suo “fratello” che si sovrapponeva all’immagine di un'altra persona, di quel tipo del quale aveva letto quella mattina stessa fra le pagine del quadernetto.
Perché era successo così tutto d'un tratto?




note del capitolo:
La Boston cream pie è una splecialità della città di Boston: è una torta di pan di spagna farcita con crema e ricoperta di ganache (una specie di glassa) al cioccolato.  È stata eletta come torta ufficiale dello stato del Massachusetts.



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Capitolo 11
*** Capitolo X ***




X



I loro corpi, madidi di sudore, si muovevano frenetici. Le loro voci riempivano l’aria di gemiti eccitati, nella strana calma di quel pomeriggio. Il sole era una presenza invadente nella camera da letto, surriscaldava l’ambiente e infiammava le loro menti. Godettero di quella passione con implacabile vigoria fino al culmine, arrestandosi immobili – ancora pieni d’adrenalina – ad assaporare e contemplare l’estasi che avevano provato. I loro respiri erano pesanti, ansanti, soverchiavano i teneri suoni della natura che armoniosi arrivavano da fuori. Con un tonfo maldestro si ritrovarono infine sdraiati sul letto, l’uno accanto all’altro, concedendosi un meritato quanto necessario riposo, nella quiete scandita dal rimbombo dei loro battiti.
«Questa situazione sta iniziando a diventare pesante.»
L'uomo si tirò su leggermente, appoggiandosi con la testa e le spalle alla testata del letto, offrendo per alcuni secondi il suo corpo nudo alla brezza primaverile che entrava dalla finestra smuovendo le tendine. Poi, con un gesto indifferente, risistemò il lenzuolo a coprire le sue nudità.
«Non ne posso più di tutte le scuse che devo inventarmi, dei salti mortali e delle corse fra un impegno improvviso e un altro, per riuscire a ritagliarci un po' di spazio.»
«Non capisco dove sta il problema. Finora ci siamo trovati bene. Cosa c’è adesso di sbagliato?» chiese Aiolos, sdraiato accanto a lui, fissando il soffitto. «Non mi verrai a dire che vuoi diventare come quei vecchi pantofolai che se ne stanno tutto il giorno seduti in poltrona di fronte al camino con indosso una giacca da camera, a fumare e a leggere il giornale, vero? Vorresti davvero rinunciare all’eccitazione di essere colti sul fatto, all’intensità dei momenti rubati, al fascino dell’illecito? Non ti ci vedo proprio!» sghignazzò, girandosi sul fianco, mettendo un braccio sotto al cuscino e chiudendo gli occhi.
«Per te che sei giovane può andare ancora bene giocare in questo modo. Sei libero di goderti una vita che ha ancora tutto da offrire: senza pensieri, senza rimorsi, senza…» Shura sospirò, rimanendo in silenzio per alcuni secondi. «Io mi sto stancando. Sento il bisogno di stabilità, di qualcuno con i miei stessi ritmi, che qualche volta assecondi le mie necessità», disse, portandosi le mani dietro la nuca e chiudendo gli occhi anche lui.
«Che palle...»
Aiolos si mise seduto e appoggiò i piedi sul parquet. Fece qualche respiro lento e profondo. Poi, si alzò e iniziò a raccogliere i suoi vestiti sparsi a terra.
«Che ti prende, ora?» chiese l’altro, riaprendo piano gli occhi, dopo aver sentito un leggero movimento del materasso. Lo vide muoversi in modo nervoso per la stanza, camminando e chinandosi qua e là, continuando a borbottare. «Ti stai comportando come un bambino capriccioso. È forse perché non voglio più prestarmi al tuo gioco? Oppure perché quando le cose si fanno serie è più facile scappare? Ma forse…» riflettè per un momento. Era certo che, se l’ipotesi fosse stata giusta, avrebbe toccato un nervo scoperto per il suo giovane amante. «Questa è frustrazione da delusione amorosa», sentenziò con tono serio, così come seria era l’espressione sul suo viso in quel preciso istante.
Vide Aiolos continuare imperterrito a vestirsi, dandogli le spalle. Si alzò anche lui dal letto avvolgendosi il lenzuolo alla vita e si avvicinò ad Aiolos. Lo strinse in un abbraccio gentile. Iniziò a mordicchiargli e succhiargli il lobo dell’orecchio in modo giocoso, mentre con le mani gli accarezzava il petto nudo fino alla zip dei jeans, abbassandola lentamente.
«Nervosetto?» disse sarcastico, allargando le braccia dopo che Aiolos lo ebbe allontanato con un movimento stizzito del gomito, spingendolo fin quasi a inciampare contro l’angolo del letto.
«Abbiamo appena finito di scopare e mi chiedi se ho avuto una delusione d’amore con qualcun altro?» replicò Aiolos, decisamente contrariato. «Lo sai che non c’è nessun altro che mi interessi», continuò sforzandosi di ritrovare un po’ del contegno perso.
«Allora dimostramelo, spogliati e facciamolo di nuovo.»
«Un’altra volta, forse. Ora ho delle cose da fare», ribattè il giovane, mentre finiva di allacciarsi la cintura.
«Bugiardo. Si vede lontano un miglio che c’è qualcosa che non va e tu stai scappando per non affrontare il problema. Peggio ancora, neghi l’esistenza stessa del problema.»
«È soltanto una giornata storta. Può capitare a chiunque, no?» disse con indifferenza Aiolos. Si voltò verso di lui e gli mostrò uno sguardo beffardo, avvicinandosi poi di qualche passo a lui. Gli aprì il lenzuolo. «Però su una cosa hai ragione: potrebbe essere arrivato per me il momento di trovare qualcun altro. Stai invecchiando per certe cose», disse, fissandolo per un attimo in mezzo alle gambe, alzando infine gli occhi fino a incrociare quelli scuri dell'amante.
Gli si mise a cavalcioni sulle gambe e gli passò le mani nei folti capelli corvini, che ancora non mostravano alcun filo d'argento, fermandosi dietro la nuca. Con un improvviso strattone gli fece piegare la testa all’indietro e iniziò a baciarlo con prepotenza. Sorrise dentro di sé, nel sentire le mani dell’altro stringere e massaggiare con vigore le sue natiche. Erano mani grandi e forti, dal tocco sensuale, che passavano poi lentamente lungo le sue cosce in carezze sempre più vogliose, fino a spingersi di nuovo a sfiorare e subito abbassare la zip dei jeans. Aiolos sentì la mano dell’altro che vi si intrufolava dentro accarezzandolo con delicatezza, eccitandolo e stimolandolo. E lui rispose con movimenti lenti del bacino.
Si era passato con soddisfazione la lingua sulle labbra dopo quei lunghi e prepotenti baci. Si rialzò soddisfatto e si risistemò i pantaloni, tirando lentamente su la zip, in modo provocatorio, proprio di fronte all'amante.
«Il sesso selvaggio è solo per i bambocci, Aiolos», lo rimproverò Shura, per nulla infastidito da quell’ostentazione di superiorità nella quale credeva di indugiare il giovane. «Divertente e appagante sul momento; ma poi, una volta passato, ti lascia con un senso di vuoto.»
Aiolos diede uno sguardo fuori dalla finestra, mentre allungava la mano per recuperare la maglietta, finita sulla sedia lì vicino. Se la infilò con gesti naturali e calmi, quindi passò a vestire la camicia.
«Quando ti ho detto che sarei stato felice per te se avessi trovato qualcuno da amare veramente, lo dicevo sul serio. È da tempo che ho capito che sono solo un ripiego. Però devo ammettere che mi dà fastidio lo stesso.» Shura si avvicinò al comò e prese un cambio pulito, adagiandolo sul piano del mobile. «Ancora ricordo la prima volta che ti sei avvicinato a me e ti sei dichiarato, condividendo quel tuo primo bacio dato a un uomo. Poi ti sei fatto più audace e senza nemmeno rendermene conto mi hai fatto innamorare di te», disse, con un sorriso nostalgico sulle labbra. «Ma sono passati tanti anni e le cose fra noi pian piano sono mutate», mormorò con una punta di amarezza. Dal riflesso dello specchio notò come Aiolos fosse rimasto praticamente indifferente a quelle sue parole, concentrato a guardare qualcosa fuori dalla finestra.
«Possibile che tu non abbia mai trovato nessuno della tua età di cui innamorarti? Con tutto il tempo che passi a New York, sempre appresso a Kanon, avrai avuto sicuramente modo di incontrare e conoscere gente di tutti i tipi. Com'è possibile che proprio nessuno ti abbia colpito?» gli domandò girandosi a guardarlo. «Ho abbastanza esperienza per riconoscere subito certe cose, ne ho già visti gli effetti su persone a me vicine. E le conseguenze spesso si riflettono anche su chi sta attorno. Dimmi Aiolos, chi ti ha rifiutato?»
L’espressione di Shura era concentrata sul giovane a tal punto da sembrare corrucciata. Si chiese cosa stesse guardando l’altro con così grande interesse da neanche sentirlo. Poi si arrese all’evidenza che le sue parole erano cadute nel vuoto ed entrò nel bagno per farsi una doccia.

«Invece di perdere tempo a interessarti degli affari miei, non hai di meglio da fare, tipo scodinzolare dietro al vecchio Hayes?» La voce del giovane aveva un tono acido e di rabbia repressa. «E per rispondere alla tua domanda, così finalmente la finirai di insinuare assurdità: nessuno mi ha rifiutato», rispose, distogliendo lo sguardo da ciò che stava osservando e seguendo Shura con la coda dell’occhio.
«Il mio padrone...» ribattè l'altro con tono ironico, mentre apriva l’acqua calda e se la faceva scorrere addosso, «è partito questa mattina presto per New York. Visto che ha lasciato Kanon a fare da angelo custode al gemello, ha deciso di seguire lui le ultime fasi preliminari per l'acquisizione di quelle due società che stavate tenendo d’occhio.»
«Lui cosa? Non può fare una cosa del genere! Non ne ha il diritto! Quello è un nostro progetto!» urlò Aiolos, entrando di scatto nel bagno e piazzandosi di fronte alla parete di vetro smerigliato del box doccia. «E Kanon, che cosa ha detto in proposito?»
«Bamboccio, non alzare troppo la cresta!» rispose Shura, uscendo dalla doccia e avvolgendosi l’asciugamano attorno alla vita. «Non avete ancora sufficiente esperienza per gestire da soli queste cose. Soprattutto quando in ballo non ci sono soldi vostri, ma dovete rendere conto al consiglio di amministrazione e agli investitori.»
L'uomo lo scostò in malo modo per passare, ma si fermò subito. «E ricordati una cosa: Shion William Hayes non ha bisogno del consenso di nessuno, men che meno del vostro.»
Il suo sguardo si fece tagliente, tanto da far sentire in soggezione il giovane che serrò le labbra e abbassò gli occhi, trattenendo il respiro finché l’altro non uscì dalla stanza.
«Non te la prendere in questo modo. Arriverà anche per voi l’occasione per farvi valere.»

*****

«Eccoti finalmente!» esclamò Kanon, trovando il gemello seduto per terra a gambe incrociate, intento a far rimbalzare una pallina da tennis contro il muro posteriore del garage. «Allora è qui che ti rintani quando vuoi sfuggire alla vista degli altri?»
«È uno dei tanti», rispose Saga, alzando le spalle e continuando quel suo passatempo.
«Non ricordavo che qui fosse stato pavimentato, né che ci fosse quello», disse Kanon, fissando lo sguardo sul canestro regolamentare appeso al muro posteriore del garage.
Eppure, proprio lì, lui aveva passato pomeriggi interi, durante le loro estati da adolescenti, a giocare con Aiolos, in sfide che terminavano immancabilmente in rissa. Sul suo volto comparve un gran sorriso. «Fantastico! Domani sfido Aiolos a un bel uno contro uno!»
La pallina da tennis gli passò a pochi centimetri dal braccio, andando a colpire il muro con molta violenza, rimbalzando poi verso di lui con ancora più forza. Il rampollo Hayes si scansò appena in tempo e, girandosi, vide il gemello prenderla al volo. Lo guardò per un momento, indeciso se protestare o fargli i complimenti per i riflessi pronti. Subito, Saga replicò il lancio, ma questa volta Kanon, dopo aver aspettato il rimbalzo, l'afferò al volo. Di nuovo, si girò verso il gemello, mostrandogliela tutto soddisfatto. Lo trovò in un atteggiamento d'attesa, con lo sguardo triste e le labbra piegate un poco verso il basso.
«Ancora i crucci dell’altra sera? Oppure è per colpa di papà che stai così?»
Il giovane Hayes iniziò a camminare avanti e indietro per quel piccolo campo, facendo ribalzare a terra la pallina a ogni suo passo. All’improvviso si fermò e, assumendo la posizione da lanciatore professionista della Major League, la scagliò con forza contro il muro, scansandosi per non essere colpito dal rimbalzo.
Non da meno del fratello, Saga la prese al volo, senza scomporsi più di tanto. Kanon sorrise. Poi, si sedette a terra, accanto a lui, ma in posizione contrapposta,  come a formare una sorta di Tao, dove l'uno era lo yin e l'altro invece era lo yang.
«Una sfuriata capita a tutti di subirla, prima o poi. Non è la fine del mondo, Saga», disse Kanon, allungando le gambe e accavallando i piedi. «Anzi, essendo tu sangue del mio sangue, è strano che ci abbia messo così tanto! Quasi mi veniva da pensare che non fossi veramente mio fratello!» esclamò con divertimento, ma che aveva più il sapore dello sberleffo. «Le cose fra voi si aggiusteranno presto. Lo sai com’è fatto papà. È sempre stato un po' apprensivo nei tuoi riguardi, ma dopo il tuo incidente…» Quell'ultima frase la pronunciò abbassando la voce: sentiva un po' di disagio quando doveva riportare alla mente quell'episodio. Ma al tempo stesso, forse inconsciamente, si toccò sopra la tempia destra con la punta delle dita. «lo è diventato ancora di più.»
Sospirò nel vedere Saga abbassare la testa e toccarsi anche lui sulla tempia destra. A distanza di quasi tredici anni dall'accaduto, quello era ancora un argomento delicato in casa Hayes. E chi ne soffriva maggiormente era proprio Saga, che nonostante non avesse mai dato segni di ricordare l’accaduto, viveva quelle eccessive preoccupazioni con grande stress; e più lui mostrava di risentire di quelle attenzioni, più gli altri lo trattavano con riguardo.
«Certo, questo controllo così maniacale di questi ultimi tempi non lo condivido affatto, hai diritto anche tu a un po’ di libertà, ma che ci vuoi fare?» disse Kanon, dandogli una pacca sulla coscia. «Ora concentrati sul lavoro e vedrai che papà si dimenticherà presto della tua scappatella e tornerà a essere soddisfatto del suo figlio preferito. Non vorrai mica farmi prendere il tuo posto, vero?»
Saga alzò ancora una volta il braccio, pronto a lanciare la pallina, ma fu subito bloccato dal fratello.
«Ascoltami. Lo vuoi un consiglio da un esperto in questo tipo di pasticci? E tu sai bene che ne ho combinati tanti e tu spesso mi hai dato una mano a coprirli. Credo che le tue preoccupazioni siano esagerate. Lo hai detto tu stesso che anche lei era consapevole di quello che stava facendo e che...» Fece una pausa per cerdare le parole più adeguate, ma rinunciando poi a terminare quella frase. «Lascia passare qualche giorno in modo che si calmino le acque. Così potrai capire se è stato solo un colpo di testa, oppure se c'è qualcosa di più. Questo vale per tutte le cose: dai tempo al tempo. Se non ti passa, se senti che è una cosa importante per te, allora rischia, torna alla carica e vedi come va!»
Kanon notò una volta di più lo sguardo avvilito del gemello, gli si avvicinò ulteriormente e lo attirò a sé fino a farlo sbilanciare e cadergli addosso, abbracciandolo forte e stritolandolo d'affetto.
«E cosa vuoi che possa fare?» disse Saga, quasi pigolando come un bambino. «Mi ha proibito di uscire di casa. Non posso nemmeno arrivare al Country Club. Ci mancava solo che mi chiudesse a chiave in camera mia, neanche avessi ancora cinque anni.»
«Probabilmente hai ragione, se Nanny si ricordasse dove ha messo le chiavi delle nostre porte, lui lo considererebbe seriamente per davvero!» confermò Kanon, ridendo e accarezzandogli la testa. «E poi la butterebbe via!»
«In questi ultimi tempi faccio solo cose sbagliate. Deludo le persone: tutte. Perché la vita sta diventando così difficile?»
Saga chiuse gli occhi, sfogando con quelle parole la sua frustrazione e mostrando tutta la sua fragilità. Sospirò e si abbandonò completamente alle coccole che gli stava facendo il fratello: l’unico che lo capiva davvero e lo faceva sentire meglio, in quelle occasioni.
«Ma no, Saga, basta prendere le cose nel verso giusto. Non so bene cosa fai quando stiamo lontani, la vita è tua ed è giusto che tu la viva come vuoi, ma sono sicuro che non è nulla di sbagliato. Vedrai che appena troverai un tuo equilibrio tutto andrà meglio. Tutto diventerà più facile.»
Sempre più spesso, in quegli ultimi due giorni, Kanon era stato costretto a interpretare il ruolo del fratello saggio e responsabile, per confortare il gemello. Non gli dispiaceva quel tipo di vicinanza e complicità, ma in qualche modo iniziava a pesargli il fatto che Saga si mostrasse così debole di carattere, come se fosse rimasto indietro, mentre lui e Aiolos erano andati avanti con la loro vita. Forse la responsabilità era da attribuire anche alla troppa protezione che tutti si premuravano di dare a quel fratello buono e con la testa sempre un po' fra le nuvole.
«Comunque non preoccuparti», gli disse, continuando a tranquillizzarlo. «Papà non ci sarà nei prossimi giorni. Quindi, se ce ne sarà bisogno, ti coprirò io con gli altri, anche per eventuali chiamate di controllo. Però, se proprio devi stare fuori tutta la notte, avvisami prima, così avrò tempo per inventarmi qualcosa!»
Con la mano gli scompigliò i capelli biondi, rincarando la dose prendendolo in giro perché erano troppo lunghi e lo facevano assomigliare a una ragazza. Rise di nuovo di gusto nel sentire le proteste dell'altro, stringendolo ancora un po' a sé. «Io torno dentro, c’è un sacco di lavoro che mi aspetta. Quando te la senti, vieni in biblioteca: mi farebbe piacere se lavorassimo assieme.»
Lo tenne abbracciato per diversi altri secondi, quasi soffocandolo. Poi, si rialzò e lasciò il gemello a rimuginare su quello che gli aveva detto, ma dopo neanche qualche passo, sentì di nuovo il rumore sordo e ritmico della pallina che rimbalzava prima a terra e poco dopo contro il muro del garage.
«Grazie, Kanon», disse in tono sommesso Saga, continuando nel suo gioco.

*****

Aiolos si concesse una breve passeggiata, dopo aver lasciato la dependance nella quale viveva Shura. Non c'era alcuna necessità di rientrare in fretta alla villa. Passò dalla cucina. Con lo sguardo a metà fra l’infastidito e lo scocciato aprì il frigorifero e iniziò a frugarci dentro. Aveva fame, il suo stomaco reclamava a gran voce, ma non sapeva bene di cosa avesse voglia. Scrollò la testa, ripensando a Shura: non capiva come avesse ancora energie per fare anche jogging dopo tutta l'attività fisica che avevano fatto assieme. Con molta probabilità, in quel preciso momento, stava facendo il giro completo dell'immenso parco che circondava la villa.
Sbuffò annoiato. Ovunque posasse gli occhi non riusciva a trovare nulla di soddisfacente. Purtroppo per lui erano finiti i tempi in cui la nonna gli faceva trovare sempre dei brownies o dei cookies appena sfornati, ma forse… provò a guardare nella vecchia biscottiera, lì in bella vista sul piano di lavoro: erano rimaste solamente briciole.
Tamburellò con le dita per qualche secondo. Alla fine si decise per del succo d'ananas, che trangugiò direttamente dal brik, e un sandwich. Dal pensile alto recuperò una confezione di pane integrale a fette. In frigorifero trovò del bacon e prese il formaggio spray. Si preparò tutto con precisione: le due fette di pane una vicino all'altra, il bacon aperto lì vicino e la bomboletta di formaggio spray che agitava nella mano. Puntò il beccuccio erogatore sul pane, il dito era pronto a fare pressione. La sua mano tremava leggermente. Provò un paio di volte, senza riuscirci: qualcosa lo bloccava.
«Al diavolo!» imprecò. «In fondo neanche mi piace.»
Optò allora per delle fette di pomodoro e della mostarda piccante. Poi, con il sandwich in mano e la bocca piena, salì in camera sua, buttandosi sul letto per continuare la lettura di quel quadernetto.

“… Ero ancora nell’ufficio di Burton quando il professor Taylor è uscito dalla saletta degli interrogatori. L’ho visto davvero sconvolto, mentre si passava le mani fra i capelli, quasi a volersi rimettere in ordine per i presenti. Sembrava più nervoso di quanto già non lo fosse quando era entrato e quella sua tensione era ben evidenziata dal sudore sulla fronte e dal tremore delle mani. Forse, a pensarci ora, la definizione più calzante per quell’uomo, in quel momento, era “dannatamente irritato”. Evidentemente nemmeno lui è riuscito a persuadere il suo ex pupillo a parlare. Chissà poi cosa voleva ottenere.
Il professore si è diretto subito verso l’avvocato della procura, confabulando per alcuni minuti, ritornando ogni tanto con lo sguardo verso la porta della stanzetta dove ancora era rinchiuso l’accusato. Più quei due parlavano, più il professore riprendeva la sua solita aria dura e determinata. È un grand'uomo, ma a volte mi dà l’impressione di strafottenza.
Alla fine di quella fitta conversazione, l'avvocato della procura ha chiamato il tenente Burton dicendo che si poteva procedere con la conferma dell’arresto. Burton ha fatto segno ai due agenti presenti di prendere in custodia il giovane e riportarlo nella gabbia, in attesa del trasferimento in carcere, poi ha chiamato me per consegnarmi delle carte.
Quando lo hanno trascinato fuori, la sua espressione era rassegnata come se si stesse incamminando al patibolo. Era calmo e sereno, ma ho notato qualcosa di inquietante in lui, muoveva le labbra come se stesse pregando, o forse... parlava con qualcuno di invisibile, lì vicino a lui. Che voglia giocare la carta dell'infermità mentale?
Ero di fianco al tenente quando quel giovane ci è passato davanti. Come se non fossero stati abbastanza i segni sul suo viso, ora aveva un piccolo rivolo di sangue che gli scendeva dall’angolo della bocca e una guancia arrossata. Prima che gli agenti lo spintonassero fuori, per un attimo, solo un attimo, mi ha guardato; e mi è sembrato che mi sorridesse. Non nascondo che sono rimasto turbato. Di nuovo ho visto in lui la stessa fierezza di prima.
Burton se n’è accorto e mi ha detto che non devo cascarci in queste cose, non devo dar peso a ciò che è accaduto, sono tattiche che usano i criminali per far credere di essere innocenti e quelli con l’aspetto angelico sono i più pericolosi.”

«Aspetto angelico…» ripeté a mezza voce Aiolos, distogliendosi per un attimo dalla lettura.
Sul suo volto comparve uno strano sorrisino, mentre nella sua mente si formava di nuovo l’immagine del viso spaventato di Saga che aveva visto la notte precedente. Chiuse il quadernetto e lo fissò per qualche momento, mordendosi l'unghia del pollice. Era un brutto vizio che si trascinava fin dalla giovane età e veniva fuori quando aveva qualche pensiero che lo turbava.
«Che sciocchezze. Sto perdendo tempo!» borbottò, richiudendo il quadernetto nel cassetto della scrivania con un colpo secco. Poi, ci rifletté su. Lo riprese e se lo mise nella tasca posteriore dei jeans, prima di raggiungere Kanon in biblioteca.

*****

Trovò Kanon seduto alla scrivania, dietro una montagna di scartoffie, che sbuffava come un bufalo e tamburellava le dita sul bracciolo della poltrona di pelle, con lo sguardo fisso sul cellulare di fronte a sé. Aiolos lo aveva visto talmente assorto che era sicuro non avesse notato quando gli era passato davanti per andarsi a sedere su una delle poltrone vicino al camino.
«Devo decidermi a dirglielo, prima che sia troppo tardi», borbottò il giovane, muovendosi sulla poltrona e continuando a sbuffare. «Tu che ne pensi, Aiolos?  Dammi un parere: dici che è il caso di parlarne a papà di quella cosa, o provo a risolverla da qui?» Ci furono diversi secondi di silenzio. «È inutile che tenti di nasconderti, ti ho visto benissimo!»
«Fai quel che vuoi, la testa è tua. E quello che hai in mezzo alle gambe, pure. Mi chiedo solo quale delle due cose rotolerà per terra per prima», ribattè con sarcasmo l’amico, ridacchiando e tornando nella sua comoda posizione di imboscato.
«Se non ci fosse stato questo inconveniente in famiglia avrei potuto risolvere il tutto con la massima discrezione. Il tempo e l’occasione non mi mancavano, però ora c’è lui nell’ufficio di New York e sono certo che i documenti gli arriveranno sulla scrivania entro la fine della giornata», sbuffò ancora Kanon.
Con la mano giocherellava distrattamente con alcuni fogli del fascicolo che aveva davanti, intanto che componeva il numero privato del padre sul cellulare. Sentì squillare almeno una decina di volte, prima che dall’altra parte il destinatario rispondesse.
«Buongiorno, papà! Va tutto bene in ufficio? Hai trovato tutto in ordine?» disse, cercando di essere il più naturale possibile.
«Sto attendendo i legali della compagnia per stilare il contratto preliminare per l’acquisizione. Quindi arriva al sodo, Kanon», rispose l'uomo, che conosceva bene le tattiche del figlio e si aspettava quella telefonata.
Dall’altra parte invece, il ragazzo si irrigidì, cercando rapidamente un modo per sbrogliare la situazione e uscirne col minimo danno possibile.
«Ecco, appunto. È proprio di questo che ti volevo parlare. Hai presente quel progetto che ti avevo proposto… ehm… che Aiolos e io ti avevamo proposto?» si corresse, includendo intenzionalmente anche l’altro e sorrise in modo teso all’occhiataccia di Aiolos. «Ecco, sì, forse sarebbe più saggio lasciar passare qualche tempo e rifletterci meglio. Sai, non è detto che tutto sommato sia un così grande affare per noi.»
Provò a essere il più convincente possibile, ma se il padre lo avesse visto in quel momento, avrebbe capito quanto nervosismo celavano le sue parole.
«Parla chiaro!»
Ci fu un breve silenzio nel quale Kanon allontanò il cellulare dall’orecchio e fece un respiro profondo, prima di riprendere. «Ecco, vedi... Sono saltati fuori alcuni piccoli inconvenienti che rendono meno appetibile l’acquisizione di una delle due. E... visto che quelle due società sono collegate fra loro…»
«Quali inconvenienti?» domandò Shion, con voce estremamente seria.
«Tranquillo, cosucce di poco conto…» cercò di rassicurarlo Kanon, calcando però un po' troppo il tono della voce con una giovialità poco adatta al momento. «Ci penserò più che volentieri io a sistemare le cose non appena verrò lì.»
«Quali inconvenienti, Kanon!» insistette Shion Hayes, seduto sulla sua poltrona in pelle nell’ampio ufficio di Manhattan e con le mani congiunte sul petto.
Kanon si schiarì la voce, prima di rispondere «La commissione antitrust gli sta con il fiato sul collo per una questione che li aveva visti coinvolti un paio di anni fa», dovette ammettere.
«E me lo dici quando siamo praticamente a un passo dalla firma per l’acquisizione della società? Perché diavolo non me ne hai parlato prima?»
«Non è colpa mia, ho avuto la conferma alla notizia solamente pochi minuti fa!» mentì spudoratamente l'altro, iniziando a sudare freddo. In sottofondo si sentì la risata inopportuna di Aiolos.
«Da dove viene questa notizia e quanto è affidabile la tua fonte?» chiese l'uomo, massaggiandosi entrambe le tempie. Quella telefonata gli stava provocando un gran mal di testa.
Con il vivavoce inserito, anche i collaboratori presenti, i più stretti e personali del grande capo, che conoscevano bene il giovane Hayes e i suoi metodi di lavoro, venivano direttamente informati del “contrattempo”. Mise Kanon in attesa, per non lasciare che il “pubblico” sentisse oltre, poiché sapeva bene dove il figlio sarebbe andato a parare. Congedò i presenti impartendo loro alcune direttive. Poi, una volta rimasto solo, riaprì la comunicazione. «Avanti, dimmi», disse, con un sospiro rassegnato.
«È la segretaria personale del presidente della compagnia Dixon. Me lo ha detto “in confidenza”», specificò, Kanon. «Dubito che abbia potuto giocarmi un brutto scherzo, soprattutto non dopo due bottiglie di champagne e le attività ricreative connesse!»
A stento trattenne una risatina nel ripensare a quella serata, nell'appartamento di lei, che si era rivelata molto piacevole e al tempo stesso proficua.
«Ti stai contraddicendo, Kanon», lo corresse Shion. «Figliolo, un tempo eri più bravo a raccontare le frottole e soprattutto a mantenere una parvenza di coerenza, ma forse in questo ti aiutava tuo fratello, non è vero?»
«Come?» si sorprese il giovane. «La notizia è comunque sicura! Piuttosto, vedi di sbarazzarti di quegli analisti incapaci di cui ti servi, se avessero saputo fare il proprio dovere con competenza, non ci saremmo nemmeno imbarcati in questo affare!» si giustificò, ora con tono decisamente risentito.
«Non dare la colpa agli altri per una tua leggerezza. Te l'ho già detto più volte che non mi piace il modo in cui ottieni certe informazioni. Tu e quell’altro che ti porti appresso avete terminato gli studi da poco! L’aver chiuso un paio di buoni affari non significa che tutto d’un tratto siete diventati degli esperti del settore. Comincio a pensare che avrei dovuto farvi iniziare entrambi come fattorini!» lo rimproverò con voce severa il padre, mettendo finalmente in chiaro le cose.
«Che vuoi dire, che siamo due incompetenti? Che hai solo sprecato tempo con noi? Scusa tanto se siamo una delusione per te, per non essere stati all’altezza della tua amata Harvard. Forse avresti dovuto riservare un trattamento speciale anche a noi, come hai fatto con il tuo figlio prediletto ma difettoso!» urlò Kanon, alzandosi di scatto dalla poltrona.
Non attese la susseguente lavata di capo da parte del padre che avrebbe sicuramente tirato in ballo argomenti come “il rispetto dei genitori e dei ruoli”, o “la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni” e via di seguito. Con un gesto ancora pieno di rabbia interruppe la chiamata e alzò il braccio con impeto, con la voglia di scagliare a terra il cellulare e sfogare così la sua frustrazione.
«Allora, come l’ha presa?» domandò Aiolos, affacciandosi di nuovo. Il suo volto esprimeva un'indifferenza strafottente.
«La solita solfa», rispose l’altro, lasciandosi cadere esausto sulla poltrona. Il suo volto era ancora tirato per la rabbia.

«Papà era già al corrente di tutta la faccenda. Ti ha messo alla prova», intervenne Saga. Era rimasto in disparte e, al termine della telefonata, aveva palesato la sua presenza all’interno della biblioteca, attirando su di sé gli sguardi stupiti degli altri due.
«Che vuoi dire?»
«Quello che ho detto», confermò Saga, con un tono rammaricato e la testa bassa. Era rimasto volutamente seminascosto e con la mano che ancora stringeva la maniglia della porta.
«Non può essere!» ribattè Kanon. «Sembrava sorpreso quando gliel’ho detto ed era anche molto in collera, alla fine!»
«Allora è un attore migliore di te», rispose Saga, celando lo sguardo al fratello per non mostrare la tristezza e il dispiacere che velavano i suoi occhi. Poi si girò per uscire dalla biblioteca.
«E tu che ne sai di questa faccenda?» intervenne con tono arrogante Aiolos che nel frattempo si era avvicinato a Kanon, sedendosi sull'angolo della scrivania. «Probabilmente non hai perso il vizio di origliare. Ecco perché sei così informato», rincarò la dose con un’espressione maliziosa e sarcastica sul volto, dando una stoccata velenosa al gemello del suo migliore amico.
«Le mie competenze sono uguali alle vostre, ma ho metodi di lavoro diversi», rispose Saga, lasciandosi andare a un sospiro troppo udibile. «Kanon, credo che a questo punto il mio aiuto non serva più, se avrai bisogno di me sarò in camera mia.»
«Aspetta, Saga!»
Kanon lo trattenne per un braccio e lo abbracciò forte. «Ti prego, non fraintendere quello che hai sentito. Ero arrabbiato con papà per quello che aveva detto al telefono.»
«Non ti preoccupare, lo so di essere sbagliato, di essere difettoso.» Saga ripeté le stesse parole pronunciate poco prima dal gemello e con la mano si sfiorò sopra la tempia destra. «È per questo che mi tratti come se fossi ancora un bambino.»
«No, Saga, non è così», provò a spiegargli Kanon. Allungò la mano per accarezzargli la guancia, ma l’altro indietreggiò di un passo.
«Me ne rendo conto anch’io che non sono un granché nelle relazioni con gli altri, non quanto tutti voi, ma so fare il mio lavoro. E in quello sono bravo almeno quanto voi. Sono professionale e responsabile.»
«Lo so, Saga. Lo so.»
Kanon vide lo sguardo del fratello farsi più sicuro, ma questo non bastò a celare la profonda tristezza che quelle sue parole, dette con rabbia al telefono, gli avevano provocato. Avrebbe voluto rassicurarlo ancora, dirgli che sapeva che non era colpa sua se era così, che quel suo candore, quando esprimeva i sentimenti, era una benedizione, ma che a volte era anche un male. Avrebbe voluto dirgli tutte quelle cose, invece lo lasciò andare via, per rifugiarsi nella sua camera.

*****

Come le aveva promesso Edward Price, non le erano stati concessi favoritismi per il suo legame con Phillip Burton. E anche per quel che riguardava il lavoro, l'uomo era stato di parola. Cora se ne accorse quando Susan, la segretaria, l'accompagnò nel seminterrato della palazzina, ovvero il luogo dove avrebbe passato le sue giornate lavorative. Quell'ampio spazio era un immenso magazzino, con tanto di gabbia metallica, chiusura elettronica e telecamere di sorveglianza, per i documenti e le prove più sensibili. Nell'indicargliele Susan le disse che i monitor erano collegati al suo computer. Le spiegò quello che Price si aspettava da lei e infine le consegnò il tesserino magnetico. Poi, dopo averle dato le ultime istruzioni, andò via tacchettando veloce. Cora si guardò attorno: le sembrava di trovarsi in uno di quei serial polizieschi tanto popolari. Fece un lungo giro di “ispezione” per familiarizzare con quel luogo. Sorrise nel vedere così tanti schedari di metallo e le scaffalature piene di scatole di reperti. Ricordava che una volta, quando era ancora una bambina, suo padre le aveva fatto visitare le zone più nascoste e polverose del distretto: “Piene di segreti e tesori”, le diceva in quelle occasioni, per farla divertire.
«Sono sicura che mi troverò bene.» In quella fase della sua vita voleva un poco di tranquillità e quella mansione, apparentemente ingrata era proprio ciò che cercava.
Dopo quattro giorni di lavoro, in mezzo a quel marasma, ancora non era riuscita a capire quale metodo di catalogazione usassero in quell’agenzia. Lo schedario principale era in condizioni pietose: solamente un quinto delle schede sembrava essere stato messo in ordine alfabetico, ma riguardavano tutti casi di tre anni prima. Il resto era un caos totale, nel quale ci si poteva imbattere, strano ma vero, in casi vecchi di trenta o quarant’anni, messi subito dopo a casi dell’anno precedente; così come l’ultimo caso archiviato, sarebbe potuto stare in mezzo a quelli di venti anni prima. Non c’era alcuna logica, neanche il più recondito collegamento fra i casi. Possibile che un’agenzia così prestigiosa nel 2010 ancora facesse affidamento su un metodo di archiviazione manuale?
Ma in fondo, di cosa si lamentava? Anche lo zio Phil prediligeva i mezzi tradizionali, con la sola differenza che con lui, Cora doveva gestire molto meno lavoro. Eppure c’era qualcosa che non tornava. Aveva notato come l’agenzia andasse abbastanza di pari passo con la tecnologia e la segretaria usasse complicati programmi di gestione dei documenti; persino in quel seminterrato lei stessa aveva a disposizione strumenti che non aveva mai usato prima. Dunque perché mantenere anche un tipo di archiviazione obsoleta?
Forse era un po’ troppo presto per porsi certe domande. Quello che sapeva era che l’avevano assunta per sistemare quel magazzino e questo lei avrebbe fatto.

*****

Il ritorno a casa per Cora era sempre un'impresa. Ancora non aveva fatto le gambe per tutte quelle scale, che si andavano a sommare al lungo tratto di strada dalla fermata dell'autobus fino alla casa dello studente di Dohko. Arrancò stancamente, gradino dopo gradino, fino al suo appartamento al quarto piano, facendo una piccola sosta a metà della penultima rampa per rifiatare. La borsa continuava a scivolarle dalla spalla, rendendole la salita più ardua. Nella mano teneva il sacchetto con la cena: il menù speciale del sabato preso al fast food di fronte alla sua fermata. Non vedeva l’ora di entrare in casa, buttare a terra borsa e scarpe, lasciarsi cadere sul letto e passare la successiva mezz’ora a sospirare e mangiare schifezze, dimenticandosi per un momento di quella giornata. Sapeva che ad aspettarla c’erano ancora diversi scatoloni da svuotare e tanto da sistemare. L’appartamento infatti non aveva subito alcun miglioramento in quei giorni; oltretutto, si era appena fatta spedire le ultime cose da Philadelphia. Sospirò: con molta probabilità avrebbe rimandato a domani, proprio come aveva fatto la sera precedente. Si passò la mano sulla fronte e riprese quei pochi gradini che le mancavano; ma, quando alzò gli occhi per iniziare l'ultima rampa, lo vide.
«Cosa ci fai tu qui?» gli domandò, sgranando gli occhi.
«Ti stavo aspettando.»
Cora trattenne il respiro. Lui, quella stupida incoscienza che voleva dimenticare, era di nuovo lì fronte a lei, vestito come un signorino di buona famiglia: con il maglione chiaro, una camicia dal colletto ben inamidato, i jeans scuri e il cappotto piegato con cura sulle gambe. Sedeva tutto tranquillo sul gradino più alto e la guardava con un sorriso dolce sulle labbra.
«E come mai? Hai forse dimenticato qualcosa?» domandò, cercando di mascherare con la diffidenza il timore che provava in quel momento.
«No, non è per questo che sono venuto. Volevo vederti e… parlarti», rispose lui. Si sentiva un po’ sciocco, perché in verità non sapeva cosa dirle.
«Non c’è bisogno di parlare di nulla. Abbiamo fatto quel che abbiamo fatto. Se ora temi che voglia avanzare qualche tipo di pretesa, o fare giochetti, o peggio ancora ricattarti, stai tranquillo, non sono quel tipo di persona», ribatté subito lei. «Puoi tornartene a casa dalla tua ragazza, o fidanzata, o moglie, e scordarti di me!» terminò, salendo quell'ultima rampa e scavalcandolo, raggiungendo in fretta la porta dell'appartamento.
«Aspetta, Caroline! Hai frainteso. Non sono qui per questo. Non ho pensato neanche per un momento a una cosa del genere!» rispose tutto d'un fiato Saga, alzandosi di scatto e lasciando scivolare a terra il cappotto. «E comunque… non sono impegnato.»
Cora sussultò, voltandosi verso di lui e stringendosi la borsa al petto. «Come conosci il mio nome? Sul citofono non c’è e nemmeno sulla cassetta della posta o sul campanello della porta!» esclamò, arretrando d’istinto fino a sbattere con la schiena sulla porta. La sua mano aveva già afferrato la piccola bomboletta al peperoncino che teneva nella borsa.
Saga provò ad avvicinarsi, ma abbandonò subito quell’idea, vedendo come lei si fosse messa sulla difensiva. «È scritto sull’intestazione della posta che ti è arrivata quest’oggi: sulle lettere e sul pacchetto. Sono lì per terra, accanto alla porta.» Con la mano le indicò il mucchietto di corrispondenza che giaceva vicino alla porta. «Il postino ha voluto una firma per la consegna e io…»
Lei sgranò gli occhi. «La posta? Di oggi? Ma da quanto tempo stai aspettando?» Di colpo la tensione che aveva sentito addosso si dissipò. «Saranno ormai le otto passate e il postino di solito fa le consegne verso le tre del pomeriggio. Hai aspettato qui tutte queste ore?»
Spostò lo sguardo sulla posta ammonticchiata a terra, riflettendo che di solito era il vecchio cinese a ritirarla per lei e non la lasciava mai sul pianerottolo. Poi, di colpo realizzò quanto fosse grave la situazione. «Ma... come ti sei permesso di guardare la mia posta?»
Saga le rispose con un sorriso disteso, spolverando il cappotto con la mano.
«Smettila di sorridere!» gli gridò contro. Se ne pentì subito, quando lo vide trasalire e abbassare la testa, intristito.
«Perdonami se ti ho offesa. Non pensavo di fare qualcosa di male», si scusò Saga, ancora con lo sguardo basso. Si girò, il cappotto sul braccio, e iniziò a scendere lentamente i gradini.
Cora fissò la sua schiena. Si rammaricò nel vederlo allontanarsi così. Fece un respiro profondo e si chinò per raccogliere la posta. «Avresti potuto almeno presentarti, così avrei saputo come chiamarti... la prossima volta», mormorò, prendendo le chiavi dalla borsa.
«Davvero vorresti ci fosse una prossima volta?» chiese, sussurrandole all’orecchio, facendola sobbalzare per la sorpresa. La posta le cadde dalla mano. «Allora rimedio subito. Mi chiamo Saga.»
«Perché mi arrivi sempre alle spalle?» disse Cora, con un leggero tremolio nella voce.
Saga le prese la mano che stringeva la chiave e, con un gesto leggero e sensuale, la guidò, girando la chiave nella toppa e facendo scattare la serratura, ma senza aprire la porta. Rimasero in quella posizione per diversi secondi, senza dirsi nulla. Bastavano i loro respiri e le reazioni dei loro corpi a comunicare ciò che stavano provando.
«Finirà come l’altra sera?» chiese Cora, chiudendo gli occhi e trattenendo il respiro.
L’abbraccio con il quale lui la stava circondando era avvolgente e rassicurante. Tenero e al tempo stesso eccitante. Il calore del suo corpo e quel profumo così lieve e dolce le facevano capire che poteva fidarsi di quel ragazzo che era capace di sorprenderla senza spaventarla davvero. Ancora una volta provò il desiderio di abbandonarsi completamente a lui.
«Solo se lo vorrai anche tu», le rispose in un sussurro carezzevole, sfiorandole la guancia con le labbra. Con una piccola spinta aprì la porta.
«Un attimo!» lo fermò lei. Si girò a fatica, nel poco spazio che lui le concedeva, e lo guardò negli occhi, sorridendo un poco imbarazzata. «Prima dimmi una cosa, Saga. Per quanto tempo saresti rimasto qui fuori, su queste scale buie e sporche, ad attendere il mio ritorno?»
«È una domanda difficile a cui dare una risposta», rispose lui, divertito nel vedere comparire un velo di delusione sul volto della ragazza che teneva fra le braccia. «Non mi sarei mosso di qui finché tu non fossi tornata», le disse con tono serio.
«Ero convinta che non ti avrei più rivisto.» Cora continuò a guardarlo, le sue mani appoggiate al petto del ragazzo e quel sacchetto della cena fra loro; poteva avvertire con la punta delle dita il battito accelerato del suo cuore. «Non sono riuscita a farti uscire dai miei pensieri», sussurrò, abbassando gli occhi.
«Avresti preferito che non fossi più tornato?»
«È una domanda difficile», replicò lei.
Gli accarezzò il viso, guardandolo con languore. Poi, portò le mani dietro la sua nuca, immergendo le dita in quei capelli biondi così belli e setosi. Si alzò in punta di piedi e baciò con dolcezza le sue labbra tanto morbide, ricambiata subito con altrettanta delicatezza.
«Allora, resti?» gli propose, prima di baciarlo con maggiore passione e intensità.
«Ho il coprifuoco a mezzanotte», rispose Saga, riprendendo a baciarla prima che lei potesse accorgersi dell’imbarazzo dipinto sul suo volto per ciò che aveva appena detto. E la baciò fino a lasciarla senza fiato.

Entrarono nell'appartamento muovendosi un po' impacciati, abbracciati l’uno all’altra e totalmente presi dal coinvolgente sentimento che quei baci, pieni di passione, trasmettevano loro. Fecero appena qualche passo, nell’apparente tranquillità del piccolo appartamento di Cora, quando iniziarono ad avvertire distrattamente dei rumori inconsueti e qualcosa di umido sotto i loro piedi: come se stessero camminando dentro una pozzanghera.
«Ma cosa…» Saga vide una piccola lingua di acqua luccicare alla luce delle lampade e strisciare lentamente verso di loro, allargandosi sempre più. Poi, un sibilo sinistro diventò più udibile e persistente, man mano che la sua attenzione si concentrava sull’ambiente.
Anche per Cora fu lo stesso. Le euforiche emozioni che aveva provato poco prima, persa nei baci del ragazzo, erano man mano scemate lasciando il posto alla preoccupazione di capire cosa stesse succedendo in casa. Si affacciò nel salotto, camminando cautamente, osservando l’acqua strisciare sul pavimento. Sul momento non capiva da dove stesse arrivando. Poi, quel sibilo si fece più forte. Quasi scivolando a terra a ogni passo, entrò in cucina, rimanendo scioccata dal disastro che vi trovò: l’acqua zampillava copiosa dal rubinetto del lavello che traboccava come una fontana, bagnando tutto ciò che aveva attorno, arrivando persino a colpire i mobiletti dalla parte opposta.
«No! No! No! No… Accidenti!» esclamò, con crescente disperazione.
Si precipitò a cercare di tamponare quella fuoriuscita incontrollata, ma più si avvicinava e più veniva investita dal getto d'acqua. Afferrò lo strofinaccio e lo premette sulla perdita, ma senza troppo successo: gli schizzi più forti erano cessati, il flusso però continuava a riversarsi nel lavello e a cadere a terra.
«Tutto bene, Caroline?» le chiese un po' ingenuamente Saga, rimasto indietro. «Ti serve una mano?»
«Svelto, chiudi il rubinetto centrale dell’acqua!» ordinò lei.
Il ragazzo si avvicinò un poco, rimanendo però al di là del bancone della colazione che divideva il salotto dalla cucina, guardandola con un’espressione stranita. Vedeva Cora combattere con il rubinetto, bagnandosi sempre di più.
«Cosa stai facendo lì impalato? Ti ho detto di chiudere l’acqua!» lo rimproverò con voce sempre più agitata.
Con passi molto cauti, Saga si avventurò nella piccola cucina, affiancandosi a lei.
«Ma no, che fai qui? È nel bagno. Muoviti!» lo sgridò. «Lascia perdere, prendi il mio posto. Vado io a chiudere la valvola centrale. Tu continua a tamponare qui!»
Gli afferrò le mani e gliele fece mettere sullo strofinaccio sporco e completamente intriso di acqua. Poi lo scostò malamente, mentre gli passava dietro, e si diresse di corsa verso il bagno, andando però a scivolare e sbattere il fianco sullo spigolo del bancone.
Cora ci mise qualche minuto a tornare in cucina da Saga, trovando il ragazzo fradicio e straniato come un pesce fuor d’acqua, in mezzo a quei devastanti effetti che il guasto aveva provocato. Lei stessa non era messa meglio: bagnata dalla testa ai piedi e con gli occhi arrossati. L’unica consolazione era che, così bagnata e con i capelli che gocciolavano, le lacrime di sconforto che aveva pianto in bagno si confondevano con tutto il resto.
«Non è possibile… non dopo tutto il tempo che ci ho messo per sistemare questa casa. Non dopo tutti i soldi spesi nelle riparazioni», mormorò afflitta per quel disastro: l'acqua ancora sgocciolava dal bordo del lavello e cadeva sul pavimento dove in alcuni punti sembrava già essercene almeno un dito. «Tieni, asciugati con questo», gli disse, porgendogli un asciugamano pulito e ancora piegato. Nell’altra mano aveva con sé un secchio e diversi stracci. Senza perdere altro tempo si mise in ginocchio e iniziò a raccogliere più acqua possibile.

Lavorando in due fecero abbastanza in fretta ad asciugare la cucina. Cora di tanto in tanto indugiava con lo sguardo su Saga. Lo vedeva lavorare di buona lena, senza emettere un lamento, né preoccuparsi di sporcarsi i vestiti firmati, o rovinarsi le mani, che solo in quel momento notava quanto fossero ben curate e delicate.
«Che pasticcio…» sospirò, dopo aver strizzato per l’ennesima volta lo straccio nel secchio già pieno. «Addio cena, addio relax, addio…» si bloccò di colpo, ricordandosi all'improvviso che l'acqua era arrivata anche in altre parti della casa. Si sporse verso il salotto e vide che il pavimento ne era pieno, ma non aveva intaccato gli scatoloni accatastati vicino alla finestra. Non era stato altrettanto fortunato quello ai piedi della postazione del computer, che invece ne aveva assorbita una discreta quantità. «Mio Dio, no!» esclamò, con il panico che stava tornando a riaffacciarsi nella sua mente e il cuore che batteva all’impazzata. Gattonò fino allo scrittoio. Aprì lo scatolone e costatò amaramente che le sue paure si erano realizzate.
«No! No!» La sua voce divenne tremula e le lacrime traboccarono dai suoi occhi per la seconda volta in quella serata.
Estrasse le fotografie e i quaderni del padre, le cose più preziose per lei, che ancora non aveva avuto il tempo di sistemare. Le pagine dei quaderni erano tutte appiccicate le une alle altre, intrise d’acqua almeno per metà. Tutto ciò che era rimasto di lui, i suoi pensieri, la sua vita, le parole che aveva scritto di suo pugno, tutto si era dissolto e confuso in un alone di inchiostro azzurrognolo. Strinse quegli oggetti al petto, iniziando a dondolarsi avanti e indietro.
Saga le posò l'asciugamano sulle spalle, stringendola in un abbraccio. «Possiamo provare ad asciugarli e a recuperare qualcosa», le propose con voce gentile, ma lei scrollò la testa. «Ma ci possiamo sempre provare, no?»
«Sono completamente rovinati», insistette lei, sorda a tutto, continuando a scrollare la testa con lentezza. «Usava la penna stilografica. Amava scrivere in quel modo, sporcarsi le dita con l’inchiostro, sentirne l’odore… L’acqua ha rovinato tutto.» Si tolse l’asciugamano dalle spalle e iniziò a tamponare quelle pagine, pur sapendo che non avrebbe fatto alcuna differenza. «Dovevo stare più attenta… dovevo stare più attenta…» continuò a ripetere come una litania, anche dopo che il giovane l'aveva stretta ancora una volta al suo petto. «Avevo atteso così tanto per poterli avere, pensavo non sarebbe potuto succedere nulla, invece... ora non ho più niente.»
Si alzò completamente sotto shock, portandosi via quel quadernetto che ancora stringeva al petto e si chiuse in camera da letto, dove l’acqua non era arrivata, lasciando Saga da solo, con i ricordi di una vita a lui estranei, abbandonati a terra in mezzo a quel disastro.




note del capitolo:
Brownies: sono dei tipici dolci al cioccolato, dei quadratini di torta ricoperta di glassa al cioccolato.
Cookies
: sono i tipici biscotti americani, tondi con pezzetti di cioccolato, famosi in tutto il mondo.




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Capitolo 12
*** Capitolo XI ***





XI



Quando Cora riaprì gli occhi, tutta indolenzita, era già notte fonda. Sentì un brivido scuoterle il corpo: indossava ancora i vestiti bagnati e i capelli erano umidi. Sulle guance avvertiva distintamente la sensazione delle lacrime che aveva versato quella sera ed erano scivolate sul cuscino. Si passò le mani sul viso: era caldo. Controvoglia scese dal letto e un cerchio alla testa la fece barcollare per qualche secondo. Poi, sopraggiunse un po' di nausea. Aveva sete e fame. Si spogliò e dal cassetto del comò prese un cambio asciutto: una vecchia maglietta con la mascotte dell'Università e dei pantaloncini arancioni. Quella sensazione di freddo che sentiva fin nelle ossa si placò un poco, ma ora aveva bisogno di una bella sciacquata per togliersi i dispiaceri che le pesavano sul cuore.
Andò in bagno e si specchiò per qualche momento: assomigliava a uno zombie. Aprì il rubinetto, ma non uscì una goccia d'acqua. Riprovò più volte, senza risultato. Solo dopo si ricordò del guasto, dell'allagamento e del disastro. Di nuovo le venne voglia di piangere, ma fece un gran respiro e strinse i denti. Prima di uscire da lì, si sciolse la coda ormai disfatta e liberò i riccioli castani sulle spalle.
Dalla finestra del salotto, con la sua luce fioca e discreta, la luna illuminava a sufficienza la stanza per permetterle di non inciampare o andare a sbattere da qualche parte. Passò accanto al bancone della colazione e, su uno degli sgabelli, vide il suo cappotto piegato con cura e la sua borsa adagiata sopra, sull'altro c'era quello di Saga e anche il suo maglione. Alzò lo sguardo sul ripiano e si stupì: disposti in ordine e ben asciutti c'erano quegli oggetti a lei cari che credeva ormai da buttare. C'era anche il sacchetto del fast food. Se n'era completamente dimenticata. Sfiorò quegli oggetti con le dita, soffermandosi sulla cornice con la foto del padre in divisa, prendendola e stringendosela al petto, mentre osservava anche il resto della stanza: la libreria era in perfetto ordine e gli scatoloni appiattiti e posti dietro il divano, occupato dal fautore di tanto lavoro.
Si avvicinò piano e lo osservò dormire, avvolto nel vecchio e infeltrito plaid di pile che si era portata da Philadelphia.
«Ma non avevi detto di avere il coprifuoco a mezzanotte?» sussurrò con un tenero sorriso sulle labbra, nel vederlo con un'espressione di beata fanciullezza sul viso.
Saga era steso un poco sul fianco con il braccio sotto il cuscino, piegato a metà; l'altro invece era appoggiato al petto, con la mano che stringeva un libro aperto. Rimase a guardarlo per alcuni minuti, era un tale incanto che provò il desiderio di sfiorarlo per accertarsi che fosse reale, ma non osò farlo, per non disturbarlo. Gli sfilò il libro dalla mano – notando che si trattava di un racconto scritto dalla madre – e si inginocchiò vicino al divano.
«Tutti che mi guardano dormire. Sono così bello?»
«Sì», confermò Cora, senza distogliere lo sguardo da lui. «Incredibilmente bello e dolce come un angelo.»
Si chinò su di lui, gli scostò i capelli dalla fronte con una carezza e gli diede un bacio leggero sulle labbra appena dischiuse.
«Mi dispiace averti trattato in modo brusco, quando eravamo fuori sulle scale. Mi sono comportata male, ma non sapevo cosa aspettarmi in quel momento.»
«Dopotutto era tuo diritto», ammise Saga con tono triste, tirandosi su e puntellandosi col gomito. «Chiunque al tuo posto avrebbe reagito nello stesso modo di fronte a uno sconosciuto che aspetta davanti alla sua porta di casa.»
Le prese la mano, abbassando lo sguardo su di essa: per lui quella era una situazione del tutto nuova. «Anch'io ho la mia parte di responsabilità. Non ho considerato come avresti potuto reagire. Sai, quando l'altro giorno ti ho sentita piangere, non sapevo come interpretare quelle lacrime, se fosse stata colpa mia...»
Cora aprì la bocca per protestare, ma lui la zittì posandole un dito sulle labbra. «Se in qualche modo ti sei sentita costretta...» continuò.
«No! No!», lo interruppe lei. «Non dire così. L'ho voluto anch'io! Tu mi piaci e non mi pento di averlo fatto.» La voce della giovane si fece più incerta, nonostante volesse mostrarsi risoluta nel confessare ciò che provava.
Saga si stupì di quelle parole, ma ne fu anche molto felice e intimamente sollevato. Abbozzò un sorriso.
«Santo cielo... Non avevo mai fatto una cosa del genere, mai con uno sconosciuto. Nella mia vita ho avuto un solo ragazzo...» mormorò lei, abbassando lo sguardo. Poi, trovò di nuovo il coraggio di guardarlo negli occhi, in quei suoi splendidi occhi verdi, ma non riuscì a continuare poiché Saga la attirò a sé e la baciò con passione. Le sembrava di vivere un sogno.
«Non ti ho detto tutta la verità. Ho dato venti dollari al postino per ritirare la tua posta e scoprire così il tuo nome.»
«Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per me.» Cora si sentì molto lusingata da quel gesto e lo ringraziò con un bacio che subito lui prolungò, infondendogli una rinnovata passione, invitandola a raggiungerlo sul divano.
«Sei tutta gelata», le disse con preoccupazione, stringendola a sé e coprendola col plaid, iniziando a sfregarla delicatamente con la mano, prima sul braccio e poi sulla coscia.
In quel momento però, Cora non badava affatto al freddo che in effetti era tornata a sentirsi addosso; con la testa appoggiata alla spalla di Saga era più intenta a godersi il tepore del corpo del ragazzo e quel suo dolce profumo. «Grazie per quello che hai fatto questa sera per me. Non eri obbligato a rimediare alla mia pigrizia. Grazie per essere rimasto», gli disse, chiudendo gli occhi. Si accoccolò meglio e si strinse a lui.
Saga le fece più spazio. Poi, all'improvviso si ricordò di qualcosa e iniziò a muoversi impacciato in quello spazio esiguo.
«Cosa succede?» chiese lei, alzando per un attimo la testa.
«Avevo… il libro.»
«Non ti preoccupare, l’ho messo sul tavolino», gli sorrise Cora, dandogli un bacio sulla guancia. «Non pensavo ti interessasse quel tipo di lettura per… ragazzi.»
«Beh…» provò a giustificarsi lui, sentendosi un poco in imbarazzo.
«Non c’è nulla di male.»
«Ma io non mi vergogno affatto. Sì, mi piace. Da giovane li ho letti praticamente tutti!» ribatté, forse con eccessiva enfasi, schiarendosi poi la voce.
«Davvero? Mia madre ne sarà lusingata!»
«Come? Terry C. Miller è tua madre?»
«Teresa Costantini Miller», svelò lei. «Per un fan come te, potrei chiederle di mandarti una copia autografata.»
«Non prendermi in giro.»
«Non ti sto affatto prendendo in giro! Davvero, mi fa piacere che apprezzi il lavoro di mia madre.»
«L’incredibile furto della statuetta di bronzo», ripeté a memoria il titolo del libro, con tono quasi trasognato. «Non l’avevo mai letto.»
«È uno dei titoli della serie nuova, quando riprese a scrivere, dopo la morte di mio padre. Prima, ogni suo libro era ispirato alla realtà, ai casi sui quali lavorava mio padre. Quando tornava a casa, le raccontava quelli più interessanti che gli capitavano fra le mani», gli spiegò, chiudendo gli occhi. Per un attimo richiamò i ricordi alla mente. «Aspettavano che io andassi a letto e poi si accomodavano sul divano, un po’ come siamo noi ora e le raccontava del suo lavoro.»
Cora sorrise, accarezzando pigramente il petto del ragazzo, sentendo a sua volta la mano di Saga passare leggera sul suo braccio.
«Qual è la tua storia preferita fra quelle scritte da tua madre?» le chiese lui.
«Una storia che non è mai stata raccontata», fu la risposta di lei, che provocò nel giovane non poca perplessità.
Lei se ne accorse e si spiegò meglio.
«Ricordo una sera in particolare, fu circa un mese prima della morte di mio padre. Io mi ero attardata a leggere un libro per la scuola, anche se c'era vacanza. Scesi in cucina e li sentii parlare: erano sul divano in salotto. Papà era triste e scoraggiato e mia madre gliene chiese il motivo. Allora lui le parlò di un vecchio caso che lo aveva colpito molto nei suoi primi anni di servizio e che non era mai riuscito a dimenticare. Era diventato una specie di chiodo fisso per lui. Da come ne parlavano intuii che non fosse la prima volta. La mamma infatti era molto interessata. Gli disse che voleva provare a scriverci un libro. Uno di quelli seri, non per ragazzi, ma lui si arrabbiò.» Fece una pausa, poiché in quel momento la sua voce era incrinata dalla commozione. «Lui non si arrabbiava mai, né a casa, né fuori. Eppure quell'argomento lo turbava. Era un caso difficile, molto triste. Era la storia di due neonati rapiti nel cuore della notte dalle loro culle. Successe molti anni fa, quando io ancora non ero nata e i miei forse neanche si conoscevano. Nessuno riuscì mai a scoprire chi fosse il rapitore, né il motivo del gesto, perché non ci fu alcuna richiesta di riscatto. La madre dei neonati perse il senno e fu ricoverata in una clinica psichiatrica, dove morì qualche anno più tardi.»
«E il padre?»
«Nessuno ha mai saputo chi fosse», rispose, Cora. «Nei rapporti non si fece mai menzione. Ma mio padre aveva un sospetto sulla sua identità.»
«E i due bambini?»
«Non se ne seppe più nulla.»
«Allora sono morti?» disse Saga, con voce rattristata.
«I loro corpi non furono mai ritrovati, quindi non è detto che lo siano», ribatté lei. «Voglio credere che siano vivi, che siano cresciuti felici e che ora abbiano una famiglia tutta loro.»
«Ma sono stati tolti ai loro genitori, come potrebbero essere cresciuti felici?»
«Quando successe erano ancora troppo piccoli, è impossibile che si possano ricordare dei genitori naturali.»
«Ma... mancherebbe comunque loro sempre qualcosa, non trovi?»
«Si può crescere bene anche con dei genitori adottivi», rispose lei, chiudendo il discorso con un bacio. Non se la sentiva più di parlare di quell'argomento.
Si tirò su e lo guardò negli occhi, accarezzandogli la guacia. Con la punta delle dita gli sfiorò le labbra leggermente imbronciate in una smorfia triste. Lo baciò ancora, con tenerezza, per rasserenarlo. Poi, lo baciò con maggiore passione e immediatamente lui rispose, stringendola sempre più a sé, portando le mani al suo sedere. E alla fine lei gli fu praticamente sdraiata sopra.
«Andiamo di là, in camera. Staremo decisamente meglio», gli disse, riprendendo fiato. Gli diede un ultimo bacio. Poi, a malincuore, si alzò, sentendo un leggero brivido di freddo nell’abbandonare il confortevole abbraccio del ragazzo. Subito fu trattenuta da Saga che invece era rimasto seduto. La fece sedere sulle sue gambe e la strinse in un abbraccio geloso e possessivo.
«Non posso…» mormorò lui.
«Vieni», ripeté l’invito Cora, alzandosi nuovamente e tendendogli la mano.
«No!» ripose in modo secco Saga, lasciandola interdetta per diversi secondi. «Non posso restare.»
«Capisco.»
«No, non capisci!» esclamò lui, alzandosi di scatto e abbracciandola da dietro, mettendoci troppa forza, tanto che a Cora scappò un leggero gemito di dolore. «Perdonami», si affrettò a scusarsi.
Saga la intravide portarsi una mano al ventre. Allora la fece voltare verso di lui e le scostò la mano, alzandole la maglietta e scoprendo un brutto livido scuro. Lo fissò per diversi secondi con occhi sconvolti.
«Devo essermi fatta male quando ho sbattuto contro uno spigolo. Non è nulla di grave.»
Saga si inginocchiò di fronte a lei. Con la punta delle dita le sfiorò la parte dolorante e la sentì sussultare. Forse non era nulla, ma le faceva male. Notò anche una piccola cicatrice tonda. Avrebbe voluto domandarle qualcosa in proposito; si limitò invece ad appoggiare la fronte al suo ventre, respirando piano.
«Vorrei tanto rimanere. Vorrei dividere nuovamente il letto con te, questa notte. Vorrei…» si interruppe. Non riusciva a esprimere i sentimenti che provava in quel momento. «Mi dispiace», mormorò. Si alzò in piedi, passandosi poi una mano fra i capelli. «Non mi sarei dovuto trattenere fino a quest’ora, ma non volevo lasciarti da sola finché non fossi stato sicuro che tu stessi bene.»
«Come puoi vedere, ora sto bene.» Cora provò a dargli di nuovo le spalle, ma Saga fu più lesto e la bloccò ancora una volta, fra le sue braccia, che ora a lei sembravano più delle catene.
«Ti prego, Caroline», disse, quasi con disperazione.
«Io non capisco. Fino a poco fa eravamo insieme sul divano e non sembrava affatto che avessi fretta di andartene. Ora invece non vuoi restare! Mi stai solo prendendo in giro», provò a protestare lei, cercando al tempo stesso di divincolarsi. «Volevi fare l’amore. Ti sei quasi fatto pregare e ora… ora te ne vuoi andare via così, accampando solo scuse!»
«È questo che credi, Caroline? È questa l’impressione che ti ho dato?»
«No», sussurrò lei, contrita. «Sei stato gentile e premuroso, sei stato corretto. Altri di certo ne avrebbero approfittato subito.»
«Caroline…»
«Cora. Per favore, chiamami Cora. Fammi sentire il nome che mi sono scelta, pronunciato dalla tua voce», lo pregò lei, voltandosi e guardandolo negli occhi.
«Cora…», ripeté lui, sorridendole e suggellando quel nome con un bacio.
«Non preoccuparti, ora sto bene. Non posso pretendere di farti restare se non vuoi... o se non puoi», aggiunse, passandogli la mano fra i lunghi capelli biondi, catturandone una ciocca e arricciandone la punta con le dita. «Ci sarà però un’altra occasione?»
«Non ti posso promettere che ci rivedremo nei prossimi giorni, ma se vorrai… sì, ce ne saranno altre, tutte quelle che vorrai», le rispose Saga, guardandola con occhi dolci e limpidi, solleticandole le labbra con il pollice.
Un indelicato starnuto e un improvviso brivido scossero il corpo della ragazza.
«Ti senti bene?» le chiese, Saga, preoccupato per il respiro affannoso che ora sentiva venire da lei. In qualche modo però era anche un po' divertito.
«Credo di essermi presa il raffreddore. Ora prendo un’aspirina e torno a letto. Tu vai, altrimenti rischi che te lo attacchi», disse lei, tirando su con il naso. Si diresse in cucina e da uno dei ripiani vicino al frigorifero prese una bottiglietta d’acqua. Subito dopo aprì l'antina del pensile e prese le aspirine che stavano accanto al barattolo del caffè, che questa volta aveva messo più a portata di mano.
«Sei sicura?»
Cora annuì brevemente, bevendo un sorso d'acqua per mandare giù la compressa. Un secondo starnuto diede una risposta più veritiera. «La degna conclusione per una pessima serata», sospirò, portandosi una mano alla fronte sentendo un'ombra di mal di testa. Passò accanto al ragazzo che provò ad abbracciarla, ora più preoccupato, ma lei lo respinse con una mano. «È meglio che tu vada», gli disse; e un altro starnuto, trattenuto a fatica, diede la sentenza finale.
Non molto convinto, Saga assecondò comunque il desiderio di Caroline. Si rimise il maglione ancora un po' umido e prese il cappotto, avviandosi mesto alla porta.
«Aspetta!» lo fermò lei all'improvviso. Corse nel salotto e prese il libro che il giovane stava leggendo, tornando poco dopo. «Prendilo. Così potrai terminare di leggerlo. E... avrai un motivo in più per tornare.»
Il viso di Saga si illuminò. Noncurante dei rifiuti precedenti di lei, le diede un bacio a tradimento, sorprendendola e lasciandola senza parole.

*****


«Non credi di essere stato un po' troppo severo questa volta con lui?» domandò Shura, rabboccando la sua tazza di cioccolata calda.
Era da tanto tempo che quei due, amici fin dall'infanzia e successivamente anche fugaci amanti – divenuti tali per lenire le ferite del cuore di entrambi – non si ritrovavano di notte, nella cucina di Nanny, a parlare davanti a una cioccolata calda “speciale”.
«E perché mai? Non gli ha di certo fatto male prendersi quella strigliata. Chissà che non inizi finalmente a comportarsi come un adulto responsabile e non come un adolescente in preda agli ormoni», ribattè con indifferenza Shion Hayes, sfogliando le pagine finanziarie dell'edizione della sera del Boston Globe. «In fondo però, è stato anche divertente prendermi gioco di quel ragazzo», sogghignò, girando un'altra pagina e portandosi subito dopo la tazza alla bocca.
«E da quando per te gli affari sono diventati un gioco?» inquisì Shura, con un'espressione perplessa sotto quell'ombra di barba che gli donava un'aria più latina. «E... a proposito di affari, ora come la metti? Pensi di portare avanti lo stesso l’acquisizione? Se davvero c’è di mezzo l’antitrust, non credi che potrebbero metterti il bastone fra le ruote e creare noie, visti anche i precedenti della tua famiglia?»
Shura si soffermò a osservare le reazioni dell'amico e trovò strano che l'altro si mostrasse invece così tranquillo.
L'atmosfera quella notte era stranamente quieta. Forse anche troppo. L’aroma della cioccolata calda riempiva l'aria nella cucina e l’aggiunta del brandy donava quel tocco di nostalgia che dava loro l'impressione di essere tornati indietro nel tempo, a quando i crucci e le delusioni sembravano insormontabili e solo Nanny, con il suo elisir magico e dal sapore vellutato, glieli faceva dimenticare.
«Shion?» lo chiamò perplesso, vedendolo ridere sotto i baffi.
«Chi pensi sia stato a mettere sull’avviso l’antitrust?» disse Shion, con una sicurezza quasi irritante. «Quella società è comunque destinata a scoppiare come una bolla di sapone. A me interessano solamente le loro competenze nel settore, i brevetti e i contatti. E dopo che la commissione li avrà rivoltati come un calzino, potrò accaparrarmi le loro quote a un prezzo decisamente inferiore.»
Shura non poteva credere alle proprie orecchie. Lo aveva sentito parlare dei suoi progetti con estrema noncuranza, neanche fosse stata la cosa più naturale del mondo disporre della sorte di centinaia, forse migliaia di persone e dei loro posti di lavoro. Ancora di più lo preoccupava il fatto che continuasse a leggere il giornale. Poi, lo vide aggrottare la fronte e soffermarsi sull'articolo che parlava della celebrazione per il novantaduesimo compleanno dell’illustre concittadino James Taylor, insigne professore di Diritto all’Università di Harvard, nonché padre dell’ex governatore del Massachusetts James Taylor jr.
«Dimmi Shion, lo fai solo per avidità?»
«Avidità!? Cosa c'è di male. Dopotutto, è solo una questione di soldi!»
Quelle parole risuonarono nel silenzio più assoluto. Shion Hayes alzò un sopracciglio nello squadrare l'amico, ora letteralmente impietrito. Si domandò con un certo divertimento cosa lo scandalizzasse di più, se ciò che gli aveva appena detto, oppure il tono con il quale l'aveva detto. Sospirò, richiudendo e ripiegando con cura il giornale.
«Possibile che un cinefilo come te non abbia riconosciuto la citazione di Gordon Gekko da Wall Street?» disse, ridendo e scrollando la testa.
Shura rimase in silenzio per diversi altri secondi. Poi, sbuffò. «Mascalzone! Dovevo immaginarlo. Solo tu potevi tirar fuori una cosa del genere in un momento come questo!» lo rimproverò, passandosi una mano sulla fronte.
Per qualche minuto aveva sudato freddo. Rifiutava anche solo l'ipotesi che l'amico potesse essere uno di quei squali di Wall Street come li dipingeva il cinema. Si prese una lunga sorsata di cioccolata calda e sospirò di piacere. «Il tuo mondo proprio non lo capisco. E non capisco nemmeno perché questa volta hai usato i tuoi figli in questo modo. Passi per Kanon, lui ha un carattere molto forte, ci è cresciuto in quel tipo di ambiguità e ci si trova a suo agio, ma perché hai voluto mettere in mezzo anche Saga? Lo sai che non è come il fratello. Lo hai sempre protetto in ogni modo possibile. Ora invece... cos'è cambiato?»
«Discuti le mie azioni e le mie decisioni?»
«Quando vanno a discapito dei ragazzi, sì! E non parlo solamente dei gemelli, ma anche di Aiolos. Shion, davvero non capisco perché stai agendo in questa maniera. Crescerli con affetto per tutti questi anni, dar loro un’istruzione e prepararli per affrontare il mondo e poi… sembra che tu stia volutamente alimentando la competizione fra loro!» La voce di Shura si alterò di apprensione nel pronunciare quelle parole che sapevano di rimprovero.
«Non lo capisci perché non hai figli, Shura. Kanon e Aiolos sono ormai uomini ed è tempo che imparino che nel mondo degli affari non si può sempre giocare come fanno loro. Devono capire che ogni azione porta a delle conseguenze. Kanon soprattutto! Agire in quel modo è molto pericoloso!» Shion si passò una mano fra i capelli che stavano via via diventando grigi, fermandosi dietro la nuca e massaggiandola per allentare la tensione accumulata in quegli ultimi giorni.
«A volte è davvero uno sconsiderato, ha troppa fiducia in se stesso e poi commette passi falsi.»
«Ma non era necessario umiliarlo in quel modo! E Saga? Lo hai messo in una posizione difficile. Hai rischiato che alla fine i ragazzi si mettessero l’uno contro l’altro», continuò nelle sue proteste Shura.
«Saga ha fatto quello che gli avevo ordinato di fare. Ma ha sbagliato: non è stato in grado di capire cosa fosse giusto fare e con rammarico devo ammettere che mi ha deluso. Neanche lui ha ancora capito come gira il mondo, né come ci si deve comportare in una famiglia. Non ha né rimediato all’imprudenza del fratello, né approfittato dell’occasione, rimanendo invece a guardare.»
«Questo atteggiamento così remissivo è colpa tua, Shion.»
«Lo so. Non ho avuto il coraggio di cambiarlo», dovette ammettere con rammarico il capofamiglia Hayes.
«Forse dovevi solo dargli più fiducia e lasciare che affrontasse il mondo. Ma ti capisco, anch'io provo lo stesso quando lo guardo,» confessò. Si alzò dalla sedia e portò via la sua tazza ormai vuota, mettendola nel lavello.
«A volte mi sembra davvero di rivederlo in lui: senza ambizioni, né aspirazioni particolari. Docile come un agnellino. Soddisfatto di seguire la volontà degli altri. Troppo tranquillo e pacifico per vivere in un mondo di squali. Lo stai portando verso questa strada, Shion, ma Saga non è lui. Vuoi rivivere un passato impossibile ancora una volta? Il ragazzo ha tutta la vita davanti a sé. Prima o poi sceglierà la sua strada, una che magari andrà nella direzione opposta a quella che vuoi tu. Quando questo accadrà, cosa farai, gli volterai le spalle come hai fatto con lui?»
«Come osi dire una cosa del genere?» urlò Shion, scattando in piedi con rabbia, tanto da rovesciare la sedia a terra e provocare un gran trambusto. «Bada a quello che dici! Non ti permetto di farmi la predica in questo modo, tu non sai di cosa stai parlando!»
«Ti ho visto soffrire per lui, Shion. Ero solo un ragazzino all’epoca ma capivo la situazione e dopo… anni dopo ne ho avuto la conferma. Tu hai frainteso i suoi sentimenti, Shion! Ti voleva bene come un amico, come un fratello, ma anche se ti ha dato ciò che desideravi, non poteva amarti come volevi tu.»
Shion Hayes sgranò gli occhi. Com'erano finiti a parlare di un argomento che ancora gli provocava tanta rabbia? Subito arrivò al limite della sopportazione, il sangue gli stava andando al cervello. Gli si avventò contro come una furia, colpendolo in pieno viso con un pugno. Poi, rimase così, col respiro pesante e quella mano che tremava.
«Ti senti meglio?» domandò Shura, passandosi il dorso della mano sull’angolo della bocca ad asciugare il sangue che usciva dal labbro spaccato.
«No», fu la lapidaria risposta dell’altro, ancora tremante di rabbia e adrenalina. «Però hai ragione. Non sono la stessa persona.»
Tornò al tavolo col fiatone e il passo barcollante, rimise a posto la sedia e vi si lasciò cadere stancamente sopra. «Dove si trovano i ragazzi, ora?» domandò, osservando le nocche arrossate della mano.
«Dai loro un po’ di respiro Shion, li hai messi troppo sotto pressione in questi giorni. Lasciali vivere la loro età», rispose con tono compassionevole Shura, tamponandosi il labbro con lo strofinaccio umido.
«Ti ho fatto una domanda!»
«Dovresti immaginarlo da solo, visto che non hai trovato l'auto di Aiolos in garage, quando sei tornato», ribattè Shura, perdendo per un secondo la sua calma.
Ma Shion Hayes aveva ancora la mente distratta da vecchi pensieri a causa delle parole del suo braccio destro, per accorgersi di aver fatto una domanda inutile. Quelle parole avevano colpito nel segno più di quanto avesse immaginato. I ricordi e le sensazioni di quegli anni lontani tornarono a galla e questi, più riaffioravano, più gli facevano male. Non era vero il detto che il tempo cura ogni ferita, per lui almeno non era così. Tanto più che avere davanti agli occhi i gemelli alimentava quell'incessante riflusso di ricordi e di nostalgia.
«Sono le tre passate», commentò Shion, guardando l'orologio.
«In fondo è sabato sera. Saranno ancora in qualche locale a bere per dimenticare questa giornata», disse Shura, ritrovando il sorriso. «Non ricordi cosa facevi tu alla loro età?»
«Avevo già in mano le redini degli affari di famiglia», ribattè l’altro. «Già, affari di famiglia…» sospirò poi pesantemente. «Una famiglia che all’epoca era composta solamente da me e…»
«Era un modo di dire Shion, sai cosa intendo: anche tu facevi di testa tua e non ascoltavi i consigli di nessuno.»

«I miei cari ragazzi. Che nostalgia che provo nel vedervi qui e con questo aroma così familiare», disse Nanny, con voce leggermente roca e assonnata, ma piena di emozione. Entrò in cucina e si avvicinò ai due uomini. «Tutti e due qui come tanto tempo fa. È un po’ tardi però, non vi pare?»
«Cosa ci fai ancora sveglia, Nanny?» Shion Hayes alzò lo sguardo verso la donna che, dopo aver coperto uno sbadiglio con la mano, parve ritrovare energia e vitalità.
«Ero venuta per prendere un bicchiere d’acqua e ho sentito delle voci un po’ agitate. Non dovreste discutere in questo modo, voi due. Non avete più l’età per accapigliarvi come due bambini capricciosi.»
Lo sguardo di Nanny era accigliato, mentre li scrutava; non aveva mai amato le discussioni, figurarsi poi quando si arrivava alle mani. Subito però, si addolcì, accarezzando il viso stanco del suo Shion. E, quando Shura si avvicinò a lei per spostarle la sedia e farla accomodare, ne riservò una anche a lui.
«Shion, come mai non hai avvertito del tuo ritorno? Ti avrei fatto trovare qualcosa da mangiare. Quando sei arrivato?» chiese la donna, col suo consueto affetto materno.
«Mi dispiace, sono arrivato più o meno un’ora fa e non volevo disturbarti.» L’uomo posò la sua mano su quella della donna e la strinse leggermente, chiudendo gli occhi e lasciandosi coccolare dalla sua Nanny. «Dimmi, Nanny, com’è andata in questi giorni?»
«Il mio caro Shion, sempre a preoccuparsi di tutto.» La donna allungò la mano e gli pettinò i capelli con le dita. «Credo che tu debba…»
Fu interrotta dall’improvviso stridore della frenata di un'auto sull’acciottolato del vialetto principale che si era sentita distintamente fino a lì. Quel rumore fece subito scattare i due uomini verso l’ingresso, l’uno con aria bellicosa e l’altro invece più preoccupato per l’evolversi della situazione e pronto a sedare gli animi in caso di bisogno. Nanny invece scrollò la testa, si alzò lentamente dalla sedia e si avvicinò ai fornelli, per preparare dell'altra cioccolata calda, per ogni eveniena.

*****


«Hai visto quello come ci stava provando? D’altronde, quando uno è pieno di fascino e irresistibilmente bello come me, è inevitabile che attiri l’attenzione di tutti. Indiscriminatamente!»
Kanon se la rise divertito, spalancando la porta d’ingresso e avanzando tutto barcollante, sorretto come poteva dall’amico.
«Povero fesso! Non sa che fortuna ha avuto. Se avesse insistito oltre, chissà come lo avresti conciato. Gli è andata davvero bene che si è ritrovato solamente un occhio pesto e il naso rotto», ribattè Aiolos, nelle medesime precarie condizioni. «Però un po’ mi ha fatto pena, anche dopo che lo hai pestato, ti guardava con occhi voraci! Perché non lo hai accontentato?» rincarò la dose, divertendosi nel vedere la reazione istintiva di Kanon: il suo corpo si era irrigidito e sul suo volto, già paonazzo a causa dei fumi dell'alcol, comparve un’espressione alquanto scandalizzata.
«Scherzi, vero? Ma lo hai visto com’era conciato? Era inquietante! E poi dai, era appiccicoso come una zecca e così insistente che mi stavo vergognando a morte. No, no, no, no, no, decisamente no! È fuori discussione!» esclamò con troppa veemenza Kanon, neanche fosse tornato completamente sobrio. «La prossima volta che vinci una scommessa ti conviene non riprovarci a portarmi in un locale gay o te lo faccio passare io un brutto quarto d’ora!» lo minacciò, agitandogli il pugno davanti, ma subito dopo rise forte e senza controllo, appoggiandosi ad Aiolos.
Poi, lo guardò negli occhi con un poco rassicurante sorriso malizioso sulle labbra. Gli passò il braccio sulle spalle e lo tirò a sé. Con l'altra mano gli strinse la bocca in una smorfia grottesca. Con una lentezza esasperante avvicinò il suo volto a quello di Aiolos, fino a portare le sue labbra a sfiorare quelle dell’amico: il suo respiro sapeva di tequila, lime e birra. Si stava divertendo.
«No, amico mio», gli soffiò sulle labbra. «Ci sono andato vicino a Capodanno e mi è bastato. Non ci tengo proprio a riprovarci, nemmeno se mi pagassero un milione di dollari. Ma puoi star tranquillo che se dovessi cambiare sponda, il privilegio del primo giro sarà tutto tuo. Però dovrai essere molto delicato, il mio culo è ancora vergine.»
Kanon era così vicino al viso di Aiolos che poteva avvertire il leggero tremolio delle labbra dell'altro sulle proprie. Lo tenne con la schiena contro la porta aperta; il suo corpo era così a ridosso di quello di Aiolos da intuire l'erezione che si stava manifestando. Continuò a fissarlo negli occhi, sorridendo. E, quando si stancò di quel gioco, mollò la presa alla sua bocca e lo schiaffeggiò, ridendo di gusto al rossore e all'espressione imbarazzata e confusa dell'amico.
«Ma vai al diavolo!» ringhiò Aiolos.
Il giovane gli diede uno spintone e lo fece cadere a terra con un gran tonfo. Ma Kanon nemmeno se ne rese conto, tanto era ubriaco, continuando a sbellicarsi dalle risate.
«Vedo che la mia autorità non conta più nulla in questa casa.»
Shion Hayes era rimasto per diversi minuti a osservare il penoso spettacolo che quei due stavano offrendo. Poi, fece sentire la sua voce, facendo sobbalzare Aiolos.
«Ops... che ci fai qui, papà?» disse Kanon con tono strascicato.
Il giovane, ancora allegramente a terra, guardò il genitore che se ne stava accanto al corrimano dello scalone, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo più severo del solito. O forse era la vista annebbiata e la stanza che iniziava a girargli attorno che glielo faceva apparire in quel modo. Accanto a Shion non poteva certo mancare la presenza di Shura, col medesimo atteggiamento del capofamiglia Hayes. «Mi sa che ci vedo doppio», biascicò, ridendo ancora.
Aiolos rimase in disparte, con quel rigonfiamento nei pantaloni che lo faceva sentire ancora più a disagio. Sentiva su di sé lo sguardo accusatorio di Shura. Si morse il labbro come un ragazzino colpevole. Chiuse piano la porta e si avvicinò lentamente a Kanon per aiutarlo ad alzarsi, facendo più fatica del dovuto, perché l'altro collaborava poco.
«Beh, Shion, qui puoi sbrigartela da solo. Io me ne vado a dormire», disse Shura, con voce decisa, nascondendo a fatica il disgusto che gli stava provocando la scena a cui stava assistendo. Si girò senza aggiungere altro e tornò in cucina: avrebbe usato l’ingresso posteriore per tornare alla dependance.
«Avevi detto che saresti tornato solo la settimana prossima», disse Kanon, spazzolandosi i pantaloni e sorridendogli angelico.
«Credevo di essere stato chiaro, l’altro giorno», riprese l’uomo, continuando a fissare entrambi i giovani. «Dove siete stati per ridurvi in questo stato?»
«Siamo andati a festeggiare, papà!» rispose con entusiasmo Kanon, allargando le braccia in modo teatrale.
«Ah, davvero? E cosa avevate da festeggiare?»
«Ma la nostra promozione a fattorini! Vero, Aiolos?» ribattè senza esitare Kanon, dando delle generose pacche sulla spalla dell’altro, passando poi lo sguardo dal padre all'amico e viceversa, mantenendo sulle labbra l’immancabile sorrisetto.
«Sono troppo stanco per questo gioco», sospirò esasperato Shion, portandosi una mano sugli occhi: anche lui non si sentiva certamente in gran forma quella sera. Diede loro le spalle e iniziò a salire le scale per ritirarsi per la notte. Ci avrebbe pensato l'indomani a strigliare entrambi come meritavano.
Era già quasi a metà della rampa, quando da oltre la porta si sentì il rumore di una portiera che veniva chiusa con troppa forza. Pochi momenti dopo, la grande porta d’ingresso venne di nuovo aperta e, davanti agli occhi di tutti e tre si presentò Saga, tutto trafelato, sudato e arrossato in viso.
Il ragazzo sgranò gli occhi per la sorpresa, poi abbassò d’istinto la testa.
«Ecco la pecorella smarrita e depressa che ha fatto ritorno a casa», disse con tono sarcastico Kanon, sorridendo all’indirizzo del gemello. Si avvicinò a lui e lo abbracciò con un entusiasmo fin troppo accentuato da tutto l'alcol che aveva in circolo.
«Questa volta almeno si è ricordato la strada di casa», rincarò la dose Aiolos, lanciandogli uno sguardo di superiorità, accantonando la vergogna che fino a quel momento aveva provato. Ma vedere la “principessina” in difficoltà era per lui un toccasana.
«Lasciami, Kanon!» si divincolò a fatica Saga.
Gli fu impossibile liberarsi da quella fastidiosa e inopportuna espansività affettiva che il fratello gli stava dimostrando. Solo dopo diversi tentativi riuscì a distanziarsi di qualche passo, ritrovandosi però più vicino alle scale e di conseguenza anche più vicino agli occhi severi del padre.
«Avevi detto mi avresti coperto. Invece vi trovo tutti qui ad aspettarmi, come dei…» Saga spostò per un secondo lo sguardo sul padre, bloccandosi a metà della frase. «L’hai fatto per vendicarti?» disse con una rabbia inusuale per lui, tornando a guardare il fratello.
«Oh, Saga, ti avevo anche detto di tornare presto, perché anch’io avevo in programma di uscire», rispose Kanon, senza badare all'occhiataccia del genitore. «No, fratellino, è stata una pessima sorpresa anche per noi. Ce lo siamo ritrovato qui ad aspettarci come un mastino da guardia. Siamo tutti e tre sulla stessa barca», gli disse, sorridendogli accomodante.
«Con la differenza che lui è recidivo, noi…»
«Voi, solo stupidi!» intervenne Shion Hayes, ricordando a tutti i presenti che c'era anche lui.
Saga abbassò nuovamente lo sguardo, stringendo le labbra, troppo orgoglioso in quell'occasione per ammettere di aver ecceduto e aver giudicato male. Iniziò a salire le scale, un gradino alla volta, lentamente, con passo incerto, accennando a rallentare a pochi passi dal padre.
«È la terza volta in pochi giorni che deludi le mie aspettative. Sei forse entrato nella fase adolescenziale di ribellione? Ci sei arrivato un po’ tardi, ora non ne hai più l’età e non ti è permesso», lo rimproverò con voce profonda l'uomo.
Lo afferrò per un braccio nel momento stesso in cui Saga gli passava accanto. Strinse la presa facendolo quasi contorcere dal dolore. «Da tuo fratello mi posso aspettare questo e altro, lui è sempre stato irrequieto e incline a queste bravate, ma da te…» gli sussurrò piano, il suo sguardo stava via via diventando furente.
«Me ne posso sempre andare se non ti soddisfa più il mio modo di comportarmi», ribatté Saga, fissandolo con inusiale decisione, per uno come lui.
Strattonò il braccio per liberarsi, ma perse l'equilibrio e inciampò sul gradino. Ansimò. Non cadde rovinosamente a terra solo perché il padre lo teneva ancora ben saldo.
«Smettila con questo atteggiamento, Saga. Non hai proprio la stoffa del ribelle», lo rimproverò aspramente Shion. «Guardati, neanche riesci a reggerti in piedi: anche tu sei ubriaco come quei due idioti che se la stanno ancora ridendo lì sotto?»
L'uomo si accovacciò accanto al figlio e gli mise una mano sulla testa, tirandogliela leggermente all’indietro per poterlo guardare meglio. Poi, gli scostò i capelli e gli tastò la fronte, constatando la vera natura di quello stato: occhi lucidi, fronte calda e viso arrossato.
«Febbre», sentenziò in un borbottio quasi impercettibile, scrollando il capo e sospirando stancamente.
Prese di nuovo Saga per il braccio e lo aiutò a rimettersi in piedi, sembrava d'un tratto tornato docile come sempre.
«Lascia, papà, ci penso io a portarlo fino in camera», si offrì Kanon, avvicinandosi con passo ancora malfermo fino al primo gradino dello scalone, pensando di salvare in quel modo il fratello dalle grinfie del genitore e risparmiargli una sicura lavata di capo.
«E chi aiuterà te a salire? No, ci penso io», rispose Shion, perdendo tutta la severità dimostrata fino a un attimo prima e lasciando spazio solo alla comprensione per quel figlio prediletto. «Vieni, Saga», lo incitò, passandogli un braccio attorno alla vita e iniziando lentamente a salire i restanti scalini che mancavano per arrivare al piano superiore.
«Lasciami andare, sto bene! Ce la faccio anche da solo», si lamentò Saga, agitandosi senza troppa convinzione, portandosi però subito una mano alla testa, a causa di un lieve capogiro.
«Questo lo decido io!» ribattè secco Shion; chiudendo sul nascere la discussione.

Con un po’ di fatica arrivarono a destinazione. Shion lo fece sedere sul letto, aiutandolo a togliersi prima il cappotto, poi le scarpe e infine a stendersi. «Accidenti, Saga, ma che ti sta prendendo in quest’ultimo periodo? Non mi hai mai disubbidito o mancato di rispetto così platealmente. Queste cose, queste pazzie, si fanno solo per un motivo: solo per... amore.»
Shion sospirò quell'ultima parola con tono rassegnato. I discorsi di Shura, fatti in cucina proprio quella notte, si stavano rivelando profetici, ma li stava vedendo concretizzarsi troppo presto.
«Mi dispiace», rispose con voce flebile Saga, portandosi un braccio sul viso a coprire gli occhi per schermarli dalla luce che trovava terribilmente fastidiosa.
«Ti dispiace cosa, aver tradito la mia fiducia o essere stato scoperto?» gli disse il padre con tono di rimprovero, attendendo una sua giustificazione.
Osservò il figlio per un minuto buono, cupo in volto, poi si accomodò sul bordo del letto e si chinò un poco su di lui, scostandogli il braccio e tastando di nuovo la fronte che sembrava essere più calda di prima; e il respiro di Saga in quel momento si stava facendo ancora più pesante e affaticato.
«Spero almeno che ne sia valsa la pena», mormorò vedendolo ormai assopito. Non era più il momento adatto per le prediche.
«Come sta?» chiese con apprensione Kanon, ancora visibilmente brillo, ma decisamente più presente, quando il genitore uscì dalla camera da letto del gemello, più di dieci minuti dopo, chiudendosi la porta alle spalle. Dietro di lui, anche Aiolos aspettava notizie, più che altro curioso di capire come mai non si erano sentite le urla furibonde, ma solamente una calma inquietante.
«Goditi le tue ultime ore di libertà, figliolo», gli sorrise sornione Shion. «Lunedì mattina torni a New York con me.»
«Okay», rispose l’altro, alzando le spalle in modo infantile, ignaro di cosa il padre avesse in mente per lui, con l'unico pensiero di entrare nella stanza del fratello e accertarsi di come stesse.
Il padre lo blocco per un braccio e lo guardò severo. «Fagli prendere un paio di aspirine e poi lascialo dormire. Avrai tempo domani per sapere cosa gli è successo.»

*****


Saga si sentiva ansioso. La sua mente, ancora un po' confusa dalla notte precedente, era occupata da un unico pensiero fisso. Camminava per la stanza, avanti e indietro di fronte alla finestra, con il cellulare costantemente attaccato all'orecchio, borbottando e sbuffando.
«Aiolia! Ma quanto ci hai messo a rispondere?» disse il giovane, non appena sentì la linea agganciarsi. Aveva atteso ben quindici snervanti squilli.
Dall'altra parte arrivò solo un rumore sordo, forse di una mano che copriva il cellulare e, in lontananza, un breve conciliabolo. Poi, dopo qualche altro rumore indistinto, finalmente si sentì una voce maschile parecchio assonnata.
«Saga, che c’è di così urgente da…» si interruppe per fare uno sbadiglio. «Da chiamare così presto di domenica mattina?»
«Sono le dieci passate. Non è affatto presto!» ribatté Saga, sovreccitato. «Ho un grosso favore da chiederti», continuò, dopo un bel respiro.
«Ti sento strano, che hai fatto alla voce?»
«È solo una stupida infreddatura, ma non cambiare discorso!» ribatté di nuovo, infastidito. «Allora, puoi farmelo questo favore? È davvero importante!» insistette.
«Avevo in programma di studiare un po’ a dire il vero. Ma che hai bisogno di tanto importante da non poter aspettare?» In realtà, Aiolia aveva ben altri progetti per quella domenica e lo studio sarebbe stato relegato solo alle ultime ore della giornata. «Beh, sarebbe stato comunque solo un ripasso. Che ti serve?»
«Ho già chiamato un’impresa edile, una di quelle minori che lavorano per noi. Ho parlato con il caposquadra e gli ho detto di mandare alcuni operai a casa di una persona ma…» fece una pausa, passandosi una mano sul volto e premendo sulla tempia destra, strizzando allo stesso tempo gli occhi: quel giorno, a complicare la sua situazione già non proprio rosea, ci si era messo anche un mal di testa che poteva far concorrenza a un tipico post sbornia del suo gemello. «Lei è da sola in casa ed è malata. Per favore, Aiolia, puoi andare lì e controllare che tutto vada bene?» gli chiese, con tono quasi supplichevole.
«Ma io non ne capisco nulla di queste cose, non puoi chiedere a mio fratello, oppure al tuo?»
«Kanon non si è mai interessato di queste cose. Ti prego, Aiolia, non te lo chiederei se non fosse davvero importante. Consideralo un favore personale! E poi, non è molto distante dal tuo campus. Ti sbrigherai in un attimo, vedrai!»
«Aspetta! Hai detto... lei?» domandò Aiolia. Dal tono della sua voce si capì che iniziava a soppesare seriamente la cosa. «E va bene, hai vinto! Mandami l’indirizzo per e-mail e l’orario dell’appuntamento. Tu però avverti del mio arrivo, non vorrei ritrovarmi nei guai!»
«Non posso chiamarla. Purtroppo non ho il suo numero di telefono», dovette confessare Saga, con un certo imbarazzo nella voce.
«E allora io come faccio?» esclamò l’altro. Dal tonfo che arrivò dal telefono, sembrò che fosse caduto dal letto per lo choc. Poi, si sentì anche un indecifrabile affanno. «Non posso certo presentarmi lì come niente fosse! Se poi mi scambia per un malintenzionato? No! Assolutamente no! Ho già avuto un’esperienza simile e non è stata affatto piacevole!»
Aiolia si alzò da terra e, camminando frettolosamente per la stanza, andò a sbattere con il piede contro una pila di fumetti, facendoli cadere. Soffocò fra i denti un gemito di dolore, iniziando a saltellare davanti agli occhi divertiti della sua ospite, per arrivare alla sedia e agguantare i pantaloni.
Saga rimase perplesso da tutto quel trambusto. Poi, si massaggiò la base del naso, che sentiva dolorante e congestionato. Faticò nel fare qualche respiro profondo, producendo dei strani rantoli: quel raffreddore sembrava peggiorare di minuto in minuto e il cerchio alla testa era sempre più persistente.
«Ma di che hai paura, sfoderi il tuo miglior sorriso da bravo ragazzo e dici che ti mando io! Vedrai che andrà tutto bene.» Era diventata una necessità impellente per Saga riuscire a convincere il giovane.
Si distrasse un momento e sorrise nell'osservare cosa stava accadendo di sotto, nel giardino. Aprì la finestra e si sporse un poco dal balcone: Nanny e Francine, aiutate da una delle due cameriere, stavano organizzavano qualcosa. L’aria frizzante gli scompigliò i capelli e gli rinfrescò le guance arrossate da qualche linea di febbre. Provò di nuovo a fare un respiro profondo, poi un leggero brivido lo convinse a ritornare dentro.
Aiolia rimuginò per qualche secondo, picchiettando il dito su qualcosa di duro: il rumore si sentiva molto chiaramente attraverso il cellulare. «Il favore non sarà a buon mercato, Saga.»
«D’accordo, tagliamo la testa al toro: che cosa vuoi in cambio?» domandò Saga, mentre richiudeva la finestra e si spostava verso la libreria. Diede un'occhiata allo scaffale e risistemò un libro che sporgeva un poco rispetto agli altri. Poi, con la punta dell’indice accarezzò, uno a uno, il dorso di tutti i libri che stavano sullo scaffale più in alto, sorridendo. Da diverso tempo aveva pensato di riporre la sua collezione dei romanzi di T.C.Miller, perché ormai non più adatti alla sua età. Ora però stava considerando l'idea di cercare quelli che gli mancavano.
«Lo sai bene cosa voglio!» disse con decisione Aiolia. «Quando lei l’ha vista, se n’è subito innamorata. E continua a chiedermi di regalargliela.»
Aiolia non si rese conto di aver detto qualcosa di troppo e soprattutto, che avesse praticamente ammesso di aver rivelato il segreto a terzi. Era stata troppa la voglia di fare colpo su Marin, la figlia del suo allenatore, che un giorno, durante una passeggiata, l’aveva portata sino al negozio e, approfittando del fatto che aveva le chiavi con sé, l’aveva fatta entrare.
Saga strinse le labbra e si trattenne dal rispondergli a tono solo perché aveva davvero bisogno del suo aiuto. «Stai imparando in fretta ad approfittarti della situazione, quando la gente è in stato di necessità», si limitò a dire, corrugando la fronte. Nello stesso momento un’altra fitta alla testa si fece sentire. «E va bene! Ma assicurati che non ci siano problemi! Accidenti, sta arrivando qualcuno! Ora devo chiudere, poi fammi sapere!»
Nascose il cellulare sotto il cuscino giusto un momento prima che si aprisse la porta; ma, a causa del raffreddore, che gli aveva congestionato anche le orecchie, non era riuscito a distinguere da quale direzione sarebbe arrivata l'intrusione., Il pericolo si materializzò dalla porta del bagno comunicante, che venne spalancata di colpo e, come un uragano a piena potenza fece la sua entrata il gemello.
«Ah, sei tu. Cosa vuoi?» disse con tono deluso Saga, riprendendo il cellulare.
«Ma che accoglienza entusiastica che riservi al tuo fratello preferito!» scherzò Kanon, sorridendo nel vedere sul volto dell'altro un’espressione fra il serio e lo scocciato, concentrato più a smanettare col cellulare che a dargli retta.
Gli si avvicinò di soppiatto, tentando di sbirciare da sopra la spalla cosa potesse essere tanto importante da esigere una tale concentrazione.
«Ero venuto a chiederti se volevi fare colazione con me, ma… vedo che hai già fatto», disse, spostando la sua attenzione sulla scrivania, dov'era stato appoggiato il vassoio con su: vari piattini ormai vuoti, una tazza grande di latte, una ciotolina con all'interno ancora un po' di cereali e un barattolino di miele. «Accidenti! Dalla quantità di roba che c’è qui sopra sembra che tu abbia mangiato per due, questa mattina. Nanny ti ha forse messo all'ingrasso?» gli disse, ma neanche quella frecciatina sembrò distrarre Saga dal cellulare.
«Avevo fame», rispose lui con un'alzata di spalle, terminando finalmente di comporre l’e-mail.
Non era mai stato molto pratico con quegli aggeggi tecnologici, anche se con il computer se la cavava decisamente meglio. Infine, appoggiò il cellulare sul comodino e si avvicinò a Kanon. Diede anche lui uno sguardo ai resti della colazione e, dalla ciotolina, prese l'ultima pallina di cereali e miele, mettendosela in bocca.
«Allora?» chiese Kanon.
«Allora, cosa?» ribatté il gemello, entrando nella cabina armadio per prendere i vestiti che poi posò ordinatamente sul letto.
«Come, “allora cosa”? Ieri notte sembravi moribondo. Immagino che abbiano fatto venire il dottore di corsa. Che ha detto?» incalzò Kanon, sedendosi sul letto, senza badare a dove stava appoggiando il sedere. Attese che Saga gli girasse di nuovo le spalle e, arraffando il cellulare, iniziò a curiosare, tutto sogghignante.
«Come vedi sono in piedi, quindi niente dottore», rispose con tono decisamente seccato Saga, strappandogli il cellulare dalle mani, per riporlo nel cassetto.
«Ce l’hai ancora con me per ieri notte? Te l’ho detto, non mi aspettavo che tornasse! Altrimenti non mi sarei fatto beccare completamente ubriaco, ti pare?»
Kanon si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra dove Saga era tornato per osservare Nanny che dirigeva i lavori con piglio deciso.
«Allora, raccontami tutto! Se sei arrivato così tardi la tua serata deve essere andata più che bene», gli disse, con un sorriso malizioso sulle labbra, passandogli un braccio sulle spalle.
«È solo questo che ti interessa? L’aspetto sessuale?» si stizzì Saga, allontanandosi da lui.
Ignorò le successive moine in cui l'altro si stava esibendo per convincerlo a parlare e iniziò a sbottonarsi la giacca del pigiama, lasciandola cadere a terra.
«Niente segni?» commentò Kanon, nel vedere la schiena immacolata del fratello. «Nessun graffietto, né morso, o succhiotto. Niente di niente?» Esaminò con estrema minuzia ogni centimetro di pelle del gemello, girandogli attorno, sballottandolo come un pupazzo. «Oh, fratellino mio, mi dispiace tanto! Ora capisco il tuo malumore, sfogati Saga, piangi pure sulla mia spalla. Vedrai che poi ti sentirai meglio!» lo esortò, abbracciandolo infine, per consolarlo.
Saga rimase senza parole per il comportamento bizzarro del gemello. Poi, cautamente, ricambiò quell'abbraccio, ma l'idea che l'altro avesse qualcosa che non andasse gli sfiorò la mente.
«Guarda che va tutto bene, Kanon», provò a rassicurarlo, rilassandosi un poco e appoggiando il mento sulla spalla dell'altro, sospirando paziente. «Ammetto che secondo i tuoi standard, la serata di ieri sarebbe da considerarsi un completo disastro, un fallimento, un'onta, una macchia indelebile per la reputazione e il buon nome degli Hayes, ma… anche se non è successo nulla di ciò che tu reputeresti importante, io sono felice per com’è andata», gli confessò, chiudendo gli occhi per un attimo.
Poi, prendendogli il viso fra le mani, gli diede un bacio sulla guancia, che sapeva non sopportare se fatto da altri, ma che accettava solo da lui.
«Ti voglio bene, Kanon! Grazie per il tuo sostegno e il tuo incoraggiamento.»
Riprese a spogliarsi, togliendosi i pantaloni del pigiama e rimanendo solamente in mutande. «Però, a dire il vero sono un po’ preoccupato», mormorò fra sé, fermandosi davanti alla porta del bagno e riflettendo per un momento. «Spero di non aver commesso un altro azzardo.»
«Che vuoi dire?» chiese Kanon, ancora più curioso. «E… a proposito, quando me la farai conoscere?» Ma Saga ormai non gli stava già più dando retta: si infilò sotto il getto d’acqua della doccia e si godette i terapeutici vapori dell’acqua calda.




note del capitolo:

"Avidità!? Cosa c'è di male... dopotutto, è solo una questione di soldi."  (Gordon Gekko): citazione dal film del 1987 Wall Street.



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Capitolo 13
*** Capitolo XII ***





XII


Aiolia era lì fermo da qualche minuto e si grattava il mento con aria perplessa, aveva la sensazione di esserci già stato da quelle parti. Fissò la targhetta con il numero civico che gli aveva indicato Saga. Fece un gran sbadiglio, il bicchiere di caffè nero extra zuccherato non era sufficiente a placare i crampi da fame che gli contorcevano lo stomaco, né avevano sortito alcun effetto i tre donuts ripieni alla crema che aveva divorato lungo il tragitto.
Controllò l'email: doveva andare all'appartamento 4B. Si concesse il tempo per terminare il suo caffè e buttare il bicchiere. Poi, si mosse verso il portone e salì quei pochi gradini di cemento che lo separavano dall'ingresso. Era già pronto a suonare al citofono della portineria, il dito sfiorava il pulsante, quando ebbe un tentennamento.
Saga la faceva facile. Nel suo mondo dorato bastava forse un sorriso per ottenere tutto, per lui soprattutto, che quando sorrideva alle donne gli cascavano ai piedi. Lo aveva visto di persona l’effetto che faceva al gentil sesso e si era chiesto come potesse accadere. Forse perché agli occhi delle ragazze sembrava così “carino”, oltre che un bel ragazzo; e in quel “carino” era compresa: estrema gentilezza, educazione, sensibilità, disponibilità e… insomma, tutto quello che rende perfetto un ragazzo agli occhi di una ragazza e che invece da parte dei ragazzi viene sottovalutato, se non deriso.
Per un attimo gli venne la nausea e, subito dopo, lo sconforto, pensando a quanta differenza passasse fra lui e Saga: forse si trattava dell’età, o forse era il tipo di educazione ricevuta, o era la ricchezza con la quale l’altro poteva farsi bello. Gli tornò in mente quando, per una coincidenza – che non avrebbe mai fatto accadere di nuovo – fu costretto a presentarlo a Marin, la figlia del suo coach. In quell'occasione, aveva giurato di averla vista affascinata da Saga; e non gli erano state di conforto le parole che poi lei gli aveva detto, ovvero che aveva visto qualcosa di strano e inquietante nel ragazzo; perché nonostante la bella impressione che le aveva fatto, anche a lei era sembrata troppa la “perfezione” di quella sua immagine.
Aiolia rimase a riflettere ancora qualche minuto: nella vita reale le cose non funzionavano così, non più almeno; o forse non con lui. Di certo sapeva che gli mancava la sfacciataggine che in Kanon invece abbondava, ma anche in suo fratello Aiolos, sempre così sicuro di sé con gli altri. Gli mancava anche quella dolcezza che negli occhi di Saga sembrava innata. Sì, ora che ci pensava meglio, probabilmente era quello il trucco! Lui invece si sentiva un cretino quando si perdeva a guardare Marin, gli sembrava di diventare un pesce lesso, senza qualità particolari, né sostanza. Forse l’unico aspetto degno di nota – e che gli faceva guadagnare qualche punto nei confronti di Saga – era il suo fisico atletico e la sua bravura nello sport; e di certo, in una prova di forza gli faceva tranquillamente mangiare la polvere!
Abbassò la testa, scoraggiato anche da quest'ultimo pensiero, perché tutto sommato era una magra consolazione. Ridiscese i gradini di cemento e si sedette sul primo, sconfortato da tutto quel rimuginare. Anche se Saga poteva sembrare delicato di costituzione…
«Cavolo! Ma che vado a pensare?» borbottò, appoggiandosi con la mano sotto il mento, guardando la strada con un’espressione decisamente imbronciata.
Poteva dire tutto quel che voleva, fare paragoni a non finire, trovare minuzie per potersi sentire migliore dell’altro. Alla fine era tutto inutile: Saga era bello, intelligente, ricco, se la cavava egregiamente negli sport e soprattutto… era un uomo! Mentre lui, era una semplice matricola squattrinata e ancora vergine. Essì, vergine… perché nonostante Marin avesse passato la notte nella sua camera al campus, era stato tanto imbranato da dividere con lei il letto senza riuscire a combinare niente. Sbuffò a lungo. Iniziava a capire la frustrazione che aveva mostrato Aiolos a Philadelphia, quando avevano parlato di Saga.

Due colpi di clacson, ravvicinati e prolungati, lo fecero riemergere da quello che i suoi amici chiamavano “il quarto d’ora emo”, nel quale di solito si perdeva a sospirare d’amore per la giovane Marin, perché per lungo tempo non aveva trovato il coraggio di dichiararsi. Aiolia imprecò infastidito, alzando lo sguardo per vedere chi fosse l’idiota responsabile di tanto baccano. Era già di malumore per il favore che aveva promesso di fare, di sicuro una bella litigata l’avrebbe aiutato a scaricare i nervi.
«Aiolos?» Sgranò gli occhi nel veder scendere il fratello dall'auto appena parcheggiata proprio di fronte a lui. «Che ci fai da queste parti?»
L’altro non gli diede retta, intento ad armeggiare con il cellulare, appoggiato con un braccio al tettuccio della macchina. Poi, sbatté energicamente la portiera e raggiunse il fratello.
«Sono qui perché mi ha chiamato un’ora fa uno dei capisquadra del cantiere a nord, distogliendomi dal picnic che aveva organizzato la nonna, per riferirmi di uno strano lavoro che gli era stato commissionato con urgenza e che veniva direttamente dal “boss”, per citare le parole esatte del caposquadra. Tu piuttosto, perché hai disertato il pranzo della nonna dicendo che avevi da studiare e invece ti trovo qui a bighellonare?»
«Un favore a un amico», borbottò Aiolia, alzandosi e spazzolandosi i jeans. Tornò al citofono e vi si attaccò con un certo nervosismo.
Dalla finestra del salotto che dava proprio sulla strada, si affacciò un vecchietto cinese, raggrinzito, sudato e col fiatone. «Chi diavolo è?» sbraitò, dando qualche colpo di tosse.
«Ehilà! Salve! Ci fa entrare, per favore? Dobbiamo andare dall'inquilina del quarto piano», disse Aiolia.
Mentre pronunciava quell’ultima frase, la sua voce fu sovrastata dalle voci di alcuni uomini e dal rumore di sportelli di un furgone che venivano chiusi senza tanti complimenti. Uno di quegli uomini si avvicinò ad Aiolos e gli mostrò dei documenti.
Dohko chiuse velocemente la finestra e si presentò un minuto più tardi al portone d'ingresso, tutto trafelato e con in dosso un vecchio ishang di cotone, di un verde petrolio sbiadito e sporco: sembrava essere appena uscito da una pellicola dei film del filone Wuxiapian.
«Ti conosco, ragazzo?» si rivolse ad Aiolia, avvicinandosi a lui e strizzando gli occhi; quindi fece correre lo sguardo anche sugli altri presenti, mantenendo una certa circospezione. «Quale appartamento?» chiese poi, tagliando corto.
«Il 4B»
«Non c’è nessuno in quell’appartamento, è ancora sfitto! Che volete veramente?» domandò in tono brusco, ma i suoi occhi e i suoi gesti tradivano una crescente insicurezza.
«A me risulta un ordine di intervento proprio per quell'appartamento», disse Aiolos, andando in soccorso del fratello che, preso alla sprovvista, si stava frugando nelle tasche per prendere il cellulare e controllare ancora una volta l’e-mail. «L’ordine è arrivato direttamente dalla famiglia Hayes e da eseguire con la massima urgenza. Devo pensare che mr Hayes si sia sbagliato?» aggiunse, porgendo il documento al vecchio.
Il cinese si irrigidì nel sentire quel nome.
«Poco importa», disse Aiolos, riprendendoselo e ripiegandolo con cura. «Immagino che se si sono interessati a questo stabile avranno intenzione di acquistarlo. Magari per demolirlo…»
«No, no, non voglio guai!» esclamò spaventato il vecchio. Per qualche secondo tremò lì sul posto, contorcendosi le mani, poi li fece entrare.

Un deciso bussare alla porta ridestò Cora dal suo dormiveglia agitato. Sentiva la testa più confusa che mai. Era di nuovo stesa sul divano, dopo un’intera mattinata passata dal letto al divano e viceversa, senza trovare pace da quello scombussolamento. Era raggomitolata nel suo plaid, a sonnecchiare fra uno starnuto, un dolore al petto e la testa che pareva schiacciata in una morsa.
Altri rumori alla porta: insistenti. Sembrava che proprio ce l’avessero con lei, per non lasciarla neanche agonizzare in pace. Con un gesto stizzito si tolse la coperta di dosso e si mise seduta. Ci riuscì a fatica, provando a darsi la spinta, ondeggiando un poco; la testa le girava. Sbuffò. Riuscì ad alzarsi solo dopo alcuni tentativi.
«Arrivo, arrivo!» biascicò, raggiungendo piano la porta, presa letteralmente d'assalto. «Dohko, vecchiaccio della malora, le ho già prese le tue schifosissime erbe. Che diavolo vuoi ancora?» brontolò fra i denti, con una mano che premeva sulla fronte.
Strizzò gli occhi con le dita e sbadigliò. Poi, aprì la porta, ma solo per lo spiraglio che il catenaccio consentiva. Era sicura che si sarebbe trovata davanti il cinese, quindi quella precauzione era necessaria affinché lui non riuscisse a intrufolarsi in casa come aveva già fatto, per ben due volte, in quella mattinata. Invece si ritrovò davanti un ragazzo giovane e alto.
«Tu?» sgranò gli occhi Aiolia, sorpreso di vedersi materializzare davanti agli occhi proprio l’incubo che aveva popolato le sue notti, nei giorni subito successivi al ritorno da Philadelphia.
«Sei per caso uno degli inquilini del piano di sotto? Aspetta un attimo…» Cora socchiuse la porta, tolse la catena e si affacciò di nuovo sul pianerottolo. «Se sei qui per lamentarti di qualunque danno tu possa aver subito per la perdita d'acqua, dovrai rivolgerti al portiere. È lui il responsabile», disse, ancora con la testa annebbiata. Era convinta di poter tornare a dormire e, senza curarsi di altro, stava già richiudendo la porta, lasciandosi i problemi fuori dalla sua casa.
«Ma quanto è piccolo il mondo!»
Una mano sbucò all’improvviso e bloccò la porta. Bastò infine una leggera spinta per riuscire ad aprirla di nuovo.
«Ciao! Ci incontriamo di nuovo, signorina», la salutò Aiolos, con voce gentile ma allo stesso tempo melliflua, entrando nel campo visivo di Cora.
D’istinto, la ragazza fece un passo indietro per la sorpresa, trovando d’un tratto lucidità.
«Che strana sensazione di déjà vu, non trovi?» le disse con sarcasmo, vedendo come lei lo stesse squadrando, corrugano la fronte. «Tranquilla, non è necessario usare di nuovo lo spray al peperoncino, sono qui solo per lavoro», si giustificò subito.
Se il suo intento era quello di rassicurarla, non se la stava cavando un granché bene. Cora si irrigidì ancora di più.
«Quale lavoro?» chiese lei, disorientata. «Non avete di certo l’aspetto di due idraulici. Siete forse dell’assicurazione per la stima dei danni? Mmmh… di domenica di sicuro non si muove nessuno per queste cose», rifletté per un secondo, continuando però a tenere gli occhi fissi su entrambi. Quelle parole le erano suonate strane e non era molto sicura di riconoscerli. «Vi ha chiamati Dohko?» chiese perplessa.
Non poteva fare a meno di continuare a guardarli e sforzarsi di ricordarsi dove li avesse già visti. Si coprì la bocca per trattenere uno starnuto. Ma nel fare quel movimento fece un passo indietro, lasciando intendere agli altri di aver concesso il permesso di entrare in casa. Subito dopo Aiolos e Aiolia entrarono anche gli operai.
«Allora, dov’è il guasto?» chiese l’uomo, spazientito dal troppo parlare.
«In cucina», rispose Cora, dopo qualche secondo di esitazione, indicandola con la mano. «E la valvola generale invece è in bagno. È chiusa da ieri sera», aggiunse. Questa volta non fece in tempo a evitare di starnutire.
Si fece da parte per non intralciare gli operai e si sedette sul pouf in salotto, cercando di mantenere un controllo vigile sulla situazione, per quanto almeno le fosse possibile nel suo stato.
«Non capisco, Dohko è stato qui poco più di una mezz’ora fa, dicendo che era impossibile trovare qualcuno disponibile di domenica per questa riparazione, a meno di non chiamare il nipote tuttofare e adesso voi comparite qui dal nulla.»
«Credo che abbiamo iniziato col piede sbagliato», disse Aiolos, guardandosi attorno, soffermandosi con nonocuranza davanti alla libreria. In realtà, scrutava con attenzione ogni dettaglio. «Le presentazioni ufficiali non sono ancora state fatte, anche se credo che ormai, dati i nostri precedenti, questo tipo di formalità sia superflua. In ogni caso, per mantenere le convenzioni tra persone civili… io sono Aiolos Foster e lui è mio fratello Aiolia.»
Il giovane non era dello stesso avviso del fratello e, con un mezzo grugnito, si limitò a fare un cenno del capo.
Aiolos diede uno sguardo ai libri: erano riposti ordinatamente sullo scaffale. Ne scorse i titoli e sogghignò nel notare un particolare. Poteva anche essere una semplice coincidenza, ma raramente si sbagliava. Si girò verso la ragazza, incrociando le braccia al petto e appoggiandosi con le spalle alla libreria. «Sto aspettando», disse, rivolgendosi a lei, che sembrava ancora estraniata dalla situazione.
Attese qualche altro secondo. All'improvviso, un attrezzo cadde sul pavimento con un gran fracasso e Cora si risvegliò di colpo, come al suono di un gong.
«Non hai risposto alla mia domanda», replicò lei, ritrovando un poco di presenza. «Dohko ha detto che era impossibile trovare qualcuno disposto a lavorare di domenica, quindi, chi vi ha mandati?»
«Rispondi prima a questa, di domanda: come fai a conoscere gli Hayes?» Aiolos notò in lei la sorpresa. «Riformulo la domanda, così che tu possa comprendere meglio: perché un membro della famiglia Hayes si è scomodato personalmente per te? Da una fermata deserta della metropolitana di Philadelphia a un mini appartamento di Boston, in un quartiere assai modesto… hai fatto un bel salto di qualità. Questi non sono certo ambienti che è solita frequentare gente come gli Hayes, a meno che non si tratti di lavoro. E anche in quel caso, delegherebbero ad altri.»
«Il tuo tono è arrogante e indiscreto!» rispose piccata Cora, sfidandolo con gli occhi.
La giovane poteva abbassare il capo per l’episodio della metropolitana che, non appena l'altro aveva citato, le tornò in mente; poteva scusarsi ancora per lo screzio avuto in aeroporto, ma non avrebbe permesso a nessuno di venire in casa sua a fare il bullo!
«Il nome degli Hayes è famoso. Non nascondo affatto che lo conosco, ma solo per quello che si legge di loro sui giornali. Ma di persona io non conosco nessuno di quella famiglia; e poi, come potrei? Sono tornata in città solo da poco e come hai appena detto, abito in un piccolo appartamento, in un quartiere modesto!»
Si alzò dal pouf e di nuovo fu presa alla sprovvista da uno starnuto che le provocò un leggero capogiro e la convinse a tornare a sedersi. «Al diavolo! Quelle stupide erbe sono servite solo a rimbambirmi e a darmi sonnolenza», borbottò, cercando di trattenerne un altro.
«Bugie e segreti…» la buttò lì Aiolos, rivolgendosi in apparenza a nessuno in particolare, ma sortendo l’effetto auspicato.
Aiolia sussultò, seduto su uno degli sgabelli del bancone, abbassando poi la testa; Cora invece non capiva il nesso di quell’affermazione. Fece vagare lo sguardo prima sull’uno e poi sull’altro.
«Saga», confessò il giovane Aiolia, pronunciando quel nome fra i denti e stringendo in modo convulso il cellulare che teneva in mano.
«Come?» disse Cora, confusa. Non le pareva di aver capito bene. «Saga?» ripeté anche lei quel nome, senza ricollegarlo al ragazzo che aveva conosciuto.
Si morse il labbro. «Saga. Saga... Hayes», rimuginò. Anche se non era un nome molto comune, chissà in quanti, fra i più di seicentomila abitanti della sola area metropolitana di Boston, lo portavano. Come avrebbe mai potuto associarlo alla famiglia Hayes? Era però vero che il suo aspetto curato dichiarava senza ombra di dubbio che non era neppure una persona comune.
«Esatto! Saga Hayes», confermò Aiolos, mostrandosi un abile attore che ben conosceva il suo copione e quello degli altri.
«Saga... Lo stesso Saga?» disse, sempre più incredula lei, rifiutando quella possibilità. Guardò il più giovane dei due e, al suo cenno di assenso, a un tratto le sembrò di essere diventata un’estranea in casa sua. «Lui sarebbe...»
Di nuovo calò il silenzio fra i tre.
«Mio Dio… bello, gentile, ricco e importante…» balbettò Cora, portandosi le mani alla bocca, arrossendo imbarazzata.
«Già, hai vinto alla lotteria, signorina!» disse Aiolos.
Cora starnutì di nuovo, ma questa volta ne fece due di seguito.
«Ma che hai, sei allergica a qualcosa?» sbottò Aiolos, quasi infastidito dai continui starnuti, staccandosi dalla libreria e avanzando verso la cucina, dove gli operai avevano terminato il lavoro e stavano ritirando l’attrezzatura.
«Signor Foster, qui abbiamo terminato.»
«Va bene, ottimo lavoro. Mr Hayes ne sarà soddisfatto. Lo consideri pure come straordinario e aggiunga una piccola gratifica per lei e i ragazzi.» Li accompagnò alla porta, firmò i documenti che il caposquadra gli porse e che attestavano il lavoro eseguito e richiuse la porta alle loro spalle, rientrando nel salotto.

Nell’appartamento rimasero solo loro tre. Aiolos raggiunse il fratello e ritrovò la ragazza nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata: seduta sul pouf e con lo sguardo perso nel vuoto.
«Tutto bene?» le chiese, sfiorandole la spalla con la mano, notando sul suo viso un leggero rossore.
Cora sospirò a lungo, faticando a risvegliarsi dal torpore che di nuovo l'aveva catturata: la sua vista era un poco appannata e la testa confusa.
«Sei ancora qui?» disse, fissandolo per diversi secondi. «Ah, è vero! Immagino che debba pagare il lavoro.» Andò in camera da letto e ne uscì pochi momenti dopo con un vecchio portafoglio in mano, intenta a frugare al suo interno per prendere i soldi.
«Lascia stare. È già tutto sistemato; e poi, non credo che avresti abbastanza dollari in tasca per saldare il conto per l’intervento di due operai specializzati e di un caposquadra. Le persone che sono venute qui oggi sono pagate dalla società per la quale lavorano, che a sua volta fa capo alle industrie Hayes.» spiegò, rimarcando l’importanza di tale intervento. Si guardò bene però dal dire che tutte quelle persone erano sprecate per un guasto così insignificante come la sostituzione di un tubo e una guarnizione.
Diede una nuova occhiata alla casa e poi tornò a osservare la ragazza. Un’idea su che tipo fosse, Aiolos se l’era fatta ed era sempre più convinto dell’incompatibilità dei due mondi a cui appartenevano: a vedere l’appartamento così com’era – e a vedere lei – non doveva guadagnare un granché. Saga si sarebbe stancato presto.
Cora corrugò la fronte: in effetti non le era rimasta molta liquidità, oltre agli spiccioli nel barattolo e un paio di banconote da un dollaro nella tasca dei jeans. «E allora che ci fate voi due ancora qui? Che volete da me?»
«Chi è quest’uomo in divisa, in questa foto?» le chiese Aiolos, prendendo in mano la cornice portafoto per studiarla meglio.
«È mio padre, non toccare!» urlò lei, strappandogliela di mano e riponendola con estrema cura al suo posto.
«Tuo padre? Credevo che tuo padre fosse il pazzo che mi aveva puntato contro la pistola a Philadelphia!»
«Come?» Cora si girò di scatto verso il ragazzo, guardandolo esterrefatta. «È questo che è successo?»
«Che fai, fingi di non sapere cos’è successo? Eri lì anche tu e hai fatto tanto casino per nulla. E per poco mio fratello non si è ritrovato con un buco in testa!» scattò in piedi Aiolia. Il giovane ebbe ben più che un accenno di rabbia, la sua sembrava ira furibonda. Non riusciva a capire come quella ragazza si fosse potuta dimenticare di una cosa tanto grave che aveva lasciato strascichi nei giorni successivi.
«Lascia perdere Aiolia, è evidente che non ricorda davvero o quantomeno non si è resa conto di tutto. È una cosa che può accadere se lo choc subìto è stato forte; te lo ha spiegato più volte papà quando gli chiedevi un resoconto dettagliato degli interventi, ogni volta che tornava a casa, no?»
Aiolia annuì e si morse la lingua per evitare di attaccare oltre la ragazza. Da quando era arrivato in quella casa si sentiva nervoso e a disagio: fuori posto.
Poi, Aiolos si rivolse di nuovo a Cora e le spiegò che il padre era capitano dei vigili del fuoco.
«Credo allora che io ti debba delle scuse anche da parte dello zio Phil.» Cora si sedette lentamente su uno degli sgabelli e fece un respiro profondo. «Mi dispiace, sinceramente», aggiunse, addolcendo un poco lo sguardo. «Zio Phil, Phillip Burton, era un capitano di polizia di uno dei distretti di Boston. Era il superiore di mio padre e anche il suo più grande amico. Circa un anno dopo la morte di mio padre, lui fece domanda di pensionamento e ci raggiunse a Philadelphia. Da quel momento, è sempre stato molto protettivo con il mio fratellino e con me: è stato come un vero padre per noi, ma è diventato ancora più protettivo dopo un evento spiacevole successo un paio di anni fa.»
«C’entra per caso un certo Deline?» le chiese Aiolos, stavolta con maggiore tatto.
Cora trasalì nel sentire quel nome, iniziando a tormentarsi le mani. Annuì, iniziando a respirare a fatica e trattenendo a stento le lacrime.
«Quella sera, quando…» fece un respiro profondo. «Avevo appena appreso la notizia che quel mostro era stato scarcerato. Non ero molto in me e quando mi sei venuto vicino... ti ho confuso con lui. Tu gli assomigli in modo spaventoso.»
«E tuo padre, è morto in servizio?» le domandò ancora Aiolos, con tono rispettoso.
«Non lo so. Tecnicamente aveva finito il suo turno, ma sai com’è il detto, vero? Un poliziotto non smonta mai dal servizio. Quella sera doveva essere a casa con noi, invece…»
Aiolos tornò a osservare i vari oggetti che si trovava davanti. L’atmosfera in quell’appartamento era diventata improvvisamente cupa e triste. Si soffermò su una delle lettere di encomio incorniciate, posate sul piano e che probabilmente attendevano solo di essere appese. La sfiorò con la mano e vi lesse il nome scritto sopra: “Tenente Gregory Miller”; ma un nome aveva acceso una strana scintilla negli occhi del ragazzo. Quel “Phillip Burton”. Non solo era stato nominato da Cora poco prima, ma era sicuro di averlo già letto da qualche altra parte.
«Allora, miss Miller, ancora non mi hai detto il tuo nome. O vuoi per caso che lo scopra da solo?»
«Sei abituato a toccare e frugare dappertutto, quando sei nelle case altrui?» Iniziava a irritarsi per quel comportamento troppo “impiccione” di Aiolos. Forse, se avesse soddisfatto le sue curiosità, se ne sarebbe andato lasciandola in pace. «Mi chiamo Caroline e ora che sai il mio nome puoi andartene soddisfatto!» Si alzò e fece capire chiaramente a entrambi i ragazzi che la loro presenza non era più gradita. Anzi, non lo era mai stata.
«Non ti piaccio, vero?»
«Sei troppo invadente! E ora fuori da casa mia!» La giovane li spintonò entrambi verso la porta d’ingresso. «E dite a quel… quel… beh, ditegli di non fare più una cosa del genere senza prima avvisarmi!»
Con un largo ghigno sul volto Aiolos afferrò all'improvviso la mano della ragazza e, prendendo dalla tasca interna della giacca una penna, scrisse qualcosa sul palmo della sua mano. Poi, prima di lasciarla andare, le domandò che lavoro facesse.
«Lavoro presso un’agenzia investigativa. Come archivista», rispose Cora.
«Ora capisco molte cose», mormorò Aiolos, annuendo e sorridendo; ma in quel sorriso c’era un qualcosa di decisamente malizioso. «Non sono il tuo segretario. Quindi, diglielo tu, se vuoi!» le disse, attraversando il pianerottolo e raggiungendo il fratello che già stava scendendo le scale.

*****

Quella domenica mattina, Shion Hayes si svegliò con un gran mal di testa che sembrava molto simile ai postumi di una sbronza colossale. Eppure, ricordava di non aver ecceduto la sera precedente. Anzi, era certo di non aver bevuto affatto, eccezion fatta per quel goccio di brandy nella cioccolata calda che aveva consumato assieme a Shura.
Quando infine riuscì, con non poco sforzo, a mettere il piede fuori dal letto, l'orologio segnava un quarto a mezzogiorno. Non si poteva certo dire che era stato mattiniero, ma non avendo impegni particolari poteva anche concedersi uno strappo alla sua solita rigida routine, poltrendo oltre il necessario.
«Domenica...» brontolò, camminando a passi lenti, avvicinandosi alla biblioteca, massaggiandosi il collo indolenzito.
Aveva sempre detestato i giorni di riposo, la domenica soprattutto, ma per le condizioni in cui versava quel giorno, era più che disposto a viverlo come un dono della provvidenza. Ma le eccezionalità del giorno non finivano lì: stava girando per casa scalzo, con un paio di semplici e comodi jeans, un po' consunti – forse un ricordo degli anni dell'Università, per quanto fossero datati – e una camicia lenta, slacciata quasi del tutto.
Varcò la porta della biblioteca con ancora gli occhi socchiusi, per la troppa luce che arrivava da ogni parte e si sentì dare il buongiorno.
«Shion, alla buon'ora!» disse Shura, posando alcuni documenti nella cassaforte a parete.
«Per favore, non gridare in questo modo», lo supplicò l'altro, gemendo per una fitta alla testa. Subito si portò le mani alle tempie, massaggiandosele lentamente e maledicendo ogni passo che aveva fatto da quando era uscito dal buio della sua camera da letto. «Ma quanto brandy hai messo nella cioccolata?» gli chiese.
In realtà non era affatto interessato alla risposta, voleva solo liberarsi di quel dannato mal di testa. Avanzò fino alla scrivania e tirò un sospiro, quando si accomodò sulla poltrona di pelle.
Shura si limitò a un sorriso, andando avanti e indietro dalla scrivania alla cassaforte e viceversa ancora un paio di volte, prima di richiudere il tutto e risistemare il grande ritratto dell'arcigno mr Hayes.
«Che stai combinando?» domandò Shion, respirando a fondo, sentendo che finalmente il martello pneumatico che aveva in testa stava pian piano cessando di tormentarlo.
«Sto sistemando la corrispondenza, come faccio di solito, e ho trovato alcuni vecchi documenti che andavano rimessi al loro posto», spiegò Shura.
Di nuovo alla scrivania, terminò di radunare i restanti fogli, racchiudendoli in due cartellette diverse che infine ripose nel terzo cassetto della cassettiera. Del resto, si trattava di banale corrispondenza della casa: fatture, bollette, resoconti degli stipendi dei dipendenti che lavoravano nella proprietà. Tutto lavoro di sua competenza.
«Comunque», continuò, «stai iniziando a diventare distratto. Una volta certi documenti li avresti tenuti gelosamente nascosti e non lasciati alla portata di tutti. Credo che dovresti ringraziare Saga per aver accentrato l’attenzione su di sé, in questi ultimi giorni, altrimenti quei documenti “scottanti” non sarebbero passati così inosservati.»
Shura sentì un grugnito provenire dall’uomo e sorrise intimamente. Sapeva bene che non c’era nulla che desse fastidio a Shion e, in egual misura, lo preoccupasse di più, che vedere “quel” figlio allontanarsi dalla guida paterna.
«Allora, quale ricorrenza si festeggia oggi?» chiese, cambiando discorso.
«Non capisco cosa intendi dire», ribatté Shion.
«È così raro vederti in queste vesti, per così dire, “vacanziere”. Mi pare che l’ultima volta risalga a…» Corrugò la fronte e fece una smorfia con la bocca, sforzandosi di ricordare. «a quando i ragazzi avevano più o meno dieci anni, o forse ancora prima. Quand'è stato che lo portasti allo Zoo? Beh, ecco, mi stavo domandando a quale evento particolare si dovesse tale abbigliamento.» Lo osservò ancora per qualche secondo, poi si avvicinò a una delle finestre e guardò fuori, verso il giardino.
«Trovi così strano che voglia anch’io, per una volta, mettermi “in libertà” e godermi una domenica in pace?» domandò l'uomo, mentre accendeva il computer.
«Sarebbe così se fossi fuori a prenderti un po’ di sole e goderti questa magnifica giornata di primavera. Invece sei in casa, seduto alla tua scrivania e pronto a immergerti nel lavoro.»
«Sono qui solo per controllare le e-mail e nient’altro», lo rassicurò Shion.
«D’accordo, se lo dici tu!»
Senza insistere ulteriormente, Shura si avvicinò alla porta. «Stavo per dimenticarmi, Nanny ha deciso che quest’oggi pranziamo tutti fuori in giardino. Ha aggiunto che non ci saranno portate complesse o stramberie varie. Oggi fa festa anche la cuoca, quindi solo sandwich, insalata di pollo, frutta fresca e limonata appena fatta! Proprio come un vero pic-nic.»
Non aveva alcun dubbio che le sue parole sarebbero cadute nel vuoto. Non fece praticamente in tempo a girare le spalle che Shion era già assorbito dal lavoro. Sentiva che qualcosa però avrebbe potuto rovinare la serenità di quella domenica e la conferma la ebbe quando vide l'altro contrarre le mascelle.
«Che c’è, Shion?»
«Non immagineresti mai chi mi ha mandato un'e-mail nella mia casella di posta personale!»
«Sono per caso gli avvocati Taylor?» disse Shura, tornando vicino alla scrivania, appoggiandosi con entrambe le mani e sporgendosi leggermente verso l’amico.
«Esatto! Proprio loro, gli avvoltoi gemelli!» confermò l’altro.
«Sono così tremendi?» chiese Shura, incuriosito da quel soprannome.
«Quei due non hanno mai avuto riguardo per nessuno. Per il loro tornaconto personale non esiterebbero a pasteggiare con la carcassa del loro stesso padre», spiegò Shion. Continuò a leggere il testo della e-mail per qualche altro secondo, poi si bloccò e alzò lo sguardo sull'amico. «Un momento, come facevi a sapere che erano loro? Sei entrato di nuovo nel mio account?»
«Quello sempre, caro mio. È il mio lavoro, dopotutto; e comunque, non è passato inosservato l’articolo che ti stavi letteralmente divorando ieri notte», rispose Shura, con un largo sorriso sul volto. «Beh, che vogliono?»
«Ma non hai appena ammesso di essere entrato nell’account?»
«Sì, ma non ho mica detto di aver letto la tua posta. Non sono così impiccione; e poi era contrassegnata come confidenziale. Allora?» insistette.
«Allora… è l’invito per il compleanno del vecchio Taylor, Sherlock!»
«Oh cielo! Deve essere davvero una giornata particolare, oggi. Era dai tempi delle superiori che non mi chiamavi più così! Pensi di andarci?» chiese.
«Non lo so», rispose dubbioso Shion, strofinandosi il mento. «Dopo tutti questi anni, dopo quasi una vita. Però... potrebbe anche portare a qualcosa di inaspettato», terminò, con tono pensoso.
Sprofondato nella poltrona, teneva lo sguardo sempre fisso sul monitor, gli occhi incollati su quelle righe.
«Non devo ricordarti cos’è successo l’ultima volta che hai accettato un invito da parte di quella famiglia, vero? Comunque, la decisione è tua, Shion. Solo... non pentirtene, se dovessi accettare», gli disse Shura. Fece uno sbuffo e uscì dalla biblioteca.

*****

Quella domenica pomeriggio, quando Aiolos tornò alla villa, si portò dietro anche il fratello minore e Nanny ne fu molto felice.
Dopo tanto tempo, per un giorno intero in quella famiglia nessuno parlò di lavoro o affari. Kanon impegnò Shura in una serrata sfida a basket, nello spiazzo dietro il garage dove pochi giorni prima aveva trovato il gemello a riflettere. Per lungo tempo erano rimasti sulla parità, poi gli animi avevano iniziato a scaldarsi e alla fine entrambi avevano pensato più a commettere fallo l’uno sull’altro che a fare canestro. Quando in seguito si riunirono di nuovo agli altri, a vederli non si sarebbe potuto dire chi avesse avuto la peggio: Shura era tornato al tavolo tutto sudato e claudicante; Kanon, altrettanto stravolto, se l’era cavata con una fasciatura stretta al gomito che serviva a coprire la brutta sbucciatura che si era procurato in una caduta. Il cemento non era stato un buon alleato per nessuno dei due.
«Che fine avevi fatto?» chiese Kanon ad Aiolos, quando lo trovò seduto comodo al tavolo.
«Avevo degli impegni», rispose l'amico, guardando di sottecchi l’altro gemello che se ne stava tranquillo a leggere un libro, e subito dopo anche il suo di fratello, che invece si era fiondato sul piatto di portata e mangiava a testa bassa.
«Una buona scusa per evitarti una figuraccia!» lo schernì Kanon, andando a sistemarsi accanto a Saga e bevendo tutto d’un sorso il bicchiere di limonata dell’altro che, senza scomporsi, seduto sulla poltroncina in vimini, sbuffò.
Shion osservò i suoi figli e si rassicurò nel vedere che, al contrario delle parole di Shura, quel rapporto di complicità era più saldo che mai, nonostante le vite dei due si fossero separate da anni. Per un attimo ripensò a quando li aveva visti la prima volta, addormentati l’uno accanto all’altro, quasi stretti in un abbraccio, così calmi e pacifici; e così era accaduto successivamente, tante e tante altre volte: prima da bambini, poi da adolescenti e infine, anche da adulti, come se quella vicinanza calmasse e tranquillizzasse entrambi. Già in passato aveva conosciuto qualcuno che credeva fermamente che l’affetto potesse cambiare le persone e renderle migliori. All’epoca non ci aveva creduto molto, ma guardando i suoi ragazzi – che ragazzi più non erano da anni – doveva ricredersi.
«Cosa stai leggendo di tanto interessante, fratellino?» domandò Kanon.
Non gli lasciò il tempo di rispondere, gli chiuse il libro in modo dispettoso e, quasi facendolo cadere dalla poltroncina – perché un dito gli era rimasto incastrato fra le pagine mentre l'altro tentava di strapparglielo dalle mani – lo tirò a sé per accertarsi lui stesso il motivo di tanta concentrazione sulla lettura, da parte sua. Solo alle lamentele di Saga mollò la presa, deluso poi della scoperta. Per un fugace momento gli passò per la testa di prenderlo in giro, ma desistette e placò i borbottii del gemello con un bacio sulla tempia.

*****

Quando il cielo iniziò a scurirsi e il sole quasi non si vedeva più, il giardino ritornò al suo solito ordine e alla consueta pace; i membri della famiglia Hayes ripresero il proprio ruolo e Shion tornò a chiudersi in biblioteca, di nuovo seduto dietro la scrivania. Aveva lasciato che l’ombra della sera regnasse incontrastata anche nella stanza, troppo concentrato a leggere ancora una volta quella e-mail così straordinariamente informale e al tempo stesso irritante che aveva ricevuto dagli avvocati Taylor. Era stata forse solo una coincidenza che dopo tanto tempo si fossero rifatti vivi con lui? E poi, perché proprio adesso? Possibile che il motivo fosse veramente solo la celebrazione del compleanno del vecchio professor Taylor?
Qualcosa gli diceva che forse in quegli ultimi anni aveva allentato troppo la guardia. Che i troppi anni passati tranquillo erano stati la proverbiale pace prima della tempesta. Era dunque solo per cortesia e galateo che l’invito era esteso anche ai figli?
Si alzò e si versò del whisky. Con la mente non era più al presente di quella giornata; con l'accompagnamento del ticchettio dell’orologio fermacarte che scandiva regolare il tempo che mancava al termine di quella tranquilla domenica, tornò a una lontana sera di inizio inverno.
Il 20 dicembre del 1982 sarebbe stata una data che avrebbe ricordato a lungo, molto a lungo.

*****

Quella sera, la vecchia sede del circolo della facoltà di Legge dell’Università di Harvard era insolitamente animata. Il rettore era stato prodigo nell’organizzare una cena sfarzosa e dalle atmosfere dei tempi andati per celebrare un altro successo del più illustre dei suoi docenti: il professor James Taylor, autore di un saggio di imminente pubblicazione che, a detta di molti critici del settore e di eminenti colleghi, sarebbe stato considerato senza alcun dubbio una pietra miliare nel diritto applicato all’economia.
Per quell’occasione tanto importante, che non solo celebrava l’uomo e il giurista, ma dava lustro anche all’intera Università, erano stati invitati ospiti eccellenti: alcuni fra i massimi esponenti della Corte Suprema, nonché ex studenti di Harvard, avvocati di prestigiosi studi legali, politici, generosi finanziatori e una strettissima selezione fra i più promettenti studenti del corso di Legge. Non potevano certo mancare poi i figli del professore.
Il primogenito, James jr, era al suo primo incarico come vice Governatore dello Stato; i gemelli Anne e Richard, che a soli trentaquattro anni erano divenuti soci del più importante studio legale di Boston, il “Prescott-Cochrane e associati” che ora avrebbe visto figurare anche il loro nome sulla carta intestata; infine Emma, destinata fin da bambina alla carriera politica e a seguire le orme del fratello maggiore James jr.
Anche Shion William Hayes era stato invitato a quella serata e in molteplice veste: come generoso finanziatore, come preminente esponente della società di Boston e come amico personale e pupillo del professore. In quegli ultimi tre anni, Shion ne aveva rifiutati tanti di inviti del genere, adducendo ogni volta la scusa di qualche improrogabile impegno di lavoro. Perlopiù erano serate di beneficenza nelle quali ciò che davvero contava era far staccare assegni sostanziosi, o inaugurazioni o mostre, che lui era comunque ben lieto di poter evitare. Quella serata però, non era riuscito proprio a rifiutare. Forse, proprio perché ad accompagnare l’invito formale c’era stata una lettera di Emma.
«Shion! Finalmente ti rivedo, ragazzo! Diamine, fatti guardare, sei un uomo ormai e anche importante da quello che si legge sui giornali. Credo che certe confidenze non possa più permettermele, vero? Ora dovrei chiamarti mr Hayes. Eh, ragazzo mio!» Era stato proprio l’ospite d’onore, il professor Taylor in persona a riceverlo, non appena lo aveva intravisto nella sala principale del circolo. Aveva lasciato la compagnia di due giudici della Corte Suprema e gli si era fatto incontro. Lo aveva salutato con grande entusiasmo, abbracciandolo con l’affetto di un padre orgoglioso del proprio figlio, come neanche il suo vero padre aveva mai fatto.
«Tuo padre aveva ragione, la tua strada è negli affari e non dietro una cattedra a fare lezioni a studenti annoiati. Sono così orgoglioso di te! Hai superato le mie aspettative e scommetto che il tuo vecchio sarebbe stato altrettanto orgoglioso, per quello che sei riuscito a fare in così pochi anni. Un successo dopo l’altro, una scalata impressionante verso le vette dell’economia e della finanza! Mi è di conforto e di vanto che le mie lezioni ti siano state d’aiuto.»
«Congratulazioni per il suo nuovo libro, professor Taylor. Le auguro tutto il successo che merita», aveva invece esordito lui, forse con troppa compostezza e formalità, stringendogli la mano con una presa decisa; voleva però mantenere il più possibile le distanze da tutto quel circo.
«Ti prego, non essere così rigido: per te io sono e resterò sempre il tuo vecchio insegnante e amico. Vieni ragazzo mio, ti accompagno dagli altri e poi facciamo una foto tutti assieme! Emma sarà felice di rivederti e riabbracciarti. Era sicura che stasera ci saresti stato. Chissà che ora le cose fra voi non si possano riaggiustare, vero? E c’è anche Tony, senza il suo prezioso aiuto non sarei riuscito a terminare questo libro! Anche a lui farà piacere rivederti.»

«Shion, è passato tanto, troppo tempo dall’ultima volta», lo aveva salutato lei, con voce dolce e affettuosa, come una vera padrona di casa, vedendolo arrivare assieme al padre, sorridendo gentilmente a entrambi.
«Cara, lo lascio a te! So che sarà in ottime mani», sussurrò all'orecchio della figlia, prima di lasciarli e tornare dagli altri ospiti.
L’uomo aveva colto al volo l’occasione, sperando che quel momento favorevole desse una mano affinché i due tornassero insieme. Non si era mai rassegnato alla rottura del fidanzamento di Emma e Shion, che lui stesso, in accordo con Abraham Hayes, aveva fortemente voluto.
Emma lo aveva preso sotto braccio e lo aveva sentito rigido e “impostato”, ma invece di portarlo dai suoi fratelli, che erano stati raggiunti e letteralmente monopolizzati da un gruppetto di vecchie mummie tutte impettite e tirate a lucido, la ragazza lo stava accompagnando verso la terrazza coperta: un luogo appartato e tranquillo che ben si adattava per fare due chiacchiere in attesa della cena.
«Non ti ricordavo così timido», aveva ridacchiato, sbarazzina.
Tirandogli dispettosa il braccio, l’aveva attirato verso di sé e gli aveva dato un bacio sulle labbra, sorridendogli e accarezzandogli il volto. Nonostante i suoi ventiquattro anni, Emma a volte amava indulgere in comportamenti un po’ infantili, innocenti e senza malizia come quello appena compiuto; e divertirsi poi nel vedere l’imbarazzo che ne conseguiva nell’altro.
«Tu invece non lo sei mai stata», aveva ribattuto Shion, arrossendo.
Non se l’era aspettato, anche se intimamente era felice di quello spontaneo gesto affettuoso da parte della ragazza. Anche se nei primi tempi erano rimasti in buoni rapporti, con il passare degli anni si erano allontanati, vedendo raffreddarsi quel loro legame. Ma forse non era neppure così strano quel suo comportamento. Ricordava molto bene il carattere lunatico di Emma, nel quale alternava momenti di estrema dolcezza ad alcuni scatti violenti, soprattutto quando qualcosa non andava come voleva lei. Perlopiù erano limitati a scatti verbali che solo in rare occasioni eccedevano in qualcosa di più fisico. Non vi aveva mai dato peso, giustificandoli con il grande stress al quale era sottoposta per via delle aspettative della sua famiglia riguardo il suo futuro. Shion ne era sempre rimasto affascinato e attratto, perché lei era forte e determinata, come lui invece non era mai stato.
«Guardalo Shion. Guarda com’è impacciato. È adorabile, non trovi?»
Con occhi trasognati e stringendosi forte al braccio del suo accompagnatore, Emma aveva iniziato a fissare un ragazzo biondo, dai capelli scandalosamente lunghi per l’opinione moralistica di quel circolo di ipocriti benpensanti, che se ne stava in un angolo in disparte a fare da tappezzeria.
«Sai, in questi anni non è cambiato affatto. È rimasto timido e insicuro come quando studiavate assieme.»
Entrambi stavano osservando Anthony. Vedevano come il giovane si guardasse attorno con crescente nervosismo, mordicchiandosi la nocca della mano, o tormentandosi un labbro, toccandosi poi ogni volta la cravatta. Era chiaro il forte disagio che stava vivendo a quella festa, così piena di personalità importanti. Nonostante ricoprisse da anni il ruolo di assistente personale del professor Taylor – che lo aveva nominato tale già al termine del secondo anno di corso – e, nonostante lo accompagnasse spesso a ogni tipo di evento, non si era mai abituato a quel tipo di situazione.
«Papà è molto soddisfatto di lui. Ripete sempre che è perfetto come assistente, che gli è di enorme aiuto e che alla fine ha fatto la scelta giusta.» La donna si era staccata dal braccio di Shion e gli si era messa di fronte, fissandolo negli occhi malgrado l’evidente differenza d’altezza. «Tony esegue gli ordini senza mai fiatare, con precisione e devozione; non come qualcun altro di mia conoscenza che invece era solito polemizzare su ogni cosa», aveva detto, con un sorriso malizioso sulle labbra rosso scarlatto.
«Si direbbe il perfetto cagnolino», aveva ribattuto sarcastico Shion, provocando nella ragazza una smorfia di disappunto e al tempo stesso di divertimento. «Sai bene che non mi è mai piaciuto farmi comandare a bacchetta e ora, nella mia posizione, nessuno può più permettersi di farlo», aveva continuato, sostenendo lo sguardo di Emma. Era impertinente come sempre, ma era impossibile resisterle. Sentiva un rinato calore nel cuore e forse, doveva ammettere, forse aveva fatto male a seguire una strada diversa da quella che avevano tracciato i loro genitori. Probabilmente, Emma sarebbe stata una moglie perfetta per lui.
«È vero, ora sei una persona importante, Shion, ma non sono così sicura che se trovassi la persona giusta, tu non ti trasformeresti in un agnellino, o come hai appena detto, “in un perfetto cagnolino”, come Tony. Del resto sei un uomo, con tutte le debolezze e le insicurezze del caso. Che sia uomo o donna, anche tu troverai il tuo padrone.»
Emma aveva ridacchiato nel vedere come per un attimo la mascella di Shion si era contratta. Aveva alluso a un aspetto del suo passato che non doveva trapelare, proprio per la posizione che ora occupava; e sapeva bene che se fosse stato di dominio pubblico, avrebbe potuto rovinare la sua carriera e la sua reputazione nel mondo degli affari.
«Ma non roviniamoci questa magnifica serata con discorsi del genere. Andiamo da lui, sono sicura che rivederti lo renderà felice.» La voce della giovane donna era tornata dolce e soave, così come di nuovo gli aveva mostrato un sorriso affettuoso.
Tirandolo ancora per il braccio si erano avvicinati lentamente ad Anthony.
In quel momento però si era sentito il suono di una campanella e un valletto si era affacciato nella grande sala del circolo per annunciare che la cena stava per essere servita. Il professore aveva chiamato a gran voce il suo assistente che subito gli si era fatto incontro, mentre tutti gli ospiti iniziavano a muoversi come in una piccola processione verso la sala attigua. Quell’occasione era sfumata, ma era stata rimandata solamente di qualche ora.

Non era rimasto quasi nessuno all’interno della sede del vecchio circolo di Legge di Harvard. I pochi invitati che si erano attardati si erano riuniti attorno al professore e ai suoi figli maggiori, impegnati nel racconto di noiosi aneddoti accademici. Anche Shion era ormai pronto ad andarsene. Quella sera si stava finalmente avviando alla sua conclusione. I timori che aveva pensato di provare nel rivedere quelle persone, si erano rivelati infondati. Aveva notato che il professore si era isolato un momento e voleva cogliere l’occasione per salutarlo e congedarsi, ma era stato intercettato da Emma che lo aveva letteralmente trascinato via e condotto nella vecchia biblioteca del circolo: una piccola stanza dall’altra parte del corridoio, che veniva ormai usata solo di rado. Lì, con il braccio appoggiato alla cornice di mogano del vecchio camino c’era Anthony.
Non appena gli sguardi dei due uomini si erano incrociati, fra loro era calato un grande imbarazzo. Per tutta la durata della cena e le seguenti due ore di chiacchiere fra un liquore e un sigaro, Shion aveva osservato i due: erano rimasti sempre seduti lontani, Anthony in disparte ed Emma non aveva mai lasciato il fianco del padre. Spesso Shion aveva soffermato il suo sguardo su di lei, quasi incantato dal fascino sensuale che emanava. In quegli anni era divenuta più bella e più consapevole del suo carisma naturale, unito all’ascendente che esercitava su tutti; ed era diventato più che evidente che lo sapeva sfruttare. C’era qualcos’altro però, una strana luce nei suoi occhi, un’evidente dolcezza che non aveva mai posseduto prima. Un qualcosa che forse, si era ritrovato a pensare per la seconda volta in quella serata, avrebbe potuto riaccendere la scintilla che avrebbe dato valore a quel rapporto fittizio voluto dai loro padri e che comunque, non era mai stato del tutto indifferente a loro stessi. Le idee chiare e il carattere deciso della ragazza gli erano sempre piaciuti e anche il suo lato maschiaccio e un po’ sfrontato, che aveva sfoggiato come un vanto soprattutto negli anni dell’adolescenza, l’aveva sempre trovato divertente.
Aveva però visto come Emma invece avesse rivolto il suo sguardo verso Anthony, come entrambi si fossero scambiati fugaci occhiate ed era proprio in quei momenti che quella dolcezza si faceva più evidente e che faceva scemare in lui il desiderio di rincontrare a quattr’occhi il vecchio amico.
I secondi di silenzio imbarazzante si erano trasformati in minuti, sotto lo sguardo un po’ divertito di Emma che scuoteva il capo pensando a quanto fossero infantili quei due. Poi, titubante e balbettando un poco, Anthony aveva fatto qualche passo verso Shion e lo aveva salutato, porgendogli la mano. La reazione dell’altro aveva tardato a venire, ma non appena aveva avvertito il calore di quella mano, non appena la sua mente aveva finalmente accettato che lui era di nuovo lì, davanti ai suoi occhi, si era sciolto in un abbraccio.
«È bello rivederti, Shion. Mi sei mancato in questi anni», gli aveva detto Anthony, con voce rotta dall’emozione.
Shion non aveva risposto nulla. Solamente, aveva indugiato in quell’abbraccio, con gli occhi lucidi, stringendo forte, aspirando il delicato profumo della colonia di Anthony. Poi, si era staccato da lui e aveva ritrovato la sua compostezza da uomo d’affari.
«Ho ritrovato i tuoi occhiali. Li avevi lasciati in macchina», era intervenuta Emma, affiancandosi a Tony e porgendoglieli. «Non dovresti fare così tante storie. L’oculista ti ha detto che devi portarli sempre, altrimenti gli occhi peggioreranno.»
«Scusami», le aveva risposto lui, abbassando la testa e rigirandoseli per qualche secondo fra le mani. Si sentiva in imbarazzo a usarli e a farsi vedere dalla gente con quelli che, ironicamente, Emma definiva “cerchietti d’oro”.
«Te l’ho già detto, ti donano molto, ti fanno sembrare più distinto! E poi, fanno risaltare i tuoi splendidi occhi», aveva aggiunto lei, per blandirlo, puntando sull'unico punto debole del giovane: quel pizzico di vanità che lo faceva sembrare ai suoi occhi ancora più tenero e carino.
La donna gli aveva poi preso la mano, cercando però di nascondere quel gesto a Shion, soprattutto per il bene dell’altro, che si sentiva piuttosto a disagio.
«Perché mi avete voluto qui?» aveva chiesto Shion, iniziando a spazientirsi.
Il suo sguardo si era fatto d’un tratto diffidente. Vedeva ora come era diventato sfuggente quello dell’amico e come un lieve rossore aveva ravvivato il volto di lei, che nonostante tutto mostrava sicurezza.
«Volevamo parlarti di una cosa importante», aveva iniziato Emma, mantenendo un sorriso gentile, quasi innocente. «Shion, per favore, mi serve il tuo aiuto.» Si era avvicinata a lui e gli aveva preso la mano con delicatezza, guardandolo dritto negli occhi.
«E cosa potrei mai fare io per te che tu non possa ottenere da chiunque altro?» Il volto di Shion si era fatto ancora più serio, così come il tono della sua voce, ora più duro e cinico.
Emma gli aveva accarezzato il volto, ma era stata subito bloccata dalle mani di Shion in quel suo gesto.
«Questa volta non funziona, Emma», le aveva detto, facendo un passo indietro e osservando l’altro, che in quel momento si era girato di spalle e si era appoggiato di nuovo al camino, fissando il suo sguardo sulle fiamme al suo interno. «Di’ quello che devi dire e facciamola finita.» Nell’uomo stava crescendo un’inspiegabile frustrazione. Aveva mantenuto il suo sguardo sulla schiena di Anthony, chiedendosi da quando fosse diventato così vigliacco da non riuscire neanche più a guardarlo in faccia. Cosa c’era che non andava in quella loro piccola riunione?
La convinzione che entrambi gli stessero nascondendo qualcosa si stava facendo sempre più chiara nella sua mente.

La donna si era fatta più seria e si era affiancata ad Anthony, accarezzandogli la schiena e sussurrandogli qualcosa. Gli aveva preso la mano nella sua e, dopo un cenno di assendo da parte del giovane, si era voltata di nuovo verso Shion. Non era più la dolce e affascinante Emma, era diventata la determinata Emma.
«Diretto e conciso proprio come si addice a un uomo d’affari pragmatico come te, Shion. Mi piace questo tuo lato del carattere. Sono qui per chiederti aiuto. Sono nei guai: sono al quarto mese.»
Aveva dato quell’annuncio con tale fermezza negli occhi che Shion aveva tentennato per un attimo, confuso sia per il significato di quell’affermazione, sia per il comportamento troppo freddo e distaccato che l’aveva accompagnata. Gli era sembrato che per la donna che lo stava fronteggiando, fosse una scocciatura.
«Ah sì? Congratulazioni! Ed è ancora vivo l’idiota responsabile di questo casino?» aveva ribattuto con sarcasmo. «Strano che i tuoi cari fratelli non abbiano fatto a gara per sbranarselo. Per non parlare poi di JJ che come minimo proporrebbe la reintroduzione della pena di morte per il colpevole di tale lesa maestà! Perché nessun plebeo può mirare tanto in alto, senza passare la dura selezione dei membri della famiglia Taylor; e di conseguenza, il sangue blu dei Taylor, non può essere contaminato da qualcuno non alla loro altezza! Non me l’aspettavo proprio da parte tua, Emma», aveva aggiunto, dopo qualche momento di silenzio. La sua voce era permeata da uno sprezzante sarcasmo.
Shion conosceva molto bene la famiglia Taylor. Aveva appreso quanto ognuno di loro fosse ambizioso, a partire proprio dal decano, l’illustre professor James Taylor, passando per i figli, pronti a scannare chiunque per primeggiare nei loro rispettivi campi di competenza. Con l’unico rammarico di James jr, il cui massimo traguardo possibile sarebbe stata la carica di Governatore, dati i suoi natali, rispetto agli altri suoi fratelli. Nonostante tutti avessero origini inglesi, lui era l’unico fra i figli a non essere nato su suolo americano, ma solamente naturalizzato. Emma, la più giovane, che racchiudeva in sé tutte le qualità migliori dei Taylor, sarebbe stata il coronamento di tutti i sogni del padre.
«Sei sempre stata una così attenta calcolatrice, non hai mai dato a nessuno la possibilità di intralciare il tuo cammino, che avevi sempre così chiaro in testa. Cos’è, hai buttato al vento il tuo futuro per una scappatella sfuggita al tuo controllo? Oppure l’hai fatto per rovinare i piani e deludere le aspettative della tua famiglia?» le aveva detto Shion, con freddo distacco.
«Sei anche tu come mio padre e mio fratello James? Tutti che si aspettano questo da me. Perché io, la piccolina di casa Taylor, ho più palle di tutti i miei fratelli messi assieme e credete dunque che abbia anche più ambizione?» Il tono della sua voce era diventato acido e sprezzante, mentre avanzava minacciosa verso Shion. «Beh, caro mio, ti sbagli di grosso! Nessuno può dirmi cosa fare! Nessuno può decidere il mio futuro! Io, io solamente, ho il potere di decidere per me!» Gli si era avvicinata di un altro passo e aveva alzato la mano, pronta a schiaffeggiarlo.
Shion aveva visto quel cambio repentino del suo umore e ne era rimasto a dir poco disorientato, ma soprattutto erano stati quegli occhi così furiosi a turbarlo.
«Per favore, Emma, calmati.»
Con estrema gentilezza nella voce, posandole con delicatezza le mani sulle spalle, Anthony era riuscito a trattenerla e a tranquillizzarla in pochi istanti. Anche il viso della donna si era rasserenato. L’udire quella voce pacifica e dolce, il sentire la sua presenza tanto rassicurante, erano state un toccasana per lei, per farle riprendere il controllo. Emma lo aveva guardato con tenerezza, prendendogli la mano e intrecciandovi le dita alle sue; sapeva che con lui al suo fianco non doveva temere di sembrare debole, né tantomeno doveva continuare a sfoderare la sua aggressività per non farsi mettere i piedi in testa dagli altri.
«È uno scherzo, vero?» Shion si era passato una mano sulla fronte e poi fra i capelli. Si era girato e aveva fatto qualche passo, per allontanarsi e riflettere un attimo sulla situazione.
Al punto in cui erano arrivati, non era più necessario svelare chi fosse il padre del bambino. I fatti erano sufficientemente chiari ed espliciti per lui. Il repentino cambio di atteggiamento di Emma, il disagio e le ritrosie di Anthony erano la scomoda risposta.
«Mi dispiace, Shion», aveva provato a dire Emma, ora con tono più rammaricato.
«Ti dispiace? Ti dispiace?» aveva ripetuto quelle parole in un sussurro, ancora incredulo, sbiancando in volto.
Il suo respiro si stava facendo più pesante e nervoso a ogni momento che passava, ma cercava di trattenersi, di riflettere. Aveva fissato il suo sguardo prima su Anthony, così mortificato, e poi su Emma, anche lei ora sinceramente dispiaciuta; e gli era sembrato di essere l’unico spettatore di una farsa. Non riusciva a capacitarsene. Dov’erano finiti i sentimenti che quell’uomo aveva provato in passato per lui? Dov’erano finiti i sentimenti che quella donna, che lo avevano stregato un tempo e che ora aveva occhi solo per l’altro, aveva provato per lui?
Si sentiva fuori posto, preso in giro e poi escluso.
Aveva iniziato a camminare su e giù per quella stanza, sotto lo sguardo apprensivo di Emma, mentre Tony teneva ancora gli occhi bassi. La tensione fra i tre non era mai stata così alta come in quel momento. Shion non era sicuro di quello che avrebbe potuto fare, non era sicuro di riuscire a mantenere anche solo una parvenza di lucidità. Si era affrettato a raggiungere la porta.
«Shion, ti prego…» lo aveva richiamato Emma.
«Voi due vi siete cacciati in questo guaio e voi ora ve ne tirerete fuori», le aveva risposto, dandole le spalle.
«Non puoi dire sul serio», aveva ribattuto la donna.
«Che cosa vuoi da me, Emma? Vuoi un capro espiatorio che salvi la tua reputazione?» le aveva domandato. La sua mano stringeva forte la maniglia della porta, tentando di sfogare in quel modo la rabbia, la frustrazione e la delusione che stavano già traboccando da lui. «Ti dice male, mia cara. Tuo padre farebbe carte false perché io ti sposassi. E vista la situazione attuale, non ti vorrei neanche se tuo padre mi pagasse per farlo.» Il suo sguardo era carico di risentimento. «Chiedi al tuo uomo di salvarti, sempre se ha abbastanza palle. Ma ne dubito, se lascia che sia tu a sbrogliare la situazione, a supplicare perché qualcuno risolva il problema. Vuoi un consiglio? Abortisci! E tu», si era poi rivolto all’altro con disprezzo, «scappa il più lontano possibile, prima di fare una brutta fine. I Taylor non sono inclini a lasciar correre.»
«No! Non ci puoi voltare le spalle in questo modo!»
Emma lo aveva raggiunto alla porta, strattonandolo per un braccio. Nei suoi occhi c’era quella determinazione che le aveva sempre permesso di raggiungere i suoi obiettivi, ma anche paura.
«Non chiedermi di unirmi a questa farsa», aveva sibilato Shion. «Tu sapevi. Tu conoscevi i miei sentimenti. Mi ero confidato con te quando non comprendevo ciò che provavo. Tu mi avevi incoraggiato ad aprirmi, mi avevi consolato quando mi ero sentito “strano” e confuso. Mi sei stata amica… e ora io mi chiedo: tutto questo per cosa? Solo per pugnalarmi alla schiena e prendertelo?»
Con uno strattone si era liberato dalla presa della donna. Shion aveva poi guardato Anthony, sempre così dimesso e debole che neanche si era mosso per difenderla.
All’improvviso, Emma gli aveva dato una sberla, colpendolo in pieno viso. Il rumore era stato così forte e agghiacciante che aveva fatto sussultare Anthony.
«Ma cosa pretendevi da me?» gli aveva urlato lei, con rabbia. «Sei stato solo un codardo! Sei scappato per non affrontare un rifiuto! Hai preso come alibi l’aver perso il ruolo di assistente di mio padre per allontanarti ancora di più da noi! Oh, certo, studiavi con Tony, ti approfittavi di lui e lo sfruttavi per poter continuare a prendere voti alti! Ma una volta laureato non ti è servito più a nulla, vero? Hai preso il posto di tuo padre e sei diventato irraggiungibile, anche per chi aveva bisogno di te, perché tu non volevi più mischiarti con degli accademici squattrinati! Le poche volte che riuscivamo ad avere tue notizie, eri freddo e distaccato, proprio come adesso. Sei tu che ci hai abbandonato e tradito, hai voluto tagliare tutti i ponti senza dare una spiegazione. È naturale che ci siamo avvicinati, Tony e io!»
Aveva fatto una pausa, per mascherare l'esitazione nella voce quando aveva pronunciato quelle ultime parole, perché non poteva confessargli come stavano in realtà le cose.
Aveva stretto le labbra e lo aveva guardato furiosa, sostenendo lo stesso sguardo che Shion aveva in quel momento; e il suo istinto di predatrice, in quel confronto ora solo fra loro due, le diceva di dare l’affondo, di colpire senza pietà e senza rimorso.
«La verità è che io l’ho cercato. Io ho insistito. Io l’ho fatto innamorare di me e alla fine me lo sono preso!»
C’era stato un lungo silenzio in quell’austera e fredda stanza, dalle pareti ricoperte dai ritratti di alcuni fra i più illustri giuristi laureatisi ad Harvard dalla sua fondazione ad oggi.
«Non te ne stupire troppo, Shion. Lui non è mai stato come te, che non sapevi da che parte stare. Non ti ha mai visto in quel modo», gli aveva detto, fissandolo con un sorrisetto da compatimento che aveva lo scopo di ferire ancora di più l’orgoglio dell’uomo d’affari. «A lui non sono mai interessati i ragazzini spauriti.»
«Stronzate!» aveva urlato con rabbia Shion.
Aveva serrato le mascelle e deglutito a fatica, resistendo all’improvvisa nausea che sentiva e lottando per mantenere quel poco di lucidità che gli rimaneva dopo i drink bevuti durante la serata. Tutto il suo corpo aveva iniziato a tremare di collera, come non gli era mai capitato. Seguendo un impulso improvviso aveva afferrato una statuetta di porcellana che si trovava sul tavolino accanto alla porta e l’aveva scagliata a terra, ai piedi di Anthony.
Anche dopo quello sfogo, il suo sguardo era ancora pieno d’ira e il suo cuore colmo di rancore.
«Perché non sei tu a dirmi queste cose? Perché non mi guardi negli occhi?» gli aveva urlato Shion.
Si era avvicinato a lui a grandi passi e lo aveva afferrato per il bavero della giacca, strattonandolo con forza e facendolo andare a sbattere contro il leggio posto al lato del camino. Poi lo aveva colpito con un pugno rabbioso, facendogli volare via gli occhiali. Voleva dargli una lezione, voleva farlo reagire in qualche modo. Voleva fargli capire l’errore che aveva commesso e il dolore che gli aveva causato.
Lo aveva costretto in un bacio, violento e forzato, incurante delle lacrime di Anthony che stavano inumidendo anche il suo viso, insensibile per la troppa rabbia che continuava a provare e sordo alle vibranti proteste di Emma.
«Smettila! Smettila! Non lo costringere a rivivere quelle cose!» gli aveva gridato con disperazione la donna, battendo i pugni sulla sua schiena.
Quando Shion l’aveva lasciato andare, ormai ansante, lo aveva visto cadere a terra e iniziare a tremare come una foglia, gli occhi vitrei e le lacrime che non volevano fermarsi.
«Tony!» l’aveva chiamato Emma, gettandosi vicino a lui. La voce rotta dalla paura e gli occhi velati di lacrime. «Tony, va tutto bene», aveva cercato di rassicurarlo, accarezzandogli il volto esangue. «Respira, amore mio. Respira…» gli aveva sussurrato, posandogli un bacio delicato e pieno di affetto sulla guancia e, dopo avergli scostato i capelli, anche sulla fronte, continuando ad accarezzarlo.
«Come hai potuto fargli questo?» aveva urlato con rinnovato vigore Emma all'indirizzo di Shion, che se ne stava lì in piedi a fissarli con una superiorità sconcertante. «Come hai potuto?»
L’uomo era rimasto senza parole dalla reazione di entrambi: eccessivamente remissiva e debole anche per un tipo sempre calmo e posato come Tony e troppo addolorata per Emma che sembrava sapere qualcosa che a lui sfuggiva del tutto.
Aveva visto con quanta disperazione entrambi si aggrappavano l’uno all’altra. Si era passato una mano sulle labbra, come a voler togliere ogni residuo, ogni sapore di quella bocca che ora vedeva come immonda. Il tradimento che sentiva sempre presente, che poteva constatare con i suoi occhi, bruciava come fuoco vivo.
«Mi ero dichiarato a te», aveva mormorato, deglutendo. «Non sai quanto coraggio mi ci era voluto per fare quel passo. E tu mi hai fatto credere…» aveva poi detto, con voce che gradualmente si faceva sentire più forte, continuando a strofinarsi la bocca. «Tu avevi ricambiato il mio amore!» aveva urlato, trattenendo un conato di vomito. «Ma tu non sei da meno, creatura senza pudore e senza vergogna, che agivi nell’ombra. Hai aspettato che io uscissi di scena oppure te lo portavi a letto anche prima?»
Come un animale ferito rimestava nel suo dolore personale e aggrediva a parole, senza accorgersi delle vittime ai suoi piedi. Tutto l’affetto che aveva provato per entrambi, che ora vedeva come due creature fragili, era svanito in un attimo. Cancellato da un tradimento perpetrato anni prima e che solo ora veniva a galla.
«Mi dispiace, Shion», aveva detto con voce tremante Anthony, ritrovando a fatica un attimo di lucidità e di presenza. «Non avrei mai dovuto assecondarti, ai tempi dell’Università.» Aveva fatto una pausa, per calmare la voce ancora tremante. «Sapevo che eri confuso nei tuoi sentimenti, in bilico fra due modi di essere. Non capivi cosa volevi e cosa eri. Credevo che quell’attrazione che provavi nei miei confronti fosse solo curiosità», aveva ansimato.
«Tony, va tutto bene», aveva ripetuto Emma con dolcezza. Continuava a sorridergli materna e preoccupata, mentre lo aiutava a mettersi seduto.
«Poi ho visto quel sentimento tramutarsi in qualcosa di troppo forte e insistente. Ho cercato di farti capire che ciò che provavo per te era solo affetto fraterno. Tu mi ricordavi molto una persona a cui volevo bene. Ma quando ho compreso, era ormai troppo tardi. Tu eri cieco e sordo, soffrivi per la frustrazione, per un sentimento che non riuscivi a capire e io ti ho dato quello di cui avevi bisogno.» Anthony si era rimesso in piedi a fatica, sempre sorretto dalla donna, nonostante lei avesse un fisico esile e minuto. Stringeva i denti per non piangere davanti a lui.
Anche senza guardarlo poteva immaginare la postura rigida dell’altro, gli occhi vibranti e arrossati di rabbia. Non gliene faceva un torto, sapeva di essere in difetto nei suoi confronti. Si rammaricava di non essere stato abbastanza forte per impedire quella situazione, ma il suo carattere era stato piegato tanti anni prima, il suo animo umiliato troppe volte per potersi ergere al pari degli altri e troppa era la vergogna che provava ancora, al solo ricordare cosa aveva passato.
«Troppo sensibile, troppo gentile», aveva declamato con sarcasmo Shion. «“Un’anima cristallina, una creatura rara per questo nostro mondo tanto corrotto.” Così ti hanno sempre definito gli altri. Così la pensavo anch’io», aveva continuato, indurendo la voce. «Mi hai illuso. Preso in giro. Spezzato il cuore.»
Shion era indietreggiato di qualche passo, senza staccare gli occhi da coloro che un tempo aveva amato e che ora lo avevano tradito. Si era avvicinato alla porta e l’aveva spalancata.
«Non esistono abbastanza parole per giustificarvi», aveva detto, ora stranamente calmo. Il suo sguardo però era freddo e insensibile. «Andate al diavolo entrambi. Da ora in poi per me voi siete morti.»

*****

Shion Hayes sentì un lieve peso su di sé e si ridestò, riprendendo poco a poco coscienza dall'assopimento nel quale era caduto. Si passò una mano sul volto tirato e soffocò uno sbadiglio che sapeva di whisky. Con gli occhi appannati fissò l'orologio fermacarte sulla scrivania, era ormai notte fonda. Sullo schermo del monitor del computer scorreva la scritta, a grandi lettere fluorescenti, “Sei stato promosso a fattorino!”
«Kanon», borbottò. Prese il bicchiere lì vicino e terminò il suo drink.
Disattivò lo screensaver: sotto c’era ancora aperta l’e-mail con l’invito per la festa del professor Taylor, che si sarebbe svolta, come di consueto, nella grande sala del circolo storico della facoltà di Legge di Harvard. Non ci sarebbe andato, non avrebbe partecipato ai festeggiamenti di quell'uomo.
Si mosse e il plaid che qualcuno gli aveva messo sulle spalle cadde di lato. La serata era stata fresca, ma il freddo che aveva sentito nelle ossa e che persisteva ancora, era dovuto allo strano sogno che aveva appena fatto, dove aveva rivissuto dei ricordi passati, dolorosi e pieni di rabbia.
Aveva voglia di bere ancora. Fissò la bottiglia di whisky quasi vuota e si trattenne.
Fece un respiro profondo per scrollarsi di dosso quelle sensazioni spiacevoli e chiuse gli occhi concedendosi un altro momento. Per una volta, non sentiva su di sé l'opprimente sguardo dell'arcigno padre che lo giudicava dal grande ritratto.
«Non riesci proprio a stare lontano dal lavoro, vero?»
Shion aprì gli occhi di scatto. «Shura! Sbuchi sempre all’improvviso. Quando la smetterai di fare così?» lo rimproverò, raddrizzandosi e passandosi le mani sul viso stanco.
«E perché mai dovrei smettere? Ha i suoi vantaggi.»
«Sei venuto a controllarmi? Credi che abbia bisogno della balia?» domandò Shion, iniziando a riordinare i documenti sparsi sulla scrivania e ritirandoli subito nella ventiquattrore.
«Da quel che vedo, direi di sì! Era inevitabile venire a vedere come stavi. Ho avuto una brutta sensazione per tutto il giorno e non mi sbagliavo: una volta solo con i tuoi pensieri, ti saresti perso. Stavolta cos’è stato? No, aspetta, non dirmelo, so bene cos’è l’unica cosa che può ridurti a pezzi in quel modo.»
Si avvicinò al mobile bar e si servì un drink, portando poi la bottiglia di cristallo e versando due dita di whisky all’amico.
«Quell'email ha risvegliato in te ricordi che avevi seppellito. Shion, tu lo sai che non è mai stato un vero tradimento il suo.»
Shura sapeva che parlare di quell'argomento avrebbe portato guai, ma l'amico era vissuto per troppo tempo in quella sua convinzione sbagliata e il destino sembrava non avergli voluto concedere il tempo per dimeticare, mandando continui segnali nel corso della sua vita: prima con quell'invito poco prima del Natale del 1982, poi la gita fuori programma a Springfield l'anno successivo; in seguito ci furono due eventi di cronaca che lo avevano turbato. L'ultima goccia era stata quando aveva rischiato di perdere Saga e tutti i suoi fantasmi del passato erano tornati a fargli visita. Era decisamente troppo per chiunque. Era giusto che trovasse finalmente pace ai suoi tormenti.
«Non ti è bastato il pugno dell’altra sera?» disse Shion, facendo finta di essere occupato in altro. «Forse devo andarci più pesante per farti capire le cose?»
Si avvicinò al camino che languiva pigramente e vi buttò dentro un ultimo ciocco di legna.
«Per troppo tempo sei voluto rimanere ostinatamente nella tua convinzione, ma è arrivato il momento che tu comprenda e che volti pagina», insistette Shura.
«Non sai di cosa stai parlando.» Shion continuava a tenere lo sguardo fisso sulle fiamme che, piano, stavano ritrovando forza. La sua voce era ancora calma, ma la mascella iniziava a irrigidirsi, come se stesse facendo fatica a trattenersi.
«Non eri l’unico a volergli bene», gli confessò l’altro, mantenendosi anche lui calmo.
«Vorresti dirmi che anche tu…» ribatté l’uomo, voltandosi di scatto verso l’amico.
«Ti stupisce forse? Tutti lo amavano, in un modo o in un altro», rispose Shura con un sorriso amaro. «Sì, lui è stato la mia prima cotta. Me lo hai fatto conoscere tu Shion, ricordi? Alla casa di Boston.» L'uomo sorrise con mestizia mentre ricordava quel giorno, per qualche secondo fissò il suo bicchiere e poi lo vuotò in un solo sorso. «Frequentavo le medie a quel tempo. Era un pessimo periodo per me, sempre in punizione per qualche rissa e gli atti di vandalismo con la gang non si contavano neanche più. Ero la disperazione di mio padre e anche del tuo.»
Fece un sospiro profondo. Poi si avvicinò di nuovo alla bottiglia e la vuotò.
«Quel giorno voi due eravate tornati presto dalle lezioni. Quando rientrai a casa, c'era solo lui in casa. Tu eri uscito per... beh, non ho mai saputo perché lo lasciasti da solo, ma non ha importanza. Ero furioso per quello che era avvenuto a scuola solo poche ore prima e quando lo vidi, così composto, così gentile ed educato, così delicato d’aspetto… Oh, Signore…» sospirò, mordendosi il labbro per trattenere la commozione e l'eccitazione che quel ricordo gli stava facendo provare. «Sembrava il classico fighetto smidollato di buona famiglia. Il tipo che si prestava a essere preso di mira. E io… non mi lasciai sfuggire l’occasione, mi scagliai su di lui, così, solo per sfogarmi. Lo detestavo. Mi irritava solo vederlo. Non ti sei mai domandato perché quel giorno, quando tornasti, lui avesse un labbro rotto? Dalla faccia che stai facendo, desumo che non te ne abbia mai parlato, o che forse si sia inventato lì per lì una qualche scusa. Del resto, lui non era tipo da fare la spia.»
Shura fissò l’amico per qualche secondo, aspettando che dicesse qualcosa, ma Shion rimase in silenzio. Allora, dopo essersi bagnato di nuovo le labbra, continuò.
«Non me ne fece mai un torto, né me lo rinfacciò neanche per scherzo. Da quel momento in poi però, tutto cambiò per me. Non sono certo diventato un santo tutto d’un colpo, ma fu anche grazie a lui se mi diedi una regolata.»
Fece finta di guardare nel suo bicchiere, ma osservò l'altro con la coda dell'occhio. Vide Shion concentrato sul bicchiere che faceva girare lentamente nella mano. «Molte volte mi intrufolai di nascosto nel campus di Harvard, nelle settimane successive. Solo per vederlo, per incontrarlo e potergli parlare. Fin dal primo momento, lui mi capì alla perfezione. Offrì la sua gentilezza e la sua disponibilità a un ragazzino sbandato: lui ascoltava i miei problemi come nessuno aveva mai fatto. Neanche come potevano fare Nanny o mia madre.»
«Tutte queste cose non mi interessano», lo interruppe Shion con voce roca, accennando ad allontanarsi.
«Per favore, ascolta fino alla fine.»
Shura posò con forza il bicchiere sulla mensola di marmo rosso del camino. Prese un bel respiro e continuò il suo racconto.
«Vi vedevo sempre assieme, eravate inseparabili. Non sapevo nemmeno io perché, ma sentivo delle strane sensazioni quando vi spiavo. Ero invidioso e geloso. A volte me ne andavo subito, altre invece, rimanevo nascosto a osservarvi e mi immaginavo al tuo posto, soprattutto quando ti accostavi a lui e questo, all’inizio mi spaventava. A quell’età non credevo che poi mi sarebbero piaciuti gli uomini», confessò con una punta di imbarazzo.
L'essere considerato gay, un diverso, per lui che da ragazzo era stato il braccio destro del capo della gang, era stato un terribile spauracchio. Soprattutto perché spesso aveva partecipato a spedizioni punitive, dando il primo pugno, contro ragazzini la cui unica colpa era quella di apparire anche solo vagamente effemminati.
«Quante volte mi dissi che eri uno stupido a non accorgerti di come il suo modo di essere troppo accondiscendente fosse strano. Ti consentiva di avvicinarti a lui, accettava le tue attenzioni, ma alla fine si ritraeva sempre, vero? Scommetto che pensavi che fosse solo timidezza, o magari un gioco. Ma al contrario di te, io non ci misi molto a capire il reale motivo. Dimmi Shion, quante volte hai dovuto insistere perché alla fine lui ti assecondasse?»
Nel porgli quella domanda Shura alzò involontariamente la voce, lasciandosi andare anche a un gesto di stizza: dopo tanti anni sentiva di nuovo quella rabbia repressa che aveva imparato a dominare e sottomettere.
«Come ti permetti di immischiarti in questo modo nella mia vita!» ruggì Shion, puntandogli il dito contro con estrema rabbia. «Come ti permetti di venire qui e dirmi che eri geloso, che volevi essere al mio posto. Tu, un’inutile palla al piede. Un moccioso ispanico. Un delinquente che valeva meno di niente! Solo per pietà lui sopportava la tua presenza.»
Ogni parola che in quel momento gli usciva dalla bocca era piena di collera e i suoi occhi, già arrossati per il sonno e il pianto sommesso che si era concesso durante quel lungo sogno, si erano velati di nuove lacrime, miste ai fumi dell’alcol.
«Sì, ero così, Shion: uno stupido e violento, un piccolo delinquente che sarebbe certamente finito in riformatorio. Più volte ci andai vicino e nessuno avrebbe potuto impedirlo, neppure tuo padre. Lui invece, con il suo esempio, la sua dignità e la sua forza d’animo, mi ha aiutato a cambiare e a capire me stesso. È per questo che ora non raccoglierò la tua provocazione, lo faccio per l’adorazione che ancora provo nei suoi confronti e perché so che non pensi davvero le parole che hai appena proferito, ma sono dettate dal dispiacere e perché sei ubriaco.»
Shura gli parlava con calma e pacatezza, ma i suoi occhi tradivano un velo di tristezza.
«Ho passato abbastanza tempo con lui da riconoscere quei segnali, poiché quegli stessi comportamenti li ho visti anche in alcuni ragazzi che a quel tempo ancora frequentavo. Persone che una volta uscite dal riformatorio non erano più le stesse ed è per questo che compresi, Shion, anche se all'inizio non volevo crederci nemmeno io. Non potevo pensare che una persona per bene come Tony avesse subito quella sorte. Tu sai cosa fa il riformatorio ai ragazzi che ci finiscono dentro? Li cambia. A volte, se sono fortunati, ne escono più consapevoli; altre volte, nella maggioranza dei casi, li trasforma in peggio, ma sempre fa a pezzi la loro anima. Anthony però in qualche modo era diverso. Anche dopo quello che aveva passato, lui non si era perso, non si era arreso: era un sopravvissuto. Ha avuto il coraggio di continuare a vivere, anche se non è mai riuscito a superare del tutto quel trauma. Shion, quell’accondiscendenza, quell’arrendevolezza... era il suo modo di proteggersi e andare avanti. Quando si subisce quello che ha subito lui, si fa di tutto per sopravvivere, anche scendere ai compromessi più degradanti.»
Senza capire il perché, Shura iniziò a provare una certa vergogna nel raccontare quelle cose; stava mettendo a nudo il passato di una persona a lui cara, il suo segreto più intimo e profondo, e si sentiva male per questo.
«Te lo ripeto, Shura, non sai di cosa stai parlando. Le tue sono solo menzogne di un invidioso e di un presuntuoso. Cosa c’entra tutto questo con quello che lui mi ha fatto? Che ne puoi sapere tu di com’era lui davvero? Tu che bazzicavi i ghetti, ti vuoi paragonare a lui che è cresciuto nella stessa casa del professor Taylor?»
Il capofamiglia Hayes si passò il dorso della mano sulla bocca, sfregandosela per nasconderne il tremore. Si avvicinò alla scrivania e frugò sotto alcune carte, ripescando quella vecchia fotografia tutta sgualcita. La osservò per diversi secondi. Non poteva credere a quello che gli aveva appena raccontato Shura. Era pazzesco. Era contro ogni logica. Anthony non aveva mai frequentato le bande giovanili. Neanche aveva mai fatto del volontariato nelle strutture di correzione o in qualsiasi altro ente, figurarsi esservi rinchiuso. Si mise la fotografia in tasca e fece il giro della scrivania per uscire dalla stanza.
«Ascoltami, Shion, sto cercando di dirti… sto cercando di spiegarti l’equivoco che ti sta facendo soffrire da tutta una vita!» Shura lo fermò prima che l'uomo arrivasse alla porta.
«Smettila! Non c’è mai stato alcun equivoco. Lui si è preso gioco di me. Loro due si sono presi gioco di me e dei miei sentimenti! È stato con me e ha accettato i miei sentimenti. Ha fatto l’amore con me! E dopo tutto questo, come ha potuto tradirmi e amare una donna? Con Emma! È stato con Emma! Erano cresciuti nella stessa casa, come fratello e sorella!»
«Mio Dio, Shion! Ancora ti rifiuti di capire? Ancora ti ostini a non voler vedere le cose come sono sempre state? Lui non è mai stato quello che tu credevi. Se una colpa l’ha avuta, è stata quella di costringersi a rivivere certe cose del suo passato!»
Shura provò a trattenerlo, ma l’altro, alterato dall’alcol e dalla rabbia, era completamente sordo a qualunque spiegazione. Poi, d’un tratto, lo vide sbiancare e congelarsi sul posto.
“Non costringerlo a rivivere quelle cose!”
Quelle parole di tanto tempo prima, pronunciate da Emma con voce sconvolta, ritornarono di nuovo nella mente Shion in tutto il loro dolore.
«Certo che non era quello che credevo. Si è preso il posto di assistente che spettava a me. Si è preso la donna che spettava a me. Si è preso il mio cuore e lo ha fatto a pezzi», mormorò nervosamente, perché era quello che voleva credere a ogni costo.
Con uno strattone si liberò della presa dell’altro; ma, nello slancio del gesto, finì contro la consolle di marmo sulla quale erano sistemate le foto dei suoi ragazzi, facendone cadere alcune.
«La donna che spettava a te…» ripeté Shura. «Che tu non avessi mai saputo da che parte stare all’epoca, era evidente, così come il tuo alternare avventure in tutti questi anni. Ma che il tutto si riducesse a “ha preso quello che era mio”… mi deludi, Shion. Trent’anni in bilico fra amore e odio, solo per arrivare a questo punto?»
Shura lo guardò con giusta superiorità. Vedeva davanti a sé una persona che non riconosceva più; un uomo gretto e affaticato dal peso di rancori senza senso e senza fine.
«Ora ti permetti anche di biasimarmi?» disse con ira Shion, lo sguardo rivolto ai visi sorridenti dei suoi figli. Si rimise in piedi, respirando pesantemente. Poi, risistemò le cornici, sfiorando le immagini ritratte. «Me ne vado a dormire», disse, riprendendo una parvenza di compostezza. «Non osare tornare mai più sull’argomento o dovrai andartene da questa casa, per sempre», lo minacciò infine, prima di uscire dalla biblioteca.
«Vecchio testardo… tu non vuoi sentire, né capire…»

*****

«Che ci fai ancora sveglio a quest’ora, fratellino?» domandò Kanon, facendo capolino dalla porta del bagno comunicante.
Si avvicinò al gemello che, seduto alla sua scrivania e troppo concentrato, sembrava non averlo sentito. Ripeté la domanda ma l'esito fu il medesimo. Sogghignò nel vederlo tanto assorto. Si sporse oltre la sua spalla, poi lo abbracciò all'improvviso, facendolo sussultare.
«Libri contabili, block notes, vecchi libri di testo, cartellette d’ufficio, documenti presi dalla rete… a che ti serve tutta questa roba? Ah, capisco! Vuoi rientrare nelle grazie di papà, vero?» disse, battendogli le mani sulle spalle. «Ma... c’è dell’altro, sotto!» Come un bambino dispettoso iniziò a frugare e spostare le cose sulla scrivania, impedendo al tempo stesso al gemello di fermarlo nella sua azione. Lo intrigava sapere che l'altro avesse qualche segreto.
«Basta, fermati! Perché sei qui?» lo rimproverò Saga, scansandolo in malo modo e affrettandosi a ritirare tutto sotto chiave.
«Mi annoiavo di là in camera mia. Avevo pensato di uscire e andarmene da qualche parte, ma non credo che il grande capo approverebbe», gli rispose Kanon con un'alzata di spalle; subito però, sulle sue labbra si formò un sorriso malizioso. «Poi mi è venuto in mente il mio fratellino che è sempre tutto solo e sono venuto a farmi fare un po’ di coccole. Ti dispiace che sia qui?»
Senza attendere la risposta, che probabilmente non sarebbe stata quella che si aspettava di sentire, visto anche come gli era piombato addosso pochi istanti prima, Kanon si buttò sul letto senza invito e, sdraiandosi di traverso, ne occupò più di metà.
«Kanon, non sei un po’ troppo grande per le coccole?» lo rimproverò ancora una volta Saga.
Lo squadrò per qualche secondo, ma non riuscì a tenere a lungo il broncio: in quel momento Kanon sembrava un monellaccio tanto bisognoso di attenzioni. Sbuffò, arrendendosi all’evidenza che non se ne sarebbe liberato tanto facilmente. Allora fece buon viso a cattiva sorte, si sedette sul letto accanto al gemello – che subito gli fece spazio – e, anche se non erano più due bambini, gli concesse di accoccolarglisi addosso, chiudendo poi gli occhi e rilassandosi.
«Non si è mai troppo grandi per le coccole, fratellino», sussurrò Kanon in risposta, sorridendo sornione. «E poi, non mi pare che tu ti faccia qualche problema a riceverne, no?»
«Solo due minuti, poi te ne torni in camera tua», gli concesse Saga, sbadigliando stancamente.
Saga era piacevolmente sorpreso dal comportamento tanto diverso che aveva il gemello, rispetto a com'era stato durante quel pomeriggio. Era come se, nella privacy di quella camera, Kanon concedesse solo a lui di vedere il suo lato tenero e fanciullesco, permettendogli al tempo stesso di sentirsi in quelle occasioni il fratello maggiore e responsabile; e questo lo faceva sentire bene.

Non ricordava di aver spento la luce e di essersi addormentato. Quando riaprì gli occhi, credendo forse di aver sentito il suo cellulare, la stanza era al buio e con la sola luce della luna che filtrava dalla finestra rimasta con le tende aperte. Regnava la quiete e il silenzio. Poteva udire distintamente il lieve russare di Kanon al suo fianco. Si grattò la fronte e si lasciò andare a uno sbadiglio. Girò la testa verso il comodino e osservò per qualche secondo lo smartphone. All'improvviso vide lo schermo illuminarsi. Lo fissò per diversi secondi, come imbambolato, prima di decidersi a prenderlo.
Strizzò gli occhi, infastidito dalla luminosità così forte di quell'aggeggio. Guardò l'ora: segnava esattamente l'una e quindici. In alto a sinistra c'era l'icona che indicava che aveva un messaggio in entrata.
«Chi è a quest'ora?» bofonchiò con voce impastata dal sonno.
Prima di leggerlo controllò che il gemello stesse ancora dormendo. Poi, lo visualizzò, notando che il mittente era sconosciuto. Rimuginò per qualche secondo: in pochi avevano il suo numero di cellulare e lui era sicuro di non averlo dato a nessuno negli ultimi tempi. Diede un'altra occhiata al gemello, perché con lui non si sapeva mai e, tirandosi leggermente su, si decise a visualizzare il messaggio.

Non avresti dovuto farlo!

Rimase decisamente perplesso da quel messaggio così criptico. Lesse più volte il numero del mittente, poteva anche darsi che si fosse dimenticato di memorizzarlo nella rubrica, ma proprio non riusciva a riconoscerlo. Ebbe allora l'impulso di cancellare il messaggio e tornare a dormire. Qualcosa però, una vocina nella sua testa, lo convinse a provare a rispondere. Mentre lo rileggeva, sperava che a mandarlo fosse una certa persona. Sorrise a quel pensiero, ma subito le sue labbra si piegarono in una smorfia capricciosa, ricordandosi che non c'era mai stata occasione per scambiarsi i numeri di telefono. Quindi sarebbe stato impossibile per lei scrivergli.
«Ma forse può averglielo dato Aiolia», commentò a bassa voce, riacquistando l'entusiasmo. E poi, probabilmente sarebbe stato da lei un messaggio di quel genere. Provò a rispondere, sperando di avvalorare la sua tesi.

Ho sbagliato di nuovo?

Considerò che con una risposta ambigua avrebbe potuto ottenere maggiori risultati. E poi, se invece si fosse trattato di uno scambio di persona, almeno non avrebbe rivelato nulla di personale.

SÌ! ... no… non lo so… avrei voluto risolvere la cosa da sola!

Si accigliò per quella risposta: non gli piaceva essere sgridato e non era proprio ciò che sperava leggere, anche se aveva ottenuto la conferma che gli serviva. Si morse il labbro, indeciso su cosa fare. Iniziava ad avere dubbi sul fatto che non sapesse rapportarsi con gli altri. E poi, quel “sì” urlato era così evidente e catalizzante che aveva messo in secondo piano il resto del testo. Possibile che ogni cosa facesse o pensasse, fosse sbagliata con lei?
Provò a mettersi per un attimo nei panni di Cora e cercare di capire cosa avesse fatto di male, ma non capiva proprio, eppure le aveva mandato qualcuno per risolvere il suo problema!
Si mosse un poco sul letto, ma la presenza di Kanon, appoggiato con la testa alla sua spalla, stava diventando un tantino fastidiosa e lo distraeva. Sbuffò e provò a concentrarsi sul messaggio. Era consapevole che non la conosceva ancora da abbastanza tempo per capire chi fosse davvero; forse lei era una persona fortemente indipendente che non tollerava alcuna ingerenza, ma nessuno avrebbe rifiutato a priori un aiuto di quel genere, soprattutto gratuito.
Tutto ciò che aveva compreso fino a quel momento, in quelle poche occasioni in cui era stato con Cora, era che lui si sentiva diverso quando stava con lei, che si sentiva spiazzato e confuso e... emozionato, come non lo era mai stato con le altre.
Picchiettò l'unghia dell'indice sul retro dello smartphone, continuando a fissare quel messaggio finché lo schermo non si spense. Allora lo riattivò e sospirò. Poi,  d’improvviso si sentì come più leggero, ma non fece in tempo a capirne il motivo che Kanon gli prese il cellulare dalla mano e lesse la conversazione lì in bella vista. Lui non era certo un indeciso come Saga, senza perdere tempo digitò una risposta e, sorridendo soddisfatto, guardando negli occhi il fratello, lo inviò.

Sei una persona difficile.

Tu mi confondi.

Il nuovo messaggio non si fece attendere molto, ma era Kanon che questa volta teneva in mano le redini del gioco. Si buttò sdraiato dall’altra parte del letto e guardò di sottecchi il gemello che, appoggiato alla testata del letto, aveva il broncio.

Anche tu.

Kanon sogghignò. «Non ti preoccupare, non sto scrivendo nulla di imbarazzante», gli disse, ma con un tono che invece prometteva ben altro. Gli era sempre piaciuto giocare in quel modo un po’ con tutti, ma con Saga in particolare c’era più gusto, soprattutto da giovani. Ora però ci andava più cauto, ma non per questo avrebbe perso l’occasione di divertirsi. E quale migliore occasione di quella per rendere le cose più divertenti, che dire la verità?

Perché non me lo hai detto?

Nel leggere il messaggio appena arrivato, per un attimo il giovane rimase sorpreso. «Fratellino, cosa le hai tenuto nascosto?» gli domandò, alzando lo sguardo su di lui, che invece continuava a fare l’offeso. Lo studiò per qualche secondo e al suo continuo silenzio lo stuzzicò con la punta del piede.
Con uno scatto repentino Saga si avventò sull'altro, lottando per riprendere il possesso del suo cellulare e riuscendo infine a strapparglielo di mano. Ottenne anche il risultato di far rotolare giù dal letto il gemello che cadde con un gran tonfo.
«Che casini mi stai combinando?»
«È un qualche segreto piccante che hai tenuto nascosto anche a me?» continuò in tono giocoso Kanon, riemergendo e appoggiandosi con i gomiti sul materasso.

Ti ho detto ciò che era importante.

Avresti dovuto dirmi chi sei davvero.

Avrebbe cambiato qualcosa?

Non lo so.

E ora cambierà qualcosa?

Non lo so.

È forse un addio?

«Saga, non essere così melodrammatico!» esclamò scandalizzato Kanon che senza farsene accorgere dall'altro si era portato dietro di lui, continuando a seguire quell'interessantissimo scambio di messaggi. «Sei sicuro di saperci fare con le ragazze?» gli chiese, ottenendo una specie di ringhio come risposta. «Guarda che così rischi di rovinare tutto! Forse dovrei darti qualche ripetizione.»
«Non sono io quello che non ha uno straccio di relazione fissa da ben due anni!» ribatté esasperato Saga, girandosi per impedire ulteriori intromissioni da parte dell’altro.
Kanon sospirò rassegnato, guadagnandosi un’occhiataccia. Vide Saga gattonare letteralmente sul letto e tornare ad appoggiarsi con la schiena alla testata del letto.
«Perché sei ancora qui a scocciarmi?» disse, alzando lo sguardo su di lui e stringendo gelosamente lo smartphone al petto mentre attendeva il nuovo messaggio.
«Ma te l’ho già detto, fratellino caro. Voglio passare un po’ di tempo con te, prima dell’esilio a New York», disse, sfoderando un sorriso angelico. «E poi, ora sono curioso di sapere come si svilupperà la cosa», aggiunse, mutando quel sorriso in uno più consono alla sua natura di sbruffone impenitente.
Dopo avergli promesso di fare il bravo, Kanon riuscì a riguadagnarsi un posto di fianco al gemello.

Mi vuoi anche dopo che ti ho trattato in quel modo, come uno qualunque?

Continuerai a trattarmi allo stesso modo?

Vorresti essere trattato diversamente?

Vorrei parlarne a voce e non per mezzo di questi messaggi. Vorrei vederti.

Anch’io.

Dopo aver letto quell’ultimo sms, Saga spense il cellulare e lo nascose nel cassetto del comodino. Poi, rimase seduto per un po’, con le ginocchia al petto, a riflettere con un’espressione pensosa sul viso.
Kanon, da buon fratello, gli fece compagnia, tranquillo e in silenzio, per il resto della conversazione, senza perdersi più un solo istante di quello scambio. Non era certamente la tattica che avrebbe usato lui, ma alla fine il risultato era stato comunque raggiunto. Si divertì a fare da spettatore, osservando meravigliato quante espressione potesse assumere il viso del suo gemello e, soprattutto, di quante sfumature potesse tingersi.
«Bravo il mio fratellino!» disse giubilante, circondandogli le spalle con il braccio, attirandolo a sé. «E adesso?»
«Adesso, è il tuo turno di fare le coccole!» rispose Saga, finalmente sorridente.



note del capitolo:

Ishang: è la comune casacca che portano i contadini cinesi, ma non solo. Un esempio famoso lo si ritrova nei film di Bruce Lee, o se vogliamo rimanere nell'ambito di Saint Seiya, è la casacca che vestiva Shiryu nella serie classica e Dohko nella serie Lost Canvas. (Dohko nel classico è un puffo e non fa testo)
Wuxiapian: è un genere cinematografico prettamente cinese, secondo molti paragonabile all'occidentale "cappa e spada". Nel wuxiapian si racconta di personaggi mitici ed eroi epici della tradizione cinese, di cavalieri erranti e spadaccini volanti. (informazioni prese da Wiki)




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Capitolo 14
*** Capitolo XIII ***





XIII




“luglio '84
… Sono passati cinque mesi da quella che tutti avevano trionfalmente definito “la svolta nelle indagini”. (Poco più di un anno dalla scomparsa dei bambini) Dopo la convalida dell’arresto di quel ragazzo, tutte le altre piste sono state abbandonate, ovvero hanno smesso di indagare per trovare i veri colpevoli, né hanno approfondito le segnalazioni che ancora oggi arrivano al 911 su quei due bambini. Di loro, nessuna traccia concreta, né che siano vivi, né che siano invece deceduti.
Ci sono state alcune voci, giorni fa, che asseriscono che non ci sono bambini da trovare; che forse è tutta una montatura per coprire qualcos’altro di più terribile. Ma cosa c’è di più terribile del compiere un tale reato nei confronti di due creature innocenti?
A oggi non sono stati trovati documenti che attestino l’esistenza di questi bambini, né certificati di nascita, né cartelle cliniche o registrazioni del parto. Le testimonianze di infermieri e dottori, nei vari ospedali in cui si è indagato, sono state vaghe e contraddittorie: “Non ricordo”, “Quel giorno ci sono state molte emergenze”, “Non ero di turno”.
C’è solo la parola del professor Taylor e un esame clinico sulla figlia Emma. L’unica cosa certa e incontrovertibile è che questi esami hanno stabilito che ha effettivamente partorito, ma nulla di più è stato scoperto. Tutti si stanno basando sulle dichiarazioni del professor Taylor. Lui afferma che i bambini esistono e che sono stati portati via. Se è vero, perché queste nascite sono state tenute nascoste? Perché non c’è neanche una loro fotografia o un certificato?
Data l’importanza del caso e il nome altisonante delle persone coinvolte, il procuratore distrettuale, durante una conferenza stampa, ha diffuso solamente le iniziali del nome dell’arrestato: A. Y.
Quel giorno sembrava dovesse esserci un discorso alla Nazione del nostro Presidente, tanto era stata imponente l’organizzazione: un enorme cordone di agenti era stato posto davanti alla procura, per mantenere l’ordine e contenere la ressa dei giornalisti. Erano presenti all’appello le più alte cariche della polizia, tutte tirate a lucido. Il procuratore ha promesso un processo equo e giusto, ma rapido nei tempi e dalla pena esemplare. Chissà se si è reso conto della contraddizione fra ciò che ha detto e quello che invece è avvenuto e sta ancora avvenendo.
I giornalisti ci sono andati a nozze e si sono scatenati, tutti che chiedevano maggiori informazioni sulle generalità dell'arrestato. Il procuratore però, ha mantenuto lo stretto riserbo ed è stato irremovibile, liquidandoli con una serie di “No comment”.
Anche il tenente Burton era fra i presenti, tutto impettito a fianco del capo della polizia. L’ho visto incupirsi per lo spettacolo che hanno inscenato. Mi sono sentito sollevato nel constatare che, fra tutti loro, almeno lui disapprovava quella situazione.
Ancora non riesco a capirlo del tutto quell’uomo, ma di certo è un uomo di legge che persegue la giustizia; e anche se a volte sembra voler scavalcare le regole, il fine è nobile. Mio padre lo ammira. Ha detto che è un uomo che farà carriera. Mi ha detto anche che dovrei prenderlo a esempio e che mi devo ritenere fortunato che lui mi abbia voluto al suo fianco. Ancora non me ne spiego il perché, sono solo un giovane agente che fa domande indiscrete alle persone sbagliate...”

“agosto ‘84
… Sono passate settimane da quella conferenza stampa, più nulla è trapelato e tutto ora sembra essere fermo, archiviato, dimenticato. Eppure ci sarebbe ancora tanto da fare, mille domande che pretendono risposte, piste da battere e indizi da seguire. Si sono forse dimenticati che ci sono due bambini da trovare? Ma forse li hanno ormai dati per morti. Delle due squadre incaricate un tempo per seguire questo caso, ora sono rimasti solamente due agenti: un novellino e un veterano troppo vicino alla pensione per impegnarsi adeguatamente.
Sarà un altro cold case che andrà a riempirsi di polvere negli scaffali del magazzino nel seminterrato?
Non nego che vorrei seguirlo io questo caso, ma qualche piccola indagine la sto facendo per conto mio. C’è qualcosa che mi attira in questa vicenda, ma non so cosa. Forse dovrei provare a parlarne di nuovo con mio padre; lui ha molta esperienza e saprebbe cosa fare in questi casi. Temo però che potrebbe volermi dissuadere. Mi ha sempre ripetuto che un buon poliziotto non deve farsi coinvolgere, che non deve mai trasformare un caso in qualcosa di personale. E io questa soglia temo di averla già oltrepassata. Però sento che è giusto così e farò di tutto perché non diventi un altro cold case.”

Aiolos alzò un momento la testa per fare una pausa da quella lettura che, stranamente, sembrava rapirlo ogni volta di più, nonostante si ostinasse a negarlo. Guardò attraverso il parabrezza, mentre girava meccanicamente un’altra pagina del quadernetto. Era nervoso perché Aiolia quel giorno aveva telefonato al suo ufficio chiedendogli di passare a prenderlo al campus, senza dargli altre spiegazioni; insistendo e costringendolo a saltare una riunione importante. Controllò l'ora: erano le tre e un quarto passate.
Con un movimento secco richiuse il quadernetto e se lo mise nella tasca interna del cappotto, quando vide avvicinarsi il fratello.
«Per quale motivo mi hai chiesto di venire?» gli domandò, senza lasciargli il tempo di salire in auto.
«Non essere impaziente fratellone», rispose Aiolia, con un gran sorriso, sbattendo la portiera. «Accompagnami da papà, per favore.»
«Sono diventato il tuo servizio taxi?» disse il maggiore, in modo stizzito. Mise in moto e si avviò verso la caserma dei vigili del fuoco nella quale operava il padre. «Mi fai lasciare l’ufficio e attraversare mezza città solo per andare da papà? Non potevi prendere i mezzi pubblici? E poi, che ci devi andare a fare?» domandò con tono seccato, mentre rallentava al semaforo.
«Lo so, lo so, scusami. Però mi piaceva l’idea di andare assieme. Da quanto tempo non andiamo a trovare papà sul lavoro?» disse Aiolia, sistemandosi meglio la borsa di atletica fra le gambe. «La verità è che ascoltare la storia di quella ragazza mi ha fatto riflettere. Quello del poliziotto è un mestiere pericoloso, al pari del soldato o del vigile del fuoco e quindi... ecco, pensavo…»
«Smettila di pensare!» scattò Aiolos, interrompendo bruscamente l'altro.
Se prima era infastidito per l'impegno fuori programma, ora quello stato d’animo si stava trasformando una vera e propria irritazione, ben espressa dal suo volto.
«Ma che ti prende così all’improvviso?»
«Avresti dovuto dirmelo prima, non mi piacciono queste sorprese. E io non ho tempo da perdere», riprese con voce più pacata Aiolos, anche se ancora si percepiva del nervosismo. Sbuffò, passandosi una mano nei capelli. «Non fraintendere le mie parole», si affrettò a correggersi, vedendo come l'altro fosse deluso. «Non sto dicendo che andare a trovare papà non sia importante, ma avremmo potuto farlo in altri momenti. Ho un lavoro e delle responsabilità, io. Non posso prendermi un pomeriggio libero così su due piedi.»
«Già, lavoro e responsabilità!» ripeté Aiolia, girandosi verso il finestrino e concentrandosi sulla gente che camminava sul marciapiede. «Bella scusa la tua. Di' piuttosto che preferisci stare con Kanon. Quando lui chiama, tu scatti e sei ben felice di fare tutto quello che chiede; e non manchi mai un’uscita con lui. Vi divertite molto, assieme. Quando sono io a chiederti qualcosa, sembra sempre un peso per te.»
«È invidia quella che sento? Allora cosa dovrei dire io di te e Saga? Quante altre cose mi stai tenendo nascoste?» gli domandò Aiolos con tono paterno. Ma lui non era suo padre, bensì il fratello maggiore. «Cerca di capire, Kanon e io siamo cresciuti fianco a fianco praticamente ogni giorno della nostra vita, abbiamo la stessa età e gli stessi interessi e lavoriamo assieme. Fra noi due invece, c’è troppa differenza d’età e le nostre vite sono completamente diverse; però tu rimani sempre e comunque il mio vero fratello.»
Aiolos fece un respiro profondo e innestò la marcia, mentre attendeva che il semaforo diventasse di nuovo verde. «Almeno lo hai chiamato per sapere se è disponibile o se è impegnato in qualche esercitazione, o addirittura fuori in missione? Mi scoccerebbe ancora di più fare un viaggio a vuoto.»
Calò un silenzio imbarazzato. Il resto del tragitto trascorse fra tensione e sguardi furtivi che il giovane Aiolia rivolgeva all'altro, rammaricandosi che forse non era stata una trovata felice coinvolgere il fratello in quella cosa. Avrebbe dovuto riflettere meglio e considerare il rapporto contrastato che Aiolos aveva da sempre con il padre. E in fin dei conti, doveva ammettere che l'altro non aveva tutti i torti a dire che vivevano un’esistenza totalmente diversa: Aiolos era un uomo ormai ben integrato nel un mondo degli adulti e riusciva a districarsi con eccezionale competenza in ogni situazione, come aveva ampiamente dimostrato anche a casa di quella ragazza, Caroline Miller, gestendo perfettamente la situazione. Lui invece, Aiolia Cooper, era una scanzonata matricola universitaria che, con i suoi neanche vent'anni, pensava più alle feste delle confraternite e a quell’amore goffo che provava per la figlia minorenne del coach di atletica.
Provò ad aprire bocca per scusarsi, ma quando si decise erano ormai arrivati a destinazione e Aiolos stava già posteggiando di fronte alla caserma dei vigili del fuoco.
C'era un gran fermento. Non sapeva che quel giorno era stata organizzata una piccola dimostrazione per alcune scolaresche delle scuole elementari del quartiere.

*****

“… Anche oggi il professor Taylor è stato convocato a colloquio dal tenente Burton. Di nuovo è stato accompagnato dal vice procuratore. Sembra che i due vadano a braccetto. Questa volta però erano presenti anche due dei suoi figli. Dalla mia scrivania non sono riuscito a sentire con chiarezza quello che si dicevano, ma da quel poco che ho potuto capire, in alcuni momenti gli animi si sono scaldati e anche parecchio. I più agitati erano proprio i figli del professore. Sembravano due predatori che si contendevano una carcassa; ma forse è normale, ho saputo che sono due avvocati: principi del foro, li chiamano. Sciacalli li chiamo io.
Quando sono usciti dall’ufficio, ho notato molta agitazione nel professor Taylor. Sembrava addirittura provato fisicamente. Sul suo volto si vedeva chiaramente un misto di emozioni: rabbia, nervosismo, tristezza e vergogna.
Perché vergogna? Cosa può aver provocato quel sentimento?
Ho trovato qualche frammento di informazione a riguardo di quel ragazzo. Ancora non riesco a dimenticare quello che ho provato quando mi ha guardato. Perché mi è rimasto così impresso?
Si chiama Anthony Young; non ha famiglia, o almeno non ce n’è traccia da nessuna parte. Ha dei precedenti penali commessi quando era molto giovane. È stato processato e ha passato un periodo in riformatorio. Questa parte della sua vita però è coperta dal segreto, così come tutti gli atti del suo processo sono sigillati. Non dovrei stupirmene, è giusto che dei precedenti penali, se commessi da minorenni, siano secretati.
Ha vissuto per alcuni anni nella casa del professor Taylor, che lo ha preso in affidamento a quindici anni, fino alla maggiore età. Pare che sia stato il professore in persona a interessarsene. In seguito, è rimasto come una specie di figlio adottivo. Gli ha pagato le scuole superiori e anche gli studi universitari, dandogli una borsa di studio come premio per i risultati scolastici che aveva ottenuto. Lo ha anche nominato suo assistente, sia personale che di cattedra.
Ha fatto molta strada in pochi anni, doveva essere una persona eccezionale nel suo lavoro e molto affidabile.
Perché allora il professore gli sta voltando le spalle in questo modo? In che modo questo Anthony Young ha tradito la fiducia che il professore riponeva in lui?”

Ad Aiolos quell'ambiente non piaceva. Non piaceva il caos dei bambini, non piaceva l'entusiasmo di quegli adulti, ma soprattutto, gli dava fastidio l'ammirazione che tutti dimostravano verso quell'uomo che lui invece detestava. Per quel motivo, appena arrivato, aveva cercato un posto appartato per starsene per i fatti suoi e riversare la propria attenzione su quel quadernetto non suo e che iniziava a monopolizzare il suo tempo al di fuori del lavoro.
Non riuscì ad andare avanti che di qualche pagina, perché la chiassosa vivacità dei bambini era arrivata fino a lui, distraendolo. Rinunciò del tutto e rimise il quadernetto in tasca, iniziando allora a girare per le stanze della caserma, fermandosi poi di fronte a una bacheca completamente tappezzata di ritagli e fotografie.
«Noi lo chiamiamo il muro della vita», disse Thomas, sbucando dietro le sue spalle. «In origine era una delle tante bacheche che usavamo per le comunicazioni e i piccoli annunci privati.»
«Chi sono?» domandò Aiolos, continuando a tenere lo sguardo fisso su quelle immagini.
«Sono tutti gli amici deceduti nel compimento del dovere. Brave persone che hanno sacrificato la propria vita per salvarne altre. E accanto, ci sono le persone che oggi sono vive grazie al loro eroismo», spiegò l'uomo, mettendogli una mano sulla spalla.
Per qualche momento ci fu silenzio. Del resto, fra quei due non c'erano mai state troppe chiacchiere.
«Ti vedo un po’ giù, hai qualche preoccupazione?» provò a domandargli Thomas. Quando l'altro si girò verso di lui, vide negli occhi del figlio una luce cupa. «Vuoi parlarmi di ciò che ti affligge?»
«Da quando in qua sei diventato il mio confessore?» ribatté Aiolos, scostandosi da lui.
«Sono tuo padre e vorrei aiutarti, almeno per quel che posso», rispose con voce pacata Thomas.
«Adesso vuoi metterti a fare il padre? Hai perso la tua unica occasione, tanto tempo fa! Non sei mai stato mio padre, né di nome, né di fatto», replicò l’altro.
«È vero, ho perso la possibilità di essere un padre per te, se non nelle poche occasioni che tua nonna mi concedeva; ma almeno il nome, quando ne ho avuto la possibilità, volevo dartelo. Tua nonna però è sempre stata irremovibile. Pensavo che con la maggiore età saresti stato libero dai suoi condizionamenti e mi avresti accettato. Evidentemente mi sbagliavo. Però sappi che non smetterò mai di proportelo. Non c’è limite d’età per poter cambiare il proprio nome, Aiolos.»
«Beh, non voglio che tu me lo chieda mai più, perché tanto la risposta sarà sempre la stessa», ribatté il giovane, con voce davvero seccata, fissando i suoi occhi in quelli dell'altro, senza mostrare il minimo cedimento.
Ma anche Thomas, da ex marines qual era, non era da meno.
«È questa l’educazione che hai ricevuto da quei ricconi e da Angelina? Arroganza e presunzione. Davvero un bel risultato. Se solo volessi, potrei metterti sulle mie ginocchia e darti una bella sculacciata!»
L'uomo incrociò le braccia al petto e attese una replica da parte dell'altro. Nel vederlo così testardo però, capì che non avrebbe ottenuto nulla. Provò allora con un approccio più morbido, per tentare di spiegare – per quanto gli fosse possibile – le scelte che aveva dovuto fare in passato. Quello era un punto che non era mai stato chiarito del tutto.
«Cerca di capire Aiolos, tua madre aveva appena quindici anni quando sei nato e io ne avevo solo venti. È vero, sono scappato, l'ho fatto per paura e anche per evitare le conseguenze. Tua nonna è sempre stata un tipo tosto e... beh, ho preferito cambiare aria e mi sono arruolato. Ho scaricato le mie responsabilità di padre, ma non è passato un solo giorno che non me ne sia pentito. Eravamo entrambi giovani e immaturi. Tu sei stato un incidente… no, cioè, aspetta…»
Thomas si accorse subito di essersi lasciato sfuggire una cosa imperdonabile e lo capì anche dalla reazione di Aiolos, benché contenuta: dallo sguardo di fuoco che gli lanciò, da come serrò la mascella e strinse i pugni. Gli mise le mani sulle spalle, per cercare un contatto con lui e fargli capire che era lì per lui.
«Perdonami! Non era quello che intendevo. Volevo dire che sei arrivato troppo presto, ma ti ho amato dal primo giorno in cui ho saputo della tua esistenza e sono sempre stato orgoglioso di te. Tua madre e io… siamo stati due sconsiderati, lo ammetto, non eravamo pronti per un impegno così importante, tua madre... lei  era davvero troppo giovane. Tua nonna ci ha risolto un sacco di problemi, quando ha ottenuto il tuo affidamento. Anche se alla fine, ho perso l’occasione di crescerti come avrei voluto.»
«Incidente... problemi... È patetico come tu stia cercando di arrampicarti sugli specchi. Di' a mio fratello che sono tornato al lavoro.» Con un gesto stizzito, Aiolos scansò quelle mani fastidiose e uscì dalla caserma senza alcun indugio.
«Se proprio non mi vuoi come padre, almeno potremmo essere amici? Sappi comunque che io ci sarò sempre se avrai bisogno», provò a richiamarlo Thomas, anche se non si faceva illusioni.
Aiolos risalì in auto, ma rimase fermo per qualche momento, con lo sguardo rivolto allo spiazzo di fronte alla caserma. Notò come il fratello si stesse divertendo assieme ad alcuni bambini, cimentandosi in giochi ed esercitazioni a coppie che gli stessi vigili del fuoco avevano organizzato come intrattenimento. Da ragazzo, anche lui giocava in quel modo con il fratello e con i gemelli, divertendosi tutti assieme.
Cosa era cambiato nelle loro vite per portarli così lontani gli uni dagli altri?
Diventare adulti non avrebbe dovuto significare rinunciare alla propria famiglia.

*****

Dopo l'ennesima riunione con gli amministratori delle società minori del gruppo Hayes, terminata da neanche dieci minuti, Shion Hayes si prese una pausa nel silenzio del suo ufficio di Manhattan. Il suo lavoro stava diventando solo una lunga e noiosa sequela di riunioni, incontri e pranzi d’affari. A volte si chiedeva che razza di lavoro fosse il suo. Era girato verso la grande vetrata che dava sulla città, il suo sguardo immerso nella contemplazione del cielo newyorkese che lentamente si stava oscurando di nubi cariche di pioggia. Anche quella giornata, così com’era stata l’intera settimana, sembrava essere in perfetta sintonia col suo stato d’animo.
Era partito per la Grande Mela lunedì mattina di buon’ora, portandosi dietro Kanon – proprio come aveva promesso – e con un umore nero. Non aveva badato molto alle convenzioni familiari, ma aveva voluto comunque appianare la situazione con Saga, appartandosi con lui in biblioteca per quasi un’ora.
Aveva ascoltato con attenzione le sue giustificazioni e aveva visto, coi suoi stessi occhi, quei piccoli mutamenti che Shura gli aveva paventato. E infatti, davanti a sé si era ritrovato un giovane uomo che voleva vivere una libertà di cui non aveva mai goduto veramente, che pian piano manifestava la volontà di voler lasciare la sua ala protettiva e questo lo aveva disorientato e deluso. In cuor suo lo avrebbe preferito solo dedito alle attività del Country Club, anche se lui le considerava una perdita di tempo; e poi... c'era stata la parentesi amorosa con quell’ereditiera: anche se l'aveva trovata seccante, non l’aveva mai impensierito davvero e comunque, Saga non aveva mai sfidato apertamente la sua autorità di padre. Ora invece non capiva cosa gli stesse succedendo. O forse lo capiva fin troppo bene. Auspicava però fosse un'altra infatuazione passeggera, una sbandata di poco conto, come già aveva avuto in passato.
Sospirò nell'osservare il cielo assumere una tinta scura che inghiottiva anche il grigio delle nuvole. Stava ormai giungendo il crepuscolo di quell'interminabile giornata, ma c'era ancora un impegno che richiedeva tutta la sua attenzione e capacità di sopportazione.
L'ufficio era immerso nel silenzio. Poteva sentire distintamente il suo respiro e il leggero cigolio della poltrona in pelle ogni volta che faceva un movimento, anche lieve. Sbuffò stancamente. Diverse volte aveva chiesto che mandassero qualcuno della manutenzione per sistemarla, ma ancora non era riuscito a risolvere il problema. Quasi senza volerlo, iniziò a muovere la poltrona con un certo ritmo. Poi, all'improvviso si intromise il suono dell'interfono.
«Sì, Jane?»
«Mi dispiace importunarla mr Hayes», si annunciò la donna, segretaria personale di Shion Hayes, con un’impostazione di voce molto professionale. «So che non voleva essere disturbato per nessun motivo, fino all’appuntamento di questa sera, ma sono appena arrivate delle persone molto insistenti che desiderano parlarle con urgenza.»
Nonostante la sua quasi ventennale esperienza, la donna usò un tono di voce insolitamente incerto nell’annunciare quella particolare visita.
«E… mi perdoni se mi permetto, signore, ma sono persone piuttosto inquietanti», aggiunse, abbassando la voce e coprendosi la bocca con la mano, per essere sicura di non farsi udire da altri.
«Sì, Jane, sono persone che stavo attendendo, anche se sono un po’ in anticipo. Falle pure passare», rispose con un mezzo sorriso Shion, nel sentire quel commento. Si rimise composto sulla poltrona e si risistemò la cravatta.
«Veramente, mr Hayes, queste due persone non hanno preso un appuntamento, sono…» La donna fece una pausa, squadrando rapidamente, da dietro i suoi occhialetti, le due persone che attendevano poco più in là. «Sono un uomo e una donna. I loro biglietti da visita dicono che sono due avvocati di Boston!» terminò con una leggera punta di preoccupazione nella voce.
A quelle parole, Shion Hayes mutò completamente espressione, mentre l’ufficio piombava in un silenzio tetro.
Dall’altra parte dell’interfono, Jane era in attesa di ordini e quei lunghi secondi la stavano facendo agitare più del dovuto. La donna continuava a sporgersi con discrezione per tenere d’occhio quelle due persone che passeggiavano avanti e indietro per l’atrio, parlottando tra di loro fra un mezzo sorriso e un cenno con la testa.
Shion Hayes chiuse gli occhi e iniziò a tamburellare le dita sul piano della scrivania. Poi, un ghigno poco rassicurante si formò sulle sue labbra. «Non ti preoccupare, Jane. Falli pure accomodare nella sala riunioni al piano di sopra e di' loro che li raggiungerò subito.»
Non appena chiuse la comunicazione con la segretaria, si girò di nuovo verso l’ampia vetrata dell’ufficio. Completamente sprofondato nella poltrona, avvicinò le mani alla bocca, intrecciando le dita e sfiorando le labbra strette e inespressive. Poi si concesse qualche respiro profondo, rimanendo a riflettere. Da molto tempo si aspettava che quei due si facessero vivi, ma non pensava arrivassero fin lì, nei suoi uffici di New York.

«Anne e Richard, i famigerati Taylor&Taylor! A cosa devo il discutibile onore di questa vostra visita?» li salutò, uscendo dall'ascensore privato e andando loro incontro a braccia aperte. Li aveva fatti attendere per almeno dieci minuti in quella grande sala riunioni, tutta in acciaio e vetro.
«Carissimo Shion!» rispose con altrettanta posa la donna. Gli si fece incontro a grandi passi; il rumore dei suoi tacchi risuonava sinistro nell’eco della grande sala vuota. «È da una vita che non ci vediamo!» esclamò con falsa cortesia, baciandolo su entrambe le guance, come un vecchio amico di famiglia. «Ci sei mancato moltissimo, almeno quanto il tuo sarcasmo.»
Anne lo squadrò da capo a piedi con la sua abituale aria di superiorità, com’era solita fare con i clienti che arrivavano nel suo studio.
«Non ne dubito affatto. Così come a me è mancato avere a che fare con voi», rispose tranquillo, ma con acido sarcasmo, Shion, mantenendo un’inossidabile compostezza e sicurezza. «E tu Richard, sempre a mandare avanti tua sorella, vero? Non ti sei ancora stancato di farti vedere senza palle?» si rivolse poi al più giovane dei gemelli.
Ricordava bene come quell’uomo fosse sempre stato tanto insicuro negli incontri formali, da rasentare il patetico, quanto invece risoluto e deciso, implacabile, in un’aula di tribunale.
«Suvvia, Shion, non ce l’avrai ancora con noi perché sei stato coinvolto nelle indagini della polizia, quasi trent’anni fa, vero? Lo sai anche tu che era solo prassi, considerato che eri molto legato a entrambi», intervenne di nuovo la donna.
«Cosa siete venuti a fare da queste parti?» domandò l’affarista, tagliando corto.
«Siamo qui per l’invito che ti abbiamo mandato. Non hai ricevuto la nostra e-mail?» disse Anne, fingendosi stupita dalla domanda. «Sei una persona importante, Shion; e sei un amico di lunga data, anche se purtroppo, in questi anni, il rapporto si è affievolito», continuò con falsa commozione la donna. «Ci è sembrato doveroso venire di persona, per rinnovarti l’invito per la serata dedicata a nostro padre, nonché tuo vecchio mentore e amico, per il suo compleanno.»
Anne Taylor si avvicinò a lui di qualche passo, con fascinose movenze e un sorriso accomodante, che forse, se Shion non avesse conosciuto la vera natura di quella donna, avrebbe anche potuto scambiare per sincero.
«Non bastava mandare l’invito per posta, o forse il servizio postale nazionale non è più affidabile come una volta?» ribatté con sarcasmo l’altro.
Proprio perché conosceva fin troppo bene di cos’era capace quella donna, Shion preferiva mantenere le distanze, perché Anne Taylor era come una mantide religiosa che non aspetta la fine dell’accoppiamento per divorare il maschio, ma attacca a tradimento e non si ferma finché dell’altro non è rimasto più nulla.
Si avvicinò al tavolo di cristallo e scostò la poltrona a capotavola, facendo poi segno ai due ospiti di raggiungerlo e accomodarsi.
«Shion, perché mai avremmo dovuto fare una cosa così impersonale con te? Lo sai, sei sempre stato uno di famiglia, sei come un fratello per noi e un figlio per nostro padre.» Anne si sedette sulla poltrona alla sua destra, accavallando le gambe e mettendole in bella mostra, sporgendosi in avanti con il busto e offrendo allo sguardo dell'uomo il suo generoso décolleté.
La donna aveva raggiunto ormai la soglia dei sessant’anni, ma nonostante ciò il suo fisico manteneva una straordinaria tonicità e un aspetto così giovanile da far invidia a molte star di Hollywood ben più giovani di lei.
«Nostro padre ci terrebbe davvero molto alla tua presenza e poi, interverrà anche il sindaco e molti esponenti di spicco di Boston. Considera quali vantaggiose opportunità potrebbero esserci per te e per i tuoi affari», continuò con una scintilla di superbia negli occhi.
«Ero convinto che il professor Taylor si fosse ritirato da tempo dalla vita pubblica, dopo che la sua carriera subì quel brusco declino», commentò Shion Hayes, fissando negli occhi la donna, l’unica vera interlocutrice. Il gemello, così com’era sempre stato per tutta la sua vita, era solo un parassita della sorella. «Quanto avete speso, in tempo e denaro, per ripulire la sua reputazione dalle voci di omicidio che erano circolate?» affondò il colpo, vedendo un sussulto nervoso da parte della donna.
«Shion, mi stupisco di te! Non credevo fossi una persona che dà retta alle chiacchiere maligne. Tu conosci bene nostro padre. Lui non sarebbe capace di un’azione tanto ignobile. Erano tutte illazioni prive di fondamento che lo hanno fatto soffrire enormemente, come uomo e come padre», ribatté lei, battendo la mano sul tavolo di cristallo, per sottolineare quanto fosse oltraggiata da tali insinuazioni: il grosso e prezioso anello che portava all’anulare destro fece un fastidioso rumore che risvegliò il fratello dal torpore della sua passività.
«Ha avuto un momento di difficoltà e i suoi colleghi gli hanno voltato le spalle, questo è vero, ma erano menzogne. Tutti noi siamo rimasti sconvolti dalla perdita di Emma, nostro padre più di tutti! Ne è quasi morto», intervenne Richard, con tono mesto e insicuro, guadagnandosi un'occhiataccia da parte della gemella. Se fossero stati soli, si sarebbe preso un sonoro ceffone per la sua inopportuna tempestività.
«Solo la sua?» domandò con tono indifferente Shion. «Immagino che non valesse la pena dispiacersi per la sorte di due figli bastardi», commentò subito dopo, dondolandosi un poco sulla poltrona.
«No, no! Certo che no! Come puoi pensare una cosa del genere?» si affrettò a dire Anne; ma a Shion Hayes non sfuggì quanto fosse in evidente difficoltà. «Non ci siamo mai arresi all’evidenza della loro morte, abbiamo continuato a cercarli per lungo tempo.»
«Soprattutto perché rappresentavano l’ultima opportunità di tramandare il nome della vostra famiglia, vero?» insinuò l’uomo. «Voi due non vi siete mai sposati, mi pare, troppo presi dalle vostre carriere. Tu, cara Anne, hai perso il treno e ora, alla tua età, non puoi più avere figli. Tuo fratello Richard preferisce guardare altro», e dicendo quelle parole fece ben intendere a cosa volesse alludere. «Mentre il vecchio JJ... beh, non ha avuto figli con nessuna delle mogli o amanti che si è fatto durante tutta la sua carriera politica. La grande dinastia dei Taylor, il sogno di vostro padre, morirà con voi.»
Calò un silenzio teso attorno a quel tavolo della grande sala riunioni, dopo le parole velenose di Shion. Gli sguardi di Anne Taylor e di Shion Hayes si incrociarono per lunghi secondi, in una sfida nella quale nessuno dei due voleva cedere. Poi, la suoneria del cellulare di Richard ruppe l'atmosfera. Con un gesto di scuse l'uomo si alzò e si allontanò di qualche passo. Rispose e parlottò a bassa voce, rispondendo a monosillabi al suo misterioso interlocutore. Il suo atteggiamento non sembrava cambiare molto, la voce e i gesti denotavano la sua indole debole. Dopo neanche un paio di minuti, chiuse la telefonata e tornò a sedere accanto alla gemella, con una strana eccitazione sul viso. Si avvicinò a lei e le riferì brevemente le notizie appena ricevute.
Shion aggrottò la fronte, gli parve che fosse qualcosa di grosso, delle novità che avrebbero potuto cambiare il rapporto di forza che si era instaurato in quella sala fra loro tre. La conferma gli venne dal sorriso vittorioso che si formò sul volto di Anne.
«Come ti stavo dicendo poc’anzi, non abbiamo mai smesso di cercarli. È vero, sono passati tanti anni, ma ancora adesso un gruppo di investigatori privati che lavora alle nostre dipendenze sta continuando a seguire ogni minima traccia», spiegò, ritrovando calma e sicurezza nella voce. «La telefonata che ci ha interrotti è venuta proprio da uno di questi investigatori che ci ha appena riferito che sono stati trovati nuovi indizi che ci fanno ben sperare.»
«Le mie felicitazioni», ribatté Shion, mantenendo un tono calmo nella voce e senza dare a vedere il lieve nervosismo che invece fremeva nel suo corpo. «Ora, se volete scusarmi, ho un’importante cena d’affari. Conoscete la strada, vero?» disse, alzandosi senza altro indugio e lasciando i due ospiti, non troppo graditi, a gioire da soli di quella loro piccola vittoria.

*****

«Buonasera, mia splendida Jane», la salutò con la sua abituale esuberanza Kanon, entrando nell'anticamera dell'ufficio del padre. «Un piccolo pensiero per te», le disse, sbattendo i suoi begli occhioni verdi e porgendole un vasetto di violette africane.
«Buonasera, Kanon», ricambiò la segretaria, distogliendosi dal suo lavoro. «Se sei venuto per tuo padre, dovrai attendere. Sono appena arrivate delle persone che dovevano parlargli con urgenza», riferì con tono serio e professionale, come se i timori di una manciata di minuti prima non li avesse mai provati.
«Ma io non ho nessun impegno con il grande capo! Sono qui solo per te, mia dolce Jane», disse lui, appoggiandosi alla scrivania e avvicinando il suo viso a quello della donna, per guardarla intensamente negli occhi.
La donna arrossì un poco, nonostante lo conoscesse da sempre gli faceva effetto trovarselo così vicino, ma riprese subito il controllo di sé. Spostò di lato il vasetto per liberare i documenti che stava leggendo, spazzò via con la mano qualche traccia di terriccio che vi era rimasta sopra e li ripose nell'ultimo cassetto della sua scrivania. Poi, controllò l'agenda degli impegni del suo capo.
«Davvero strano. Tuo padre non mi ha informata che il vostro appuntamento per cena fosse stato annullato», disse, facendo l'indifferente, ma notando con la coda dell’occhio come il giovane avesse fatto una smorfia.
«È una noiosissima cena con dei noiosissimi stranieri», biascicò il ragazzo, sedendosi su un angolo della scrivania e iniziando a giocherellare con il portapenne. «Scommetto che neanche conoscono la nostra lingua. Sarà uno strazio! Ma parliamo di cose più piacevoli: allora, quand’è che accetterai il mio invito?» le chiese, sottraendole la penna dalla mano e guardandola con occhi languidi.
«Quando avrai qualche anno di più e io qualcuno in meno, piccolo!» gli rispose lei con un sorriso materno sulle labbra. «E comunque, non credo che mio marito approverebbe, non trovi?» La donna si sporse un poco verso di lui e gli accarezzò la guancia. Poi, si riprese la penna e tornò al proprio lavoro.
«Perché le donne migliori sono già impegnate?» disse sconsolato Kanon, alzando gli occhi al cielo e sospirando con fare teatrale. «Jane, dolce Jane, scommetto che se ti invitasse mio fratello, non ci penseresti un secondo ad accettare, vero?»
Si alzò e si spostò di fronte alla scrivania, appogiandosi con i gomiti e sporgendosi verso di lei, tanto vicino al suo viso che lei rimase sorpresa per un attimo, arrossendo ancora una volta. Il suo sguardo era dolce tanto quanto quello di Saga, ma era facilmente riconoscibile quel velo di furbesca malizia che lo contraddistingueva dal gemello.
«Cosa te lo fa credere?»
«Il fatto che sia già accaduto», rispose lui con voce suadente. «E io che ti faccio una corte spietata da più di due anni, neanche sono preso in considerazione!» si disperò di nuovo.
Jane non riuscì a trattenere una risatina composta, nel vedere quanto impegno ed enfasi Kanon mettesse in quella recita. Era un meraviglioso diversivo per lei, in quel momento.
«Ma quella volta…» fece una pausa per richiamare quel ricordo lontano «avevate solo dieci anni. Tu continuavi a correre avanti e indietro come uno scalmanato, a prendere l’ascensore e mandarlo prima su e poi giù: eri la disperazione del servizio di vigilanza. Tuo fratello invece sedeva tranquillo, lì in fondo, proprio dov’è seduta ora quella ragazza.» Jane gliela indicò con un cenno della testa, facendolo voltare per un momento. Poi, gli fece un cenno di avvicinarsi di più. «Ma se proprio la vuoi sapere tutta, sono stata io a fargli la corte per convincerlo a uscire», confessò, sorridendogli. «Il miglior appuntamento della mia vita!» sospirò infine.
«Vorresti dirmi che il segreto per avere un appuntamento con te è starsene in un angolino a fare la bella statuina?» domandò Kanon, fingendosi scandalizzato.
«A proposito, come sta tuo fratello? È da tanto che non lo vedo», cambiò discorso la segretaria, non volendo approfondire l’altro argomento.
«Il solito», rispose Kanon, tornando al suo consueto modo di fare. «Si divide fra il Country Club e il lavoro da casa. Senti, perché questa estate non vieni da noi al lago? Una settimana al Club, tutto spesato!» le propose. Poi fece un cenno con la mano per zittire la donna da un probabile rifiuto, perché la conosceva bene. «Per te e tutta la tua famiglia», aggiunse. «Sareste nostri ospiti. Sono sicuro che farebbe piacere anche a Saga.»
«Kanon, sei tanto dolce, premuroso e divertente. Per me è una gioia averti qui a gironzolare nei momenti di pausa; così come mi piace lavorare con te e vederti nel tuo lato più professionale, quando sostituisci tuo padre, ma ho ancora molto lavoro da terminare, prima di tornare a casa da mio marito e dai miei figli.»
«Va bene, va bene, come non detto. Mi cacci via», disse avvilito. «Beh, a me è venuta fame! Quando il grande capo si libera digli che sono andato a mangiarmi una pizza al solito posto e che forse tornerò fra un’oretta.»
«E la cena di lavoro?»
«Magari ci farò un salto», rispose il giovane, facendo spallucce. «Alla prossima, dolce Jane», la salutò, incamminandosi per uscire.
«Kanon! Aspetta un attimo!» La segretaria lo raggiunse alla porta vetrata. «Non dovresti prendere le cose degli altri senza permesso. Rimetti a posto le violette di Betty, sai che quella povera ragazza ci tiene alle sue piantine: sono la sua unica consolazione.» Al di qua della soglia, Jane gli accarezzò il viso dolcemente, dopo avergli messo in mano il vasetto. Poi, guardandolo con tenerezza, gli diede un bacio appena accennato sulle labbra. «Grazie ugualmente del pensiero, adorabile canaglia.»
«Tuo marito cosa penserebbe di questo?»
«Per questa volta non gli diremo niente», replicò la donna, passandogli il pollice sulle labbra, per togliere una piccola traccia di rossetto. Poi si girò di scatto e corse di nuovo alla scrivania per rispondere al telefono.

Kanon uscì da lì con un’espressione sul volto non particolarmente soddisfatta, né annoiata. Nell’attraversare l'atrio, posò lo sguardo sulla giovane che era in attesa: se ne stava seduta composta, in disparte, quasi in un angolino nascosto.
«Ciao! Sei qui per un colloquio di lavoro? Sei una stagista?»
Notò subito quanto lei fosse giovane, così come quanto il suo corpo esile e con poche forme contrastasse con l’abito di alta sartoria dal taglio troppo adulto e la pochette “impegnativa” – anche se non vistosa – che teneva in mano, assieme a una lettera, forse di referenze. Sorrise nel pensare che probabilmente voleva far colpo sul grande capo.
«Credo che tu abbia sbagliato piano: la divisione delle risorse umane si trova tre piani più in basso e ormai a quest’ora non c'è più nessuno», le spiegò, mantenendo un tono gentile e affabile.
La ragazza teneva lo sguardo basso e un lieve rossore le ravvivò appena l’incarnato. «Mi avevano indirizzata a questo piano…» disse quasi in un bisbiglio, stringendo la borsetta al grembo, «ma forse potrei aver capito male.» Il suo accento tradiva un’origine straniera, probabilmente orientale, nonostante la predominanza dei tratti caucasici del viso.
«Sicuramente ti avranno dato un’informazione errata», commentò lui. «Senti, io sto uscendo. Devo…» Kanon le mostrò la piantina di violette che teneva in mano. «Devo riportarla alla postazione della centralinista, prima che qualcuno se ne accorga. Se vuoi ti posso accompagnare giù e vedere se posso aiutarti a risolvere il disguido. Anzi, visto che è anche ora di cena, avevo deciso prendermi una pizza; che ne diresti di venire con me? Offro io, naturalmente!» le propose.
Nel silenzio di quell’atrio si sentì un sommesso gorgoglio provenire dallo stomaco della ragazza. Era stato così imbarazzante per lei che la fece irrigidire e chiudere ancora di più a riccio.
«La ringrazio, signore, ma sto attendendo delle persone che dovrebbero venire a prendermi fra poco», rispose; ma lo fece in modo troppo cerimonioso, per due ragazzi che stavano conversando.
«Guarda che non mordo mica!» ribatté lui. Si accovacciò di fronte a lei e le prese la mano, provando a distoglierla dal suo riserbo. «Ci metteremo una mezz’oretta, un’ora al massimo. Poi ti riporterò qui, in questo stesso piano e ti lascerò sedere su questa stessa sedia, così nessuno si accorgerà che ti sei mossa. Te lo prometto», la rassicurò.
Quando lei alzò un poco lo sguardo, lui le fece un sorriso così meraviglioso che arrossì in modo ancora più vistoso, colpita anche dall’espressività che quegli occhi così verdi imprimevano a quel viso fresco e dolce. Non vi era abituata, sempre circondata da volti seri, quasi inespressivi.
«Dai, per favore, sono già stato rifiutato una volta, questa sera; non darmi il colpo di grazia», la supplicò.
Si tirò su e, tenendole ancora la mano, la fece alzare, trascinandola senza alcuno sforzo fuori da quegli uffici.

*****

Shion Hayes si affacciò dalla porta del suo ufficio con aria meditabinda, ma che tradiva il nervosismo che aveva provato durante l'incontro fuori programma con i gemelli Taylor. Sostò per qualche secondo lì, in piedi, sulla soglia del suo ufficio, scrutando l'ambiente deserto, a parte la presenza di Jane, mentre la sua segretaria completava la riscrittura di una lettera.
«Mio figlio è già passato?» domandò.
«È stato qui fino a qualche minuto fa, signore», rispose Jane, togliendosi gli occhiali e girandosi verso il suo capo. «Ha detto che andava da Matt per una pizza.»
«È quasi ammirevole il suo appetito. A me invece si è chiuso lo stomaco», borbottò, facendo qualche passo verso la scrivania della sua segretaria, ora più rilassato. «E gli ospiti che sto aspettando?» inquisì di nuovo, controllando l’ora.
«Non si è visto ancora nessuno, a parte una ragazzina che è rimasta in disparte per una mezz’ora.» Jane si sporse e notò che la giovane non c'era più. «Ma a quanto vedo se n’è andata. Forse è uscita assieme a suo figlio. Ah, mr Hayes, ha telefonato un certo mr Tatsumi. Non parlava molto bene l’inglese, però se ho capito bene… ha detto che sarebbe stato lui l'accompagnatore dei suoi ospiti per l’appuntamento della cena, ma che sarebbero arrivati in ritardo, forse attorno alle nove e trenta, a causa di un imprevisto.»
L'uomo fece una smorfia.
Per Jane era difficile capire cosa lo contrariasse di più, se la notizia di Kanon a spasso per la città con una ragazza, oppure il ritardo di quell’incontro d’affari. «Vuole che chiami il ristorante per spostare la prenotazione?» domandò la donna, alzandosi e recuperando dalla stampante i documenti che aveva appena terminato di scrivere.
«Grazie, Jane», rispose lui, dopo qualche secondo di silenzio. «Poi puoi andare. Ci vediamo lunedì mattina. Buon weekend.»

*****

Cora era stata sommersa da scartoffie, polvere e ragnatele per l’intera settimana. Più ordinava e archiviava, più spuntava fuori lavoro. Per sua fortuna, quelle giornate erano passate in fretta e ancora più in fretta stava finendo anche quel venerdì. Senza rendersene conto mancavano solo dieci minuti al termine del suo orario: era stata talmente affascinata dalla lettura di un vecchio caso che risaliva agli anni ’50 che, se non avesse alzato la testa per sgranchirsi un momento il collo, non avrebbe notato l'orologio appeso al muro e probabilmente sarebbe rimasta lì fino a notte fonda.
Quel dossier che aveva tenuto in mano per quasi tutto il pomeriggio era stata una lettura molto interessante nella sua particolarità: si trattava di un caso di raggiro e truffa ai danni di una giovane coppia di sposini novelli che, di ritorno dal viaggio di nozze, si erano ritrovati il loro piccolo appartamento occupato da un’altra famiglia che vantava gli stessi diritti di proprietà sull’immobile. Il responsabile del reato era risultato essere l’agente immobiliare a cui la coppia si era rivolta per l’acquisto della casa, così come altre coppie o famiglie avevano fatto per altre case: tutte poi imbrogliate con lo stesso metodo. Per qualche altro minuto, Cora si soffermò sul materiale fotografico presente nella cartelletta: varie immagini in bianco e nero dell’appartamento e una foto dei due sposini in abito da cerimonia. Una polaroid istantanea, scattata subito dopo il matrimonio e praticamente impossibile da contraffare, soprattutto per quei tempi, che avvalorava le dichiarazioni delle vittime truffate.
Ancora con quelle immagini nella testa, si alzò dalla sua scrivania per riporre il fascicolo. Percorse il corridoio centrale della “gabbia” arrivando fino in fondo, dove erano posizionati gli schedari cartacei. Dovette scartabellare un poco prima di riuscire a inserire l’incartamento al suo posto. Quando poi, tutta soddisfatta, richiuse il cassetto, le sembrò di sentire la suoneria del cellulare. Riattraversò di corsa il corridoio e tornò alla scrivania. Tutta ansimante, frugò rapidamente nella borsa. Arrossì come una scolaretta nel leggere il messaggio appena arrivato. Si sedette e compose una risposta, senza smettere un istante di sorridere. Poi controllò di nuovo l’ora: mancavano meno di cinque minuti alle sette. Si affrettò a prendere le sue cose e uscì.
A pochi passi dal portone si fermò, dubbiosa sul modo in cui si stava comportando, pensando che forse non era il caso di mostrarsi così impaziente. Fece qualche passo per tornare indietro, ma si fermò ancora una volta, voltandosi a fissare l’uscita, mordendosi l’unghia del pollice. Si concesse qualche respiro per calmarsi e poi varcò il portone a grandi passi, perché se fosse rimasta lì ancora un po’ a pensare, avrebbe dovuto fare una gran corsa per riuscire a prendere l’autobus per tornare a casa.
«Ehi! Attento a dove cammini!» disse un po' scocciata, dopo essersi sentita urtare. Stava camminando con lo sguardo basso perché intenta a ritirare il badge nella borsa.
«Abbiamo la testa fra le nuvole?» rispose una voce dal tono gioviale.
Quando Cora alzò gli occhi per vedere chi le avesse rivolto quelle parole, rimase a bocca aperta nel trovare il ragazzo, tutto sorridente, di fronte a sé.
«Saga? Ma… mi hai appena scritto che mi stavi aspettando fuori dalla porta di casa! Come mai invece sei qui? E... come facevi a sapere dove lavoro?»
«Volevo farti una sorpresa», fu la risposta spontanea dell’altro. «Mi piacerebbe fare una passeggiata con te prima di riaccompagnarti a casa, per parlare un po’. Per capire come avevi preso la mia intromissione e… sapere se ora va meglio», le disse, facendosi più serio.
Ci fu qualche attimo di silenzio imbarazzato. Erano entrambi ancora fermi in mezzo al marciapiede, poco oltre il portone d’ingresso della palazzina dell'agenzia investigativa.
Cora lo abbracciò di slancio, stringendosi a lui e baciandolo sulla bocca, prima di ritrarsi rossa in viso per il gesto appena compiuto. Non aveva capito più nulla, dopo aver visto quel sorriso dolce sul viso del ragazzo. Si era persino dimenticata dello scambio di messaggi avvenuto pochi giorni prima, nel quale lo aveva rimproverato.
«Devo pensare che sei felice di vedermi?» disse, anche lui in lieve imbarazzo, ma visibilmente felice per quella sorta di “assalto” ricevuto.
«Mi dispiace, non avrei dovuto», cercò di giustificarsi Cora, abbassando lo sguardo.
«A me ha fatto piacere», la rassicurò Saga.
«Il fatto è che non sono abituata a tutte queste attenzioni e premure. Con Chris di solito ero io che proponevo per fare certe cose, o mi preoccupavo per risolvere i problemi per le piccole riparazioni. E ora, tutto mi arriva in questo modo così inaspettato che mi sento disorientata.»
«Chris?» chiese Saga, guardandola accigliato.
«È il mio… è un caro amico, che ho lasciato a Philadelphia», gli spiegò lei, provando a mascherare quell’innocente bugia.
«Hai fatto bene!» esclamò il giovane, con una punta di gelosia nella voce, ma tornando subito sorridente.
La guardò negli occhi e le accarezzò la guancia. Poi le passò la mano dietro la nuca e si avvicinò a lei appoggiando la fronte alla sua, indugiando in quella posizione per qualche secondo, ricambiando infine il bacio di prima, ma rendendolo più duraturo e passionale. Sentì le braccia di Cora cingergli la schiena e stringersi ancora una volta a lui.
«Ahi!» esclamò in un gemito sommesso, liberandosi dall’abbraccio della ragazza, facendola preoccupare per quell’interruzione improvvisa. «Aspetta, così lo schiacciamo», disse, toccandosi il fianco.
Cora lo squadrò sospettosa: quel ragazzo si stava comportando in modo misterioso; e come se non bastasse, teneva la mano all’interno del cappotto.
«Cosa stai nascondendo?» gli chiese, stringendo la mano alla tracolla della borsa.
Saga le sorrise, continuando a muoversi in modo goffo. Dopo un altro breve lamento, dall'apertura del suo cappotto spuntò un'ombra nera che subito sparì di nuovo al suo interno. Poi, si intravide uno strano movimento sotto la stoffa, che fece ridere il ragazzo.
«Saga?»
«Ahi!» disse ancora una volta Saga, contorcendosi un poco sul fianco. «Credo che non gradisca più la sistemazione», confessò, mentre una codina nera e sinuosa spuntava dal cappotto, sbattendo spazientita sul suo braccio. Con movimenti lenti e accorti, Saga estrasse dal suo nascondiglio il piccolo ospite che portava con sé.
«E lui chi è? La tua nuova fiamma, per caso?» chiese Cora, con una smorfia sul viso, incrociando le braccia al petto e fissando il ragazzo con uno sguardo molto serio.
«Non ti dispiace dividermi con qualcun’altro, vero?» disse lui, mentre avvicinava il micio al viso e strofinava una guancia sulla sua testolina, sorridendo angelico.
«Beh, tutto sommato un gatto non è un granché come rivale», considerò lei, avvicinandosi e accarezzando, con cautela, il pelo della bestiola.
«Hai paura dei gatti o sei forse allergica?» le chiese, nel vedere quanta accortezza la ragazza stesse usando. Non si era fermato a riflettere su quella eventualità e ora se ne rammaricava. Come avrebbe fatto se lei fosse stata allergica?
«Certo che no!» rispose Cora. Non credeva di aver dato quell’impressione. «Però, ecco... non ho mai avuto davvero a che fare con degli animali. Cioè, sì… avevo un cane da piccola, ma preferivo tenerlo a distanza, non mi fidavo troppo. Era mio padre che se ne occupava. Io mi limitavo a qualche carezza e una spazzolata, ma sempre quando c’era lui presente», gli raccontò, con un certo imbarazzo.
«Meno male…» mormorò Saga, tirando un sospiro di sollievo. Le prese la mano e si avviò lungo il marciapiede, senza badare in quale direzione stessero andando.
Durante il tragitto, lei continuava ad accarezzare quella pelliccia morbida e lucida e, a ogni attimo che passava, complice la rassicurante presenza del ragazzo, si sentiva sempre più sicura.
«Lo vuoi tenere un po’ in braccio?» le propose Saga, vedendo come sia lei che il gattino fra le sue mani fossero più rilassati; ricevette però un cenno negativo da parte della ragazza.
«È un maschio o una femmina?»
«Non lo so, non sono stato così indiscreto da controllare.»
Si fermò un attimo in mezzo al marciapiede e cambiò la posizione dell’animale, passandogli una mano dietro la schiena, verso il basso, mentre con l’altra gli teneva bloccate le zampine anteriori, mostrandolo di pancia a Cora. «Allora, che cos’è?» chiese curioso.
Cora scosse la testa. «Credo che non funzionerà fra di noi!» sentenziò la giovane, verificando con evidente disappunto che si trattava di una femmina, sfidando con uno sguardo tagliente quella piccola palla di pelo nera che faceva delle fusa spudorate fra le braccia di Saga.
«Davvero?» disse lui, incredulo e un po’ deluso, sospirando infine sconsolato. Abbassò lo sguardo sull’animale, poi lo spostò su Cora che continuava a fissare l’intrusa, e ritornò nuovamente sulla gattina.
«Mi piaci molto, Cora, sei una brava ragazza», le disse, prendendole la mano e accarezzandone il dorso col pollice. «Apprezzo che tu non voglia intrometterti fra di noi. Addio!»
Il volto del giovane era rilassato ma al tempo stesso rattristato, mentre si congedava dalla ragazza. Fece due coccole alla gattina e riprese a camminare, lasciando Cora lì, sul posto.
«Cosa?» balbettò la giovane, rimasta completamente di sasso. Lo vide allontanarsi, parlottando con l’animale che teneva fra le mani e accarezzandolo con affetto. Per un momento le mancò il respiro e si sentì pervadere da uno strano senso di umiliazione. Poi, la sua parte razionale le fece capire che quel sentimento non aveva motivo di esistere. Lo raggiunse e, a testa bassa, proprio come una bimba offesa, lo tirò per la stoffa del cappotto.
Saga si sforzò di fare l’indifferente, ma a stento riuscì a trattenere le risate. Si voltò verso di lei e, quando vide il suo viso ancora imbronciato, si avvicinò e le rubò un bacio.
«È stato uno scherzo di pessimo gusto, il tuo. Scaricata per un gatto!» disse lei, riprendendo a camminare.
Il ragazzo passò la gattina nell’altra mano e poi afferrò la mano di Cora. Se la teneva stretta, mentre passeggiavano per le vie di Boston, soffermandosi di tanto in tanto davanti a qualche vetrina.
«Che ci facciamo qui?» domandò lei, vedendo che il ragazzo era particolarmente interessato a un piccolo negozio di animali, davanti al quale erano ormai fermi da almeno cinque minuti.
«Non la posso portare in mano per tutta la città. Poverina, alla lunga si potrebbe sentire scomoda e agitarsi; e poi, il tuo gatto avrà bisogno di un po’ di cose, non ti pare? E dove voglio portarti dopo, non accettano animali se non sono dentro un trasportino», le rispose con tono cordiale ma allo stesso tempo distratto, continuando a fissare gli oggetti esposti in vetrina. Così facendo però, non si accorse dell'espressione stupita sul viso di Cora.
Dopo qualche altro momento, annuì convinto ed entrò nel negozio, trascinandosi dietro la giovane.

*****

Il tempo in quel negozio, fra un commento e una chiacchiera, trascorse in fretta e in modo piacevole. Quando ne uscirono, carichi di sacchetti con l’indispensabile per la bestiola, era ormai troppo tardi per proseguire con i programmi che Saga aveva stabilito. Il ragazzo fermò un taxi e raggiunsero l’appartamento di Cora. La gattina non ci aveva messo molto a iniziare a dare i primi segni di insofferenza, agitandosi e facendo sentire le unghiette aguzze sulla stoffa del cuscino del trasportino, miagolando anche a gran voce.
Non appena furono entrati, Cora la lasciò libera e lei subito zampettò rapida verso il salotto.
«Direi che si sente già a suo agio», commentò Saga, posando gli acquisti un po’ sul tavolino e un po’ a terra, mentre la padrona di casa si infilava in camera da letto per lasciare la sua tracolla e il cappotto.
Come un bambino davanti ai regali di Natale, il giovane si sedette sul pavimento e iniziò a tirare fuori gli acquisti dai sacchetti: le scatolette del cibo, che aveva messo l'una sull'altra a mo' di piramide, la ciotola per le crocchette e quella per l’acqua, con piccoli disegni in rilievo di tante teste di gatto stilizzate, una a fianco all'altra poco più in là; si rigirò fra le mani la paletta per la lettiera e infine, si distrasse con uno dei tanti giochini che avevano comprato. Quando alzò di nuovo lo sguardo, ridestatosi nell’intravedere un’ombra passargli avanti e indietro, notò Cora, in piedi accanto a lui, con due piatti in mano, che lo osservava sorridendo. Allora, radunò alla bell'e meglio tutte quelle cose per farle posto.
Avevano scostato il tavolino ed erano rimasti accoccolati sul pavimento, dopo aver consumato quella cena veloce, che aveva il sapore di un pic-nic da innamorati. Saga era semisdraiato e con le spalle appoggiate al divano, intento a solleticare il fianco della ragazza.
«Perché fai tutte queste cose così inaspettate e inusuali?» chiese Cora, agitando il piumino multicolore davanti al musetto della gattina.
«Perché mi sembrava una cosa carina», rispose lui; fece un respiro e sentì la schiena iniziare a dolergli un poco.
«Probabilmente le ragazze che frequenti non prenderebbero mai in considerazione un gesto come questo, a meno che il regalo in questione non sia un animale di razza purissima e con un pedigree lungo un chilometro», commentò Cora posando lo sguardo sull’oggetto del discorso che ora, stanca di giocare, si era avvicinata alle gambe di Saga, sbadigliando e stiracchiandosi, prima di arrampicarcisi sopra e acciambellarsi comoda.
«Ne avresti preferita una di razza?» chiese lui, accarezzando il morbido pelo corto della gattina che a quel tocco si era messa a fare le fusa.
«Per essere alla moda e poterla sfoggiare durante le passeggiate con improbabili cappottini fluorescenti griffati e collari tempestati di strass? O magari riempirla di fiocchetti e nastrini fino a trasformarla in un pon pon? Poverina, non le farei mai subire una tortura del genere. No, lei è bellissima così: semplice, comune e naturale.»
Cora si alzò e raccolse i piatti portandoli in cucina e lasciandoli sul piano di lavoro. Per un momento si sporse dal muretto e guardò Saga, ancora impegnato a coccolare quel batuffolo di pelo: le pareva incredibile pensare che un ricco figlio di papà, abituato al lusso e alla cucina di gran classe, potesse comportarsi in modo così normale e divertirsi con piccole cose. Forse quei due si erano sbagliati; forse era solo una coincidenza, una omonimia che aveva fatto nascere l’equivoco a suo vantaggio. Del resto, il nome Hayes era molto comune. Ma se invece fossero davvero la stessa persona?
Si appoggiò coi gomiti all’angolo del bancone da colazione, sorridendo nel vederlo così a suo agio. Quella sera si sentiva particolarmente bene nel condividerla con quel ragazzo. Era bello condividere la vita con qualcun altro.
«Non ho birra in casa, né altri tipi di alcolici; e purtroppo ho terminato anche il tè freddo. Dovrai accontentarti di un po’ d’acqua», gli disse, aprendo il frigorifero.
«Va bene l'acqua», rispose Saga.
La ragazza ritornò in salotto dopo un paio di minuti, portando con sé due grossi bicchieri d'acqua fresca. Si sedette sul divano e gli porse il suo, che Saga bevve praticamente in un unico sorso, allungandosi e posandolo sul tavolino. Poi, il giovane si girò verso di lei – facendo involontariamente cadere la gattina – e si mise in ginocchio, posando la testa sulle sue gambe, rilassandosi alle carezze di quelle mani che gli stavano pettinando i capelli. Si sentiva bene.
«Non so ancora praticamente nulla di te, se non che sei troppo dolce e premuroso con una ragazza strana, lunatica e gelosa come me.»
Ancora ripensava al perché quel giovane dall'aspetto da principe azzurro fosse lì con lei e per quale strana combinazione voluta dal destino si fossero incontrati. Forse era la novità di un ambiente tanto diverso dal suo che lo attirava. Cora non avrebbe soddisfatto quella sua curiosità, per non rompere la magia di quel momento e per non negare un futuro alle sue speranze. L'istinto le diceva che lui era sincero e questo le bastava.
«Sono così come tu mi hai conosciuto», le disse lui con semplicità, alzando la testa e guardandola negli occhi.
«Io ti ho conosciuto che sembravi un barbone e rovistavi nei cassonetti», gli ricordò lei.
«È vero, mi hai visto in un momento un po' particolare», rispose lui, abbassando lo sguardo per l'imbarazzo. «Ma non lo faccio mica tutti i giorni!» si affrettò a precisare. Lo fece con una tale enfasi che si sentì un bambino.
«E allora perché lo stavi facendo?»
«Avevo notato dei libri e li volevo recuperare. Sai, è un mio piccolo hobby», spiegò. E questa volta senza l'ombra di alcun imbarazzo. Si sporse verso di lei e le catturò una ciocca di capelli, tirandola leggermente per farla avvicinare. «Uno di questi giorni, se farai la brava, potrei anche mostrartelo», le disse, con quel suo sorriso accattivante.
Le prese il viso fra le mani, guardandola fissa negli occhi, e iniziò a baciarla, quando all'improvviso sentì delle unghiette appuntite pizzicargli la gamba quasi all'altezza del ginocchio. Si staccò a malincuore da lei e si chinò, sorridendo, per prendere la bestiola che, indispettita, continuava a grattare per attirare la sua attenzione.
«Sarà una rivale pericolosa», brontolò Cora, quando lui la mise sul divano accanto a lei, osservando come già stesse iniziando a intromettersi fra loro due. «Dove l’hai trovata questa peste?»
«L’ho trovata in un vicolo, sulla Jefferson Avenue, mentre venivo a prenderti. Era stata abbandonata dentro uno scatolone», spiegò Saga, facendo giocare la gattina col suo dito e stuzzicandola fino a farla ribaltare a pancia in su.
«Allora il tuo è proprio un vizio!» esclamò Cora, riconquistando l’attenzione del ragazzo ai suoi piedi e riprendendo a baciarlo. «Vieni sul divano», gli sussurrò sulle labbra. Prese la gattina e la posò di nuovo a terra, poi fece posto al ragazzo.
«Raccontami ancora qualcosa sui gemelli», le chiese Saga, sistemandosi meglio accanto a lei, posandole una mano sulla coscia e iniziando ad accarezzarla lentamente.
«Gemelli?» domandò Cora, sorpresa.
«Sì, i bambini scomparsi.»
«Ma non ho mai detto che fossero gemelli?»
«Davvero? Che strano… mi era parso di capire così», commentò lui con lieve indifferenza. «Dai, parlamene ancora», la incoraggiò.
«Non c’è molto altro, a dire il vero. Mio padre non ne parlava volentieri di quel caso e quando lo faceva, aspettava sempre che io andassi a letto, perché lo rattristava troppo. Come ti ho già detto, era diventata una questione personale», Cora fece un sospiro e poco dopo un respiro profondo, inspirando al tempo stesso il profumo del ragazzo. «Credo di averlo sentito piangere, una volta», aggiunse con voce triste.
«Se rattrista anche te, non te lo chiederò più.»
La giovane chiuse gli occhi e si concentrò sul respiro di Saga e il battito del suo cuore. Sentì la punta delle sue dita toccarla delicatamente sul viso, percorrendo la linea della mascella, poi il mento, risalendo sulle labbra, ridisegnandone i contorni e infine seguire la forma del naso, in un crescente solletico che stava per sfociare in una risata, subito soffocata da un bacio passionale.

*****

Era sopra di lei, la sua mano le avvolgeva il seno e il viso era nascosto nell’incavo del suo collo, con la bocca che aveva già esplorato e assaggiato ogni centimetro di pelle. I loro respiri si rincorrevano e i battiti dei loro cuori battevano all’unisono.
Cora aveva allargato un poco le gambe per farlo accomodare meglio, cingendogli i fianchi, ansimando per l’eccitazione.
Saga la guardò per un momento, mentre riprendeva fiato, le diede un morso leggero, appena accennato, sul mento, poi un altro sul labbro. Osservò il viso imporporato della giovane e i suoi occhi languidi che gli stavano esprimendo il desiderio di continuare. Con la mano si portò all’allacciatura dei jeans e liberò il primo bottone. Le scoprì la pancia e le accarezzò la pelle, risalendo di nuovo verso i seni. La guardò, estasiato. Si tirò su per permettere a Cora di sbottonargli la camicia; i loro sguardi non si persero per un solo istante.
La gattina, rimasta in disparte, si era messa a frugare in uno dei sacchetti a terra, trovando il giochino con il sonaglio. Lo aveva colpito più e più volte, muovendosi di scatto, prima di stancarsi e acciambellarsi all'interno del sacchetto e sonnecchiare.
Saga sorrise nel distrarsi per vederla, poi tornò a prestare tutta la sua attenzione alla ragazza con cui voleva fare l'amore. Accennò a baciarla, ma questa volta, a interromperli, fu qualcuno che bussava alla porta, mettendosi anche a fischiettare.
«Uffa!» sbuffò Cora. «Chi è adesso a scocciare?» Non aspettava nessuno, non a quell’ora della sera, almeno.
«Vuoi che vada io a vedere?» si offrì il ragazzo, alzandosi dal divano e risistemandosi alla meglio la camicia.
«Credo di sapere chi possa essere: nonno Dohko, l’amministratore del condominio! È l’unico al mondo che si metterebbe a fischiettare in quel modo stonato, per i pianerottoli.»
Permise a Saga di aiutarla ad alzarsi e si riabbottonò in fretta i pantaloni, mentre fuori dall’appartamento il vecchio continuava a bussare.
«Arrivo, arrivo, Dohko!» disse ad alta voce, per farsi sentire dallo scocciatore. «Vuoi buttar giù la porta?» Si soffermò un attimo davanti alla porta d'ingresso e, dopo un bel respiro profondo, si sforzò di fare un sorriso. «Buonasera Dohko, cosa ti porta qui?»
«Buonasera, Caroline!» salutò l’amministratore, con il suo solito sorriso da venditore sul volto grinzoso. «Ultimamente non passi più al ristorante, neanche per un saluto veloce. In queste sere ti ho vista rientrare tardi. Ho immaginato che non avessi voglia di metterti a cucinare, quindi ti ho portato qualcosa di buono dal ristorante: dei ravioli al vapore e qualche involtino primavera. Ho preferito rimanere su qualcosa di semplice, che piace a tutti. Ti ho messo anche una porzione abbondante di zuppa za zai, da assaggiare! Spero ti piaccia il piccante?» le disse, sventolandole davanti un sacchetto di carta bianco con il logo del ristorante Fiore di Luna stampato in rosso.
Senza pensarci due volte, Dohko colse al volo l’occasione che la titubanza di Cora gli stava offrendo e si intrufolò nell’appartamento. Trotterellò felice fino al salotto, ma subito notò una presenza a lui sgradita.
«Non sono ammesse bestiacce pelose in questo condominio!» le disse, con voce stridula, vedendola seduta sul bracciolo del divano intenta a battere la zampina su una delle grandi foglie del filodendro lì accanto.
«Ma è innocua, che problemi può dare una cosina così piccola?» intervenne una voce maschile dalla cucina che fece sussultare il vecchietto.
«Oh, mi dispiace, Caroline. Non sapevo avessi ospiti», si scusò Dohko, notando solo in quel momento che la giovane aveva i capelli un po' arruffati e i vestiti non proprio in ordine.
Posò il sacchetto sul bancone e si allungò per vedere e salutare l’ospite, ancora celato nella semioscurità della cucina. Anche il salotto in quel momento era poco illuminato. L’unica fonte di luce era la lampada a stelo lungo posta nell’angolo più lontano del salotto, oltre il divano, che diffondeva una luminosità soffusa, rendendo l’ambiente intimo e riposante.
Sporgendosi a sua volta e mostrandosi alla luce, Saga strinse la mano dell’anziano cinese, sorridendogli educatamente. Non fece in tempo a presentarsi, che l’uomo impallidì, sottraendosi a quella stretta. Urtò il sacchetto che aveva appoggiato sul bancone della colazione e lo fece cadere a terra.
«Tu…» farfugliò con voce tremula, puntandogli il dito ossuto contro. «Tu sei morto! Sei uno spettro! Stai lontano da me!» gridò, portandosi le mani al petto e stringendo forte l’ishang di cotone, fin quasi a strapparne la stoffa. «Perché sei qui? Perché sei tornato a tormentarmi? No! Non ti avvicinare, non ti avvicinare!» continuò a gridare, con gli occhi spiritati e la voce piena di terrore, nel vedere il viso del ragazzo. Iniziò ad ansimare, accasciandosi lentamente a terra, vicino alla piccola pozza di zuppa che si era rovesciata.
«Ehi, Dohko, che ti succede?» chiese Cora. Subito si precipitò a soccorrerlo e, grazie anche all'aiuto di Saga, riuscì a farlo sdraiare sul divano. «Saga, per favore, porta un bicchiere d’acqua e uno strofinaccio bagnato!»
«Nella stessa casa… nella stessa casa!» farfugliò in un delirio il cinese. «Questa è una punizione celeste.»
Continuò a parlottare convulsamente, in un misto di cinese e inglese, per diversi minuti. Quasi sempre erano frasi incomprensibili. Poi, lentamente, si riprese dallo choc, nonostante i suoi occhi fossero lucidi e la sua mente ancora confusa.
«Va meglio?» chiese Cora.
«Com’è possibile?» mormorò il vecchio, provando a tirarsi su.
Fissò di nuovo lo sguardo sul giovane davanti a lui, che ora gli sedeva di fronte, sul tavolino, e non disse nulla. Non poteva crederci. Il cuore batteva furioso nel petto: gli faceva male.
Quel bel ragazzo biondo, dai capelli lunghi e mossi, con qualche ciuffo capriccioso che gli ricadeva in avanti a coprire la fronte e gli occhi smeraldini, limpidi e sinceri, era così rassomigliante. Persino quell’espressione di tranquillità mista a preoccupazione, gli era familiare. Dopo aver bevuto qualche sorso d’acqua, Dohko riprese a respirare in modo più normale. Il vecchio avrebbe voluto allungare la mano per toccarlo, per dissolvere quel fantasma. Non poteva accettare di vederlo davanti ai suoi occhi. Forse era solo la vecchiaia e la suggestione provocata da quell’appartamento che, anche se rinnovato completamente, portava in sé segreti che dovevano rimanere tali.
Si passò la mano ossuta sulla fronte sudata. Forse era colpa della poca luce che glielo faceva scambiare per qualcun altro, forse era la stachezza per una lunga giornata: lui non era più un giovincello e doveva prendersela con più calma.
Si coprì il volto con le mani, inspirando profondamente, e provò ad alzarsi.
«No, non ti alzare, Dohko» gli disse Cora, sorreggendolo. «Mi hai fatto prendere uno spavento! Ho pensato che ti fosse venuto un infarto. Ma cosa ti è preso così all’improvviso?» chiese preoccupata, cercando di far sedere nuovamente il cinese.
«Devo uscire di qui e tu…» sussurrò il vecchio, con il viso sempre più pallido e le mani che tremavano. Posò lo sguardo su Saga e di nuovo si sentì mancare, ma tenne duro. «Tu devi andartene da qui! Non voglio guai, non voglio altre complicazioni! Non mi potete costringere di nuovo… non mi metterete in mezzo un’altra volta!» alzò la voce. Si liberò dell’aiuto della ragazza e scattò in piedi come se avesse ritrovato all'improvviso le forze. «Quarantotto ore! Hai quarantotto ore per liberare l’appartamento e andartene! E non mi importa cosa dirà Burton!» le disse, agitandole il dito contro.
Dopo aver lanciato quell’ultimatum, scandendo bene ogni singola parola, spalancò con rabbia la porta d'ingresso dell'appartamento e se ne andò.
«Cosa? Ma... perché? Cosa ho fatto di male, Dohko? Perché ora mi stai cacciando?» Cora lo seguì fino all'inizio delle scale, continuando a chiedere spiegazioni che il vecchio invece non sembrava affatto intenzionato a darle. «Non erano questi gli accordi Dohko, non erano questi!» gridò infine lei, con voce disperata. All’improvviso sentì le gambe molli e gli occhi bruciare.
«Gli accordi non prevedevano questa persecuzione!» urlò a sua volta Dohko.

Quando Cora rientrò nell’appartamento era ancora visibilmente frastornata. Non si capacitava del perché fosse successo tutto così all’improvviso. Si appoggiò con la schiena alla porta d’ingresso e alzò lo sguardo su Saga, fermo sulla soglia del salotto, che la osservava abbozzando un sorriso. E in quel momento i suoi occhi si riempirono di lacrime.
«Perché sconvolgi la mia vita in questo modo? Nel bene e nel male… perché quando ci sei tu mi succedono queste cose?» disse, respingendolo e richiudendosi in camera da letto.
«No, aspetta, non fare così», cercò di fermarla Saga, precipitandosi dentro la stanza subito dopo di lei: questa volta non si era lasciato intimorire, né frenare da quella porta chiusa.
Titubò un attimo, nel non trovarla sul letto. Poi, sentì dei vaghi singhiozzi provenire dalla cabina armadio, dove l'anta era socchiusa. «Anch’io da piccolo qualche volta mi nascondevo nell’armadio», disse, affacciandosi in quell'angusto angolo, abbozzando un sorriso. La vide seduta per terra, con le ginocchia raccolte al petto, nascosta in mezzo agli abiti appesi. «Rimanere seduta qui dentro non risolverà la situazione», le disse, con tutto il tatto possibile, accovacciandosi di fronte a lei.
«Senza una casa… così, di punto in bianco. Sono senza una casa… ma cosa ho fatto di sbagliato? Quarantotto ore… come troverò una nuova sistemazione in così poco tempo? E poi, perché? Perché è successo?»
Saga l'accarezzò sulla testa. Rimase lì dentro con lei per qualche minuto; poi, prendendole le mani, la issò e la fece uscire dall'armadio, portandola sul letto, sedendole accanto.
«Vado a parlarci io. Proverò a farlo ragionare», le disse dolcemente, asciugandole le lacrime con il pollice.
«Che importa ormai?» ribatté lei, tirando su con il naso.
«Ti vuoi arrendere così? Vuoi accettare senza nemmeno tentare di sapere perché ti sta cacciando in questo modo? Credo che sia illegale buttare fuori una persona dalla propria casa, almeno senza un preavviso adeguato», le disse lui, per cercare di convincerla a non arrendersi senza provare almeno a lottare.
«Non ho firmato alcun contratto quando sono venuta ad abitare qui; non ho alcun diritto di oppormi. Quel vecchio mi ha dato questa casa come favore personale verso lo zio Phil. Sapevo che sarebbe stata una sistemazione temporanea, volevo cercarmi qualcosa di meglio, di più grande, però... non mi aspettavo di dovermene andare così presto. Non sono pronta», singhiozzò lei, coprendosi il volto con le mani.
«Allora troveremo una soluzione!» esclamò Saga, prendendole di nuovo le mani e guardandola con determinazione.
Cora scrollò lentamente la testa, quasi stesse cadendo in trance. Si alzò dal letto, il viso bagnato di lacrime e lo sguardo addolorato perso nel vuoto. Si avvicinò al comò e tirò il primo cassetto, iniziando a togliere le cose, una a una, lasciandole cadere a terra.
«Fermati, non fare così», le sussurrò Saga, abbracciandola da dietro e afferrando la mano che stringeva una canotteria color lavanda. Appoggiò la sua guancia a quella della ragazza e la strinse per qualche secondo, mentre richiudeva il cassetto.
«Cosa devo fare?»
Saga non aveva una risposta da darle. Continuò solo a tenerla stretta a sé, per diversi interminabili minuti. Chiuse gli occhi e respirò a fondo. «Te la trovo io una sistemazione. Ora prendi solo lo stretto necessario e domani, con più calma, torneremo a prendere il resto»
La girò verso di sé, le asciugò le lacrime e le diede un bacio sulla fronte.
«E per il gatto?»
«Dove ti porterò nessuno farà storie per il gatto», la rassicurò con un sorriso.
«O per fantasmi immaginari», aggiunse lei, sorridendogli a sua volta.






note del capitolo:

Zuppa za zai: qui ci sarebbe voluto un bel link alla ricetta, ma non sapete quanto abbia faticato per trovare le poche informazioni che ora condividerò con voi a proposito di questo piatto. Si tratta di una zuppa fatta con verdure verdi, tipiche della Cina, cotte in un brodo piccante.




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Capitolo 15
*** Capitolo XIV ***





XIV


«Non sei stata molto loquace durante la cena, Miss…» le disse, fermandosi di fronte all’entrata principale del grattacielo dove erano ubicati gli uffici della holding della famiglia Hayes. Kanon la guardò, attendendo che lei desse seguito alla frase e gli svelasse il proprio nome, senza però ottenere nulla.
«È difficile fare una conversazione decente se l’altra persona è poco collaborativa. Soprattutto se non si conosce nemmeno il nome del proprio interlocutore», le disse. «Beh, a dire il vero è stato più un monologo che una conversazione, finora.»
Le ritrosie della ragazza lo aveva divertito, almeno fino a quel momento, ma come dice il proverbio “il gioco è bello finché dura poco” e Kanon iniziava ad annoiarsi di quell’atteggiamento. Si avvicinò alle grandi porte a vetri e la invitò a entrare, seguendola poco dopo. Poi, si diresse al bancone della sicurezza e chiese che gli venisse chiamato un taxi.
«Come promesso ti ho riportata qui sana e salva e con lo stomaco pieno, anche se ci abbiamo messo un po’ più del previsto.» La fissò ancora per qualche secondo con un sorrisetto sulle labbra. «Proprio non me lo vuoi dire il tuo nome?»
«Neanche tu ti sei ancora presentato, mi pare», fu l’improvvisa risposta della ragazza: diretta ma garbata.
«Ah! Hai ritrovato la voce, finalmente!» la prese in giro il giovane. «Io sono un volto noto qui a New York! Chiedi in giro e ti diranno chi sono.» Si girò verso l'uomo dietro al bancone, facendogli intendere che si aspettava una conferma.
«Sì, mr Hayes. Signorina, lei ha di fronte mr Kanon Hayes.»
«Hai visto? Tu invece, dall’aria un po’ spaurita sotto la tua finta sicurezza, mi sembri nuova», le sorrise, sfiorandole la guancia.
La ragazza si sentì in balìa del suo sguardo. Non aveva mai visto degli occhi così espressivi come i suoi e di un verde tanto intenso. Anche se la sua casa era spesso frequentata da molti stranieri, nessuno di quelli che aveva conosciuto era come l’uomo che ora si trovava davanti a lei. Indietreggiò, imbarazzata.
Kanon le si fece vicino, ma la superò con noncuranza e si diresse agli ascensori. Con le mani nelle tasche dei jeans attese l'arrivo del primo disponibile. Fischiettava una vecchia canzone pop, mentre con lo sguardo sempre attento osservava, dalla superficie lucida delle porte esterne dell'ascensore, cosa accadeva alle sue spalle. Dalla sua posizione vedeva la figura esile della giovane, in quell’abito lilla, avvicinarsi piano, visibilmente combattuta.
Un ding metallico annunciò l'arrivo dell'ascensore e pochi istanti dopo le porte si aprirono.
Kanon rimase fermo sul posto per qualche secondo, apparentemente per nessun motivo, poi vi entrò; ma, poco prima che le porte si chiudessero, la ragazza fece altrettanto. Il giovane sorrise, appoggiato alla parete di fondo della cabina e con le braccia incrociate al petto.
«Hai dimenticato qualcosa di sopra o non riesci più a starmi lontana?» le chiese, cercando di non calcare troppo il tono sfrontato e divertito che aveva in quel momento. Non lo disturbò più di tanto essere ignorato. Quando l'ascensore si aprì al piano degli uffici dirigenziali della holding, Kanon si mosse per primo, tenendo bloccate le porte. «Sei sicura di non volermi dire il tuo nome?» le chiese ancora una volta.
La ragazza continuò nel suo silenzio ostinato, mantenendo lo sguardo basso; ma, a differenza di quanto mostrato durante la serata, iniziava a mostrare un lieve cedimento, stringendo nervosamente la pochette.
Il giovane Hayes sospirò e si scostò per lasciarla passare avanti.

«Kanon! Eccoti qui finalmente! Ma quanto tempo ci hai messo?» esclamò il padre. In quello stesso momento le voci che fino a poco prima avevano animato l’atrio dell’ufficio si chetarono all’unisono e tutti i presenti si voltarono verso i due giovani appena entrati.
«Mr Hayes, un comportamento del genere è intollerabile!» intervenne un omone straniero, con voce profonda e un forte accento che storpiava anche la più semplice delle parole. Shion Hayes parve non ascoltarlo, continuando a fissare il figlio con espressione seria, aspettando una sua giustificazione.
«Ci ho messo il tempo che ho ritenuto necessario», rispose senza tanti preamboli Kanon, lanciando contemporaneamente un’occhiataccia allo straniero.
«Quando ti ho chiamato e tu mi hai parlato della ragazza, ti ho detto di tornare subito in ufficio.»
«E lasciare la pizza a metà?» ribatté il giovane, con un sorriso malizioso sulle labbra. Poi, tornò serio. «Ti avevo detto che avrei fatto a modo mio.»
Alla risposta del figlio, l'uomo rimase interdetto per qualche istante, poi scambiò uno sguardo con la giovane che in quel momento sembrava imbarazzata e intimorita, infine si voltò verso gli altri stranieri. Sapeva che il loro accompagnatore non capiva molto bene l'inglese e che faceva solo “scena”, ma gli altri, seppur giovani, erano sicuramente più svegli.
«Ne possiamo parlare di là, nel mio ufficio?» propose con affabilità, invitando i due a entrare nel suo ufficio con un gesto del braccio.
«Kido-sama!» chiamò il corpulento accompagnatore dei ragazzi, con voce ossequiosa e allo stesso tempo preoccupata, avvicinandosi cerimonioso alla ragazza, facendole un inchino profondo. «Va tutto bene?» chiese alla giovane, in un giapponese molto svelto e parlando a voce molto bassa, cercando di essere il più discreto possibile. «Vi ha fatto qualcosa di male, quell’uomo?»
Kanon non capiva una sola parola di quello che l’uomo stava dicendo, ma dall’occhiata che questi gli aveva lanciato, mentre parlava, intuì che ce l'aveva con lui e sicuramente non gli stava facendo dei complimenti.
«È sicura di voler continuare? Non sarebbe meglio rimandare a dopo la cena, magari? Così avrà il tempo necessario per riprendersi da questa brutta avventura», continuò l'uomo, nelle sue pressanti preoccupazioni.
Saori si limitò ad annuire, tenendo gli occhi bassi, ben sapendo che altre paia di occhi la stavano fissano incessantemente e non erano di certo tutti benevoli come quelli del servitore.
«Basta così, Tatsumi», ordinò il maggiore dei ragazzi, nella loro lingua madre. «Abbiamo preso degli impegni e li dobbiamo onorare.»
«Tatsumi, Ikki-kun ha ragione», convenne la giovane Saori, posando una mano sul braccio del servitore per tranquillizzarlo. Sapeva che l'uomo le era da sempre molto affezionato e lei ricambiava con gratitudine.
Poi, inaspettatamente, Ikki si avvicinò alla cugina; le strinse il braccio, facendola sussultare e le parlò all’orecchio. Di nuovo, Saori annuì, ma si notava quanto fosse scossa dal comportamento del giovane.
«Miss Kido, ciò che ha detto mr Tatsumi è ragionevole. Se ora non ve la sentite, possiamo parlare dopo la cena», intervenne Shion, vedendo che la situazione si stava facendo più tesa di quanto si sarebbe aspettato.
«Vi ringrazio per la cortesia, mr Hayes, ma preferirei...»
«Come desiderate», sorrise conciliante l’uomo, intuendo il desiderio della ragazza. «Kanon, accompagna la signorina nel mio ufficio.»

«Ospiti di riguardo… un gorilla e dei ragazzini! Per un’occasione così importante mi sarei aspettato che si scomodasse direttamente il vecchio Kido», mormorò Kanon, avvicinandosi all’angolo bar dell’ufficio del padre e versandosi un bicchiere di whisky.
«Non per te», lo rimproverò Shion, mentre si chiudeva la porta alle spalle. Poi, gli fece cenno con la mano di passargli quel bicchiere. «Ora siediti e spiegami», ordinò, occupando la poltrona dirimpetto al divanetto dove si era già accomodata Saori.
«Che vuoi che ti dica?» ribatté Kanon, prendendo allora dal frigobar una bottiglia di birra. Sbuffò e ne bevve un lungo sorso.
«Kanon», lo riprese Shion, neanche fosse stato un bambino che impiastricciava dappertutto con le mani sporche di marmellata.
«Se volevi presentare il figlio perfetto, per non rischiare pessime figure, hai sbagliato gemello», gli disse Kanon senza mezzi termini. «Mi vuoi ammogliare con una perfetta sconosciuta, una ragazzina. Senza offesa, cara», si rivolse alla ragazza, che se ne stava seduta in silenzio, con un accenno di sorriso. «E ti aspetti che io me ne stia buono ad attendere le presentazioni ufficiali, come un… un… ah! Neanche esiste una parola adeguata!» esclamò, gesticolando con la bottiglia.
Il paragone perfetto ce l’aveva in mente, ma sarebbe risultato troppo volgare e non aveva voglia di sentirsi continuamente riprendere dal padre.
«No, grazie! Se proprio sono costretto a fare il principe consorte, preferisco allora fare a modo mio e conoscere “la principessa” alle mie condizioni.»
Osservò il padre per qualche secondo con occhi diffidenti: gli sembrò strano che non avesse nulla da ribattere.
«Vedo che ora inizi ad avere dei dubbi. Sono forse diventato troppo difficile da gestire?» gli domandò, con un leggero ghigno sulle labbra. «Eppure dovresti averci fatto il callo! Mi dispiace, papà, questo figlio hai a disposizione», continuò, allargando le braccia per rimarcare l’affermazione. «L’altro, quello educato e docile, quello che con tanta cura hai tenuto protetto e che sicuramente ti avrebbe reso più fiero e più orgoglioso, purtroppo è un po’ tocco.»
Anche se l’intento con il quale Kanon aveva pronunciato quelle ultime parole era stato di ferire il padre, si dispiacque subito di aver parlato male del gemello.
Shion Hayes assottigliò lo sguardo già severo e fissò il figlio. Lo indisponeva che Kanon rivangasse davanti a estranei le conseguenze di quell’incidente, solo come giustificazione ai suoi comportamenti sconsiderati.
«Non fare quella faccia papà, stavo scherzando. E poi, lui è già innamorato», provò a rimediare con tono più leggero Kanon, sospirando perché non aveva sortito alcun effetto.
«Tu sapevi già chi ero?» fece sentire la sua voce la giovane, intervenendo timidamente in quella conversazione dove padre e figlio si ribeccavano, spostando infine l’attenzione su di sé.
«Non proprio», le rispose Kanon sorridendole comprensivo. «Non all’inizio della nostra serata, almeno. Quando ti ho vista seduta qui fuori, in attesa, non sapevo davvero chi fossi. Non che abbia poi scoperto molto altro, visto che non hai detto quasi nulla durante la nostra cenetta romantica», continuò; e nel pronunciare quelle ultime parole il suo sorrido divenne più malizioso.
«Eri un perfetto sconosciuto, per me», si difese lei.
«Ma hai ugualmente accettato il mio invito.»
Saori alzò per un momento lo sguardo su di lui, ma lo deviò poco dopo: quella troppa confidenza la confondeva. «È stato scorretto», mormorò.
Shion li lasciò fare, osservandoli e sorseggiando il suo whisky.
«È stato mio padre, quando mi ha telefonato, a dirmi chi eri. In quel momento, tu ti eri appena alzata per andata alla toilette, miss Saori Kido.»
«E perché non hai detto nulla, quando sono tornata al tavolo?»
«E cosa avrei dovuto dirti? Eri tu che dovevi presentarti! Te ne ho dato l’opportunità più volte. Bene, anche se poco ortodosse, le presentazioni sono state fatte, quindi il mio compito termina qui per stasera», annunciò Kanon, alzandosi e stiracchiandosi la schiena. «E… immagino che se sei arrivata qui da sola, con largo anticipo rispetto all’orario concordato, senza avvisare nessuno e creando così tutto questo scompiglio, avevi intenzione di parlare in privato con mio padre, giusto? Ora sei davanti a lui! Buona fortuna!» le disse, facendole un cenno di saluto e avviandosi per uscire dall'ufficio.
«Dove stai andando, Kanon?» lo richiamò il padre, mantenendo lo sguardo concentrato sul bicchiere che teneva in mano.
«Pensavo di andare a bere da qualche parte! Ti vuoi unire a me?» ribatté il figlio in tono divertito.
«Torna a sedere. Non abbiamo ancora concluso.»
«Ma dai! Lo sai anche tu che questa è una cosa ridicola!» protestò il ragazzo, ributtandosi a sedere come un ragazzino messo in punizione. Nonostante la sua reazione, aveva l'impressione che quel sottile rimprovero celasse altro e che sicuramente non sarebbe stato piacevole da sentire, né divertente.
«Dunque, ragazza, di cosa volevi parlarmi?» Shion si rivolse quindi a Saori, abbandonando ogni formalità.
«Ecco, mr Hayes…» iniziò lei, prendendo coraggio e fissandolo negli occhi; con le mani stringeva la pochette che teneva sulle gambe. «Come ha detto vostro figlio, sono venuta qui di mia iniziativa per provare a persuadervi ad annullare questo Omiai», disse, utilizzando il termine proprio giapponese. «Questo... accordo matrimoniale», si corresse, affinché i due comprendessero meglio.
«Non devi aggiungere altro», la interuppe l'uomo. La sua voce era permeata da un tono paterno e comprensivo.
Kanon quasi sospirò di sollievo. Conosceva bene quel tono, era lo stesso che il padre usava spesso con Saga, quando acconsentiva a qualche sua richiesta, che ben inteso non erano mai strampalate o eccessive, e anche se il caso che lo riguardava ora era completamente diverso, quel tono prometteva comunque bene, facendogli pensare che il suo vecchio, forse, non era poi così irremovibile come temeva.
«Comprendo che ci siano di mezzo anche e soprattutto importanti accordi economici e finanziari», riprese Saori, «e non intendo, con questo mio tirarmi indietro, far sì che gli accordi già in essere possano essere rotti o farvi rinunciare a quelli futuri, però…» si interruppe, mordendosi nervosamente il labbro e stringendo ancora più forte la pochette, «mr Hayes, credo che dobbiate sapere la verità su alcune cose. Vedete…» La giovane si interruppe ancora, provando un forte senso di vergogna.
«Sei qui a fare le veci di tuo nonno, dico bene?» si fece avanti Shion, togliendola dall’imbarazzo di quella conversazione. «Ma di certo lui non sarebbe d’accordo se tu, per rompere questo fidanzamento, rivelassi informazioni confidenziali che possano metterlo in difficoltà. È questo, quello che non riesci a esprimere.» L'uomo attese la conferma dalla ragazza, prima di continuare. «Devi essere disperata per arrivare a questo punto», considerò, bevendo l’ultimo sorso di whisky nel bicchiere, appoggiandolo poi sul tavolino basso, posto fra il divano dov’era seduta Saori e la poltrona dov’era invece seduto lui.
Shion Hayes la guardò per qualche secondo, si sistemò la cravatta e si mise più comodo sulla poltrona. Poi, fissò anche il figlio, che tamburellava le dita sul bracciolo della poltrona.
«Capisco i motivi che ti spingono a questo gesto e ammiro il tuo coraggio nel venire qui a parlare con franchezza. Quindi anch’io ti parlerò con altrettanta franchezza.»
Fece un respiro profondo, osservando ancora una volta entrambi i ragazzi: Saori iniziava a mostrare un certo nervosismo, mentre Kanon mostrava solo segni di impazienza.
«A certi livelli sociali, essere considerati alla stregua di merce di scambio è all’ordine del giorno. Il volere dei singoli non ha valore, rispetto ai numeri e alle prospettive di guadagno economico, soprattutto quando sono così importanti. Adesso più che mai questo matrimonio è estremamente importante per la tua famiglia. Sì, sono già a conoscenza delle condizioni in cui versa tuo nonno», disse, bloccando con un cenno della mano la reazione di Saori, che era quasi scattata per parlare. «Alcuni anni fa sono scoppiati degli scandali che lo hanno coinvolto in prima persona e hanno macchiato il nome della vostra famiglia. Questo ha portato a un calo vertiginosi di credibilità che ha minato la vostra posizione sociale e ha danneggiato in modo considerevole le imprese della famiglia Kido. Non ultimo, a causa di investimenti ad altissimo rischio, che avrebbero dovuto ristabilire liquidità e solidità in tempi brevi, questi vi hanno invece portato molto vicini alla bancarotta. Tuo nonno è una persona di vecchio stampo. Orgoglioso e caparbio, proprio com’era mio padre. Si è risollevato in parte dal disastro finanziario, anche se a fatica e, sebbene ora gli affari stiano ritornando a un certo livello di stabilità, le sue condizioni fisiche ne hanno risentito.»
Shion Hayes sciorinò quel resoconto così dettagliato con una tale naturalezza e sicurezza che Saori si sentì quasi mancare dall’approfondita radiografia di ogni aspetto che riguardava la sua famiglia, ma riuscì comunque a mostrare all’uomo molta dignità nell’ascoltare quella verità impietosa.
«È apprezzabile ed encomiabile questo tuo tentativo di… come lo possiamo definire… di onestà; anche se nel nostro mondo questo comportamento equivale a un vero e proprio suicidio, oltre che oggettivamente stupido», continuò, alzandosi dalla poltrona e camminando verso la sua scrivania. «Sei giovane e inesperta. Devi ancora capire che questo tipo di integrità morale non è fatta per questo mondo. L’onestà è una qualità aliena e deleteria per gli affari a questi livelli e la giustizia è appannaggio di chi offre di più. Non sono un samaritano, non faccio nulla per nulla. Con questo matrimonio la tua famiglia avrebbe tutto da guadagnare, sia in prestigio che in disponibilità economica, che attualmente le manca. Ma anch’io avrei i miei vantaggi e non sono certo trascurabili: potrei aggirare le leggi nazionalistiche del tuo paese e accaparrarmi con estrema facilità ciò che mi interessa, sfruttare tutto quello che posso da voi e in seguito liquidarvi come nulla fosse, mantenendo comunque la quota mi mercato acquisita. Questo è il mondo degli affari, ragazza! Tu sei solo un mezzo per tuo nonno, così come Kanon è un mezzo per me.»
Quando si girò di nuovo verso i ragazzi, sorrise comprensivo nel vedere l’espressione sconcertata di Saori che a sua volta guardava Kanon, che invece era totalmente indifferente. Shion Hayes poteva facilmente immaginare ciò che stava pensando la giovane, ovvero che considerare una persona come un “mezzo” era di quanto più cinico potesse esserci, che considerare il proprio figlio come un “mezzo” era addirittura immorale.
«Posso concederti una scappatoia per salvare l’onore della tua famiglia e il tuo», aggiunse, vedendo come all’improvviso, a quelle parole, si riaccese la speranza nella ragazza.
«Sì, mr Hayes, farò tutto quello che vorrà!» si affrettò a dire lei.
«Allora andremo avanti come stabilito», confermò l'uomo.
«Ma…» Kanon si ridestò dal torpore nel quale era caduto e sgranò gli occhi. Si morse la lingua per frenare le invettive che gli scalpitavano in gola, ma il suo cuore accelerò per la rabbia.
«Nella vostra tradizione più antica, se ricordo bene, c’è una particolare usanza che riguarda la futura sposa e la famiglia dello sposo. Mi pare che la promessa sposa passi un periodo di apprendimento nella famiglia dello sposo, affinché impari a diventare una buona moglie. Dico bene?»
«Sì, mr Hayes. Si tratta dello Yomeiri», confermò Saori, abbassando di nuovo la testa e sfogando la propria delusione sulla pochette. «Questa usanza è praticata ancora oggi, soprattutto nelle famiglie più importanti e aristocratiche. Mia nonna, a suo tempo, visse quella condizione.»
«Molto bene!» esclamò l'uomo. «Passerai questo periodo di “apprendimento”, nella nostra casa di Mystic Lake. Naturalmente terminerai la scuola qui in America. E, dopo che avrai compiuto la maggiore età, avrà luogo l’ufficializzazione del fidanzamento.»
«Cosa?»
Kanon non riuscì più a trattenersi e balzò in piedi. Fino a quel momento gli era sembrato che tutto stesse procedendo bene, che le cose si stessero chiarendo: com’erano arrivati a quel punto?
«Dopo tutti i discorsi che hai fatto…» boccheggiò quasi in preda a una crisi nervosa. «Come puoi uscirtene con frasi tipo: “bene ragazzi, andiamo avanti lo stesso”? Io non sposerò mai una ragazzina!»
«Calmati, Kanon. Prenditi un’altra birra e ricomponiti, perché quando usciremo da quella porta», e con la mano indicò la porta dell’ufficio «ci uniremo alle persone che attendono là fuori e andremo a cena. Così com'era in programma.»
«Mi si è chiuso lo stomaco», ringhiò Kanon, lasciandosi ricadere sulla poltrona.

*****

Cora non pensava che nel giro di appena un mese – o poco più – dal suo arrivo da Philadelphia, si sarebbe ritrovata di nuovo con il borsone in spalla. Eppure, ora che era di fronte a quella porta, le sembrava di aver vissuto lì per molto più tempo. Diede una lunga occhiata all'appartamento, si prese il tempo necessario per imprimersi nella mente ogni particolare di quella che, seppur per troppo breve tempo, era stata la sua casa.
Nella mano sinistra stringeva i manici del trasportino morbido di Kitty che proprio quel pomeriggio le aveva comprato Saga, assieme a tante altre cose, anche se lei aveva insistito per pagarne almeno una parte.
Non ci aveva messo molto a raccogliere lo stretto necessario per la sua nuova destinazione, nonostante non sapesse dove sarebbe andata e cosa avesse in mente il ragazzo per lei. Fece un respiro profondo, stringendo la maniglia della porta con la mano destra: era davvero pronta a chiudersi alle spalle quel breve capitolo della sua vita per buttarsi di nuovo nell'ignoto?
Indugiò ancora, la gattina miagolò nel trasportino, iniziando a muoversi e a grattare.
«Ancora una volta sto abbandonando la mia casa e la vita che mi stavo costruendo», mormorò, trattenendo la voglia di piangere. Poi, chiuse la porta a chiavi e si girò verso le scale, passandosi il dorso della mano sugli occhi.
«Il taxi ci aspetta di sotto», le disse Saga, tendendole la mano. «Non ti preoccupare, questa non è la fine della tua vita, né della tua indipendenza, se è questo che ti dà pensiero: questo è un nuovo inizio», la rassicurò. Le prese la mano e scesero assieme le scale fino al portone. «Ricomincerai da un’altra parte, ma questa volta non farai tutto da sola.»
«L’indipendenza…» sospirò lei. «No, l’indipendenza, quella vera, capita una sola volta nella vita», disse, guardando dritta davanti a sé. «Questo appartamento era la mia occasione per essere davvero indipendente e libera. Tu, con la tua presenza, il tuo aiuto, la tua cura di me… tutto questo significa che questo mio sogno è finito ancor prima di cominciare. Significa che nuovamente mi appoggerò a qualcuno.»
«Sarebbe una cosa così brutta?» le chiese Saga, rattristato da quel discorso.
Cora sospirò. «Dipende dalla persona a cui mi affiderei», rispose, tentando di sorridere un poco. «Ma non voglio diventare totalmente dipendente da questa persona e poi ritrovarmi sola e magari con un…» si interruppe. Non voleva dar voce a speranze, o paure, che forse non si sarebbero mai realizzate per lei. «L’ho già visto con mia madre. Ho vissuto sulla mia pelle il dolore del suo cuore straziato, quando è morto mio padre», gli raccontò; e questa volta non riuscì a fermare le lacrime.
«Ma col tempo si è risollevata, giusto?» disse Saga, abbracciandola forte. «Perché c’eri tu con lei, quindi non era sola.»
«È vero», annuì lei, celandogli però il dolore che in quel momento attraversava i suoi occhi. «Mia mamma non era sola: c'era il mio fratellino e c'ero io.»
«E non lo sarai neanche tu. Non più», confermò Saga.
«Cosa ti fa pensare che sia sola?»
«Un appartamento da single nel quale manca totalmente l’impronta maschile, anche se non è neanche prettamente femminile, un ex fidanzato e...» In quel momento la guardò negli occhi con molta intensità: non aveva creduto neanche per un secondo alla storia del semplice “amico” lasciato a Philadelphia. «E la tua famiglia, lasciati in un’altra città. Piatti e stoviglie contanti, sicuramente saranno al massimo due o tre pezzi per tipo e forse utilizzi gli stessi tutti i giorni. Scommetto anche che li tieni sempre nello scolapiatti sul lavandino, vero? Prepari piatti semplici e veloci, quando non prendi direttamente qualcosa di già pronto.»
«Ma queste sono tutte cose che caratterizzano la vita di un single medio e non certo prove inoppugnabili di una situazione di presunta solitudine!» obiettò lei, a metà fra l'indispettita e il divertita.
I due ragazzi erano ancora fermi di fronte al portone e Saga continuava a fissarla negli occhi. Le posò un dito sulle labbra e le sorrise. «Ma la cosa più importante…» Si concesse una piccola pausa studiata per dare maggiore risalto a ciò che stava per dirle, «mi hai fatto entrare nella tua vita.»
«Mi sembri molto fiducioso, ma non starai correndo un po’ troppo?»
«E tu non credi che ora sia un po’ tardi per rallentare?» ribatté lui, sempre più convinto di quello che stava dicendo. «Ci siamo trovati, lasciati e ritrovati in un lasso di tempo breve come un battito di ciglia. Abbiamo bruciato le tappe e adesso… forse ti sembrerà strano, ma sento di volere una vita con te.»
All’improvviso, Cora sentì una vampata scaldarle le guance. Era sicura di essere arrossita come una scolaretta e ringraziava quel piccolo atrio semibuio che celava il suo imbarazzo, ma che non poteva nascondere o mitigare il battito accelerato del cuore che tambureggiava nel suo petto. Avvertì la mano di Saga stringere la sua, come incoraggiamento e come ulteriore segno che stava dicendo sul serio, però non riusciva ad articolare una risposta.
«Tu non lo vuoi?» le chiese Saga, turbato da quel silenzio fin troppo duraturo per i suoi gusti. Il suo sguardo si stava facendo via via più triste.
«Ho paura», rispose Cora, in un sussurro amplificato dall’eco dell’atrio della palazzina, appoggiando la fronte al petto del ragazzo. «Ho paura di dire sì; di dirti che anch’io voglio la stessa cosa che vuoi tu. Ho paura di scoprire che tutto questo possa essere solamente un bel sogno. Ho paura che quando mi sveglierò, mi ritroverò unicamente con la certezza di essere senza una casa, mentre tu sarai solo il protagonista delle fantasticherie che popolano le mie notti.»
Saga non si aspettava di udire quelle parole e ne fu felice. Ma, misto a quell’emozione, sentì anche la tristezza della ragazza e in qualche modo ne rimase contagiato.
«Ti prometto che andrà tutto bene», la rassicurò, alzandole il viso e vedendo che era bagnato di lacrime.
«Chi sei tu per promettere una cosa del genere?»
«Sono il tuo principe azzurro», rispose lui, con sguardo languido e tanta serietà nella voce, ottenendo invece il risultato di farla ridere.
«Allora portami via da qui sul tuo cavallo bianco.»
«Va bene lo stesso se l’ho scambiato con un taxi giallo?» le disse, baciandola teneramente.

*****

Ci vollero circa venticinque minuti nel traffico cittadino prima che il taxi, con a bordo i due ragazzi, si fermasse all’altezza del civico numero 3, di fronte a un portone di legno scuro e dai dettagli in ottone lucido. L’edificio era basso, di soli tre piani. Accanto al portone c’era la vetrina di un negozio interamente ricoperta di vecchi fogli di giornale.
Per tutto il tempo del viaggio, Cora si era appoggiata alla spalla del ragazzo, rimanendo con gli occhi chiusi, come se si fosse appisolata. Era stata la gentile carezza che lui le aveva fatto sul dorso della mano, a ridestarla.
Saga l'aiutò a scendere dall'auto e, come un perfetto cavaliere, si prese carico della maggior parte del bagaglio – lasciando a Cora solo il trasportino – e l'accompagnò, mano nella mano, fin davanti al portone.
«Eccoci.»
Cora si guardò attorno, non conosceva affatto quella zona. La strada era ampia, ben illuminata e pulita. I lampioni sembravano in ghisa e avevano un quel non so ché di retrò. Le costruzioni avevano quasi tutte i mattoni a vista, anche se erano stati ridipinti.
Saga osservò la crescente meraviglia negli occhi della ragazza. «Il quartiere mantiene ancora un poco delle sue origini», le spiegò. «Questa costruzione, per esempio, risale alla fine degli anni ’30. Sia esternamente che internamente non ha subito rilevanti modifiche rispetto al progetto originale.»
Cora seguì il ragazzo all'interno e su per le due rampe di scale fino alla porta dell’appartamento, fermandosi sul minuscolo pianerottolo: doveva esserci un unico grande appartamento che si sviluppava sopra il negozio abbandonato e che probabilmente costituiva da solo un’intera porzione di quella palazzina.
Saga girò la chiave ma non aprì subito.
«Chiudi gli occhi.»
«Cosa?»
«Chiudi gli occhi», ripeté lui.
Lasciò a terra i bagagli e la fece passare davanti. Poi, le coprì gli occhi con una mano, mentre con l’altra spinse la porta fino ad aprirla completamente.
«Ora, avanti piano», la guidò, avanzando assieme a lei. Solo quando furono arrivati nel mezzo dell’ingresso le permise di guardare. «Allora, cosa ne pensi?»
Cora si guardò attorno per diversi secondi, rimanendo a bocca aperta. Era incredibile come lui riuscisse a sorprenderla ogni volta. «Che tu fossi l’uomo dei miracoli che riesce a risolve i miei problemi con uno schiocco di dita, me ne sono accorta da tempo, ma che riuscissi a far spuntare dal nulla una casa già ammobiliata e dall'atmosfera così familiare e confortante…» disse con voce sognante, continuando a fare una panoramica di quell'ambiente. Si soffermò su alcune fotografie che ritraevano una famiglia felice formata da un vecchio, un uomo, una donna e una bambina; ma nessuno di questi assomigliava anche solo alla lontana a Saga. «Quanto hai offerto ai proprietari per riuscire a mandarli via senza nemmeno far prendere loro gli effetti personali?» gli domandò con un accenno di furbizia sulle labbra.
«Anche se mi piacerebbe essere il tuo uomo dei miracoli, purtroppo non lo sono affatto», le rispose Saga, allungandosi per ricevere il bacio che Cora era pronta a dargli per ciò aveva fatto per lei. «Questa casa l’ho ereditata alcuni anni fa, ma non la uso praticamente mai, solo quando vengo in città.»
Si liberò del peso dei bagagli appoggiandoli in un angolo del salotto e si tolse il cappotto.
«Può sembrare strano, ma nessuno della mia famiglia è a conoscenza di questa casa», le confessò con un certo imbarazzo. «Comunque, qui potrai stare per tutto il tempo che ti serve. Vieni, ti faccio fare un giro», le propose, offrendole la mano.
Quando ritornarono all’ingresso, trovarono il trasportino rovesciato su un fianco e la povera gattina che grattava frenetica. I due giovani si scambiaro uno sguardo e risero. Cora si chinò e, appena aprì la cerniera, una piccola ombra nera schizzò fuori come un fulmine, sparendo all’interno del salotto.
Saga sorrise nel vedere quella scena, ma fu distratto dal cellulare che proprio in quel momento si era messo a vibrare. Si incupì nel leggere il nome comparso sullo schermo. Rifiutò la chiamata e rimise lo smartphone nella tasca dei jeans.
«Credo non ci sia nulla di commestibile in casa», disse, avvicinandosi a Cora e abbracciandola da dietro. «C’è un minimarket a un paio di isolati da qui. Faccio una corsa a prendere qualcosa. Hai richieste particolari?»
«Solo che tu torni presto», rispose lei, posando le mani su quelle del ragazzo.

*****

«Saga» La voce di Shura, dall’altra parte del telefono, arrivò a lui con un tono decisamente deluso. «Dove sei finito? È tutto il giorno che sei sparito da casa.»
«Sono in giro», rispose il giovane, con tono secco.
Si era fermato appena oltre l’incrocio, con la schiena appoggiata alla cancellata in ferro di un’altra palazzina. Il suo sguardo era rivolto verso la finestra illuminata della cucina della casa sopra il negozio. In quel momento, neanche il pensiero di Cora, sicuramente affaccendata ad aprire ogni pensile e mobiletto della cucina, riusciva a farlo sorridere.
«Dimmi dove ti trovi, che vengo a prenderti.»
Saga rimase in silenzio. Allontanò il cellulare dall’orecchio e, sempre osservando quella finestra, si staccò dalla cancellata.
«Saga? Saga?» insistette Shura, con un leggero panico nella voce.
«Te l’ho detto, sono in giro!» replicò lui con voce dura, riprendendo a camminare. Si pentì subito però del tono che aveva usato; inconsciamente iniziò a massaggiarsi la tempia destra. «Scusami.»
«Non fa niente, Saga», lo rassicurò l'altro. «Mi ha chiamato tuo padre per assicurarsi che tu fossi a casa e che stessi bene. Era stranamente ansioso. Avete discusso di nuovo?»
«No, non l’ho sentito», rispose l'altro, un poco più tranquillo.
«Ho dovuto mentirgli, Saga; e sai che questo non mi piace. Torna a casa. Subito!»
«No!»
«Come hai detto?»
Shura si tirò su di scatto dal letto, facendolo cigolare un poco e provocando una lamentela da parte dell’amante. Subito coprì il cellulare con la mano, sperando non si fosse sentito dall’altra parte. Poi si mise seduto, posando i piedi sul pavimento.
«Credevo avessi risolto la questione, con tuo padre. Perché ora stai nuovamente disubbidendo? Lo sai che non ti nega le cose, se gliene spieghi la ragione», provò a parlargli con più calma.
«È così infatti. E… non fa niente. Starò fuori tutto il weekend.»
«Hai riaperto la casa di Boston? Va bene, domani mattina vengo lì e ne parliamo.»
«No, starò da una persona», replicò Saga, senza entrare nel dettaglio.
Dall'altra parte si sentì un sospiro sconsolato.
Shura iniziò a camminare su e giù per la stanza, passandosi più volte la mano fra i capelli neri. Il cellulare, ancora con la comunicazione aperta, era stretto nella mano, ma lontano dall’orecchio. Si concesse alcuni momenti per riflettere.
«Questa storia non mi piace. È compito mio sapere dove sei!» Sbuffò, passandosi la mano sugli occhi e rimandando giù la rabbia che stava crescendo in lui. «Tuo padre ha detto che prevede di dover rimanere almeno un'altra settimana a New York, assieme a tuo fratello. Al loro ritorno porteranno degli ospiti. Domani…»
Si sentirono rumori di traffico, poi lo stridore di una brusca frenata, il rumore sommesso di un botto e un paio di clacson che coprivano gli strepiti di alcuni ragazzi ubriachi. Dopo qualche attimo si udirono anche delle urla e delle voci concitate. Shura rimase in ascolto, immobile, quasi incapace di respirare. In quel momento non sapeva cosa aspettarsi. Il suo corpo, longilineo, muscoloso e completamente nudo, era diventato d’un tratto rigido come marmo.
«Saga? Saga sei ancora lì?» lo chiamò con voce tremante.
L’ansia si trasformò in angoscia: poteva sentire distintamente i rumori che provenivano dalla strada, ma non riusciva a capire se l’altro fosse ancora lì, se stesse bene o se gli fosse capitato qualcosa. Con gesti convulsi iniziò a rivestirsi.
«Sì», arrivò la risposta da parte di Saga. La sua voce però era insolitamente calma e distaccata.
«Cos’è successo? Stai bene?» chiese Shura, sempre più apprensivo, bloccandosi con i pantaloni a metà gamba e la maglia infilata solo dalla testa e da un braccio.
«Una macchina è passata con il rosso. Credo abbia investito qualcuno.»
Durante quel resoconto, a Shura sembrò che Saga mostrasse un totalmente disinteresse dell’accaduto e non un’emozione trapelò dalla sua voce. L'uomo si passò la mano sulla fronte. Deglutì, chiedendosi come fosse possibile che una persona normale potesse mantenersi così calmo dopo aver assistito a un incidente forse mortale.
«Saga, tu stai bene?» gli chiese. Quella domanda stava diventando un ritornello, ma Shura avrebbe continuato a porgliela almeno finché non se ne fosse convinto del tutto.
«Ora devo andare.»
«No, Saga, non riagganciare!»
«Che succede?» chiese Aiolos con voce assonnata, tirandosi su e puntellandosi col gomito. Fece uno sbadiglio e si ributtò sul materasso, girandosi dall’altro lato.
«Ha detto che starà fuori per tutto il weekend, che starà da una persona…» gli riferì l’altro, ancora frastornato. «Poi è accaduto qualcosa in strada, e…» Non sapeva neanche lui come spiegare la sensazione che aveva avvertito. «Secondo te, cosa gli sta capitando?»
«A me lo chiedi?» fece spallucce il giovane, nascondendo però quanto in realtà fosse risentito dalla domanda. Sentì Shura sbuffare e sedersi pesantemente sul bordo del letto. «Non stare a preoccuparti, mamma chioccia, scommetto che sta benone.»
«Forse dovrei far rintracciare il suo cellulare», sospirò l’uomo, chinandosi per aprire l’ultimo cassetto del comodino e frugandovi dentro per alcuni secondi.
«Esagerato! E a chi ti vorresti rivolgere, all’FBI?»
«Per quello non ci sarebbe problema», disse Shura, appoggiandosi con le spalle alla testata del letto: fra le dita teneva un sigaro. «Ma più semplicemente basterebbe chiedere alla polizia, se le si fornisce un motivo ragionevole.»
«Credevo avessi smesso con quella roba», lo rimproverò Aiolos; anche se non era acceso, l’aroma pungente che emanava quel sigaro lo disturbava. «Dopo la sfuriata della nonna non ti ho più visto fumare.»
«A dire il vero non sono mai stato un fumatore accanito», ammise Shura, con un sospiro stanco. «Ma di tanto in tanto mi piace tenerne uno in mano, soprattutto quando ho un problema da risolvere. Inspirarne l’aroma e sentirne la consistenza fra le dita mi aiuta a riflettere.»
L’uomo fissò il sigaro con gli occhi socchiusi, mentre lo faceva ruotare lentamente. Poi, si lasciò andare a un lieve sorriso nel ricordare l’episodio a cui aveva accennato Aiolos qualche secondo prima.
«Quella volta tua nonna mi scatenò addosso il finimondo: avevo commesso una grave leggerezza. Mi stavo rilassando, giù nella sala giochi, facendo due tiri al tavolo da biliardo», iniziò a raccontare. «Poi, non so più per cosa, mi ero dovuto allontanare per qualche minuto. Avevo lasciato il sigaro acceso appoggiato nel portacenere e, quando ero tornato, voi tre piccole pesti, ve lo eravate fumato tutto! E siete stati male per l’intero pomeriggio», terminò, passando il sigaro sotto il naso e inspirando profondamente.
«Davvero? E quando sarebbe successo?»
Shura alzò lo sguardo al soffitto, riflettendo per qualche secondo.
«All’epoca avevate più o meno dodici anni. Sì, è così! Tutti e tre, impettiti, per quanto vi reggevate in piedi a stento, avevate dichiarato che era stato… “un rito di passaggio!”, ma più semplicemente, visto che avevate iniziato da poco le scuole medie, volevate farvi belli e raccontare in giro della vostra bravata.»
«Già, è vero. Ora ricordo. Quella fu l’unica volta che la nonna si arrabbiò davvero molto, era così furiosa… la punizione fu veramente severa e non ci parlò per i due giorni successivi. Kanon non prese per nulla bene quella strigliata e le si rivoltò contro», disse il giovane, mettendosi seduto e scompigliandosi i capelli con vigore.
«Ti sbagli! Non fu Kanon, ma Saga.»
«Cosa?»
«Certo!» confermò Shura. «Ci stupimmo tutti di quella reazione da parte sua. Era sempre stato un bambino così tranquillo. Ma eravamo fin troppo impegnati a rimettervi in sesto che il cercare di comprendere il perché del suo comportamento passò in secondo piano.» Di nuovo, l’uomo si portò il sigaro sotto il naso; poi, quasi cedendo alla tentazione, lo osservò voglioso, bagnandosi le labbra con la lingua. «Evidentemente, il fumo gli aveva dato alla testa.»
«Beh, comunque sia andata, se hai intenzione di accendere quel coso io tolgo il disturbo. Lo sai che la nonna non sopporta l’odore del tabacco e ad essere sincero non piace neanche a me.»

*****

Quando, poco meno di un’ora dopo, rientrò nell’appartamento sopra il negozio, sul suo volto non vi era traccia di alcuna emozione. Saga si mosse senza fare rumore, entrando in cucina e posando il sacchetto della spesa sul tavolo; poi, si sedette su una delle sedie. Si guardò attorno: per terra, vicino alla finestra, erano state messe le due ciotoline di Kitty, una per l’acqua e l’altra per i croccantini. Fece un respiro profondo, toccandosi nervosamente – e con insistenza – la tempia destra, fin quasi a farla sanguinare.
«Sei tornato!» esclamò Cora, vedendolo in cucina. «Ci crederesti se ti dicessi che quella bestiola ha divorato ben due scatolette e quasi una razione di croccantini?» gli raccontò, avvicinandosi al lavello per sciacquarsi le mani. «Così piccola ma mangia per cinque! E sì che aveva mangiato anche a casa mia! Però, non sai quanto mi abbia fatto ammattire, si è nascosta sotto il divano e non voleva proprio uscire!» gli disse, scrollandò due o tre volte le mani, prima di asciugarsele con lo strofinaccio. «Quella birbante mi ha morso le dite almeno un paio di volte», continuò, con voce un po’ da smorfiosetta, fermandosi di fronte a lui. «Per fortuna non ha i dentini troppo aguzzi e praticamente mi ha fatto il solletico. Perché con te è tutta coccole e fusa, mentre con me si trasforma in una pantera?»
Cora lo guardò con tenerezza. Si chinò un poco e gli sistemò una ciocca di capelli in disordine.
«Dici che dovrei preoccuparmi e iniziare ad affilare i miei di denti?», gli chiese, avvicinandosi ancora di più e dandogli un bacio sulla guancia. Indugiò qualche momento per osservare i suoi lineamenti così dolci e armoniosi per un uomo. Solo in quel momento notò quanto fosse taciturno e distante. «Qualcosa non va?»
La ragazza era consapevole che non erano state molte le occasioni in cui aveva passato del tempo con Saga e di certo, in quei momenti, non lo aveva mai visto così pensieroso. Gli fece una carezza e gli passò le mani fra i capelli, come se con quel gesto avesse voluto liberarlo dalle preoccupazioni che lo stavano affliggendo.
«Non sono un granché quando si tratta di consolare le persone», gli disse in un sussurro. «Nemmeno ho la soluzione pronta per risolvere i problemi degli altri, come invece riesci benissimo tu.»
«Non hai bisogno di fare nulla», rispose lui, dopo quel lungo silenzio, sforzandosi di sorridere un poco. «Tu stai portando dei cambiamenti nella mia vita, come neanche immagini. Stai rendendo la mia vita diversa e più bella. Mi fai battere il cuore come mai prima d’ora», disse senza alcun imbarazzo per quella dichiarazione romantica.
La guardò negli occhi, la vide arrossire per quelle parole e le restituì la carezza, incoraggiandola a sedersi sulle sue gambe. Le diede un bacio e l'abbracciò stretta, respirando profondamente col viso appoggiato al suo petto.
«Vorrei… vorrei restare per sempre con te.»
«Sei sicuro che poi non te ne pentirai?» gli chiese lei, prendendogli il viso fra le mani e guardandolo negli occhi; in quell’attimo così particolare sembravano di un verde più cupo e pieni di tristezza. «Perché… beh, ti potresti ritrovare ad avere a che fare con una persona intrattabile e a tratti infantile; e potresti scoprire anche che sono terribilmente pigra.»
Nonostante l’imbarazzo nell’esprimere a voce i suoi difetti, Cora mantenne lo sguardo su di lui. Di nuovo, come la prima volta, non le importava in quale modo potesse venir giudicata. Esisteva solo quel momento. Esistevano solo loro due.
«Me ne ero già accorto», rispose Saga, sciogliendosi finalmente in un vero sorriso, terribilmente dolce e comprensivo. «E mi sta bene così.»
La strinse di nuovo, inspirando l’odore della sua pelle e dei suoi capelli, che sapevano di vita semplice.
«Allora ti manca qualche rotella», ridacchiò Cora. Gli passò le mani fra i capelli, pettinandoglieli tutti all’indietro, fermandoli in una coda di cavallo. Gli piaceva. Quel ragazzo gli piaceva davvero tanto; sentiva che ora avrebbe potuto dargli tutto quanto senza pentirsene un solo istante.
«Sì, me lo hanno già detto», mormorò lui; e per un paio di secondi, il suo sguardo si perse nuovamente nel vuoto.

Con la punta delle dita Saga sfiorò le labbra di Cora e la baciò con passione crescente. Le sue mani iniziarono ad accarezzarle il corpo, avvertendola fremere e muoversi sotto il suo tocco. La sentiva ansimare un poco, gemere di piacere, mentre le alzava il maglione leggero, scoprendole la pelle nuda. La strinse a sé facendole appoggiare i seni al suo petto, senza darle requie con i suoi baci.
«La… spesa…» ansimò Cora, nel breve tempo che si erano concessi per riprendere fiato, voltandosi un poco per indicare il sacchetto sul tavolo.
Saga non la stava ascoltando, affondando invece il viso nel suo collo e iniziando a baciarle ogni centimetro di pelle.
«Aspetta… ti prego…» cercò di articolare le parole lei, boccheggiando per l’eccitazione. Le mani del ragazzo le stringevano i glutei, spingendola contro di lui. «Bisogna metterla via», riprovò Cora, riuscendo a fermarlo per il tempo sufficiente a completare la frase.
«Più tardi», rispose Saga, cercando ancora una volta la sua bocca, con urgenza, quasi con disperazione.
«Ma… si rovinerà tutto», ansimò di nuovo lei, sottraendosi a lui per qualche secondo e fissandolo con stupore. Le sembrava così stranamente insistente, eppure ne era lusingata, appagata come donna. «Almeno le cose che vanno nel frigorifero», quasi lo supplicò.
Lo vide deluso, ma non poteva farci nulla. Si alzò dalle gambe di Saga e si risistemò un poco il maglione. Poi si girò verso il tavolo, ma non fece in tempo ad afferrare i manici del sacchetto che il ragazzo la catturò nuovamente nel suo abbraccio, baciandole il collo e, indietreggiando piano, la allontanò dalla cucina.
«Saga…»
«Lascia perdere la spesa.»
«Ma…» provò a obiettare lei.
«Non importa. Uscirò di nuovo», chiuse il discorso il giovane, stringendo un po’ più forte quell’abbraccio.
La girò verso di sé, baciandola con ardore e continuando a sospingerla verso il salotto, fino ad arrivare al divano. Per qualche minuto continuò a baciarla, costringendola a un equilibrio precario, con le gambe contro il divano che, a un movimento più audace, si piegavano pericolosamente. Le sfilò il maglione e rimase a guardarla.
«Mi sembri turbato», gli disse Cora, con voce titubante e lo sguardo languido.
Saga scrollò la testa, senza rispondere davvero. «Voglio riprendere da dove eravamo stati interrotti», le rispose, facendola sdraiare sul divano. Nel suo sguardo c’era una strana luce, ben camuffata però dalla gentilezza dei suoi gesti – benché insistenti – e dal sentimento di quelle parole.
Si sdraiò su di lei continuando a baciarla: sulle labbra appena dischiuse, sulla linea dolce della mascella, sul collo e sul petto, che lei gli offriva alla vista, ormai ottenebrata di euforica passione. Con la mano vagò lungo il fianco di Cora, provocandole un leggero solletico, fino ad arrivare al bordo dei jeans.
«Come la prima volta», ansimò lei, con voce tremolante, «tu mi rubi la ragione.»
Si lasciò scappare un gemito, inarcando la schiena nel sentire che le stava slacciando completamente i jeans e accarezzando la pelle, infilando la mano sotto la stoffa delle mutandine. Era un poco fredda, ma piacevolmente carezzevole. Lei invece, affondò le sue mani in quella marea d’oro che era la chioma fluente del ragazzo: morbidi come la seta e profumati come appena lavati. Strinse la presa e tirò un poco, facendogli alzare la testa. Adorava i suoi occhi. Ancor più quando erano persi d’amore come in quel momento; ed era sicura che quell'amore fosse tutto per lei. Arrossì, ricambiando con languore quello sguardo.
«Come la prima volta», ripeté lui, sorridendole e baciandola con passione. «Una nuova prima volta, per noi. Ogni volta sarà una prima volta.»

*****

L’alba fece capolino dalla finestra del salotto rischiarando in modo discreto l’ambiente con i primi raggi del sole. C’era silenzio e quiete. I respiri dei due ragazzi, avvolti nel tepore della coperta di lana, lavorata a piccoli pannelli patchwork, erano quasi impercettibili. Poco più in là, raggomitolata a terra, sopra i vestiti buttati sul vecchio pavimento in parquet, la gattina dormiva placida, come i suoi padroni.
Saga aprì lentamente gli occhi, inspirando piano e a lungo. Il suo viso era accarezzato dai riccioli spettinati di Cora. La teneva ancora fra le braccia, stretta a sé, mano nella mano e le dita intrecciate fra loro. Si mosse un poco, il corpo intorpidito dalla posizione scomoda e tenuta troppo a lungo. Sentì un debole mugolio e sorrise instintivamente. Il plaid li copriva solo dalla vita in giù, ma sentiva il calore del corpo della ragazza sulla sua pelle: la schiena di lei appoggiata al suo petto, quelle braccia snelle unite alle sue e le loro gambe intrecciate le une alle altre. Le diede qualche morbido bacio sul collo e sulla spalla. Lei mugulò di nuovo, forse per il solletico, muovendo un poco la spalla e facendolo sorridere ancora una volta.
«Che dolce risveglio», mormorò Cora, quasi non volesse farsi sentire. Sentiva l’abbraccio di Saga farsi più avvolgente. «Buongiorno», lo salutò, cercando di girarsi piano. Desiderava che la prima cosa che i suoi occhi vedessero, una volta aperti, fosse il viso del suo amante.
«Rimani così. Rimani ancora un po’ in questa posizione», le sussurrò all’orecchio Saga, spostando un poco la testa e dandole un altro bacio sulla spalla. «Voglio assaporare questo momento ancora un po’», le disse, facendo un respiro profondo e chiudendo gli occhi.

«Buongiorno, mio splendido dormiglione», lo salutò lei, con voce dolce e allo stesso tempo divertita, vedendo che finalmente Saga si stava svegliando. Era la seconda volta in quella mattinata.
Gli diede un bacio sulle labbra, ridestandolo completamente. Poi gli passò la tazza di caffè fumante sotto al naso.
Seppur con gli occhi che faticavano ad aprirsi del tutto, Saga sorrise. Si appoggiò con il gomito al cuscino del divano e bevve un sorso di caffè, ma arricciò le labbra non appena assaggiato.
«È quello solubile», confessò Cora, con un velo di imbarazzo nella voce. «Credo di aver esagerato un po’, scusa. Ho visto che in cucina c’è una macchina per il caffè, ma non penso che funzioni. O forse sono io che non la so usare.»
«Che ore sono?» chiese lui, sfregandosi gli occhi col dorso della mano.
«Sono un quarto alle undici», rispose lei, appoggiando la tazza sul tavolino lì vicino. Prese il cellulare dalla tasca dei jeans e ricontrollò, giusto per essere sicura. «Dai, prima una bella doccia e poi a fare colazione!» esclamò allegra. «O pranzo, se preferisci aspettare un paio di ore e se ti accontenti di questo terribile caffè, per il momento.»
Cora si alzò, ma venne trattenuta dalla mano del ragazzo che la fece sedere di nuovo, la strinse a sé e la baciò.
«Sei piena di entusiasmo, questa mattina. Mi piace.»
«Sì, mi sento piena di energie ed entusiasmo! Ma non ti ci abituare. Di solito la mattina sono una moribonda. Soprattutto quando dormo poco. E tu, amore mio», gli disse, con lieve rossore sulle gote, prendendogli il viso fra le mani, «mi hai fatto dormire davvero poco questa notte.»
«Profumi di buono…» mormorò il giovane, odorandole il polso con un respiro profondo; le sue narici si riempirono di una delicata essenza di muschio bianco.
«Ho dimenticato di portare il mio docciaschiuma. Avrei dovuto chiederti il permesso prima di prendere il tuo, scusami.»
Saga scrollò la testa, guardandola dolcemente e sorridendo come faceva sempre: gioviale e sereno. «Ripetilo. Dillo di nuovo, per favore», la supplicò con voce emozionata.
Cora rifletté per qualche secondo, mordendosi il labbro. Si sentì arrossire. «Amore mio», sussurrò.
«Mi piace come lo dici.» Saga sospirò, indugiando qualche momento ancora, occhi negli occhi con lei.
Si alzò, senza preoccuparsi di farsi vedere completamente nudo e si stiracchiò la schiena. Poi, come nulla fosse, si diresse verso il bagno.
«È da molto che sei sveglia?» le chiese, aprendo l'acqua della doccia.
«Da quando mi hai svegliato tu», rispose Cora, seguendolo a qualche passo di distanza. «Ma non ti preoccupare, ne ho approfittato per fare alcune cosette, come cercare di fare amicizia con quella palletta di pelo e ripulire dove ha sporcato e soprattutto…» fece una pausa, «sono uscita per andare a quel famoso minimarket. Ti avevo detto che sarebbe stato meglio prima mettere via la spesa. Alcune cose si sono rovinate, stando fuori durante la notte: il burro è diventato una pappetta informe e il latte, beh sinceramente non mi fido più a berlo così.»
Cora si fermò appena fuori dalla porta del bagno, che socchiuse per pudore; anche se, arrivata a quel punto, non c’era più nulla che non avesse visto, scrutato, studiato e memorizzato del corpo del ragazzo. Si appoggiò allo stipite ma si sporse ugualmente a curiosare ancora un poco.
«Sai che è successa una cosa alquanto inquietante la notte scorsa?» gli disse, tanto per fare due chiacchiere, mentre sbirciava l’altro che entrava sotto la doccia. «Ho sentito che ne parlavano le due commesse del minimarket. Pare che ci sia stato un incidente a pochi metri dal negozio. Prima di tornare ho dato un’occhiata. C’era ancora del sangue sull’asfalto! Però sembra che anche se spaventoso, non sia stato un incidente mortale. Se ho capito bene, è successo più o meno quando sei uscito ieri sera. Tu hai visto niente? Sai qualcosa di più?»
Continuò a guardare, con occhi curiosi e birichini, il ragazzo che, dietro il vetro opaco del box doccia, si insaponava con molta attenzione. Poi sentì nuovamente l’acqua e in breve tempo un sottile velo di vapore appannò ancora di più il vetro rendendole la visuale più difficoltosa. Solo quando Saga uscì, lei poté bearsi nuovamente di quella visione, mentre lui si asciugava con scrupolo. Preferì però accostare completamente la porta, per lasciargli un po' di privacy.
Saga si sorprese piacevolmente di trovare i suoi vestiti, anche se erano quelli del giorno prima, ben piegati e in ordine, sopra il mobiletto. Si soffermò allo specchio, con l’asciugamano avvolto alla vita e passò la mano sulla superficie di vetro, togliendo la patina di condensa. I capelli umidi erano pettinati all'indietro e lasciavano scoperta la piccola cicatrice sulla tempia destra. La sfiorò con le dita: era arrossata. Poi, prese lo spazzolino e il dentrificio e iniziò a lavarsi i denti.
«Saga?» chiamò Cora, non sentendo più alcun rumore.
Lui uscì qualche secondo dopo, ancora scalzo e con indosso un paio di vecchi jeans scoloriti e strappati che aveva preso dal ripiano dell'armadio bianco del bagno.
«Davvero è successa una cosa del genere? Che strano, non ho visto nulla. Forse è capitato quando ero già sulla via del ritorno. Meglio così, certe cose mi impressionano», rispose candidamente, entrando in cucina e guardandosi in giro per cercare qualcosa da mangiare. Si bloccò di colpo, fissando una confezione di preservativi posata sul tavolo che probabilmente aveva comprato la notte precedente. Si grattò la testa, abbassando lo sguardo, imbarazzato: era ancora incellofanata.
«Ti ho comprato questi», lo riscosse Cora, facendogli comparire davanti agli occhi una confezione di biscotti alle mandorle, abbracciandolo da dietro, sentendo sulla sua guancia la schiena umida e profumata del ragazzo. «L’altra volta, quando te li stavi divorando tutti sul mio divano, mi era sembrato che ti fossero piaciuti, vero?»
«Io…» provò a dire qualcosa Saga, riuscendo solo a fare un sospiro maldestro. Il suo sguardo era tornato a quei preservativi.
La giovane capì. «Non so dove li tieni di solito», si giustificò. «Grazie per averci pensato, anche se non li abbiamo usati.»

*****

«Non era necessario che mi accompagnassi, ma ne sono molto felice.»
Quel pomeriggio tirava un vento teso e pungente fra le strade di Boston. Saga aveva insistito per accompagnarla, visto che non era riuscito a convincerla a rimanere a casa con lui. Avevano passeggiato, mano nella mano, dalla fermata dell'autobus fino all'entrata dell’agenzia. Lui le aveva spiegato che doveva prendere un autobus diverso e che la fermata era un po' più lontana rispetto a prima, ma il tragitto era comunque più corto.
«Se prendi la metropolitana ci metti ancora meno», le disse.
Cora scrollò la testa, respirando a fondo prima di rispondergli. «Non vado molto d’accordo con la metropolitana.»
«Claustrofobia o qualcosa di simile?»
«Una brutta esperienza. E ora non mi sento più a mio agio a frequentarla.» Non aveva voglia di svelargli la verità e raccontargli quanto le fosse successo in passato. Almeno, non a quel punto della loro – appena iniziata – relazione. «L’autobus va benissimo e poi, non sottovalutare il valore di due fermate in meno, così come fare qualche passo in più. È bello passeggiare», gli sorrise, stringendosi al suo braccio.
«Più tardi vengo a riprenderti, così torniamo a casa assieme», le disse Saga, con un sorriso solare sulle labbra e una dolcezza negli occhi che pareva un sogno.
Cora arrossì. Provava le stesse emozioni di una scolaretta alla sua prima cotta. Scrollò brevemente la testa, concentrando il suo sguardo sulle loro mani. «Non fa niente, penso che andrò nel mio appartamento», si interruppe per un attimo, mordendosi il labbro tremante, «per iniziare a raccogliere le mie cose», concluse, facendosi coraggio.
Saga le strinse un poco la mano. «Lascia fare a me. Ti fidi?»
Cora annuì.
«Ma preferiresti farlo tu, vero?»
Ancora una volta, la ragazza rispose in modo affermativo. Saga però avvertì qualcosa di strano: sembrava elusiva.
«Hai forse cambiato idea?» le domandò, quasi con tono deluso.
Per l’ennesima volta, in quei pochi minuti, Cora scrollò la testa.
«Mi rendo conto che è una cosa assolutamente incredibile, pazzesca, che capita solo nelle favole o nei film. So che posso sembrare una scriteriata a…» iniziò a balbettare, «ma… io mi fido di te. E non parlo solo del fatto che continui a risolvere i miei problemi: sento che posso affidarmi a te per tutto. Quindi, no, non ho cambiato idea. Sono felice di poter stare da te… con te.»
Il sorriso di Saga divenne ancora più bello. Sprizzava gioia da tutti i pori per le parole appena udite. Se avesse potuto, avrebbe urlato al mondo quanto l'amava. «Va bene, allora organizzerò il trasloco per domani», si limitò invece a dire.
«Di domenica?» chiese lei, sorpresa.
Subito dopo, Cora osservò il ragazzo impensierirsi all'improvviso, prendere dalla tasca dei jeans malconci il portafoglio e guardare al suo interno, rimuginando.
«Qualcuno una volta mi diede questi per comprarmi un sandwich», disse lui, prendendo da una delle taschiene laterali una banconota da cinque dollari tutta spiegazzata. «Dici che questa persona si offenderebbe se ora li usassi per pagare l’extra per il trasloco?» le domandò con tono serio.
Entrambi i ragazzi rimasero a fissare quella banconota per un minuto intero. Poi, Cora proruppe in una risata spontanea, la prima che Saga avesse mai sentito da lei. Ed era stata così forte che, una volta calmatasi, la giovane aveva le lacrime agli occhi.
«Quel giorno…» sospirò lei, «ci fu un momento nel quale mi pentii di essermi intromessa», disse, abbassando la voce quasi in un sussurro.
«Io ne sono stato felice», rispose Saga.
Le accarezzò la guancia e la salutò con un bacio, stringendola in un lungo abbraccio, attendendo poi che entrasse nella palazzina.

*****

Il semaforo era diventato verde da pochi istanti. In quel momento, il poco traffico che a quell’ora circolava nella zona era rimasto bloccato da una vettura ancora ferma al suo posto e il suo conducente non sembrava intenzionato a ripartire. Solo dopo i numerosi colpi di clacson, la macchina sportiva lasciò via libera agli altri automobilisti incolonnati, svoltando pigramente a sinistra e imboccando la strada laterale, parcheggiando poco dopo, a circa trenta metri dall’incrocio.
L’uomo si piegò sul volante, osservando con molta attenzione, dietro le lenti scure degli occhiali da sole, due giovani che si erano incamminati per quella stessa via. Era stato un caso fortuito che, mentre era in attesa del verde, qualcosa lo avesse portato a girare lo sguardo verso quei ragazzi che stavano procendendo sul marciapiede, venendo dalla direzione opposta alla sua e che, all’incrocio, avevano girato alla loro destra. Sembravano una normale coppietta, poi la sua attenzione si fece più acuta, man mano che li osservava avvicinarsi: si tenevano per mano, parlavano e ridevano, si abbracciavano stretti.
Anche l’uomo aveva sorriso, nel momento in cui aveva deciso di seguirli.
Da dove aveva parcheggiato poteva vederli bene: erano fermi e parlavano, ridevano, si baciavano e poi... alla fine si erano separati: la ragazza era entrata, mentre il giovane, dopo qualche secondo, aveva ripreso a camminare. Anche lui si decise a muoversi. Si immise di nuovo sulla carreggiata e, lentamente, quasi a passo d’uomo, percorse la via, fermandosi per un momento di fronte a un portone, nello stesso punto in cui i due giovani si erano separati. Lasciò il motore acceso, si tolse gli occhiali da sole e si sporse verso il finestrino del lato passeggero per leggere meglio le targhe attaccate sul muro della palazzina.
Senza far trasparire alcuna emozione inforcò gli occhiali e ripartì, decidendo di seguire per un po’ il ragazzo.







Note del capitolo:

Negli altri capitoli, per la forma di cortesia ho usato sempre il "lei". In questo capitolo invece, ho preferito usare anche il "voi", per differenziare i due modi di porsi fra stranieri e fra persone della stessa nazionalità. 

Nella prima scena ho usato l'onorifico più rispettoso -sama - invece del più comune -san - accostato al nome di Saori, in quanto Tatsumi, maggiordomo e guardia del corpo, è un giapponese che si rivolge ad un altro personaggio di origine giapponese, Saori appunto, di rango superiore. Il -sama in questo caso attribuisce un grado maggiore di rispetto ed evidenzia la differenza di ceto sociale fra i due personaggi. Mentre riferendosi a Shion, qui di origine americana, quindi occidentale, l'uso del "Mr." è più appropriato anche se un giapponese potrebbe tranquillamente usare il -san accostato ad un nome straniero. In questo caso ho voluto evidenziare anche la differenza culturale. Si sa che i giapponesi, almeno le vecchie generazioni, sono molto rigidi e conservatori riguardo la loro origine e adottano comportamenti discriminatori (Può sembrare una cosa spiacevole da dire, ma è un'esperienza diretta, nonché una cosa storicamente accertata), sia fra di loro, sia soprattutto con gli stranieri. Naturalmente non tutti i giapponesi sono uguali e si comportano in quel modo, non si fa di tutta l'erba un fascio, diciamo che hanno idee piuttosto conservatrici e nazionalistiche.

Omiai: o più semplicemente "miai", è il termine con il quale si indica l'usanza tradizionale nel combinare dei colloqui a scopo matrimoniale. I fan di vecchia generezione ricorderanno senz'altro il manga e l'anime di Maison Ikkoku (Cara dolce Kyoko, nella versione italiana), dove appunto veniva rappresentata questa usanza. Ma anche in Glass no Kamen, più o meno dagli ultimi 10 volumi in poi, si riscontra il matrimonio combinato. E ci sono sicuramente tanti e tanti altri esempi nell'ampio panorama dei manga giapponesi.

Yomeiri: è il termine con il quale si indica che la donna entra nella famiglia del marito. È una usanza tradizionale giapponese che affonda le sue radici molto in là nel tempo (circa il XIV o XV sec.), ma che ancora oggi, anche se in maniera forse meno rigida, talvolta viene rispolverata, nella quale la futura moglie andava a vivere nella casa della famiglia del marito, per imparare ad essere una buona moglie. Veniva letteralmente addestrata a tale compito, fino al giorno del matrimonio. Questo tipo di usanza la si può trovare nello strepitoso manga di Waki Yamato, "Haikarasan ga toru", conosciuto in Italia anche col titolo "Mademoiselle Anne" per quanto riguarda l'anime e "Una ragazza alla moda" per la versione manga. 

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Capitolo 16
*** Capitolo XV ***





Abbandoniamo per un momento le atmosfere del giallo e dedichiamoci in questo capitolo a fare un ulteriore passo per sviluppare un po' il rapporto padre/figlio, (mannaggia ad Aiolos che si sta prendendo più spazio del dovuto!) ma anche padre/figlia, anche se un po' atipico. Questo tipo di rapporto è di per sé particolare: è un qualcosa che anche nella vita reale può andare ben al di là del sangue o di un nome in comune ed essere ugualmente inscindibile e sacro. Perché è l'amore che conta veramente!
Inoltre, ho preferito dare spazio ad una specie di slice of life (se così si può definire, perché per me è proprio un'incognita questa nota) della coppia protagonista. Se dovesse piacermi, chissà che non ci scappi qualcos'altro. In attesa di entrare nella parte più movimentata e cupa della storia, ma cercando di essere graduale ed essendo già in periodo di vacanze... che altro dire...

... Buona lettura!




XV




Era passata quasi un'ora da quando Aiolos aveva parcheggiato sul lato opposto della strada, di fronte alla caserma dei vigili del fuoco, attendendo di veder uscire il padre. Non sapeva quando sarebbe successo, forse il suo turno era già finito, forse quello era il suo giorno libero. Doveva ammettere che non conosceva praticamente nulla di quell'uomo: non aveva mai voluto interessarsene. Ora invece, pochi giorni dopo esserci stato con Aiolia, era di nuovo lì, ma di certo non con l'intenzione di ricucire il rapporto.
Alzò per un momento lo sguardo verso la caserma: a parte un paio di persone che chiacchieravano e fumavano, non c'erano movimenti. Tornò a studiare alcuni fogli che aveva stampato quel pomeriggio. Era un vero e proprio piccolo dossier, messo insieme raccogliendo articoli di vecchi giornali visionati in biblioteca e notizie varie trovate in rete. Corrugò la fronte nel girare il foglio, posandolo sulla cartelletta che teneva aperta sul sedile del passeggero, senza però staccare gli occhi dai restanti.
«Non è la stessa con la quale sei venuto l’altro giorno. Questo modello sportivo è molto bello. È italiana, vero? Il colore rosso fiammante ti si addice, però se volevi passare inosservato hai sbagliato i tuoi calcoli.»
Aiolos girò di scatto la testa e si ritrovò il padre appoggiato allo sportello, che lo guardava con un grande sorriso sul viso arrossato e stanco. Sulla pelle portava ben visibili i segni di lievi ustioni. Dal notiziario della notte aveva appreso del grosso incendio scoppiato in una fabbrica abbandonata nella zona portuale che aveva poi coinvolto anche alcuni magazzini adiacenti. Evidentemente anche il padre – assieme alla sua squadra – aveva preso parte alle operazioni di pronto intervento.
«Gli Hayes hanno un discreto parco macchine fra cui scegliere», rispose, simulando scarso interesse verso l'altro.
«Già, immagino. Non c’è confronto con la mia umile monovolume di produzione nazionale che sto pagando a rate», sospirò Thomas. «Comunque, non è in questo modo che ferirai il mio orgoglio di uomo», aggiunse in tono asciutto. «Allora, cosa ti porta da queste parti, lavoro o piacere?»
«Credo che sia stato un errore venire qui.»
Aiolos ripose i fogli nella cartelletta e allungò la mano verso la chiave di accensione, ma fu anticipato da Thomas che, sporgendosi verso l’interno, gliela rubò praticamente da sotto il naso. Poi, indurendo lo sguardo, l'uomo aprì la portiera.
«Scendi da quest'auto, recluta, e dimmi il motivo per il quale sei qui!» ordinò con piglio militare.
Aiolos fu costretto ad assecondare il padre, ma se ne pentì subito, poiché l'altro, ritrovando il suo buonumore, gli mise un braccio sulle spalle stringendolo a sé e trattandolo come un compagno di bevute. Non contento, se lo trascinò dentro la caserma e fin nello spogliatoio.
Nel suo completo impeccabile, la cravatta annodata stretta e il cappotto scuro, che slanciava la sua figura atletica, Aiolos si sentiva fuori posto in quell'ambiente caotico e che puzzava di sudore e di bruciato, sottolineando quel sentimento con una più che evidente smorfia di disgusto. Non vedeva l'ora di uscire di lì.
«Come sono i vostri rapporti con la polizia?» gli chiese, mentre l'altro terminava di cambiarsi.
«Come mai questo interesse?» ribatté il padre, ficcando malamente nella sacca la tuta e la maglietta sporche, chiudendo poi l'armadietto. Vide l'espressione cupa sul viso del figlio e sospirò. «Non aspettarti il solito cliché che viene rappresentato al cinema e in tv», gli disse, con voce ferma e sicura. «Comunque, a parte una sana rivalità fra le squadre di basket e di baseball, dei vari distretti, nelle partite di beneficenza, direi che i rapporti sono nella norma. Naturalmente ci sono simpatie e antipatie personali, ma questo è un discorso a parte. La cosa sicura è che non c’è l’odio viscerale come fra i Marines e la Marina Militare, oppure l’Esercito. Questa è una convivenza più civile. Noi, come loro, serviamo la città e la comunità», terminò, tirando bene i lacci degli scarponi e buttandosi la sacca in spalla, com'era abituato a fare quando era nei Marines. «Per caso vuoi arruolarti nella polizia e stai chiedendo la mia benedizione?»
«E rinunciare al mio stile di vita? No, grazie!»
Come poteva essere altrimenti, vista dall’ottica del ragazzo? Lui vestiva con abiti firmati, guidava macchine costose, aveva un lavoro di responsabilità e poteva arrivare a guadagnare anche cifre a sei zeri. L’uomo che invece aveva di fronte a sé, in un anno a malapena guadagnava quello che lui prendeva in un mese; e non poteva nemmeno permettersi di pagare la retta universitaria di Aiolia.
«No, non mi interessa», confermò piuttosto sdegnato. «Mi stavo chiedendo se per caso in passato avessi conosciuto un poliziotto di nome Miller. Credo che più o meno avesse la tua età.»
«Miller hai detto? Come nome è abbastanza comune. Di quale distretto fa parte?» domandò Thomas.
«“Era” un poliziotto», rimarcò Aiolos. «È morto da molti anni, ormai. Ho cercato informazioni nell’archivio online dei giornali di Boston ma ho trovato solamente che era del distretto 15 e poche righe sulla sua morte.»
«Mmmh, da quando mi sono congedato dai Marines e sono entrato nel corpo dei vigili del fuoco, sono stato di stanza in tre caserme differenti, prima di fermarmi qui in modo definitivo. Non escludo che potrebbe anche essermi capitato di incrociare la strada di questo tizio, ma non ne sono sicuro. Però…» Thomas si portò una mano al mento, grattandosi la barba incolta, riflettendo per qualche altro secondo. «Forse conosco una persona che fa al caso tuo! Il vecchio Al è nei vigili del fuoco di Boston da una vita. È una vera istituzione per tutti noi. Vieni!» disse, dandogli una pacca sulla spalla e trascinandolo di nuovo con sé. «Te lo faccio conoscere. Bada però che è un tipo un po' particolare.»

Thomas lo condusse su per delle scale fino al piano superiore, e poi in uno stanzone che, spiegò al figlio, fungeva da mensa. La cucina era stata ricavata in una larga rientranza e chiusa con pareti di cartongesso che la celavano alla vista, ma non potevano trattenere i rumori e le voci – le lamentele molto colorite – di chi vi stava lavorando dietro.
«Ehi, Al, hai un minuto per me?» urlò l’uomo. In risposta ricevette una serie di improperi che si erano sentiti ancora più nitidamente di prima.
«Che diavolo ci fai ancora qui? Ero convinto che non vedessi l’ora di tornartene a casa, visto che il tuo doppio turno è terminato da un pezzo!» sbuffò il vecchio, uscendo dalla porta a soffietto e avvicinandosi lentamente ai due.
«È vero, ma il rapporto dell’intervento di ieri notte mi ha preso un po’ più tempo di quanto pensassi. Lo sai che sono una frana con i documenti ufficiali», rispose l’altro, con tono gioviale.
«Tieni! Se proprio ti va di rimanere, vieni a darmi una mano di là», disse il vecchio, gettandogli addosso lo strofinaccio che aveva portato con sé. «E quello chi è, una nuova recluta? Spero sia migliore delle ultime due che mi hai assegnato! Le ho mandate a fare una semplice commissione e non sono ancora tornate!»
«Starei volentieri a darti una mano, ma poi chi la sente mia moglie?» rispose Thomas, scrollando la testa e sorridendo. «Al, vorrei presentarti una persona. Questo è mio figlio Aiolos, il mio primogenito!»
Agli occhi di Aiolos, quel vecchio sembrava così fragile e malandato che si chiese perché fosse ancora impiegato lì e quale utilità potesse ancora avere per i vigili del fuoco. Lo aveva visto zoppicare, appoggiato alla stampella, quando si era avvicinato a loro. Si era aspettato che crollasse a terra da un momento all’altro; invece, quando gli strinse la mano, sentì una stretta vigorosa tanto quanto quella del padre.
«Aiolos, lui è Alfred: il più anziano vigile del fuoco ancora in attività di tutto lo Stato. È una vera leggenda! Conosce tutto e tutti a Boston. Sono sicuro che grazie a lui troverai quello che cerchi.»
Nell’atteggiamento del figlio, Thomas vide con dispiacere l’intenzione di quest’ultimo di non voler partecipare alla conversazione e, dopo qualche secondo di silenzio teso, prese nuovamente l’iniziativa.
«Siamo alla ricerca di alcune informazioni su un certo…» fece una pausa per guardare il figlio, cercando un qualche tipo di conferma. «Miller, mi pare che si chiami: è un poliziotto. Nella tua vita hai conosciuto parecchi poliziotti, che ci sai dire?»
«Miller, eh?» ripeté il vecchio, grattandosi il mento con la mano rugosa e piena di calli. «E che volete sapere?»
Camminava con molta fatica, incespicando quasi nei suoi passi, soprattutto quando partiva da fermo, caricando tutto il peso del corpo sulla stampella che reggeva con il braccio sinistro. Sullo stesso lato, la gamba del pantalone, sgualcito e sporco, mostrava delle pieghe anomale: a ogni passo si vedevano dei vuoti sospetti.
«Sì, ragazzo, questa è una gamba finta!» esclamò Al, senza alcuna vergogna, notando come lo sguardo di Aiolos si fosse soffermato in modo tanto insistito sul suo arto inferiore. «Me la sono guadagnata quando ancora questo pivello non sapeva gattonare», disse, indicando con un ampio gesto della mano colui che ora invece portava i gradi di tenente e che subito alzò al cielo gli occhi, tirando un profondo e sconsolato sospiro.
L’attenzione di Aiolos era però sempre concentrata su quell’unico punto. Il suo sguardo curioso si alternava a fastidio, sottolineato anche da piccole espressioni che il suo viso tradiva nell’osservare quel vecchio che, sedutosi su una delle sedie lì vicino, non si curava affatto che una parte della protesi si intravvedesse da sotto il pantalone.
«Allora, mi chiedevate di Miller, vero? Perché questo interesse?»
«Per una questione di lavoro», rispose Aiolos, con modi secchi. Faticava a mantenere gli occhi sul volto dell’uomo, troppo calamitati sempre su quel punto particolare, che lo disgustava e, al tempo stesso, lo attirava.
«Vuoi sapere come l’ho persa?» lo provocò Al, con un mezzo ghigno che accentuava le profonde rughe sul suo volto. Poi, tornò all'argomento principale. «E a cosa può servirti conoscere la storia di un morto? Queste sono cose che di solito interessano ai poliziotti e tu non mi pare lo sia, altrimenti avresti tutte le informazioni che ti servirebbero, oppure ai giornalisti. Ragazzo, sei per caso un giornalista ficcanaso?»
Il vecchio si mosse impacciato sulla sedia, piegandosi lievemente di lato per riuscire a prendere le sigarette dalla tasca dei pantaloni. Si portò alla bocca l’ultima del pacchetto, tenendola stretta fra le labbra.
«Al, non dovresti fumare», lo redarguì Thomas.
«Lo so!» rispose seccamente Al, facendo seguire qualche colpo di tosse. «Ma nessun medico potrà impedirmi di sentirne almeno l’odore!»
Il vecchio rimase per qualche momento in silenzio, a pensare, chiudendo gli occhi e muovendo la testa come un pendolo. «Miller…» Aprì di nuovo gli occhi e concentrò lo sguardo sul ragazzo, scrutandolo attentamente. «Non c’è niente di interessante da sapere sul conto di Miller: era un poliziotto duro, uno di quelli della vecchia scuola, una carogna nel vero senso della parola. Per lui il lavoro veniva prima di tutto», iniziò a raccontare, intanto che anche gli altri due si mettevano a sedere. «Detestava i vigili del fuoco, non ci poteva proprio vedere e il sentimento, puoi starne certo, era più che reciproco! Ma ormai è morto da almeno una decina di anni e i rancori sono stati seppelliti con lui.»
Al fece una pausa, grattandosi il mento, sbuffando e provando a richiamare i suoi ricordi. Poi riprese a raccontare. «Quel vecchio era un vero stronzo… però era anche un povero diavolo. Per molti anni siamo stati acerrimi avversari a poker, ma in un certo senso eravamo anche amici.»
«Credo ci sia stato un fraintendimento, non è lui la persona che mi interessa», intervenne Aiolos, con tono spazientito, balzando in piedi pronto a girare i tacchi per andarsene.
«Siediti, ragazzo!» lo richiamò in tono burbero Al, brandendo la stampella e dando un colpo secco alla sedia sulla quale, pochi attimi prima, era seduto Aiolos. «Siediti e ascolta il mio racconto.»
Il giovane si sentì scrutato così nel profondo, da quegli occhi tanto penetranti, che per un attimo avvertì le gambe diventare molli. Contrasse la mascella in modo nervoso. Nessuno lo aveva mai trattato in quel modo. Quel vecchio gli faceva uno strano effetto; nonostante l’aspetto malandato, aveva un carattere eccezionalmente forte, forgiato da una vita fatta di sacrifici, durante la quale doveva aver visto di tutto. Neppure il grande ritratto dell’arcigno e austero mr Hayes, nella biblioteca della villa a Mystic Lake, gli aveva mai fatto provare le sensazioni che stava provando in quel momento. Gli occhi scuri e profondi di quel vecchio di colore, lo facevano addirittura tremare. Tornò a sedere al suo posto, mordendosi il labbro e ingoiando l'umiliazione.
«Voi giovani d’oggi siete troppo impazienti. Se non ottenete le cose tutto e subito, mandate in malora il mondo, vero? Non ti farebbe male imparare l’arte della pazienza e soprattutto un po’ di rispetto per gli anziani», lo rimproverò Al, puntandogli il dito contro.
Poi, un improvviso colpo di tosse gli fece cadere la sigaretta di bocca, facendola finire per terra, accanto al suo piede sano. Con un gesto di stizza la schiacciò.
«Il sergente Miller era una brava persona. Dannatamente orgoglioso della sua famiglia e soprattutto del figlio Gregory. Dei suoi figli, lui era il più giovane ed era l’unico che aveva seguito le sue orme in polizia. Ogni volta che ci incontravamo per i nostri pomeriggi di schermaglie, non smetteva mai di parlarne, elogiando con grande trasporto i suoi pregi e i suoi successi, ma non si risparmiava neanche in critiche, per i suoi difetti. Diceva sempre che lo avrebbe voluto più sul campo invece che a fare lo scribacchino dietro una scrivania. Però… ci fu un periodo in cui furono ai ferri corti.»
Nel dire quelle parole, Al aggrottò la fronte, prendendo un’aria pensosa. Subito dopo però, proruppe in una fragorosa risata, battendo la mano sulla coscia dell’arto menomato, sotto gli occhi divertiti di Thomas e quelli invece più nervosi e impazienti di Aiolos.
«Sì, quel giorno fu memorabile! Lo ricordo ancora come fosse ieri: era una domenica pomeriggio piuttosto fredda e grigia. Quella fu l’unica occasione in cui riuscii a ripulirlo a poker; e non mi ci vollero neppure due ore! Si era presentato talmente incollerito che aveva fatto scappare tutti nel raggio di venti metri da noi. Continuava a sbagliare ogni mano, una dopo l’altra! E dopo l’ultima che aveva perso, con un gesto di stizza aveva buttato all’aria le carte! Solo dopo la terza bottiglia di birra iniziò a sputare il rospo. Il motivo di tanta rabbia era che il figlio, senza dire nulla alla famiglia, si era sposato. Di punto in bianco. Poi, un giorno, si sono presentati entrambi, marito e moglie, alla porta di casa; ma a cose già fatte. Però, quello che più gli dette fastidio, era che lei non era americana, o almeno non del tutto. Era naturalizzata, quindi legalmente americana, ma per il vecchio era la stessa cosa: era solo una straniera. Diceva sempre: “Se non sei nato in America, da genitori americani di almeno cinque generazioni, allora non sei un vero americano!”»
Alfred fece di nuovo una piccola pausa, tossendo a più non posso: colpa della troppa enfasi con la quale stava raccontando. Si rivolse a Thomas chiedendogli dell’acqua e l’uomo, senza pensarci un solo istante, scattò in cucina, tornando pochi secondi dopo con un bicchiere colmo fino all'orlo.
«Devo ammettere che quel vecchio orso per certe cose era un vero razzista. Col tempo se ne fece una ragione, solo per il bene di suo figlio naturalmente, perché lo amava; e con l’arrivo della nipotina si era anche addolcito, nonostante la contenuta delusione di sapere che fosse una femmina. Ma un nipote è sempre una gioia e quella bambina era un vero angelo. La morte di Greg però cambiò tutto: il clan dei Miller andò in pezzi e lui, il mio vecchio amico, si chiuse in se stesso. Negli ultimi anni perse completamente la voglia di vivere, preferendo lasciarsi consumare dal rancore. Accusava la nuora di aver messo in testa strane idee al figlio, di averlo trasformato in un ambizioso perché sognava l’FBI. Apriti cielo! Polizia e federali sono come l’acqua e l’olio. Miller li considerava peggio di noi vigili del fuoco. Di certo, se Greg fosse riuscito a diventare un federale, non gli avrebbe più rivolto la parola. Il momento peggiore fu quando accusò la donna di averlo portato alla morte. Ma sono sicuro che quelle parole fossero solo figlie dell’immenso dolore per la morte del suo figlio prediletto.»
Il vecchio sospirò. I suoi occhi divennero lucidi per la commozione, nel ricordare quei giorni. Si passò la mano sul volto, mentre con l’altra stringeva forte l’impugnatura della stampella.
«Questo è tutto, ragazzo. Ora sparite entrambi e non fatemi perdere altro tempo!» tuonò, recuperando il suo solito tono burbero.
Con un movimento pesante si alzò dalla sedia e diede loro le spalle, incamminandosi verso la cucina, ma si fermò di fronte alla porta a soffietto.
«Tom, visto che sei ancora qui, vammi a cercare quei due pivelli sfaccendati: oggi spetterebbe a loro il turno in cucina. E che si presentino qui entro cinque secondi! Altrimenti, caposquadra o meno sarai tu a prendere il loro posto! E domani, a quei due lavativi spetterà pulire le autocisterne con il loro spazzolino da denti!»
In quel suo modo di fare si poteva avvertire tutta la saggezza e la comprensione di un nonno che rimprovera i nipoti. Era difficile avere a che fare con un tipo come lui, ma tutti, in quella caserma, gli volevano bene e lo rispettavano.
«D’accordo Al, te li riporto qui di peso appena li vedo! Grazie per il tuo tempo», rispose Thomas, rincorrendo il figlio fuori dalla caserma, che non aveva atteso un minuto di più, dopo quel congedo poco ortodosso, a uscire da lì.

Thomas riuscì ad agguantare il figlio solamente una volta arrivati davanti all'auto. Gli afferrò il braccio e lo voltò a forza, rammaricato e al tempo stesso in collera per il comportamento che Aiolos aveva tenuto per tutto il tempo: sempre al limite dell’ostilità.
«È stato scortese e inappropriato da parte tua comportarti in quel modo nei confronti di quell’uomo! Te ne sei andato senza nemmeno ringraziarlo per il tempo che ci ha dedicato», gli disse a muso duro.
«È stato scortese che tu mi abbia messo in quella situazione. Ti diverti forse a mettermi in difficoltà?» gli rinfacciò Aiolos, con voce rabbiosa.
Lo fissò negli occhi per diversi secondi, ma dovette cedere, sotto lo sguardo prepotente del padre, che stava riuscendo a sottometterlo. Vergogna, repulsione e sgomento, si mescolavano nel suo animo di ragazzo vissuto nella bambagia. Erano sentimenti così violenti che in un attimo i suoi occhi divennero lucidi. Si girò verso l'auto per non mostrare la propria debolezza, ma l'altro lo comprese immediatamente.
Durante gli anni passati nei Marines prima, e nei vigili del fuoco dopo, Thomas aveva visto e vissuto innumerevoli volte quelle stesse emozioni che ora stava provando il figlio e poteva capirlo. Con determinazione, lo fece girare verso di sé e lo abbracciò forte, accarezzandogli la testa, senza rimproverarlo ulteriormente.
«Mi dispiace che tu sia rimasto così turbato. Il vecchio Al a volte si diverte a mettere alla prova le persone mostrando con noncuranza le proprie menomazioni. Mi dispiace davvero, Aiolos.»

*****

Cora si era separata da Saga da neanche un’ora e, come la prima volta che si era presentata per quel lavoro, si ritrovò con la mente continuamente distratta dal pensiero di lui. Questa volta era un turbamento piacevole, che la distoglieva dai suoi compiti e la faceva imbambolare, sorridere e sospirare. Quei brutti momenti nei quali si era disperata perché non aveva più una casa sembravano scomparsi come per magia, grazie a un semplice schiocco di dita del suo principe azzurro che aveva fatto apparire davanti a lei una casa più grande e più bella.
Tornò alla sua postazione carica di cartelle polverose. Le buttò sulla scrivania e si lasciò cadere sulla sedia, abbandonandosi poi sopra di esse quasi sfinita. Fece un respiro profondo, ma ne uscì un sospiro trasognato. Non si era mai sentita in quel modo: con lo stomaco aggrovigliato, la testa letteralmente fra le nuvole e piena di strani pensieri sdolcinati e tanto fiacca da pensare seriamente di essere malata.
Si appoggiò allo schienale della sedia tutta sgangherata, iniziando a spingere  leggermente con i piedi in un lento dondolare. Passò in quel modo una mezz’ora abbondante, senza riuscire a combinare nulla se non sognare a occhi aperti.
Stufa di quella giornata, che sapeva sarebbe stata inconcludente, chiamò la segretaria di Edward Price. Senza tanti preamboli, o inventare scuse astruse, chiese di poter staccare presto quel giorno. Sul momento non si stupì della facilità con la quale avesse ottenuto il permesso, né si domandò il perché di tanta disponibilità, ma raccolse rapidamente le sue cose, con il cuore che palpitava ancora eccitato. Prima di uscire, si soffermò con lo sguardo su una pila di fascicoli che in quei pochi giorni aveva selezionato con cura – man mano che le passavano sotto mano – e si trovò indecisa se portali via con sé, oppure no.
Col giaccone sul braccio, la tracolla in spalla e un sorriso raggiante sul viso, uscì di corsa dal magazzino.
Anche se l’aveva percorsa per un tempo relativamente breve, la strada verso il suo vecchio appartamento le era diventata così familiare da poter dire di conoscerla ormai bene. Percepì un vago senso di nostalgia nel passare davanti al bar con l’internet point dove aveva passato dei pomeriggi sereni, nell’osservare quel susseguirsi di case e negozi e infine nel superare il ristorante del vecchio Dohko. Sapeva che di lì a poco sarebbe arrivata nuovamente di fronte alla palazzina che comprendeva anche quell’appartamento che, la prima notte del suo ritorno a Boston, l’aveva spaventata e fatta piangere dallo sconforto.
Saga aveva ragione. Non doveva considerare quel trasloco come una fine, ma come un miglioramento della sua vita. Eppure, nonostante la fiducia che sentiva di poter riporre in quel meraviglioso ragazzo che il destino le aveva fatto incontrare, sentì dentro di sé di essere stata condannata a una sorta di esilio da quel piccolo mondo che si era costruita con le proprie forze.
Rallentò il passo, man mano che si avvicinava alla sua destinazione, riflettendo su ciò che avrebbe comportato quel cambiamento ormai inevitabile, mentre il suo cuore invece accelerava i battiti. Quando fu di fronte alla porta dell'appartamento, rimase a fissarla mordendosi il labbro, nuovamente con la testa piena di dubbi.
Quando la aprì, vide che ogni cosa era rimasta come l’aveva lasciata la notte precedente. Non poteva essere altrimenti, però le faceva ugualmente uno strano effetto. La casa sembrava desolata. Appoggiò il giaccone e la borsa su uno degli sgabelli del bancone per la colazione e chiuse gli occhi per raccogliere i propri pensieri e stabilire a cosa dare priorità, condendosi un respiro profondo. Il primo passo sarebbe stato quello di recuperare dal seminterrato i suoi scatoloni e qualche vecchio giornale per imballare le sue cose. Avrebbe poi messo insieme i vestiti, le scarpe e la biancheria per la casa; poi, il resto di quello che si era portata da Philadelphia, i ricordi del padre e, per finire, avrebbe inscatolato il computer.
E per i mobili che si era comprata? Fece vagare lo sguardo per la stanza, le dispiaceva lasciarli, ma era certa che non le sarebbero serviti.

Era seduta a terra a gambe incrociate, immersa fra i fogli di giornale. Sparsi qua e là, mucchi di ninnoli e libri, messi rigorosamente a casaccio. Alcuni scatoloni erano riempiti a metà, altri ancora vuoti. Ogni oggetto che passava per le sue mani e che avvolgeva con cura, le riportava alla mente dei ricordi: frammenti della sua adolescenza, della sua casa, dell'appartamento che aveva condiviso con Chris. Senza rendersene conto si erano fatte le nove di sera. Cora alzò la testa di scatto, risvegliata da un improvviso tuono che aveva fatto tremare i vetri delle finestre. Solo in quel momento si accorse che fuori era già buio pesto.
Ancora col cuore in gola per lo spavento, sentì il trillo del cellulare. Lo cercò dappertutto, in quel marasma che era diventato il salotto. Quando finalmente fu nelle sue mani, aveva già smesso di suonare. Sullo schermo erano indicate due chiamate perse, da due numeri diversi, e un messaggio in arrivo. Tutti erano contrassegnati come “anonimo”, poiché lei non aveva mai imparato a usare correttamente la rubrica: gli unici registrati erano quelli dei suoi familiari e di Chris, che le aveva inserito Mickey.
Sbuffò, alzandosi in piedi; sentì la gola secca ed entrò in cucina per prendere qualcosa da bere. Come un riflesso condizionato, passando accese il computer e, una volta presa la sua fedele mug gigante, piena di caffellatte, vi si sedette davanti. Si ripromise di distrarsi solo per qualche minuto, giusto il tempo di controllare le e-mail, invece... Cora ci stette per più di un'ora davanti a quello schermo, a leggere – fra una lacrima e un sorriso – le e-mail che aveva ricevuto nell'ultima settimana e a rispondere a quelle meno complicate. Una in particolare le aveva fatto piacere ricevere, ma al tempo stesso l'aveva rattristata, nella quale Chris le comunicava di aver fatto domanda per un posto da insegnante in una scuola di Fresno, in California. Gli voleva molto bene e gli augurava tutta la fortuna del mondo per la sua vita e la sua carriera, ma l'idea che sarebbe andato così lontano le lasciava un vuoto dentro.

«Non dovresti tenere aperta la porta di casa, potrebbe entrare qualche malintenzionato», risuonò alle sue spalle una voce a lei familiare, facendola sussultare e voltare indietro.
Cora sgranò gli occhi per la sorpresa. «Zio Phil!» esclamò, scattando in piedi quasi rovesciando la sedia per terra. «Ma che ci fai qui? Ci sono problemi a casa? La mamma sta bene? E Mickey? Perché non mi hai avvertita che venivi a Boston, sarei venuta a prenderti!» disse, precipitandosi ad abbracciare il patrigno e subissandolo di domande, senza dargli il tempo di rispondere.
«Calma, calma, bambina mia. Va tutto bene», la rincuorò lui. «E poi, se ti avessi avvertita, che sorpresa sarebbe stata?»
La guardò con occhi pieni di orgoglio paterno. Non aveva mai avuto dubbi che Cora se la sarebbe cavata a vivere da sola e, vederla davanti a sé, in piena forma, ne era la conferma.
«Ero nei paraggi per alcune questioni di lavoro e già che c’ero non potevo non approfittarne per venire a vedere come te la stavi cavando, ti pare?» Poi, diede un’occhiata attorno, sorridendo sconsolato per tutto quel caos.
«Davvero? Ma guarda che tempismo! Perché mi suona come una bugia?»
«Allora diciamo che ho avuto la sensazione che ci fosse qualche problemino e sono venuto a controllare.»
«E sei venuto di corsa, vero?» replicò Cora, in tono risentito.
L’ex capitano Burton non diede seguito alla discussione. Liberò un angolino del divano e vi si sedette. Cora invece gli diede le spalle e tornò al computer, terminando velocemente la risposta all'e-mail scritta a più mani da alcune ex compagne del college.
«Ti posso offrire qualcosa?» chiese all’uomo, dopo aver spento il computer ed essere entrata in cucina. Aveva appena aperto il frigorifero quando sentì la suoneria del suo cellulare indicare che era arrivato un messaggio. Lo prese in fretta e lesse il messaggio. D'un tratto si sentì emozionata. Poi, cercando di simulare tranquillità, tornò in cucina; il suo comportamento però, non passò inosservato a Phillip.
«Avresti dovuto aspettartelo che ti avrei fatta tenere d’occhio. Lo sai che per me sei importante e il tuo benessere mi sta a cuore», le disse, ritornando sull’argomento, prendendo il bicchiere d’acqua che lei gli stava offerto. «Non c’è stato un solo momento, da quando sei partita, che tua madre e io non ci siamo preoccupati per te. Tu però non hai mantenuto i patti: avevi promesso di farti sentire ogni giorno.»
Preferì non insistere troppo, in quella che, nelle sue intenzioni iniziali, sarebbe dovuta essere una ramanzina coi fiocchi. Nonostante i tanti anni passati a comandare un intero distretto di polizia, con la giovane Caroline non era mai riuscito a essere davvero severo, anche se le parole che le aveva rivolto avevano comunque un lieve tono di rimprovero.
«Che quel vecchio fosse poco affidabile, lo avevo capito fin da subito, ma che fosse ancora un tuo informatore… accidenti, avrei dovuto immaginarlo!» si lamentò Cora, dandosi della stupida per non averci pensato prima e aver creduto di essere finalmente libera dall’occhio vigile del patrigno.
«Piccola mia, quando uno lo fa una volta, poi non può più smettere di farlo», le spiegò Phillip, con voce pacata. «Il mestiere dell’informatore è pericoloso, è come camminare su una corda tirata su un precipizio e senza rete di salvataggio. Da un lato è vero che si è “protetti” dalla polizia e finché si è utili si mantiene quello status e una certa libertà di azione; dall’altro lato invece, si corre il rischio di esporsi troppo, di venire scoperti e…»
Non era necessario terminare quel ragionamento, affinché Cora ne comprendesse il significato. La giovane sapeva molto bene ciò che Phillip volesse dire.
«Dohko è un amico, è vero, ma non nel senso tradizionale del termine. Diciamo che è una via di mezzo. Ci ha fatto un grande favore dandoti un posto sicuro dove stare, con il poco preavviso che ha avuto; e non puoi biasimarlo per aver fatto quello che gli avevo chiesto.»
Phillip continuò a scrutare la ragazza, mentre le parlava, e quello che notò non gli piacque affatto. Anche se indaffarata a smontare e ritirare il computer, vedeva come lei gettasse fin troppo spesso un occhio al suo cellulare, neanche stesse aspettando una telefonata importante.
«Dohko cosa ti ha detto per farti correre fin qui?»
«Non è sceso nei particolari», rispose Phil, facendosi d’un tratto serio. «Mi ha chiamato ieri notte, quasi in preda al panico. Farfugliava cose strane, mi accusava di avergli giocato un brutto tiro. Mi ha detto anche che frequenti dei tipi strani.»
La vide fermarsi di colpo, come colta in flagranza di reato; poco dopo però, lei accartocciò fra le mani un giornale intero, quasi a sfogare il nervosismo. Phillip si accovacciò vicino a lei, posandole le mani sulle spalle.
«Non dovrei immischiarmi in questo modo nella tua vita. È solo che non posso fare a meno di preoccuparmi. Sei così lontana da noi. Qui non posso aiutarti né proteggerti, se tu dovessi averne bisogno», le disse.
«Lo so, zio Phil», sussurrò lei, facendo un respiro profondo e accarezzandogli una mano. In quel momento il suo corpo si rilassò. «E ti confesso che ho avuto dei momenti difficili in cui volevo arrendermi e tornare a casa di corsa. Però… non voglio dare questa soddisfazione alla mamma», disse, girandosi verso di lui e mostrandogli un sorriso. «Sono una sciocca, vero?»
I seguenti dieci minuti passarono molto lentamente e nel silenzio quasi assoluto, in quell’appartamento. Cora continuò a inscatolare le sue cose e Phillip, dal canto suo, rimase a guardarla lavorare, aspettando solo il momento giusto perché lei gli confessasse ciò che gli stava tenendo nascosto. Aveva troppa esperienza per non capire certe cose.
«Sai…» disse Cora, mentre si alzava da terra, passando accanto al patrigno, che invece, con ancora in dosso il cappotto, si era accomodato su uno degli sgabelli. «ho ritrovato una nostra, per così dire, vecchia conoscenza, qui a Boston.»
A quelle parole, lo sguardo dell’ex poliziotto si fece più attento.
«Ricordi quel ragazzo della metropolitana? No, ti prego, non ti allarmare.» Cora vide subito come l’uomo si fosse irrigidito. Temendo una qualche reazione esagerata da parte sua, lo trattenne aggrappandosi al suo cappotto. «Non è proprio mr Simpatia, ma credo sia un bravo ragazzo.»
«Meglio per lui», ribatté con rabbia l'uomo. «Non ci metterei molto, altrimenti, a rintracciarlo e piantargli una pallottola in testa.» Nel pronunciare quelle parole, mostrò la pistola che portava nella fondina sotto al braccio.
«Oh, ma per favore!» esclamò esasperata lei, per quell'atteggiamento alla “Ispettore Callaghan”, tipico del suo patrigno. «Il fratello ancora non l’ha mandata giù quella storia e praticamente mi odia per ciò che è successo.»
«Hai già trovato un’altra sistemazione?» le domandò l'uomo, cambiando discorso.
Cora abbassò lo sguardo, arrossendo imbarazzata a quel pensiero. Annuì brevemente e occupò le mani nel chiudere uno scatolone ormai pieno. «Ho conosciuto una persona», iniziò a raccontare. «Mi ha aiutata e mi è stata vicina», disse. La sua voce si faceva via via più emozionata. «Mi trasferisco da lui.»
Phil scattò in piedi e l'afferrò con forza per un braccio, facendola voltare verso di lui. «Ma che diavolo stai combinando?» le urlò con tono quasi minaccioso. «Sei qui da quanto, neanche due mesi e già vai a vivere con un uomo? Uno sconosciuto! Tutti quegli sguardi al cellulare, il tuo essere distratta, gli imbarazzi nascosti… era lui che ti cercava, vero? Ma che ti dice il buon senso?»
Poi, come riscosso da una secchiata d'acqua ghiacciata, per quegli occhi pieni di terrore che lo stavano fissando, si bloccò e la lasciò andare. Si passò una mano fra i ricci ormai striati di grigio e fece dei respiri profondi. Si pentì subito della reazione che aveva avuto. Non avrebbe mai voluto trattare in quel modo la sua Caroline. Quello sguardo spaventato era così simile a quello che le aveva visto quando quel pazzo di Deline, nell’aula di tribunale, mentre lo trascinavano via a forza, le aveva lanciato contro le sue minacce.
«Accidenti!» esclamò ancora adirato. «Mi sembra di rivedere tuo padre, quando  prese e si sposò di nascosto. Lui è stato fortunato, tua madre è…» sospirò.
Qualunque cosa avesse detto nei riguardi di Teresa sarebbe stata inadeguata e soprattutto, il suo giudizio era offuscato dall’amore che provava per quella donna che era in procinto di sposare.
«Ma tu credi di esserlo altrettanto? Dio santo! È un uomo! E gli uomini sono pericolosi!» ansimò, terminando la sfuriata. «Sarei dovuto venire prima a vedere com’era la situazione», mormorò, scrollando lentamente la testa dandosi la colpa della situazione che si era venuta a creare. «Come si chiama?» le chiese. La voce tradiva ancora una certa tensione e gli uscì più dura di quanto avesse voluto.
Cora si chiuse in un ostinato mutismo, divisa fra timore e cocciutaggine.
«Non essere precipitosa nelle tue decisioni. Aspetta almeno di conoscerlo meglio. E se poi si dimostrerà una brava persona, se tu ne sarai davvero convinta, se…» Phil provò una strana sensazione nel farle quei discorsi da padre. Avrebbe preferito ci fosse stata Teresa lì con lui. Forse lei avrebbe saputo gestire meglio quella situazione. «Ho prenotato una stanza in un hotel vicino l’aeroporto. Dovrei prendere l’aereo di mezzogiorno per tornare a casa, ma se vuoi… potrei rimanere qualche giorno. Potremmo provare a sistemare le cose assieme.»
Cora scrollò la testa, deviando lo sguardo da lui. Per Phillip, quello era stato il segnale inequivocabile che non doveva insistere, almeno per quella sera. Sospirò stancamente.
«Prima che mi dimentichi, ti ho portato alcuni documenti che ti ha mandato la banca al tuo vecchio indirizzo. Dovresti ricordarti di fare il cambio di residenza e comunicare il tuo nuovo indirizzo. Te li metto qui, assieme a quest’altra posta.»
Estrasse dalla tasca interna del cappotto una corposa busta bianca e l'appoggiò sul piano del bancone, vicino al pacchetto che era arrivato qualche giorno prima. Soffermò il suo sguardo proprio su quel pacchetto, che lui stesso le aveva spedito, provando un certo sollievo nel constatare che la ragazza non lo aveva ancora aperto. Per un momento provò l'impulso di riprenderselo, ma decise di lasciare le cose come stavano.
Si passò di nuovo una mano fra i capelli, stranamente a disagio. «Come stai?» le chiese con tono preoccupato. Si erano detti tante cose da quando lui le aveva fatto quell’improvvisata, ma non c’era stata occasione per l’unica cosa importante che voleva sapere e a cui teneva.
«Sto bene», rispose Cora, alzando le spalle.
«Se dovesse servirti un aiuto», riprese Phil, «puoi rivolgerti al dottor Stevens. È uno degli psicologi che collaborano con la polizia. Quando ero ancora un poliziotto, ho lavorato diverse volte con lui, è un ottimo professionista e una brava persona», disse, appoggiando il biglietto da visita sul bancone per la colazione.
Cora annuì ancora una volta, ma non diede cenno di voler continuare la conversazione, né si girò quando l'uomo la salutò e uscì dall'appartamento.

Phillip alzò lo sguardo verso le finestre illuminate del quarto piano. Appoggiato alla portiera aperta del taxi contemplava quella luce, ripensando a come si fosse guastato tanto rapidamente quell'incontro con Caroline. Non poteva non provare preoccupazione per lei e per ciò che aveva appreso. Già permetterle di lasciare Philadelphia era stato difficile da digerire anche per lui, nonostante si fosse sempre mostrato più ragionevole e di sostegno per lei rispetto a Teresa; ma ora, ad aggravare quella preoccupazione paterna, si aggiungeva l'incognita di un uomo misterioso. Cosa avrebbe fatto Greg se fosse stato ancora vivo? Lui le persone le sapeva capire al primo sguardo.
E poi c’era quel pacchetto. Si stava pentendo di averglielo spedito così presto. Teresa l’aveva scongiurato di non farlo, ma lui era sicuro che la figlioccia avrebbe avuto la forza per gestire ciò che avrebbe appreso. Ora però, Caroline sembrava così fragile e lui non era più convinto della decisione presa. Se lei ne avesse visionato il contenuto, come avrebbe reagito?

*****

Saga percorse quelle scale il più velocemente possibile, salendo i gradini a due a due e non staccando mai la mano dal corrimano. Arrivò davanti all'appartamento di Cora con il cuore in gola e il battito impazzito, senza sapere cosa aspettarsi. Piegato sulle ginocchia, quasi non riusciva più a respirare tanta era stata la fatica di quella corsa. I suoi ansimi riempivano il lugubre e stretto corridoio del quarto piano di quella palazzina.
Quando finalmente si rimise dritto – e con la mente un poco più presente – notò che la porta era socchiusa. Con circospezione, trattenendo il respiro, varcò quella soglia. Provò a chiamare la giovane, mentre procedeva a passi lenti all’interno dell’appartamento. Non si sentiva alcun rumore. La porta del bagno e quella della camera da letto erano spalancate; fece capolino con la testa e verificò che erano state svuotate di ogni effetto personale. Il ripostiglio, che si trovava dirimpetto all’ingresso, era tutto sottosopra, come fosse stato rovistato malamente. Entrando nel salotto trovò un caos peggiore. Sentì una stretta allo stomaco nel vedere quella situazione; ancor più quando, avanzando fino ad affacciarsi nella cucina, col piede finì su dei cocci.
Si aspettava di trovare Cora così affaccendata e concentrata nel riporre le sue cose negli scatoloni, tanto da non averlo sentirlo arrivare. Invece di lei non c’era alcuna traccia e tutto sembrava abbandonato a se stesso. Quella strana sensazione che era gorgogliata nel suo stomaco fin dal primo momento e che stava invadendo ora anche la sua mente, creandogli cupi scenari da romanzi polizieschi, non sembrava infondata. In quel momento era più che sicuro che fosse successo qualcosa. Era dunque per quello che lei non aveva risposto alle sue chiamate, né ai messaggi?
Più volte si passò le mani fra i capelli, scompigliandoli più di quanto non avesse già fatto quella sua corsa sfrenata. I suoi occhi iniziarono a pizzicare e la vista si fece un poco sfocata, mentre raccoglieva quei grossi cocci e li posava sul bancone della colazione. Stancamente – e sfiduciato – si sedette su uno degli sgabelli, contemplandoli con occhi avviliti. Le sue mani tremavano mentre cercava di ricomporli e con uno dei bordi taglienti, nel tentativo di far combaciare due pezzi, si ferì il dito. Non ci mise molto a capire che quella era la tazza preferita di Cora. Dalla tasca del cappotto prese il cellulare e provò a chiamarla ancora. Subito sentì quello di Cora risuonare nella stanza, molto vicino a lui. Con le mani iniziò a spostare gli oggetti, i fogli di giornale, i libri, fino a ritrovarlo in mezzo alla posta sparpagliata a terra, sotto pallottole di carta stracciata e il rotolo di scotch per i pacchi. Lo schermo segnava impietoso il numero delle chiamate perse e dei messaggi in arrivo, ancora da leggere.
Si sedette di nuovo sullo sgabello, con le braccia conserte sul bancone e la testa appoggiata sopra di esse. Sarebbe rimasto lì ad attenderla, col cuore triste e lo sconforto che si faceva più presente.

Cora si passò ancora una volta il palmo della mano sul viso, per asciugarsi gli occhi di nuovo umidi e stanchi. Dopo aver fatto scattare la serratura del portone d’ingresso, aprendola poi con una leggera spinta della spalla, si avviò su per le scale. Per tutto il tragitto di ritorno non aveva fatto altro che rimuginare su quanto fosse successo con lo zio Phil. L'uomo si era comportato ingiustamente nei suoi confronti. Con la testa pieni di pensieri, quasi non si accorse di essere arrivata di fronte alla porta del suo appartamento, senza sentire la fatica per tutte quelle scale. Corrugò la fronte nel trovare la porta spalancata.
«Dohko, sei tu?» chiamò, prima di entrare. Non ricevette risposta.
Allora entrò lentamente, stringendo nella mano il sacchetto del fast food e, con l’altra già infilata nella borsa a tracolla, era pronta a usare lo spray urticante.
«Saga?»
Cora vide il ragazzo chino sul bancone della colazione e, davanti a lui, la sua tazza ricomposta. «Saga», lo chiamò ancora, notando come non si fosse mosso di un centimetro.
Si avvicinò a lui e gli sfiorò il braccio, facendolo sussultare. Al tempo stesso, anche lei balzò indietro, andando contro la pianta verde accanto al divano.
Il giovane si stropicciò gli occhi e la fissò quasi fosse un’estranea. Si alzò di scatto, lasciando cadere a terra il cappotto, e l’abbracciò con foga, stringendola forte a sé.
«Dov’eri finita?» le chiese, quasi con tono arrabbiato e al tempo stesso agitato, che faceva ben capire la forte preoccupazione che aveva provato. «Perché non hai risposto alle mie chiamate, perché non hai risposto ai messaggi?» la incalzò, prendendola per le spalle e scuotendola un poco. Subito però, l'abbracciò di nuovo, stringendola al petto.
«Mi dispiace», rispose contrita Cora, lasciandosi quasi soffocare da lui. Sentiva in quell’abbraccio qualcosa di estremamente possessivo, ma era piacevole stare fra le braccia del ragazzo. «L’ho letto il tuo messaggio, ma in quel momento non potevo risponderti.»
Sospirò, rilassandosi e ricambiando l'affettuosità di Saga. Di tutta quella serata, lui era la cosa più piacevole che le fosse capitata.
«È venuta una persona a trovarmi. Non me l’aspettavo. Abbiamo parlato e poi… poi sono andata nello scantinato per recuperare altri giornali vecchi», raccontò. «Però… quando sono tornata in casa, non avevo più voglia di continuare il lavoro e sono uscita a prendere una boccata d’aria. Vista l’ora e, siccome ero già per strada e lo stomaco aveva iniziato a reclamare, ho fatto una deviazione per prendere qualcosa da mangiare.»
«Non è vero! Non mentirmi!» esclamò l’altro. La strattonò ancora una volta per le braccia e, con modi rudi, le mostrò il cellulare sul bancone della colazione.
Cora sgranò gli occhi nel vedere i messaggi e le chiamate perse. Alzò lo sguardo su Saga e lo vide così arrabbiato e teso che si sentì pervadere il cuore di timore per la seconda volta in poche ore.
«Non ne avevo idea» mormorò, con gli occhi che già si stavano velando di lacrime. «Io… ho discusso con lo zio Phil e forse…» provò a giustificarsi lei.
Saga strinse le labbra, dispiacendosi nel vedere la ragazza in quello stato. «Perdonami», disse, con un filo di voce. «È solo che… quando non hai risposto la prima volta, io… ho provato più e più volte ed è stato lo stesso. Allora ho provato a scriverti, ma... Non sapevo cosa pensare e ho avuto paura per te.»
Cora alzò lo sguardo su di lui, incrociando quei suoi splendidi e profondi occhi verdi che solo in quel momento notò quanto fossero arrossati e pieni di inquietudine.
«Hai pianto?»
«Certo che no!» rispose Saga, con eccessiva enfasi, stropicciandosi di nuovo gli occhi. Sospirò, mentre i tratti del suo viso si addolcivano e i suoi occhi tornavano sereni e dolci. Le prese una mano e l'avvicinò al suo petto. «Senti il mio cuore com’è ancora agitato?»
Cora annuì timidamente. Lo poteva sentire davvero, quel cuore, martellare incessante nel petto di lui e si rattristò nel considerare che era stata la fonte di tanta pena.
«Mi sono preoccupato da morire», sussurrò lui, stringendole un poco la mano.
«Ti sei tagliato» disse lei, vedendo l'indice del ragazzo sporco di sangue rappreso. Studiò la ferita per qualche secondo: i bordi erano arrossati e leggermente caldi. Tastò piano, ma nonostante l'attenzione che ci stava mettendo Saga sussultò per il dolore, piegando le labbra in una smorfia.
Lo accompagnò in bagno e gli fece sciacquare il dito; poi, ben sotto le luci della specchiera, controllò quel dito: alcune piccole schegge erano rimaste dentro la ferita che già si stava infettando.
Gli sorrise e si allontanò pochi istanti per recuperare il beautycase dal quale prese delle pinzette. «Resta fermo un momento», lo ammonì dolcemente, avvicinando il dito agli occhi e iniziando ad armeggiare con le pinzette. Poi, terminò la medicazione con un cerotto. «A posto.»
«Grazie», rispose Saga, guardandola con riconoscenza, con quei suoi occhi limpidi che avevano conservato l'innocenza di fanciullo. Ora tutto sembrava essere alle spalle: le paure irrazionali, i dubbi, le preoccupazioni che avevano appesantito il suo animo in quella lunga serata.
Quel momento, nel quale entrambi parlavano solo con gli occhi, fu interrotto dal brontolio dello stomaco di Saga che subito abbassò lo sguardo per l'imbarazzo, ma che invece fece sorridere Cora.
«Ho portato un cheeseburger super size. Roba da ricovero immediato, se lo si mangia da soli», gli disse lei, indicandogli il sacchetto di carta posato sul bancone della colazione. «Al fast food mi hanno regalato anche un portachiavi con il…»
La giovane non riuscì a terminare la frase perché Saga, agendo d’impulso, la baciò con passione, cancellando in modo definitivo ogni incomprensione, vera o presunta, nata quella notte.
«Non ti azzardare a mangiare quella schifezza, non ti ci porto di corsa al pronto soccorso per un’intossicazione alimentare», le disse a fior di labbra, dandole un altro piccolo bacio. «Ci arrangeremo con quello che ti è rimasto nel frigorifero.»

Accoccolata per terra fra le sue braccia, Cora sospirò, facendo roteare lentamente il portachiavi sul dito. Quello che avevano recuperato dal frigo era risultato davvero poca cosa per la grande fame che entrambi avevano accumulato in quella serata. Sorrise fra sé nel ripensare al categorico rifiuto di Saga nel voler anche solo assaggiare quel panino gigante, che ora giaceva abbandonato – e mezzo divorato – nel suo contenitore bianco, accanto al bicchiere di Coca-Cola invece completamente vuoto. Era stata una serata dai molteplici risvolti e tutti ugualmente stressanti. Si sentiva stanca come non mai, ma per nulla al mondo avrebbe rinunciato a passare il tempo in quel modo, abbracciata a Saga. Chiuse gli occhi, assaporando al meglio quel momento.
Il ragazzo si mosse un poco, gemendo per il torpore che sentiva alla schiena. Sbadigliò e provò a stiracchiarsi, ma senza trovare sollievo.
«Si è fatto tardi», disse, guardando l’ora sul cellulare e posandolo poi lì a terra, vicino a sé. Si coprì la bocca per mascherare un altro sbadiglio. «Preferisci dormire qui, così quando in mattinata arriverà la ditta dei traslochi, sarai già presente; oppure torniamo a casa nostra?» le chiese.
Sentendo quelle due parole “casa nostra”, Cora arrossì. Non gli diede una risposta vera e propria, si limitò ad accoccolarsi più stretta a lui e a sospirare. Qualche momento dopo però, proruppe in un'esclamazione. «Kitty!»
«Chi è Kitty?» chiese lui. Finalmente libero si era potuto stiracchiare per bene.
«Come, “chi è”?» Cora lo guardò stranita. «È la pestifera palletta di pelo! Un nome bisognava pur darglielo, no? Certo, non è il massimo dell’originalità, ma ci possiamo accontentare, almeno per il momento», commentò, radunando i resti della cena e buttando tutto nel sacco dell'immondizia.
Si guardò in giro per capire cosa prendere e iniziò a ficcare un po' di tutto nella borsa. Infine, sbuffando e borbottando un “speriamo non abbia sporcato dappertutto”, infilò nella borsa anche la posta, che in quei giorni non aveva più considerato.
Saga osservò quel suo modo di fare col sorriso sulle labbra. Lei sembrava essere tornata la stessa che aveva conosciuto e anche lui si sentiva di nuovo se stesso: quel se stesso libero e leggero come l’aria, spensierato e sereno. Si rimise addosso il cappotto e uscì ad attenderla sul pianerottolo, tendendole la mano per fare la strada di casa assieme.

*****

Quella domenica mattina, per Cora era iniziata con un grosso peso sul cuore. Le parole e la reazione dello zio Phil avevano lasciato il segno in lei, più di quanto avesse pensato; il suo orgoglio poi aveva fatto il resto, lasciando che l'uomo ripartisse senza aver potuto appianare la situazione, nemmeno con una telefonata o un breve messaggio al cellulare.
Per sua fortuna c'era stato qualcuno al suo fianco che non le aveva lasciato il tempo per rimuginarci troppo. Dopo un'intensa mattinata divisa fra il suo vecchio appartamento, a lavorare fianco a fianco con Saga e a vedere dei veri professionisti all'opera – era stato incredibile come in appena un'ora il camioncino dei trasporti stesse già partendo per la nuova destinazione – e quello nuovo sopra il negozio, dove Saga aveva fatto spazio per le sue cose, si ritrovava ora nella camera da letto padronale, in piedi in mezzo alla stanza, con reggiseni e mutandine in mano, a fissare un punto preciso.
«Sei stata pensierosa per tutta la mattina», disse Saga, affacciandosi sulla soglia della camera, mangiando un sandwich al tonno. «Forse non ti piace come abbiamo sistemato la casa?» le chiese, mandando giù l’ultimo boccone e pulendosi le mani sui jeans. Entrò e si sedette sul letto matrimoniale, attendendo paziente che lei terminasse di sistemare il cassetto del comò. «Cigola un po’», mormorò, saggiando la resistenza del materasso e della rete.
Cora mugugnò qualcosa, passando all’armadio ancora aperto. «Non so se basterà questo spazio», commentò fra sé e sé, inclinando la testa un po’ a destra e un po’ a sinistra, indietreggiando poi di qualche passo.
Non appena fu abbastanza vicina, Saga la catturò fra le braccia e si lasciò cadere con lei nuovamente sul materasso, facendole scappare un gridolino di stupore.
«Se non hai abbastanza spazio possiamo trasformare la camera più piccola in uno spogliatoio», le suggerì, scostandole un ricciolo castano dalla guancia e guardandola languidamente negli occhi.
«Tutto questo per me...» sospirò Cora. Chiuse gli occhi e si lasciò stringere dalle braccia gentili di Saga.
Nonostante la consapevolezza che fosse tutto vero, perché la stanchezza che si sentiva addosso era reale, faticava a crederci. Così tanta fortuna, così all'improvviso, poteva esistere solo nei film. Eppure...
Sospirò ancora una volta.

*****

«Ecco, così, piano. Movimenti lenti e continui, avanti e indietro, senza fretta; con delicatezza ma decisione.» Saga la guidava passo per passo in ogni azione.
«Sto facendo bene?» chiese Cora, con leggero imbarazzo nella voce. Si girò un poco con la testa, sfiorandogli la guancia. Per un attimo intravide la concentrazione sul suo volto.
«Sì, molto bene», le sorrise Saga, soddisfatto. «Sii più rilassata, altrimenti col passare del tempo ti farà male la schiena», le consigliò, avvertendo in lei una lieve rigidità. Teneva le mani salde sui fianchi della giovane e il petto appoggiato alla sua schiena.
«Scusa, non ho mai fatto una cosa del genere prima d'ora e sono un po’ nervosa.»
Il cuore di Cora batteva veloce per l’emozione, ingabbiata fra il tavolo e il corpo di Saga. Sentiva su di sé la pressione di quella presenza che aderiva in maniera così perfetta al suo corpo. Fremeva. La sua mente si annebbiava alle calde carezze del respiro del ragazzo che le scivolava addosso. A ogni movimento che lui le faceva compiere, provava solletico al collo, a causa di alcune ciocche di capelli sfuggite al mollettone.
«Tranquilla», disse lui, sovrapponendo le mani alle sue, armonizzando i movimenti con quelli di Cora. «Vedrai che con un po’ di pratica sarà più facile», le sussurrò all’orecchio, provocandole una scossa di brividi lungo il corpo. «Ora proviamo a tirarlo fuori, piano, per vedere com'è.»
«Non mi sembra un granché», commentò la giovane con una smorfia, mentre guardava perplessa il risultato. «Non è proprio come me lo immaginavo.» Delusa e con le spalle indolenzite, si appoggiò all’indietro, sostenuta da Saga.
«Allora rifacciamolo», le propose con semplicità il ragazzo. La baciò sul collo come incoraggiamento e le fece riprendere la posizione corretta.
«Rimettilo dentro, lascia che si assesti un attimo e poi ricomincia a muoverti come prima.»
Saga si staccò un poco da lei affinché facesse da sola, distraendosi in altro. Con le mani iniziò ad accarezzarle le braccia nude, arrivando fino alle spalle; poi, a un lieve movimento infastidito di lei, si fermò, riportando le mani sui fianchi.
«Per quanto tempo devo continuare in questo modo?» chiese Cora, ansiosa e impaziente, ma con la mente distratta da lui che la toccava con tenerezza.
«All’inizio basta poco, perché al suo interno ce n’è tanto; ma andando avanti, più se ne fa, maggiore sarà il tempo impiegato, per ottenere lo stesso risultato», le spiegò lui, cingendole all’improvviso la vita e attirandola a sé, facendola sussultare. «Poi, dipende anche da come lo vuoi tu o dalle esigenze del momento.»
«E se poi è troppo? Come si fa a capire quando è giusto?»
Si stava muovendo in modo scomposto, anche a causa di quel ragazzo, dietro di lei, che ogni tanto la solleticava, accarezzandola sul collo con le labbra, o con la punta del naso.
«Saga… dai, non fare il dispettoso», si lagnò un po’ smorfiosetta, muovendo la spalla per dissuadere il ragazzo dal continuare quella tortura. «Svelami il segreto. Tu come riesci a farlo venire così bene?»
Saga non rispose nulla, continuando imperterrito in quell’occupazione che trovava molto di suo gusto.
«Ti stai prendendo gioco di me, vero? Non è bello, ti diverti alle mie spalle!», esclamò Cora, chiudendo le ostilità con quella cosa che, ormai le era chiaro, non sarebbe mai riuscita a fare.
Con un colpo secco lasciò andare tutto, schizzando e sporcando attorno a sé; poi si girò verso di lui, incrociando le braccia al petto. Lo vide per un attimo sorpreso, ma un istante dopo sorriderle furbetto.
«Mi diverto… sì! Alle tue spalle… beh, la posizione era quella, ma sarebbe stato più corretto dire che mi divertivo “con” le tue spalle», le rispose, avvicinandosi a lei per baciarla, ma incontrando delle inaspettate resistenze.
«Mi sono occorsi anni di lunga pratica per poter affermare di essere sufficientemente abile; e ancora oggi, quando sperimento qualcosa di nuovo, faccio tentativi su tentativi, finché non sono soddisfatto», rispose in tono più serio, ricambiando l’intensità dello sguardo di Cora, ma sempre con un dolce sorriso sulle labbra. Attese qualche secondo che lei abbassasse un po’ le difese e le rubò un bacio. «Segui attentamente quello che faccio: te lo spiegherò un’ultima volta», disse, agitandole scherzosamente il dito sotto il naso. «Prendi la poltiglia e la versi nel catino, mescoli per qualche secondo l’acqua e immergi la cornice con la retina. La muovi un paio di volte avanti e indietro, lasci assestare un attimo e la tiri fuori, facendo defluire l’acqua in eccesso. Se ti sembra troppo sottile, ripeti l’operazione. Poi, capovolgi il tutto su di un panno assorbente, picchietti un po' se necessario. Lo pressi in modo che rimanga attaccato, appendi il panno come fosse del bucato e… e poi non resta che attendere che si asciughi», terminò la sua lezione.
Cora lo osservò compiere quei gesti, ormai per lui automatici, con una scioltezza e una naturalezza che sembravano quasi irreali. Tutto in lui, dall’atteggiamento del corpo, alla voce, ai lineamenti del viso, glielo faceva apparire come un ragazzo totalmente diverso da quello che era abituata a vedere. Era così serio e concentrato che sembrava un altro.
«Ecco fatto!» disse Saga, con uno sguardo soddisfatto, mostrandole il risultato. «Questo naturalmente è un metodo molto casalingo dove si utilizzano soprattutto giornali vecchi e il risultato è qualcosa di grezzo, ma la procedura per ottenere della carta fatta a mano più professionale è perlopiù la stessa.»
Una volta sistemato il panno, si asciugò le mani con lo strofinaccio che teneva appeso al fianco, agganciato sotto la cintura dei jeans, si girò verso di lei, appoggiandosi al tavolo da lavoro.
Cora sospirò. «Ancora non mi hai svelato il vero segreto: qual è il tempo giusto?»
«Il tempo giusto?» rifletté Saga, piegando un poco la testa di lato. Poi, sorrise e si avvicinò al suo orecchio. «Quello di un bacio», sussurrò.
Portò una mano dietro la sua testa e le tolse il mollettone, liberando i suoi capelli in una cascata di morbidi e disordinati ricci castani, ancora un poco umidi per la doccia che si era fatta un'oretta prima, che le erano ricaduti sulle spalle. In un attimo, un lieve profumo di lavanda riempì l’aria nel piccolo laboratorio, confondendosi subito con gli odori delle altre essenze già presenti. Prima che lei dicesse o facesse qualsiasi cosa, Saga la baciò con intenso trasporto.
«Sì, il tempo di un bacio è decisamente perfetto», confermò con una certa soddisfazione.
Cora rimase sbalordita da quel gesto, dentro di sé però stava toccando il cielo con un dito. Arrossì nell'incrociare lo sguardo di Saga che sembrava ebbro d'amore.
Il ragazzo l'attirò a sé e le fece scivolare le mani lungo la schiena, fino ad arrivare ai glutei, stringendo un poco, facendola sussultare. Quei suoi occhi verdi erano dolci e gentili, ma al tempo stesso tradivano l’eccitazione e la voglia che cresceva in lui. Lentamente le alzò la minigonna, arricciandola alla vita; poi, con una presa salda – e una piccola spinta – la fece sedere sul tavolo, accostandosi a lei, fra le sue gambe un poco aperte. Riprese a baciarla dolcemente, mentre le sue mani vagavano carezzevoli sul collo, per poi prendere la strada delle spalle e far cadere le spalline sottili della canotta e del reggiseno fino a metà braccia.
«Sono tutta bagnata…» ansimò Cora, non appena la sua bocca fu di nuovo libera di pronunciare le parole.
«Non ho ancora fatto niente…» le sussurrò lui, con un tono di voce striato di un pizzico di malizia, apprestandosi a baciarla di nuovo. Al tempo stesso le stava accarezzando le cosce completamente scoperte, invitandola a cingergli la vita con le gambe.
Cora rimase a bocca aperta. Il suo cuore batteva all’impazzata. Puntò le mani sul petto del ragazzo e lo tenne a distanza. «Ma io…» boccheggiò, senza riuscire ad articolare una risposta decente. Poi, col viso pieno di vergogna, si nascose appoggiandosi al petto dell’altro. «Volevo dire che quando mi sono seduta mi sono bagnata con l’acqua uscita dal catino.»
Saga le alzò il viso e le sorrise, mostrandole quanto anche lui non fosse proprio a suo agio dopo aver pronunciato quelle parole. Si avvicinò ancora una volta a lei, tanto che i loro nasi si sfioravano e, dopo un breve tentennamento, nel quale le stava chiedendo tacitamente il permesso, la baciò come sapeva fare.

«Il tempo di un bacio…» commentò una voce, con tono decisamente sarcastico. «Sarebbe perfetto se non foste ancora attaccati come due ventose!» esclamò Aiolia, cogliendo i due giovani amanti di sorpresa. Poi, diede due colpetti di tosse, per nascondere l'evidente imbarazzo che stava provando.
Saga sbuffò, appoggiandosi stancamente alla spalla di Cora.
«È forse invidia quella che sento nella tua voce?» replicò, raddrizzandosi e provando a girarsi verso il nuovo arrivato, ma Cora gli si aggrappò alla maglia, impedendogli quel movimento.
Forse, così facendo, la giovane avrebbe scongiurato la possibilità di farsi vedere in quelle condizioni non proprio pudiche. Con molta accortezza scese dal tavolo e si risistemò la minigonna e la canotta.
«Non hai sentito che erano più di cinque minuti che stavo bussando alla vetrata del negozio? Ho dovuto fare il giro. Per fortuna che mi avevi dato una copia delle chiavi», ribatté il giovane, posando per terra ai suoi piedi un pesante sacchetto di libri usati.
«Che strano, pensavo che il cartello con la scritta “chiuso” fosse ben visibile. Dimmi, Aiolia, quale persona sana di mente busserebbe alla porta di un negozio chiuso? Che per altro, tutti nel quartiere sanno che lo è da decenni!»
Nel sentire pronunciare quel nome, Cora si strinse ancora di più al petto del ragazzo, quasi a voler scomparire, facendo sorridere Saga che, per tranquillizzarla, le accarezzò la schiena.
«Una persona che sa benissimo che quel cartello non è veritiero! Cioè sì, il negozio è chiuso ma non lo è davvero. Insomma tu ci sei e ci lavori ogni tanto, giusto? Quindi non è abbandonato, non è chiuso, ecco!» rispose Aiolia, impappinandosi nel ragionamento.
«Forse ho fatto male a darti quelle chiavi», mormorò Saga, finalmente libero di girarsi e guardare in faccia il terzo incomodo. «Beh, che sei venuto a fare?» disse, vedendo come Aiolia fosse intento a fissare la ragazza che si stava nascondendo dietro la sua schiena.
Il giovane, nel preciso momento in cui la riconobbe, sentì una sorta di fastidio torcergli lo stomaco.
Saga attese una risposta. Poi, provò a richiamare la sua attenzione schioccando le dita un paio di volte, senza risultato. «Ehi!» proruppe allora, spazientito.
«Eh? Ah, sì! Sono venuto a portarti un po’ di roba e a riscuotere il pagamento per quel favore. Non te ne sarai dimenticato, spero», rispose, senza staccare gli occhi dalla ragazza.
«Non potevi aspettare che te lo portassi io?»
Cora sentiva su di sé quegli occhi così insistenti che la stavano mettendo a disagio. Avrebbe voluto continuare a rimanere al fianco di Saga, sapeva però che così facendo quella situazione non sarebbe migliorata, ma anzi, sarebbe potuta solo andata peggio. Si fece forza e uscì allo scoperto.
«Ti lascio tranquillo col tuo amico», disse a Saga, accarezzandogli il braccio. Diede uno sguardo veloce ad Aiolia e si allontanò senza aggiungere altro.
«L’ha portata qui…» considerò il giovane, fissando la porta che Cora si chiuse alle spalle. Nella sua voce era distinguibile una punta di amarezza e di gelosia. D’un tratto si sentì scalzato dalla sua posizione di custode di quel segreto. Rimase ancora lì, fermo, appena oltre l’ingresso che dava sul cortile posteriore.
«Vieni, andiamo di là», lo invitò Saga, scostando la vecchia tendina a frange e accendendo le luci della bottega.
«Sta diventando una cosa seria?» domandò Aiolia.
La risposta la trovò direttamente dallo sguardo sereno dell'altro e dal suo sorriso un po’ imbambolato. Aiolia aveva imparato da tempo a decifrare le espressioni facciali e la postura del corpo di Saga. Spesso si stupiva di come l’amico fosse un vero e proprio libro aperto, al contrario di Kanon e di Aiolos, che sembrava invece facessero a gara per trarsi in inganno a vicenda e tutti gli altri. Forse era proprio per la limpidezza dei sentimenti di Saga che loro due riuscivano ad andare così d'accordo.



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Capitolo 17
*** Capitolo XVI ***





XVI



Quel lunedì mattina, Cora sentiva la voglia di indugiare un poco più a lungo fra quelle lenzuola profumate e il tepore del letto. Si girò sul fianco, allungando il braccio alla sua sinistra, con la certezza di trovare il suo principe azzurro dai capelli biondi e gli occhi di smeraldo, dolci e gentili. La mano non incontrò alcun ostacolo, mentre accarezzava il lenzuolo che al suo tocco era invece freddo e senza una piega. Persino il cuscino sembrava immacolato. Fece una mezza smorfia nel constatare che quella parte di letto era stata tirata con cura quasi maniacale.
Si girò completamente sul lato sinistro e occupò per intero il lato del suo ragazzo, abbracciando il cuscino e portandoselo al viso. Sospirò nel sentire il profumo del giovane. Era la conferma che tutto era reale. Si sistemò meglio sul letto per sentirsi ancora più avvolta da quella sensazione di protezione che provava nello stare lì, consolandosi almeno in parte, perché Saga, al suo risveglio, non era con lei. Chiuse gli occhi e si immerse di nuovo nei sogni felici che avevano allietato la sua mente quella notte. Si ritrovò però un'ospite indesiderata, morbida e calda, che subito si mosse con lei, adattandosi alla nuova posizione e solleticandola sulla pelle nuda con la sua codina.
Mugugnò qualcosa. Aprì a fatica gli occhi stanchi e assonnati e si ritrovò, a pochi centimetri dal viso, altri due occhi, color ambra e all'apparenza demoniaci, racchiusi in un vaporoso batuffolo di pelo nero.
Come nulla fosse, dispettosa com'era sua natura, la gattina si arrampicò sul corpo della giovane. Con quella sua codina ben dritta lo percorse fino ai fianchi e scese, balzando poco dopo giù anche dal letto, ma finendo a terra con un tonfo maldestro. Nonostante la famosa agilità felina, Kitty era ancora troppo piccola e il letto, per il momento, si dimostrava un ostacolo decisamente arduo da superare per le sue limitate capacità. Ciò nondimeno, impettita e altera, zampettò fuori dalla stanza.
Cora sbuffò, tirandosi su e puntellandosi con il gomito, mentre con una mano si copriva il seno con il lenzuolo. Sbadigliò, grattandosi la testa già tutta arruffata e si ributtò sdraiata, domandandosi vagamente come avesse fatto quella peste a intrufolarsi fin sotto le coperte e, soprattutto, quando fosse successo. L'unica spiegazione plausibile era che fosse stata opera di Saga.
Sospirò, pensando a quanto fosse buono il ragazzo; e nel farlo non poté impedirsi di richiamare alla mente ciò che le sembrò essere avvenuto nelle prime ore del mattino: rumori sommessi, qualche lamento da oltre la porta chiusa della camera da letto, un leggero cigolio della rete del materasso, una sensazione di vuoto e di improvviso freddo su di sé e... tutto era tornato al suo stato naturale, almeno fino a quando non si era svegliata pochi minuti prima.
«È troppo accondiscendente», bofonchiò, intontita dal sonno; si tirò il lenzuolo oltre la testa e affondò il viso nel cuscino del suo ragazzo.
Voleva rimanere a letto più a lungo, così facendo però non avrebbe combinato nulla. Diede fondo alla sua forza di volontà e si portò fino al bordo del materasso, ma più si muoveva, più voleva godersi quella sensazione di benessere che stava provando. Afferrò il cuscino di Saga e se lo strinse addosso, respirando a fondo e sospirando, chiedendosi quando sarebbero riusciti a risvegliarsi assieme.
Si stupì per aver formulato un pensiero così romantico, ma non era forse quello uno degli aspetti piacevoli della vita di coppia e dell'essere innamorati?
Perché sì, nonostante fosse consapevole che tutto era avvenuto troppo in fretta, lei era già completamente innamorata di quel ragazzo dai dolci occhi verdi e dalle maniere gentili.
Ripensò alle occasioni che c'erano state e non le sembrò fosse mai successo veramente, almeno non come si vedeva nei film. E allora, la cosa più naturale che le venne di fare, fu quella di contarle e riviverle.
Al suo risveglio dopo quella loro prima notte, se lo era ritrovato con un'espressione pacifica sul divano, mentre divorava i suoi biscotti e beveva dalla sua tazza preferita. Poi, ci fu la seconda, pochi giorni dopo, sfumata per colpa di uno guasto in cucina, uno stupido raffreddore e un insensato coprifuoco. Ricordava il chiaro desiderio di Saga di rimanere con lei, ma anche quelle sue resistenze che lei aveva trovato incomprensibili. A malincuore lo aveva dovuto lasciare andare e quegli stessi sentimenti li aveva visti anche in lui, nonostante il suo sorriso dolce e al tempo stesso sicuro di sé. E non doveva dimenticarsi di quanto fosse stato premuroso, risolvendole l'inconveniente senza che lei gli avesse chiesto nulla.
Fece un lungo sospiro trasognato, soffocandolo nel cuscino.
Quel risveglio sul divano di Saga, abbracciata a lui, era stato davvero dolce, ma aveva avuto fin da subito la sensazione, molto lusinghiera, che lui l'avesse vegliata sino all'alba. Quasi avesse voluto attenderne il risveglio per accertarsi che tutto andasse bene e salutarla con teneri baci, prima di cedere al sonno.
E poi... c'era stata la domenica mattina, che si era illusa di poter passare fra coccole e relax, prima dell'arrivo dei traslocatori. Invece, quando si era svegliata, sola, lo aveva trovato già impegnato al cellulare. Non se l'era presa; si era detta che in fin dei conti erano solo all'inizio della loro relazione, che il tempo avrebbe dato loro tante altre occasioni. Eppure, anche quel lunedì mattina la parte di letto di Saga era vuota al suo risveglio.
«Lunedì mattina», sbuffò.
L'inizio di una nuova settimana. A rifletterci, lei non conosceva quasi nulla della vita del suo ragazzo. Non sapeva cosa facesse per vivere, né se andasse in ufficio a lavorare, né se spendesse il suo tempo in altro modo. Del resto, anche se di famiglia ricca, un lavoro doveva pur avercelo!
Trattenne una risatina nell'immaginarlo in giacca e cravatta, seduto dietro la scrivania di un asettico ufficio ultramoderno. Non sarebbe stato affatto male così tutto in tiro.
All'improvviso le si materializzò nella mente l'immagine di Chris e si rattristò nel giudicarla ordinaria. Con lui la vita aveva avuto tutto un altro sapore. Il loro rapporto, benché precoce per la loro giovane età, quando iniziò, fu molto più convenzionale.
Mettendo a confronto le due situazioni in cui si era trovata, le sembravano due vite parallele e, guardando bene, con rammarico iniziava ad accorgersi che la sua vecchia relazione era stata nulla più che un rapporto intimo e disinvolto fra compagni di college. Eppure, con Chris era stato amore, di quelli veri che fanno venir voglia di mettere su famiglia. Di questo ne era più che certa. Ci avevano anche provato. Avevano valutato di mettere in cantiere un figlio, una volta terminati gli studi e trovato un buon impiego, prima che “quell'uomo” arrivasse a rovinare tutto.
Sarebbe stato diverso se Chris non avesse rifiutato di seguire le orme dei genitori che avevano uno studio legale ben avviato per seguire il sogno di fare l'insegnante?
Sarebbe stato diverso se avessero aspettato a voler vivere assieme e lei avesse avuto l'opportunità di studiare interior design invece di prendere un indirizzo più classico?
Ora per l'ex provava solo tanto affetto, era stato il suo primo amore, ma era consapevole che non ci sarebbe stato altro.
Con Saga – e se lo doveva ripetere in continuazione – erano solo all'inizio, ma fin da subito era stato qualcosa di così travolgente e istintivo che già era alla quasi totale dipendenza sentimentale, nonostante quella fosse la cosa di cui avesse più timore. Con lui si sentiva protetta e completa, come una donna con l’uomo della sua vita.

Dopo un altro sbadiglio sommesso, attutito da quel povero cuscino ormai martoriato, tese le orecchie per cercare di sentire i rumori della casa o, quantomeno, la presenza di Saga, anche se era quasi certa che non ci fosse. Tutto sembrava normale. Passò più di cinque minuti raggomitolata su quel cuscino, prima di decidersi finalmente ad alzarsi. E ancora, non era convinta di volerlo fare.
Alle sue orecchie giunsero strani e lievi rumori: un continuo grattare sul legno della porta della camera e un tenero ma insistente miagolio. Con un ampio movimento del braccio, un poco esasperata, scostò da sé le coperte e il lenzuolo, rimanendo per qualche attimo totalmente nuda sul letto.
«Due giorni che siamo qui e già si permette di dettare le regole della casa!» sbuffò.
Si sedette, stiracchiando le braccia sopra la testa, e squadrò con severità quella piccola palla di pelo nera che se ne stava vicino al muro, con ancora una zampina sollevata a mezz’aria e la ricambiava con uno sguardo di superiorità.
Con movimenti lenti, senza distogliere gli occhi da quella calamità naturale, si alzò dal letto e si avvicinò alla sedia, dove trovò l’accappatoio di spugna che aveva utilizzato la sera prima, dopo la doccia. Lo svolazzo della stoffa pesante, forse troppo vicino alla gattina, la mise in allarme e subito lei scappò a rifugiarsi sotto il letto.
«Perfetto! E ora come la recupero?» disse, sbattendo esasperata le braccia sui fianchi.
Non aveva proprio voglia di buttarsi per terra e lottare con Kitty per farla uscire da lì. Sicuramente, quando avrebbe iniziato a sentire fame, si sarebbe fatta vedere di sua spontanea volontà. Senza più preoccuparsi di lei, si infilò nel bagno privato attiguo alla camera.
Era una stanzetta piccola e stretta, aggiunta in un secondo tempo e ricavata con tutta probabilità dall’originaria cabina armadio. Al suo interno vi era giusto l’essenziale, ma nonostante fosse molto spartana, era corredata da una graziosa finestrella con una vetrata decorata in stile Tiffany. Gli arredi erano proporzionati allo spazio, semplici e pratici, ma anche raffinati nella loro classicità. Tutto era in perfetto stile anni ’30. Era davvero incredibile come ogni elemento originario presente in quella casa fosse ben conservato e funzionante. Cora si avvicinò al lavabo per sciacquarsi, aveva già aperto l'acqua e si era bagnata le mani, ma venne interrotta da alcuni rumori che le parve provenissero dall’altra parte della casa: forse dal salotto, o dalla cucina.
Arrivò fino alla porta della camera da letto, pronta a chiamare Saga, ma non sentì più nulla. La casa era tornata al suo tranquillo silenzio. Pensò si essersi sbagliata. Lo scroscio d’acqua poteva averla tratta in inganno, oppure poteva essere stata Kitty che si era messa a grattare da qualche parte. Questo la fece riflettere sulla necessità di acquistare un tiragraffi per la gattina, così che non avrebbe rovinato la tappezzeria. Si chinò per vedere sotto il letto: Kitty era ancora lì, accucciata sul parquet di noce americano, esattamente nel mezzo dello spazio che occupava il letto e la guardava fissa con quegli occhietti che brillavano di una luce inquietante.
Rabbrividì, poi scrollò la testa.
Rientrata in bagno si soffermò ancora una volta al lavabo, alzando lo sguardo sullo specchio. Con le mani raccolse i capelli spettinati in uno chignon morbido, mentre si osservava riflessa, spostando la testa un po' a destra e un po' a sinistra, notando come quella mattina sembrasse stranamente pallida. Poi, li lasciò ricadere sulle spalle, scompigliandoli con energia e, senza indugiare oltre, si tolse l’accappatoio e si infilò sotto la doccia. Niente brusco risveglio che sapeva di ipotermia, niente cottura al vapore, ma tiepida e prolungata, ecco quello che ci voleva per lei.
Quasi mezz’ora era rimasta sotto il getto dell’acqua, a godersi quella dolce cascata rilassante che le cadeva addosso accarezzandole il corpo. L’aria del bagno si era profumava del docciaschiuma appena usato: così piacevole e sensuale. Quando scostò la tendina, intravide una piccola ombra nera muoversi rapida verso la porta socchiusa e trattenne una risatina nel pensare alla curiosità di Kitty. Si soffermò un'ultima volta davanti allo specchio: il suo aspetto era decisamente migliorato. Fece qualche smorfia e rise di se stessa, prima di tornare in camera.
«Sei tornata lì sotto?» domandò alla gattina, inginocchiandosi a terra e guardando sotto il letto. Kitty era sempre lì come una bella statuina.
Cora sbuffò, perché una volta che avesse finito di vestirsi avrebbe voluto chiudere la porta della camera.
Si sedette un attimo sul bordo del letto, strofinandosi i capelli per asciugarli il più possibile; poi, dai cassetti del comò prese dei vecchi e antiestetici pantaloni lunghi della tuta, dei calzettoni bianchi e una maglietta extralarge con l’interno felpato, dallo scollo slabbrato e le maniche lunghe che amava arrotolare fin sopra i gomiti. La chiamava “la divisa da combattimento”, perché vestita così poteva affrontare qualsiasi lavoro di casa e, in quelle poche ore che restavano della mattina, prima di andare al lavoro, avrebbe dovuto farne parecchio.
«Dai, Kitty, esci che ti do da mangiare!» ordinò alla gattina.
Anche il suo stomaco iniziava a reclamare qualcosa di sostanzioso con cui essere riempito. Con ancora l'asciugamano umido sulle spalle, si mise a rassettare il letto. Poi, prima di uscire dalla camera da letto, provò ancora una volta a far venire fuori Kitty agitado l'asciugamano fin quasi a fargli toccare terra, sperando in quel modo di catturare la sua attenzione.
Fintanto che era vicina al letto, la sua strategia si stava rivelando inefficace. Decise allora di continuare mentre si avvicinava alla porta e, con la coda dell'occhio, notò soddisfatta che da sotto la coperta spuntava una piccola ombra, curiosa e al tempo stesso guardinga.

«Ben svegliata!» era stato il buongiorno che aveva accolto Cora, mentre entrava in cucina, ancora distratta nel giocare con Kitty, facendola sobbalzare dallo spavento.
La donna le sorrise conciliante.
«Chiariamo subito un paio di cosette: io non sono la tua cameriera, né tantomeno la tua cuoca e non sono neppure la tua balia!» disse senza mezzi termini.
Si avvicinò al tavolo e presentò alla ragazza, assolutamente senza parole, una scodellina di macedonia di frutta fresca, cospargendola davanti ai suoi occhi di una generosa dose di zucchero di canna, e un vasetto di yogurt al naturale. Poi tornò alle sue faccende.
«Se hai bisogno di una mano e me lo chiedi con cortesia, io vengo volentieri; ma non prendo ordini da nessuno, perché non mi faccio problemi a mandare tutto al diavolo, soprattutto se mi si critica senza motivo. E prima che tu dica qualsiasi cosa, non sono obbligata da nessuno e non vengo pagata. Lo faccio solo come favore personale a un amico.»
Cora balbettò un “okay” nonostante avesse faticato a seguire il filo di quella cascata di parole incomprensibili. Con lo sguardo attonito continuò a seguire ciò che faceva la sconosciuta, fino a quando non fu distratta da Kitty che si era impigliata con le unghiette nell'asciugamano ancora penzolante al suo fianco. La giovane si chinò, prese in braccio la gattina stringendola al petto e avanzò in cucina, passando dall'altro lato del tavolo. Preferiva mantenere le distanze e lasciarsi una facile via di fuga.
«Assodato questo punto, potrebbe dirmi chi è lei e come ha fatto a entrare in casa?»
Sentiva lo stomaco aggrovigliarsi per la tensione. A prima vista la donna non sembrava pericolosa, con quel suo viso un po' pienotto che si gonfiava di più quando sorrideva, ma al tempo stesso non si sentiva tranquilla di fronte a quella estranea. Nonostante l'altra le stesse dando le spalle, Cora non le staccò un attimo gli occhi di dosso, domandandosi con un certo fastidio come mai sembrasse così a suo agio in cucina.
«Te l’ho detto, mi pare.» La sconosciuta si girò per un momento, dopo aver riposto alcune cose nel pensile di fianco alla cappa sopra i fornelli, sorridendole di nuovo. «Mi chiamo Jade e dammi pure del tu! Sono un’amica del padrone di casa, del precedente padrone di casa, a dire il vero. Mi sono presa cura del vecchio Josh soprattutto nei suoi ultimi mesi. Sai, la sua assicurazione sanitaria non copriva anche i costi per un’infermiera professionista e io, che avevo già esperienza per queste cose, mi sono offerta. E ora eccomi qui a fare la stessa cosa con Saga! Non che lui abbia bisogno di un’infermiera! Diciamo che mi ha ereditata assieme a tutto il resto», si affrettò a precisare, ridacchiando.
Tornò a fare quello che stava facendo, zufolando e dondolando un poco la testa. Sistemò nello scolapiatti gli ultimi due bicchieri che aveva lavato e, dopo aver asciugato a dovere lo spazzolino per i piatti, lo ripose – assieme alla bottiglia del detersivo – sotto il lavello.
«Dio solo sa se quel benedetto ragazzo ha bisogno di qualcuno che badi a lui», sospirò, incurvando stancamente le spalle e appoggiando le mani sul bordo del lavello. «Scommetto che se dipendesse da lui vivrebbe solo d’aria! Lo sai che non l’ho mai visto prepararsi nulla da mangiare?» disse, voltandosi verso Cora. «Né tantomeno prendere qualcosa di già pronto come farebbe un qualsiasi single della sua età che non sapesse cucinare. Invece Saga se ne sta sempre appollaiato sul divano con il suo portatile, oppure giù al negozio a rilegare libri o a fare chissà che altro. Insomma, sembra quasi che se qualcuno non gli preparasse da mangiare, lui non mangerebbe. Più volte mi sono offerta sai? Ma lui…»
Alla fine di quel suo lungo discorso, Jade fece un altro rumoroso e trasognato sospiro.
«È sempre così garbato nei suoi rifiuti che è impossibile rimanerci male. Certe volte è proprio strano: a prima vista lo si direbbe un ragazzo semplice, dai gusti altrettanto semplici e di poche pretese, ma se lo si osserva bene è molto esigente! Forse non si fida degli altri», constatò con amarezza.
Cora ascoltò quelle confidenze rimanendo a bocca aperta, soprattutto per quell'ultima osservazione, che non trovava corrispondenza con ciò che aveva sperimentato di persona. Con lei il giovane si era mostrato tutt'altro che schizzinoso.
D'improvviso, Jade aprì le antine di tutti i pensili e dei mobiletti, lasciando ancora una volta di stucco la ragazza. Poi, si avvicinò alla sedia sulla quale aveva posato la borsa e, dopo aver frugato per qualche secondo, prese un taccuino e una penna.
«Ora che Saga è intenzionato a vivere qui, in questa casa c'è proprio bisogno di tutto», mormorò, iniziando a passare in rassegna le poche cose presenti e prendendo appunti di ciò che mancava. Quando fu la volta di controllare il frigorifero, scrollò la testa sconsolata, scrivendo e al tempo stesso borbottando qualcosa.
Cora aggrottò la fronte: in quel momento si sentiva giudicata per ciò che mangiava.
«Fatto!» Jade strappò il foglietto e, dopo aver preso una calamita colorata da uno dei cassetti, attaccò la lista della spesa allo sportello del frigorifero. «Mi raccomando, queste sono le cose che dovete assolutamente comprare!» esclamò giuliva.
Si avvicinò alla giovane con un sorriso affabile che le gonfiva ancora di più le guance e le tolse dalle mani la gattina prendendola per la collottola, posandola a terra, dove la piccola subito scappò via. Infine, trattandola neanche fossero amiche da una vita, la prese a braccetto e si affacciò alla finestra della cucina, che dava sul cortile interno.
«Vedi le finestre di quell'appartamento, quelle del secondo piano, proprio qui di fronte. Ecco, io abito lì», le disse, indicandogliele con il dito.
«Capisco, quindi sei la classica vicina impicciona», ribatté Cora, divincolandosi e allonanandosi di qualche passo dalla donna; già trovava strano che la sconosciuta si atteggiasse a padrona di casa, ma non poteva sopportare tutte quelle libertà con lei.
Jade divenne paonazza in viso. «Ehi! Mica passo le mie giornate a sbirciare fuori dalla finestra come una vecchia zitella, impicciandomi della vita degli altri!» disse risentita, incrociando le braccia al petto generoso. «E poi, sono qui per Saga, perché mi ha chiesto di dare una sistemata alla casa! Ti ho indicato le finestre solo per farti vedere dove trovarmi in caso di bisogno.»
In quella posa, in quel momento, a Cora sembrò che la presenza della donna fosse ancora più ingombrante – e la sovrastasse – di quanto non fosse in realtà. Jade infatti era una donna di costituzione robusta ma non grassa, accentuata dai suoi centosettantacinque centimetri di altezza, tacchi esclusi, che la slanciavano ma non nascondevano qualche chiletto di troppo che si portava addosso.
«Se fosse davvero così, perché Saga non mi ha mai parlato di te e perché non mi ha avvertita?»
Lentamente, Cora iniziò a indietreggiare fino a ritrovarsi vicino al cassetto delle posate. Non distolse lo sguardo dalla donna, mentre con la mano ne sfiorava la maniglia. Non si fidava delle parole di Jade, tanto più che sapeva per certo che Saga non avrebbe commesso di nuovo l'errore di lasciarla in balìa di sconosciuti. Continuò a fissarla, senza mostrarsi intimorita o indecisa.
Per un fugace momento nella sua mente si materializzò il rammarico di aver abbandonato il corso di autodifesa che aveva iniziato a frequentare a Philadelphia; ma anche di aver lasciato nel cassetto della sua scrivania, negli uffici dell'agenzia investigativa dello zio Phil – in quel maledetto cassetto che non aveva voluto saperne di aprirsi – la sua pistola. Quello era un piccolo segreto che condivideva con lo zio Phil, ma non solo, l'uomo le aveva anche insegnato a sparare e, due volte al mese, talvolta anche più spesso, la portava al poligono per farla esercitare e per scaricare lo stress accumulato. In seguito, l'aveva anche aiutata nell'iter per ottenere il porto d'armi.
Se in quel momento avesse avuto a portata di mano la sua calibro 22 si sarebbe sentita decisamente meglio. Però, quando aveva preso la decisione finale di tornare a Boston, lo aveva fatto convinta di potersi lasciare alle spalle la sua vecchia vita e con essa anche le armi da fuoco, che non dovevano più farne parte.
«E va bene», concesse la donna, allargando le braccia con rassegnazione. «Lo ammetto, volevo fargli una sorpresa. L’ho visto uscire di casa questa mattina presto in gran fretta. Il che è strano, perché da quando lo conosco non l’ho mai visto passare un’intera notte qui, né tantomeno sgattaiolare via dal cortile; ha sempre preferito passare dal negozio. Poi è tornato dopo un’oretta circa ed è uscito nuovamente poco dopo. Si è accorto appena di me, mi ha salutata e se n’è andato via.»
Jade scostò la sedia e si sedette al tavolo con aria triste. Era evidente la delusione sul suo viso. Allungando la mano prese la macedonia e l'avvicinò a sé, la cosparse di yogurt e iniziò a mangiare in silenzio, sospirando a ogni boccone.
«Sai, era da diverso tempo che non lo vedevo da queste parti e mai così trafelato per qualcosa! Non che i nostri orari coincidano sempre, sia chiaro, ho una vita anch'io, siccome però in passato mi chiamava di tanto in tanto per sistemare la casa e avendo ancora una copia delle chiave, di quando c'era il vecchio Josh... insomma, ho pensato che gli avrebbe fatto piacere se avesse trovato tutto pulito e in ordine», raccontò Jade, raschiando il fondo della ciotola.
Nel vederla così abbattuta a Cora fece un po' pena la donna. Era durato però solo un attimo, ben conscia di non potersi permettere di abbassare la guardia. Nonostante ciò, iniziava a sentirsi più tranquilla, stupendosi dell'interesse che provava per quei discorsi.
«Capisco», abbozzò come risposta la giovane, passando cautamente dietro la donna e raggiungendo il frigorifero per prendere la bottiglia del latte. Poi, da uno dei pensili prese il barattolo del caffè solubile. «Entrare in casa d’altri senza permesso, anche se in passato lo si aveva, è un reato. Avresti però dovuto chiedere a Saga se ne avesse avuto piacere.»
Le mancava qualcosa. Con lo sguardo vagò per la cucina, aprì le antine dei vari mobiletti, ma della sua mug preferita non c'era traccia e non ricordava neanche dove l'avesse vista l'ultima volta. Poi, le tornò in mente all'improvviso che l'aveva scagliata a terra dopo la discussione avuta con lo zio Phil e si intristì.
«C'è una tazza col tuo nome nel pensile alla tua sinistra, sul secondo ripiano», disse Jade, alzandosi e mettendo la ciotola nel lavello.
Cora si girò verso la donna e, dopo qualche secondo di titubanza, seguì il suggerimento che le aveva dato. Quando aprì l'antina rimase a bocca aperta. Non se n'era accorta prima: appoggiato a una delle due mug bicolore c'era un cartellino con il suo nome. Prese la mug e sorrise nel vedere sul davanti il disegno stilizzato di un bel gattone striato di colore rosa su sfondo bianco, con un musetto simpatico e sul retro la sua coda. Se la strinse al petto, mentre gli occhi diventavano lucidi.
«Vuoi che ti prepari un buon caffè? Ho visto che la macchina è staccata e tu usi quello solubile», si propose Jade, lavando e asciugando con cura la ciotola e il cucchiaino, riponendoli poi al loro posto. «Sai, lo scorso Natale mi hanno regalato una moka e una buona scorta di caffè macinato di ottima qualità. Sapevo che il vecchio Josh ne aveva una e ho pensato di portare un paio di confezioni di caffè a Saga», raccontò, senza omettere anche che a farle quel regalo erano stati degli amici che avevano fatto una breve vacanza in Italia e, una volta tornati, si erano detti “grandi esperti nel caffè più buono del mondo”.
Cora sorrise meravigliata, non credeva di poter bere di nuovo il caffè come lo faceva sua madre e questa volta ringraziò la donna per la cortesia. Forse, nonostante la troppa invadenza, non doveva essere male questa Jade.
Senza rendersene conto si era ritrovata seduta al tavolo assieme alla donna, sorseggiando il suo caffellatte e ascoltando altri aneddoti su Saga per una buona mezz'ora.
«Mi rendo conto solo ora che ho sprecato tanti anni per una convinzione errata. Ah, se almeno avessi osato farmi avanti prima...» sospirò la donna. «Adesso è tardi, sono sposata, con un brav'uomo certo, se solo fosse più...» diede libero sfogo ad altri sospiri, sempre più tragici, che fecero sorridere Cora ancora un volta.
La donna si riscosse dalle sue elucobrazioni da sognatrice e guardò l'ora. «Come si è fatto tardi!» disse, alzandosi dalla sedia. «È arrivato il momento di togliere il disturbo», aggiunse, accostando a sé la borsa. Dal taccuino strappò un altro foglietto e scrisse velocemente il suo numero di telefono. Poi, prese Cora a braccetto e se la trascinò fino all'ingresso. «Chiamami se ti serve una mano, o solo per spettegolare un po'», le disse con grande affetto, mettendole in mano il foglietto.

Cora chiuse piano la porta, sospirando di sollievo per la ritrovata calma, ma trovò all'improvviso una resistenza inaspettata.
«Dimenticavo di dirti una cosa importante», disse Jade, intrufolandosi quasi a forza in casa. «Saga ti ha lasciato un biglietto sul tavolino in salotto nel quale ti ricorda di aprire la posta arretrata e che ti ha fatto fare una copia delle chiavi di casa. A proposito, molto carino il portachiavi», ammiccò la donna. Poi, prese fra le mani quelle di Cora e le strinse calorosamente un'ultima volta, rinnovandole l'invito a chiamarla.
«Questa tipa è completamente folle…» balbettò Cora, appoggiandosi sfinita alla porta, una volta chiusa e blindata con una doppia mandata e il catenaccio. Si sentiva stordita dalle tante chiacchiere e dall'esuberanza di Jade.
Rimase lì per alcuni momenti, ancora frastornata, ma con la crescente voglia di chiamare Saga e sfogarsi con lui, o su di lui, per l'invadenza della donna. Un'altra intrusa per casa, pensò sconsolata. Si strinse nelle spalle mentre un improvviso brivido le percorse il corpo.
A mente fredda poteva dire di essere stata fortunata: ma se Jade si fosse rivelata tutt’altro che la persona che diceva di essere? Tutto era comunque finito per il meglio, poteva tirare un sospiro di sollievo e perché no, anche lasciarsi andare a una risata liberatoria.
«Kitty! Kitty! Ora puoi uscire, quella se n’è andata!»
Cora entrò in salotto ancora con la mente piena di quella moltitudine di parole e informazioni – molte peraltro avrebbe preferito non venirne a conoscenza – che Jade le aveva riversato addosso.
«Stramba, sì, decisamente stramba! Ma forse non pericolosa. Una cosa è certa: non la si può considerare una rivale», ridacchiò. «Tutto sommato qualcosa di utile ne abbiamo ricavato, vero piccolina?» disse, chinandosi e accarezzando la codina dritta della gattina che nel frattempo era sbucata fuori dal suo nascondiglio e ora si stava strusciando sulle sue gambe.
Si guardò attorno per un momento e vide sul tavolino il biglietto che Jade le aveva indicato. Quando lo lesse vi trovò le medesime parole riferite dalla donna e si accigliò, appallottolando il foglietto con rabbia. Sentì crescere prepotente in lei la voglia di dirne quattro a Saga, anche se sapeva che lui non aveva alcuna responsabilità di ciò che sentiva in quel momento, ma Cora non aveva nessun altro con cui sfogarsi.
Sbuffò nel notare che proprio lì vicino c'era il cellulare del ragazzo. «Per questa volta ti è andata bene!» mormorò fra i denti con voce minacciosa, ma si raddolcì nel vedere il portachiavi che le avevano regalato al fast food racchiudere le chiavi dell'appartamento. Era un segno di grande fiducia nei suoi confronti. Sorrise, mentre se lo avvicinava alla bocca, sfiorandolo con le labbra.

*****

Cora fece un gran sbadiglio annoiato. C'erano un sacco di cose da fare, ma quella mattina non ne aveva un granché voglia. Si guardò attorno in cerca del suo mollettone, per provare a dare ordine a quei capelli che ormai erano quasi del tutto asciutti. Detestava quando i suoi riccioli si trasformavano in una massa informe sulla sua testa, nonostante spendesse soldi in balsami e prodotti disciplinanti vari che funzionavano poco. Fece il giro della casa, provò a controllare anche il bagno piccolo e la camera da letto, ma senza esito. Quando tornò in cucina, sbuffando delusa, si ricordò che il giorno prima Saga glielo aveva tolto dai capelli: erano nel laboratorio al piano di sotto. Piegò le labbra in una smorfia infantile. Non avrebbe potuto recuperarlo almeno fino al ritorno del ragazzo, poiché lei non aveva le chiavi dei locali al piano terra, ma anche perché Saga le aveva chiesto di non entrare senza il suo permesso. Cora era un tipo mediamente curioso, ma sapeva rispettare la volontà altrui. Fece un'alzata di spalle, mentre tornava in bagno, rassegnata ad accontentarsi di legarli alla bell'e meglio con uno chignon annodato.
Una volta terminato, si accorse della presenza di Kitty sulla soglia. Si chinò per invitarla ad avvicinarsi e prenderla così in braccio, ma la piccola scappò via, rifugiandosi chissà dove.
«Ma guardala!»
Se la ritrovò in cucina, seduta vicino alla ciotolina vuota e lo sguardo fisso su di lei. La giovane sorrise. Prese una delle bustine di cibo dal mobile delle scope e le riempì la ciotolina, rubandole una carezza intanto che la palletta di pelo aveva il musetto affondato nei bocconcini, prima di lasciarla in pace.
Fra le tante cose che ancora doveva sistemare c'era il computer, che per lei era molto importante. Saga le aveva detto che poteva disporre della casa come meglio voleva, ma lei non se la sentiva di rivoluzionarla. Con tutta calma fece un altro giro dell'appartamento. Oltre alla camera da letto che avevano occupato lei e Saga, ai due bagni, al salotto spazioso e alla cucina, c'erano altre due stanze da letto: una era matrimoniale e l'altra invece una singola, arredata per una ragazzina.
Al suo interno vi aveva trovato una scrivania, un’intera parete completamente occupata dalla libreria, un letto con il comodino e un comò coordinato e per finire, un armadio a muro incassato in una rientranza che ne completava l’arredo. Tutti i mobili erano di una tinta chiara, un ciliegio naturale che ben risaltava con il colore di fondo. Le pareti erano rivestite da una carta da parati dai colori tenui e sfumati, nei toni sabbia e fucsia molto pallido, che trasmettevano la sensazione di vivere in un mondo immerso fra le nuvole. C’era però qualcosa di particolare in quella carta che catturò l’attenzione di Cora. Non solo alla vista sembrava diversa e poco convenzionale, ma appena la ragazza la sfiorò con le dita, ne ebbe la conferma: intrappolati fra due strati di carta sottile vi erano piccoli elementi: foglioline, piume e petali di fiori.
Osservò con ammirata attenzione la stanza; anche lei aveva sognato da bambina di avere una camera come quella dove si trovava ora: romantica e da fiaba.
La stanza non aveva bisogno di alcun lavoro particolare, la disposizione di ciò che c’era dentro sfruttava al meglio ogni spazio e rientranza presente. Forse il colore non era più adatto alla sua età e avrebbe stonato un po’ con l’uso che voleva farne, ma ci si sarebbe adattata.
Si rimboccò le maniche e sistemò il computer sulla scrivania, che occupò quasi tutto il piano. Subito lo accese e selezionò una delle sue playlist preferite, alzando il volume al massimo: era più piacevole lavorare con la musica!
Andava e veniva dalla stanza sempre a mani piene, instancabile. Svuotando i ripiani e ordinandovi i suoi libri, i suoi raccoglitori e i suoi soprammobili. Quando anche l'ultimo raccoglitore fu sistemato, sorrise per il lavoro svolto. Accanto alla porta della camera c'erano due scatoloni pieni delle cose che un tempo erano appartenuti alla precedente proprietaria. La giovane li osservò indecisa.
«La soffitta!» esclamò, ricordandosi che Saga le aveva detto che là poteva mettere tutto quello che non le serviva e al tempo stesso prendere ciò che voleva.
«E ora... la posta arretrata!» disse, spolverandosi le mani dopo aver posato alcuni libri accanto al computer.
Si sedette comoda sul letto a gambe incrociate e con il mucchio di corrispondenza davanti a sé, iniziando a suddividerla.
«Questa è una lettera della banca, questa pure, questa anche», borbottò, mettendole da parte. «Pubblicità, offerta di una carta di credito, altra offerta di una carta di credito, conti da pagare, fattura per…» sbuffò nel passarle una a una, mettendole da parte in diversi mucchietti.
Al tempo stesso pensava al suo povero conto in banca che si sarebbe assottigliato sempre più. Fino a poco tempo prima, lo stipendio che percepiva dallo zio Phil le aveva permesso di arrivare a fine mese con tranquillità;, ora invece, con il lavoro part-time, quelle entrate avevano subìto un bel taglio. E, se nella sua vecchia vita aveva potuto contare sulla suddivisione dei costi delle bollette con Chris, ora tutte le spese sarebbero state sulle sue sole spalle. Fece due calcoli a mente, valutando se con le sue attuali entrate, quei trecentocinquanta dollari a settimana, sarebbe stata in grado di sopravvivere. Mugugnò che forse avrebbe dovuto fare economia su qualcosa, ma era certa che ce l'avrebbe fatta. Anche se Saga le aveva messo a disposizione l'appartamento, non poteva certo aspettarsi che le pagasse i conti. Di questi problemi pratici non aveva ancora modo di parlargli, ma si ripromise di farlo al più presto.
Quando arrivò all'ultima busta, quella mandatale dallo zio Phil, il cuore prese a battere nervoso. Sapeva già cosa conteneva. Si concesse un lungo respiro profondo e iniziò ad aprirla con molta cura.
Dentro vi trovò altre buste più piccole e una cartelletta dell'archivio della polizia, accompagnata da una lettera scritta a mano. Rimase immobile per diversi secondi, le sue sicurezze vacillavano a ogni respiro. Richiuse la busta, stringendosela al petto, domandandosi se davvero si sentisse pronta a scoprire la verità su suo padre e cercando dentro di sé il coraggio di scoperchiare quel vaso di Pandora che fino a quel momento aveva tenuto a bada i suoi incubi e le sue paure. Forse era ormai tardi per ripensarci. Prese la lettera di zio Phil e iniziò a leggerla.

Avrei potuto darti la copia censurata di questo materiale, così come mi aveva supplicato di fare tua madre, ma ho ritenuto che fossi in grado di capire e sopportarne il suo contenuto. Non mi è mai piaciuto infiocchettare la verità, se non la si affronta per quello che è davvero non ci si può lasciare il passato alle spalle e andare avanti. Spero che con il fascicolo che hai fra le mani tu possa trovare quello che cerchi, ma sarà dura per te, non posso nascondertelo. Quando si fa il lavoro di poliziotto è più facile; si riesce a passare sopra a molte cose, a vedere con maggiore obiettività quegli aspetti e quegli elementi che gli altri neanche riuscirebbero a capire. E tutto questo perché i casi che affrontiamo trattano di estranei. Quando invece una persona cara, familiare o amico, diventa “il caso”, allora si fa tutto dannatamente più difficile. In noi scattano certi meccanismi naturali che inevitabilmente interferiscono col nostro lavoro e ciò sarebbe inammissibile.
Ho fiducia che saprai affrontare tutto ciò che leggerai in queste pagine con la giusta obiettività, ma se avrai bisogno di parlare, di avere chiarimenti o anche solo se starai passando un momento di sconforto, non esitare a chiamarmi.

Cora sorrise tristemente nel leggere quelle righe, mentre una lacrima le bagnava la guancia. A volte, lo zio Phil era capace di mettere da parte i suoi modi di rude poliziotto e di commuoverla; e quel messaggio, così pieno di sentimento, l’aveva toccata nel profondo. L’incoraggiamento e la fiducia che le aveva dichiarato erano un toccasana per lei, per scacciare anche gli ultimi timori che sentiva sempre presenti.
Accantonò la lettera e iniziò a visionare la cartelletta. La prima pagina non era nulla di che, simile a quella di tanti altri fascioli che le erano passati per le mani negli anni, con dati e informazioni generali che poco andavano oltre a quel “incidente” che poteva voler dire tutto e niente. Nonostante ciò, si sentiva un po’ a disagio, come se stesse curiosando in qualcosa di troppo privato che riguardava suo padre. Passò quindi a pagina tre, al resoconto del primo sopralluogo, poiché la seconda conteneva altri dati che per lei erano di scarso interesse.
A ogni riga che i suoi occhi scorrevano, a ogni parola che leggeva, accompagnata dal fremente movimento delle labbra in impercettibili sussurri, sentiva il cuore battere più forte e lo stomaco aggrovigliarsi.

“La chiamata pervenuta al 911 è arrivata alle nove e trentadue della sera. Il luogo indicato come probabile scena del crimine è il parcheggio di un locale pubblico nelle vicinanze del quartiere universitario. La prima pattuglia è arrivata sul luogo indicato, alle nove e quarantuno. L’indirizzo è…”
«Non è molto lontano dalla casa di Dohko», mormorò sovrappensiero. Mentalmente si fece l'appunto di dare un'occhiata di persona alla prima occasione.
“Il corpo della vittima…”
Nel leggere quelle parole così impersonali ebbe un sussulto.
“Non gli è stato trovato nessun documento addosso, né portafoglio, né alcun tipo di oggetto personale, probabilmente rubati. Ma l’identificazione è comunque certa. Ci sono escoriazioni sul collo e al polso, in corrispondenza dell’orologio, c’è il tipico segno sulla pelle.
Il corpo è stato trovato riverso a terra e a faccia in giù, adagiato sul lato sinistro. Quando è stato girato, il volto presentava diverse lesioni. Le tasche del cappotto erano state frugate, le fodere interne si presentavano rivoltate verso l’esterno. In un primo momento non sono state trovate le chiavi della macchina, rinvenute poi a terra, vicino a una moto parcheggiata a pochi metri di distanza. Sono stati riscontrati segni di tentativo di scasso sull’auto. Una volta aperta, i documenti mancanti sono stati rinvenuti al suo interno e l’identificazione ha portato alla scoperta che l’uomo era un poliziotto. Confermata poi anche dal capitano Burton, una volta arrivato sulla scena.”
La descrizione del ritrovamento del corpo del padre, anche se in quelle pagine non era stato reso nei particolari più minuziosi, l’aveva lasciata con l’angoscia nel cuore. Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma si fece forza e le trattenne. Nel corso degli ultimi due anni ne aveva letti tanti di rapporti d’indagine di quel tipo e sapeva cosa aspettarsi, ma era stata comunque dura. Si passò il dorso della mano sugli occhi per cancellare quelle lacrime che stavano pericolosamente sfuggendo al suo volere. Poi, si concesse un respiro profondo per farsi coraggio e continuò nella lettura.
“Sono state fermate diverse persone presenti sul luogo, ma poche hanno saputo dire qualcosa sull’accaduto. Ancora meno sono state le testimonianze, fra quelle raccolte, che hanno fornito elementi significativi.
I primi a essere ascoltati sono stati due giovani poco più che maggiorenni. Hanno dichiarato di aver sentito un forte rumore e, dopo qualche minuto, un gran stridore di pneumatici e un'auto lasciare il parcheggio a tutta velocità. Non hanno saputo dire di più riguardo la vettura, se non che sembrava di colore scuro. Hanno aggiunto anche di aver sentito un secondo rumore, più forte del precedente, simile a uno scontro fra due auto. A un primo controllo dei fatti, sono state riscontrate tracce fresche di pneumatici e, a qualche decina di metri dal punto del ritrovamento della vittima, sono stati effettivamente rinvenuti numerosi frammenti di vetro che potrebbero far pensare a un fanalino rotto dell'auto in fuga. I due giovani sono stati sentiti una seconda volta, dopo circa mezz’ora, per confermare le loro precedenti dichiarazioni, ma a domande più specifiche o alla richiesta di un nuovo racconto dei fatti, hanno iniziato ad agitarsi e si sono contraddetti più volte, nascondendosi dietro alle solite risposte elusive: “Non lo so”, “Non ricordo”, “Non ho visto” e “Non voglio essere coinvolto”. Non c’è voluto molto per capire che i due erano tossicodipendenti e che, con molta probabilità si erano appena fatti di qualcosa.
Sono stati sentiti altri due testimoni: due donne di circa trent’anni. Avevano appena parcheggiato a poche decine di metri dal punto in cui si trovava il corpo della vittima e si stavano accingendo a entrare nel locale. Hanno notato un veicolo fermo proprio in mezzo al parcheggio e due uomini scendere dal mezzo per poi risalirvi di corsa e partire a tutta velocità. Le testimoni non hanno fatto caso alla targa dell’auto ma hanno dichiarato che sembrava un vecchio modello di Ford Mustang degli anni ’70, di colore scuro, forse blu.
Anche queste due testimoni non sono sembrate attendibili al cento per cento. Davano infatti l’impressione di essere un po’ alticce.”

A ogni riga, a ogni parola che leggeva, diventava sempre più dura per Cora andare avanti. Le informazioni, seppure frammentarie, componevano un quadro che si andava via via più dettagliando e nella sua mente si stavano formando chiare le immagini del luogo e il corpo esanime del padre, abbandonato a terra senza alcuna pietà, trattato con distacco anche dai suoi colleghi.
La giovane era consapevole che l'incartamento conteneva ben altro, o così sperava, ma al tempo stesso temeva ciò che avrebbe trovato: prove scentifiche, esami di laboratorio, fotografie dei vari reperti, della scena del crimine e... anche della vittima.
Vedere il cadavere di suo padre avrebbe cancellato il ricordo di quando era ancora vivo?
Chiuse il fascicolo e se lo strinse al petto. Di nuovo gli occhi erano velati di lacrime, ma dentro di sé sentiva crescere un'incomprensibile rabbia. Non comprendeva se fosse dovuta al lavoro così superficiale di quegli agenti, o al vuoto che provava per non avere il padre nella sua vita.
Scese dal letto e prese a camminare per la stanza: lo spazio non era molto, ma sufficiente perché potesse inscrivere un cerchio al suo interno e contarne i passi. Quindici. Tanti le erano concessi per fare il giro. Ma non si era data alcuna  restrizione per quante volte avrebbe fatto il percorso per ritrovare un poco di calma. Prima di riprendere a leggere “il caso” del padre, prese il block notes e stilò un elenco di punti: l'indirizzo di quel parcheggio, il modello dell'auto, fare una ricerca sulle denunce alle assicurazioni di danni riguardanti dei fanalini rotti e ammaccature della carrozzeria...
A ogni punto che aggiungeva, annuiva convinta. Rilesse con attenzione quegli appunti: ora aveva un punto di partenza. Si ripromise, non appena messo piede nel magazzino dell'agenzia investigativa, di fare quei primi controlli sfruttando l'accesso all'archivio nazionale tramite l'account dell'agenzia. Si sentiva entusiasta per quell'idea. Poi, all'improvviso si afflosciò sulla sedia, demoralizzata.
«Ma chi voglio prendere in giro. Cosa potrò mai trovare dopo tutti questi anni, che non sia già venuto fuori con le indagini di routine?» si lamentò, scrollando debolmente la testa.
Alzò lo sguardo sullo schermo del computer: l'orologio segnava poco dopo l'una e un quarto del pomeriggio. Aveva saltato il pranzo ma non aveva fame. La musica continuava a fare da sottofondo, in un loop infinito.
Valutò che aveva appena il tempo per risistemare le carte, prepararsi e uscire per prendere l'autobus. Si avvicinò di nuovo al letto, prese il fascicolo e lo inserì nella busta. Nel fare quell'operazione da sotto l'incartamento cadde qualcosa che planò a terra, scivolando sotto il letto. Quando riuscì a raggiungerlo e recuperarlo, si accorse che si trattava di una fotografia. E nel momento in cui la vide, il mondo le crollò addosso.
Si accasciò a terra, con la schiena appoggiata al bordo del materasso e gli occhi dolorosamente incatenati su quell'istantanea.
Il corpo era mostrato in posizione supina, col volto leggermente girato verso destra. Era sdraiato per terra accanto a un'auto parcheggiata della quale si vedeva solamente parte della fiancata e lo pneumatico posteriore destro. La parte bassa della carrozzeria, vicina ai fanalini di coda, era sporca di sangue. Erano delle strisciate, come se Greg avesse cercato di aggrapparsi per tentare di rialzarsi, ma fosse poi caduto. Gli occhi erano vitrei, ancora spalancati e sembravano guardare dritti l’obiettivo della macchina fotografica. Sotto quella maschera di sangue e fango era ancora ben riconoscibile il suo viso: pallido e tumefatto. Aveva riportato diversi tagli e abrasioni, causati dall’impatto con l’auto che l’aveva travolto e dalla conseguente caduta sull’asfalto, che ne distorcevano un poco i tratti. Sul lato sinistro, quasi in primo piano, le ferite erano più marcate.
Dalla bocca era colato un rivolo di sangue ormai rappreso, scivolato poi lungo il mento e il collo. La camicia bianca, sotto la giacca e il cappotto, aperti e rimasti in una posizione fin troppo disordinata, era intrisa di sangue. Il braccio sinistro ricadeva sul corpo. La fotografia mostrava chiaramente una grossa ecchimosi sul dorso della mano, soprattutto all’altezza delle nocche, e sulle dita: tre erano spezzate. Erano chiaramente gonfie e un poco distorte. Da sotto il corpo si poteva vedere, nonostante la morte fosse avvenuta di notte, una grande chiazza rossastra che era strisciata sull’asfalto del parcheggio, arrivando a macchiare anche dei piccoli cumuli di neve sporca di smog.
Cora non sapeva dire da quanto tempo avesse smesso di respirare. Sentiva freddo dentro. Il cuore non batteva più, o così le sembrava. Tutti i muscoli del suo corpo erano molli e privi di forze. La sua mente svuotata di ogni cosa. Persino le parole di fiducia dello zio Phil erano divenute un eco lontano.

*****

«Cora! Cora!»
Le sembrò che qualcuno la stesse chiamando, ma quella voce le arrivava lontana e ovattata. Lentamente abbassò la testa sul petto e chiuse gli occhi, pesanti e dolenti per le lacrime versate. Era stanca e poco lucida, ma ancora poteva distinguere a tratti la musica che continuava a essere riprodotta.
«Cora!»
La giovane si ridestò di colpo da quel suo torpore sgranando gli occhi. «Saga? Cosa ci fai qui?» domandò, confusa nel trovarsi di fronte il ragazzo che la stava scuotendo con delicatezza.
Si passò i palmi delle mani sugli occhi, stropicciandoli e cancellando ogni traccia di lacrime, tornando a guardarlo e abbozzando un sorriso tirato.
«Sono tornato a prendere il cellulare che ho dimenticato questa mattina, per la fretta. E tu invece, cosa fai in casa? Credevo fossi andata al lavoro», le disse, aiutandola a tirarsi su da terra.
«Certo! Sì! Stavo giusto per prepararmi», rispose lei, sempre più confusa, raccogliendo alla rinfusa la posta che ancora stava sul letto.
«Sono quasi le sei del pomeriggio. Penso che ormai sia un po’ tardi», replicò lui, con voce calma e gentile. «Cosa c’è che non va?» Saga la fece girare verso di sé, scrutandola con attenzione. «Lo vedo che hai pianto. Qui non ci dovrebbe essere nulla che ti possa dare preoccupazioni, perché allora non riesci a essere serena?»
Il comportamento sfuggente della ragazza gli diede la conferma, ma non voleva demordere. Le accarezzò una guancia e le sorrise, cercando di rassicurarla che non doveva avere timore di dirgli ciò che la tormentava.
Gli occhi di Cora si velarono nuovamente di lacrime.
«Ho bisogno di restare sola», mormorò, cercando di sfuggire allo sguardo interrogativo del giovane. «Per favore, non guardarmi in quel modo, non commiserarmi», lo implorò, trovando un poco di coraggio per incrociare il suo sguardo: era così limpido e innamorato che in quel momento la faceva stare ancora più male.
Si allontanò da lui e uscì dalla stanza senza più dire una parola, trattenendosi a stento dallo scoppiare in lacrime.
«Perché ogni volta che la incontro si comporta in questo modo? È arrabbiata o cosa? Mi è quasi venuta addosso e non ha fatto una piega», commentò a mezza voce Aiolia, affacciandosi un secondo dopo nella cameretta.
«Non è arrabbiata», rispose Saga, raggruppando di nuovo la posta in un unico mucchio e posandolo poi sulla scrivania con un sospiro. «Non so cosa le sia preso. Però c’è qualcosa che la turba e la fa stare male», ammise, massaggiandosi nervosamente la tempia.
Il giovane Cooper affiancò Saga e, con un buffetto sul braccio gli impose di smettere di tormentarsi la cicatrice. Poi, si mise a dare un’occhiata in giro.
La sua attenzione fu subito attirata dalle fotografie che sbucavano dalla busta grande. Con la punta di un dito allargò un poco l'apertura giusto per sbirciare meglio.
«Sarà come dici, del resto sei tu quello che la frequenta, però io l’ho sempre vista così, sia a Philadelphia che qui.» Quando si accorse che l'altro lo stava osservando con un'espressione stupita, si sentì un completo idiota. «Non te ne avevo parlato? Ma sì che ti ho raccontato della nostra disavventura nella metropolitana a Philadelphia!» insistette, ficcandosi le mani nelle tasche dei jeans.
«Non mi hai mai detto che ti riferivi a lei. Non ne hai accennato neppure dopo che sei tornato dal suo appartamento, quando ti ho chiesto quel favore; e anche ieri, nel negozio, hai perso un’altra occasione per dirmi che l’avevi già conosciuta», replicò Saga, con una punta d'infantile risentimento nella voce e fissandolo torvo.
Il giovane aveva sempre ritenuto Aiolia più di un amico, erano quasi fratelli. Si frequentavano praticamente da tutta la vita, ma venire a conoscenza che gli aveva taciuto una cosa così importante, metteva in discussione tutto il loro rapporto.
«Allora credo di essermi dimenticato di dirti che anche quella volta era presente Aiolos», rispose con un certo imbarazzo l'altro. Sentendosi sotto accusa, si affrettò a giustificarsi come poté. «Te lo giuro, non l’ho chiamato io! Me lo sono ritrovato davanti proprio di fronte alla casa di nonno Dohko! Non ho potuto far nulla per impedirlo. Ma non è successo niente di male, davvero!» aggiunse, con voce piena di panico. Abbassò lo sguardo aspettandosi una sfuriata.
«La cosa importante è che non ci siano stati problemi», disse Saga con voce mesta, lasciando di stucco il giovane.
Per alcuni minuti calò un silenzio teso fra i due, rimasti soli in quella stanza. Nonostante le sue parole concilianti il rampollo Hayes provava una strana gelosia; ma a occupare i suoi pensieri era più la preoccupazione per Cora che il bisogno di approfondire il significato delle parole di Aiolia.

Scampato il pericolo, il giovane Cooper riprese a curiosare in giro. Era un amante delle serie poliziesche e quelle fotografie lo attiravano molto.
«Wow! Questo materiale è fantastico!» esclamò, prendendone una. Poi ne visionò un’altra. «Sembrano vere! Si vedono anche i contrassegni a terra. Chissà da quale episodio di CSI sono tratte», commentò; ma quando poi ne prese una terza, che ritraeva il volto esanime di Gregory Miller, sussultò, sgranando gli occhi. «Mio Dio. Questo è… questo è…» balbettò con labbra tremanti.
Fece un cenno a Saga e gliela mostrò.
«Ci aveva raccontato che era morto in servizio, ma…»
Saga gli prese la fotografia dalle mani e la studiò con attenzione. Lui non sapeva nulla di quella storia, ma aveva già visto il viso di Gregory Miller prima di allora. Alzò lo sguardo sul ripiano della libreria di fronte a sé, dove era riposto il ritratto del padre di Cora e il suo sguardo si perse nel vuoto.
Lasciò cadere la fotografia sulla scrivania e, a passi lenti, si diresse verso la camera da letto principale, nella quale immaginava si fosse barricata Cora. Mise la mano sulla maniglia. Gli sarebbe bastata una leggera pressione per abbassarla e aprire la porta. Sospirò, appoggiandosi con la fronte sul legno lucido.
Kitty si era materializzata fra i suoi piedi e aveva iniziato a strusciarsi sulle sue gambe, facendo le fusa.
«Se solo avessi immaginato…» Riusciva perfettamente a sentire la ragazza piangere, al di là di quella barriera che li separava. «Non posso obbligarti a parlarmene, a condividere con me questo peso così doloroso; quando vorrai, quando sarai pronta ad aprirti, io sarò al tuo fianco, ad ascoltarti e aiutarti. Solo…» sospirò ancora una volta. Sentiva gli occhi pizzicare. «Ti prego, non torniamo al punto di partenza, non lasciarmi fuori dalla tua porta di nuovo.»
Saga rimase ad aspettare una reazione da parte di lei, disilluso. Quell’attesa era pesante e straziante per lui. Si rammaricava di non poter essere d’aiuto a Cora.
«Attenderò tutto il tempo di cui avrai bisogno. Però, ti prego, esci almeno un momento. Fammi stare tranquillo che posso lasciarti qui da sola per il tempo che ti serve.»
La porta della camera si aprì dopo qualche minuto, prima solo uno spiraglio nel quale la gattina si intrufolò subito, poi la giovane l'aprì quasi completamente, ma lei rimase sulla soglia. I suoi occhi erano arrossati e le guance bagnate di lacrime. Senza dire nulla, accarezzò il viso triste di quel ragazzo che sentiva di amare così tanto. Si sforzò di fargli un sorriso e gli diede un bacio leggero sulle labbra, indugiando infine in un abbraccio triste, prima di rientrare in camera e chiudere nuovamente la porta.



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Capitolo 18
*** Capitolo XVII ***





XVII


«La questione che mi stai ponendo è molto delicata e comporta delle implicazioni non da poco.»
L’uomo, accomodato su una delle poltrone di pelle dello studio privato nell’attico di New York della famiglia Hayes, aveva posato il bicchiere di cognac sull’antico tavolino in radica di noce e si era allungato per prendere un “Re”, un pregiatissimo sigaro Montecristo, dall’elegante scatola di legno intarsiata che gli stava offrendo Shion Hayes. Ne aveva annusato l’aroma e saggiato la consistenza con le dita, prima di morderne un’estremità e accenderlo. Per qualche attimo si era lasciato trascinare dal piacere intenso di quell’opera d’arte fra le sue dita.
Il padrone di casa si era avvicinato a una delle grandi finestre che davano sul terrazzo. Con le mani dietro la schiena e un’espressione seria e concentrata osservava i suoi giovani ospiti fare conversazione con Kanon: alcuni erano diffidenti nei confronti del figlio, altri invece più aperti e amichevoli. La giovane Saori, un poco in disparte, era guardata a vista dal loro accompagnatore, teso come una corda di violino. Shion aveva soffermato per un momento l’attenzione su di lei, così introversa e rassegnata. Per certi versi le ricordava Saga. Poi, aveva osservato Kanon, spavaldo e sicuro di sé, arringare quei ragazzi sfoggiando la sua competenza nell’ambito finanziario; passando in seguito, con assoluta disinvoltura, a parlare di sport, cultura e gastronomia.
Si era domandato quando il figlio fosse diventato un tale esperto di cibo, frequentando fast food e steak house. Aveva fatto un respiro profondo, alzando il mento e guardando più in lontananza lo skyline ancora ferito della città, chiedendosi se stesse facendo la cosa giusta nel continuare con i suoi programmi.
Il suo ospite, nello studio, aveva tirato un’altra lunga boccata, sbuffando fuori del fumo grigiastro.
«Gli scenari sono tanti e nessuno positivo», aveva ripreso a spiegargli. «Non è possibile uscirne con le mani pulite e la reputazione immacolata.»
Si era servito ancora un dito di cognac e si era portato lo snifter sotto il naso, roteandolo un poco, inebriandosi con quell’aroma intenso e antico.
«C’è modo di limitare i danni?» gli aveva chiesto Shion, con lo sguardo sempre fisso verso l’esterno.
L’uomo aveva riflettuto per qualche secondo, continuando a far movere lentamente il liquido ambrato. Poi, si era alzato dalla poltrona e aveva raggiunto l’amico, nella sua mano sinistra il bicchiere e fra le dita della destra il sigaro pregiato.
«Da quanti anni ci conosciamo, ormai?» gli aveva chiesto.
«Più di trent'anni.»
L'avvocato aveva spostato lo sguardo sul gruppetto che stava diventando un po’ troppo rumoroso. Con la coda dell’occhio però, non aveva perso di vista Shion, studiando le sue reazioni.
«Tuo figlio è cresciuto bene. È diventato un bell’uomo che sa affascinare le persone. Immagino che ne sarai molto orgoglioso», aveva commentato. Il tono che aveva usato però non era di sola ammirazione.
Shion Hayes aveva fatto uno strano ghigno. Sì, poteva dire di andar fiero di come era cresciuto Kanon, anche se ancora il ragazzo si divertiva a procurargli qualche grattacapo,ma era un aspetto che talvolta lo divertiva.
L'ospite aveva preso una nuova boccata dal sigaro, trattenendo nei polmoni tutto il gusto del tabacco, espirandolo poi dal naso, senza fretta. «La giurisprudenza in Massachusetts, per questi casi, è abbastanza complessa e imprevedibile. Non tanto per i reati, ben codificati, quanto invece per il fatto che alcune decisioni sono a discrezione del giudice e del tribunale. Dalle carte che mi hai mostrato, direi che di attenuanti ne hai a tuo favore. Anche se, purtroppo, sono solo delle scritture private che poca rilevanza avrebbero in un procedimento. Potrebbero venire dichiarate contraffatte con estrema facilità. Per tua sfortuna ci sono anche aggravanti di non poca rilevanza che potrebbero pendere su di te. Anche a legalizzare la cosa all’epoca, avrebbe cambiato poco. Posso darti un solo consiglio, per cercare di mitigare l’eventuale pena derivante dalla sicura condanna, se si dovesse arrivare davanti a una giuria: trova una ragione valida e convincente che possa spostare l’ago della bilancia a tuo favore. Ti basterebbe dimostrare che pur nell’illegalità, hai agito per un bene superiore, per salvare delle vite. Sulle giurie popolari cose di questo tipo fanno sempre colpo. Questo non ti assolverà da tutti i reati, ma potrebbe alleviarti parte del peso più grosso.»
Si era avvicinato all’angolo bar e aveva posato il bicchiere ormai vuoto. Poi, era ritornato alla poltrona per prendere la sua ventiquattrore.
«Questo consiglio, naturalmente, vale se i prossimi eventi dovessero prendere una piega, diciamo… legale. Conoscendo tutte le parti coinvolte, parlando non da avvocato penalista, ma esclusivamente da amico disinteressato, ti consiglierei di trovare qualcosa di scottante nei loro riguardi; qualcosa che ti permetterebbe di prenderli per le palle e tenerli a bada per il resto dei loro giorni.»
Shion non aveva risposto nulla, ma all’avvocato non era sfuggita quell’improvvisa rigidità nella schiena dell’altro, così come le contrazioni delle sue mani.
«Ho sentito qualche voce che vuole il vecchio con un piede nella fossa. Pare che con l’avvicinarsi del grande momento sia diventato innocuo e molto sentimentale. Forse è per questo che ora vuole conoscere la verità. Ciò che invece muove gli altri... sinceramente non lo so.»
L'avvocato aveva preso un’ultima boccata dal sigaro e ne aveva schiacciato il mozzicone nel portacenere di cristallo, posto sul tavolino accanto alla poltrona che aveva occupato poco prima.
«Vorrei saperlo anch’io», aveva commentato Shion, con tono pensoso. «Sono passati così tanti anni… mi auguravo che fosse tutto morto e sepolto, dimenticato. Invece mi sono solamente illuso. E ora, quei due sono tornati alla carica all’improvviso. Non riesco a capire perché proprio ora. In passato è vero che si sono adoperati per ritrovarli, mettendo in campo grandi risorse, ma passati un paio di anni, hanno fatto di tutto per farli dichiarare legalmente morti prima del termine di legge», aveva raccontato Shion, passandosi una mano a stropicciarsi il volto.
«Hai mai pensato che possano essere mossi dal motivo più vecchio del mondo? Soldi, magari un’eredità», aveva ipotizzato l’avvocato. «Non l’ho conosciuta personalmente, ma in giro si diceva che la madre, nonostante la giovane età, fosse molto astuta. Così tanto che era riuscita ad accentrare su di sé l’intero patrimonio di famiglia.» Shion si era voltato di scatto, inchiodando l’altro con uno sguardo feroce, abbozzando poi un sorriso stentato.
«Eredità dici? Loro non possono aspirare a nulla che i miei figli e io non abbiamo già; e decuplicato nel suo valore.»
«Sai com’è, i ricchi sono avidi. Soprattutto se si sono fatti da sé e sono avvocati.» Dicendo quelle parole, sul volto dell’amico di Shion era comparso un sorriso malizioso. «Beh, quando scopri il vero motivo, fammi un fischio! Buon ritorno a casa, Shion», aveva infine concluso, varcando la soglia dello studio e salutando l'altro con un gesto della mano.

*****

Se non avesse dovuto necessariamente tornare a Boston, Shion Hayes avrebbe preferito di gran lunga rimanere a New York. Ormai, il centro nevralgico dei suoi affari era stabilito nella Grande Mela da anni, non avrebbe avuto quindi alcun problema a nominare un vicepresidente che si occupasse della vecchia sede nella sua città natale, in modo da rimanere il più lontano possibile dal suo pesante passato e dalle complicazioni che i Taylor rappresentavano per lui e la sua famiglia. Ora però, quello stesso passato, con tutti i suoi segreti, rappresentato dai due gemelli Taylor, aveva varcato i confini dello Stato e lo aveva raggiunto anche a New York, dove credeva di essere al sicuro.
Era certo di essere stato bravo a tener loro testa, per tutta la durata di quello spiacevole incontro. Ma con loro non si poteva mai abbassare la guardia e quel particolare, quella strana telefonata che aveva ricevuto Richard, in qualche modo lo aveva messo in allarme. Poteva essere un bluff, oppure davvero qualcosa si era messo in moto, a distanza di così tanti anni. Era stato per questo motivo che non aveva perso ulteriore tempo e, il giorno seguente, aveva subito convocato l’avvocato Stone. Non faceva parte dello studio di avvocati che curava gli interessi della famiglia e delle imprese, ma era uno fra i più famosi e competenti penalisti di New York, ed era un suo amico personale di lunga data.
Le indicazioni che Stone gli aveva dato non erano state fra le più rassicuranti, ma questo se l’era aspettato. Per i vari casi ipotizzati, perché Shion inizialmente aveva imbastito dei discorsi ipotetici, che andavano dal rapimento – e più nello specifico, complicità in rapimento, cambiava solo la dicitura ma portava alla stessa pena – alla falsificazione di documenti, fino all’accusa di intralcio in un’indagine ufficiale, le prospettive non erano affatto rosee. Le pene previste erano pesanti e andavano da un minimo di quindici anni, all’ergastolo: nel caso fossero state accumulate. Di scappatoie ce n’erano. Ce n’erano sempre per un buon avvocato che si rispetti, ma nel caso di Shion Hayes erano difficili da adottare; e oltretutto, a pagarne le conseguenze non sarebbe stato solamente lui. C’era poi la concreta possibilità di perdere tutto.
«Al diavolo il perdere tutto!» borbottò stizzito, sbuffando come un bufalo mentre rimuginava ancora sulle parole dell’amico avvocato.
Si mosse a disagio sul sedile nel grande jet privato sul quale stava viaggiando assieme a Kanon e agli ospiti straneri per tornare a Boston. Con un gesto secco rifiutò il drink che l’hostess gli aveva portato, su sua richiesta. La medesima insofferenza l'aveva usata anche con i precedenti tentativi che la ragazza aveva fatto per rendergli più confortevole il volo. Subito si rese conto di essersi comportato come un bisbetico e alla fine decise di accettare il whisky, lasciandolo però sul tavolino, accanto ai documenti che si era ripromesso di visionare durante il volo ma che, con la testa occupata da altri pensieri, non vi era ancora riuscito.
Stava fissando quel bicchiere continuando a rimuginare. Le leggere vibrazioni dell’aereo increspavano in maniera quasi impercettibile la superficie di quelle due dita di whisky. Con la mano strinse il bracciolo del sedile. Poi, prese quei documenti e provò a distrarsi col lavoro. Dietro di sé arrivavano indistinti i brontolii del figlio: praticamente da quando erano partiti per raggiungere l’aeroporto non aveva fatto altro che lamentarsi e stare attaccato al cellulare. Scrollò la testa con rassegnazione, catalogando anche quello fra i fastidi che in quegli ultimi giorni lo irritavano. Sbuffò, ributtando i fogli sul tavolino e girandosi un poco per guardare il biancore accecante fuori dal finestrino.
«Neanche questa volta ha risposto», sentì il figlio lamentarsi. Lo intravide con la coda dell'occhio passargli di fianco per la quinta volta in meno di un’ora, sfiorando il bracciolo del sedile con la sua andatura vacillante, per poi sparire subito dopo dietro la tendina divisoria.
L'uomo scrollò ancora una volta la testa. Kanon non era mai stato un ragazzo quieto, ma tutto quel movimento era davvero troppo anche per lui. Poteva solo immaginare a cosa fosse dovuto; e in qualche modo gli dispiaceva, per via dei progetti futuri a cui era destinato. L’hostess, Kimberly, che lavorava per una piccola compagnia specializzata nel fornire equipaggi per i voli business e privati, era una bella ragazza, bionda e con gli occhi azzurri. Gentile, intelligente e anche molto brava nel suo lavoro. Per questo il figlio aveva insistito molto affinché, in tutti i loro voli, lei risultasse come membro fisso dell’equipaggio. E non era difficile capire di cosa potessero “parlare” dietro quelle tendine scure.

«Kanon!» chiamò Shion, mentre il ragazzo gli passava a fianco per l'ennesima volta.
«Che c’è?» rispose lui, con tono irritato. Allo sguardo torvo del genitore replicò con un rapido sorrisetto.
«Siediti un momento, per favore.» La voce dell’uomo era pacata, ma al tempo stesso nascondeva una punta di apprensione.
«Se ti stai preoccupando che lì dietro possa aver fatto qualcosa di sconveniente, tranquillizzati: oggi niente sesso ad alta quota!» E, facendo quell’affermazione, Kanon rincarò la dose con un ghigno impertinente, accennando ad allontanarsi da lì.
Shion Hayes lo afferrò per un braccio e strinse un poco la presa, facendogli capire che avrebbe dovuto assecondare la sua richiesta. Poi, con la stessa mano, e un'espressione fin troppo seria in volto, gli indicò di sedersi nel posto di fronte a lui.
«Ascolta, papà, se è per quello che ho detto l'altro giorno a proposito di mio fratello, lo so che non avrei dovuto e mi dispiace. È solo che questa cosa del matrimonio... È una pessima farsa che mi irrita più del necessario», provò a giustificarsi.
Nel pronunciare quelle parole Kanon si sporse di lato per osservare gli ospiti giapponesi, seduti poco più in là. Poi, sprofondò comodamente nel sedile, chiudendo gli occhi e sospirando.
Il capofamiglia Hayes continuò a fissarlo in silenzio, più concentrato a cercare le parole adatte per iniziare il discorso che voleva fargli, anziché ascoltare le sue lamentele.
«Lo so, lo so cosa vuoi dirmi», lo anticipò Kanon, interrompendo il flusso dei pensieri del padre, facendolo irrigidire. «Che non dovrei usare la condizione di Saga come termine di paragone, che non è colpa sua se è così e che conti su di me per tenerlo a bada e al sicuro. Lo so fin troppo bene che, anche se non è tanto normale, Saga è il principino, il preferito di tutti. Pensa, è persino il mio fratello preferito!»
Il giovane sbadigliò annoiato, allungando le gambe e incrociando i piedi. Fece vagare lo sguardo qua e là, fra i passeggieri del volo privato, aspettando la replica del padre che invece si faceva attendere.
«Devo presumere allora che non è questo che ti preoccupa? Non è per la figuraccia di sabato? Ah, ho capito!» disse, rimettendosi più composto. «È perché ti ho detto che Saga è innamorato, vero?»
A quelle parole Shion Hayes sembrò avere una minima reazione, mantenendosi al tempo stesso composto e controllato.
«Beh, non posso dire di aver scherzato. Lo hai notato anche tu che ultimamente si comporta in modo strano, almeno per i suoi standard, vero? Di certo c’è che una sbandata se l’è presa, così com’è vero che sta vivendo un periodo di alti e bassi. Devo ammettere che di tutte le relazioni che ha avuto in questi anni… tutte fortemente disapprovate, ovviamente!» si affrettò a sottolineare, scimmiottando la tipica espressione arcigna degli Hayes, «non gli era mai successa una cosa del genere.»
Kanon tornò ad appoggiarsi allo schienale del sedile. Uno strano sorriso, diverso dai suoi soliti da sbruffone, comparve sulle sue labbra, mentre ripensava all’ultima volta che aveva visto il gemello: era un misto di divertimento, orgoglio e soddisfazione.
«Hai visto come si è ribellato? Non credevo che sarebbe mai successa una cosa del genere, ma finalmente il mio fratellino ha iniziato a mostrare un po’ di carattere», commentò, sogghignando.
«Kanon, ti prego…» si limitò a dire Shion, passandosi una mano sul viso stanco e tirato.
«Ma dai, papà, è un comportamento più che normale, non puoi pensare che si possa essere buoni e ubbidienti per tutta la vita. Prima o poi arriva il momento di voler fare di testa propria; e poi, direi che ormai siamo abbastanza grandi per vivere una vita tutta nostra, non credi?»
«Perché con te non si riesce a fare una conversazione seria una volta ogni tanto?» Più i minuti passavano, meno era la voglia e la convinzione di Shion di affrontare lo spinoso argomento che gli dava pensiero. Ma forse, senza volerlo, Kanon aveva centrato il punto, anche se da un punto di vista diverso. Lo sguardo di Shion Hayes si fece nuovamente serio. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era di aggiungere problemi ad altri problemi, come la gestione di un figlio che tutto d’un tratto voleva essere libero. Sentiva che le cose stavano andando lentamente a rotoli e non poteva far nulla per evitarlo.
«Questo è il bello di essere in due, papà», lo riscosse dai suoi pensieri Kanon. «Nonostante i suoi problemi, Saga è quello serio e diligente, che ti dà le soddisfazioni migliori. Io invece, sono quello simpatico e scapestrato, quello che si diverte a crearti imbarazzo. Ci dividiamo i compiti e tutti sono soddisfatti. Questo lo prendo io, a te non fa bene.» Il giovane afferrò rapido il bicchiere di whisky sul tavolino e lo bevve tutto d'un fiato.
Fra i due calò di nuovo il silenzio per diversi momenti. Shion Hayes tornò a fissare le nubi biancastre fuori dal finestrino. Il suo viso era una maschera di preoccupazione.
Kanon notò l'atteggiamento pensoso del padre. Inconsciamente strinse il bicchiere che ancora teneva in mano. L'idea che l'uomo si preoccupasse così tanto per Saga, quando invece di lui disponeva a piacimento senza farsi alcun problema, un po' lo infastidiva. Ma del resto, Saga era quello tenuto nascosto. Saga era quello debole. Saga era quello da proteggere, sempre.
Si rilassò a quei pensieri, poiché lui stesso, dal risveglio dal coma del gemello, aveva giurato di proteggerlo a tutti i costi.
«Comunque, non ti preoccupare troppo, papà. Se mai un giorno Saga dovesse decidersi a fare il grande passo», disse, alludendo al matrimonio, «non perderai il tuo prezioso figlio, ma anzi, guadagnerai una figlia», concluse, con un sorriso compiaciuto sulle labbra.
«Lo sai per certo, oppure lo stai dando per scontato?» domandò l'uomo, quasi sotto voce, storcendo un po’ la bocca.
«Da come si stanno evolvendo le cose, temo che succederà… e anche presto. Ultimamente è piuttosto sbadato con “certe” cose.» E, dicendo così, Kanon intendeva dire che Saga si dimentivava un po' troppo spesso di usare la testa e le precauzioni. «Non ti piacerebbe diventare nonno e ritrovarti circondato da tanti bei marmocchi festanti?»
Il giovane sogghignò nel vedere ancora una volta il genitore irrigidirsi alle sue parole. Provava una sorta di divertimento viscerale.
«Sono troppo giovane per diventare nonno», ribatté Shion, in un mormorìo irritato.
«E io sono troppo giovane per diventare zio, ma come dicono i francesi: c’est la vie!» replicò, facendo spallucce.
Si alzò dal sedile con un movimento troppo sicuro e andò a sbattere con la testa sul tettuccio della cabina, lasciandosi sfuggire un “ahi” e degli improperi contro i costruttori di aeroplani che li facevano troppo bassi per un povero ragazzo di quasi un metro e novanta come lui.
«Comunque, riguardo al nostro Saga, se ti può far stare tranquillo puoi chiedere a Shura di tenerlo d'occhio. Mi sembra che ultimamente quella vecchia suocera abbia troppo tempo libero», concluse Kanon, battendo una mano sulla spalla del padre e spostandosi poi verso la coda dell'aereo.

*****

Il volo per Boston fu movimentato da qualche scossone di troppo, a causa del maltempo che imperversava su buona parte del Massachusetts e copriva soprattutto l'area metropolitana della grande città. L'inconveniente non era stato preso molto bene dai passeggeri del jet privato, che vivevano queste turbolenze con differenti predisposizioni di animo.
Per l'intero viaggio Shion Hayes non lasciò il suo posto, alternando infruttuosi tentativi di lavorare, con lunghe pause nelle quali era più pensieroso che mai. L’unica vera distrazione, da quel turbinio di crucci che affollavano la sua mente, fu una lunga telefonata a Shura, per informarlo del ritardo sull’orario di arrivo. Ancora una volta, non aveva mancato di domandargli come fosse la situazione in casa. Soprattutto, gli premeva avere notizie dell’altro figlio.
Dopo la chiacchierata con il padre, e aver litigato con il cellulare per altri dieci minuti buoni, dichiarando infine la resa dopo l’invio dell’ennesimo minaccioso sms al fratello, Kanon si buttò a sedere su una delle poltroncine libere. Allungò i piedi su quella di fronte a sé e si aggiustò gli auricolari dell’ipod. Dalle sue liste infinite selezionò quella speciale che gli aveva imposto Aiolos, come penitenza per aver perso l’ultima scommessa, mandando la musica a tutto volume. Reclinò lo schienale e chiuse gli occhi, iniziando a canticchiare sommessamente le canzoni dei Culture Club. Non era certo la sua musica preferita, anzi, non era mai stato un grande appassionato di musica, ma nonostante ciò, quella musica “chiassosa” si stava rivelando l’ideale per sgombrare la mente dalle sue personali preoccupazioni ed elaborare invece una vendetta nei confronti dell’amico che lo stava obbligando a quella tortura. Tutto sommato però, non era poi così dispiaciuto di aver lasciato vincere ancora una volta Aiolos. Forse, al decimo passaggio, o giù di lì, gli sarebbe anche potuta cominciare a piacere.
Degli ospiti orientali il più esagitato e rumoroso si era rivelato essere Tatsumi,  l’accompagnatore, che oltre a ricoprire il ruolo di guardia del corpo, fungeva anche da tutore. Con occhi sgranati e le mani che non si erano mai staccate un solo momento dai braccioli del sedile, che stringeva come se volesse stritolarli, l'uomo pareva sull’orlo di una crisi di nervi. Era così teso che a ogni piccolo sobbalzo scattava allarmato. A stento la cintura di sicurezza – che non si era mai slacciato – riusciva a contenerlo. Digrignava i denti, pregando di arrivare presto a destinazione, che probabilmente al momento dell’atterraggio se li sarebbe ritrovati tutti consumati.
Ikki, il maggiore dei ragazzi, sul quale gravavano le speranze e il futuro della famiglia Kido, era seduto accanto al fratello. Aveva una perenne espressione corrucciata sul viso. Mal sopportava quella situazione, così come mal sopportava il dover stare in compagnia di quell’americano che considerava solo un borioso e che presto sarebbe entrato a far parte della famiglia. Cercava di ingannare il tempo guardando fuori dal finestrino, ma il più delle volte si ritrovava a seguire con lo sguardo il rampollo degli Hayes che, doveva ammettere a denti stretti, aveva un carisma eccezionale.
«Sei preoccupato per questa turbolenza, niisan?» chiese con voce gentile e pacata, Shun.
Il ragazzo, nonostante la giovane età, era forse il più calmo del gruppo, quello che stava affrontando la situazione con maggior serenità di spirito. Con particolare piacere sfogliava una voluminosa guida delle più importanti città americane. Nei giorni precedenti aveva quasi imparato a memoria tutto ciò che c’era da sapere su New York e ora era la volta di Boston. Distolse per un momento la sua attenzione da quelle pagine piene di nozioni storiche, notando con la coda dell’occhio come la gamba del fratello maggiore si agitasse in continuazione, neanche fosse in preda a un tic nervoso.
«Figurati se mi preoccupo per una sciocchezza del genere!» rispose l’altro con tono seccato, senza nemmeno voltarsi.
«Mi pareva…»
Shun fece spallucce, sorridendo indulgente. Non gli era sfuggito come il maggiore, fin da quando avevano lasciato il Giappone, si sentisse un pesce fuor d’acqua. Per lui invece, quel viaggio in terra straniera si stava rivelando molto interessante. Intravide il fratello fremere d’impazienza, poco dopo un altro lieve scossone. Poi, tornò a immergersi nella lettura.
Saori era tranquilla e silenziosa. Cresciuta con un’educazione fin troppo tradizionale e formale, sedeva con rigida compostezza su un sedile un poco appartato rispetto agli altri, con l’unica compagnia di Seiya, che le stava accanto. Ogni movimento, ogni respiro, e forse, anche ogni pensiero, erano misurati e mai fuori posto. Per quasi tutto il tempo aveva tenuto la testa bassa e lo sguardo posato su un libricino aperto sulle gambe, facendo finta di leggere. In realtà, aveva continuato a osservare con molta discrezione quello che le succedeva attorno e la presenza di Seiya le dava l’occasione di compiere qualche movimento più in libertà, sfuggendo allo sguardo onnipresente della guardia del corpo. Sospirò debolmente, posando una mano sul suo libricino.
«Non essere così tesa, dovremmo atterrare presto», le sussurrò Seiya, sfiorandole appena il polso, cercando di rassicurarla.
La ragazza abbozzò un sorriso e alzò lo sguardo. Inconsapevolmente i suoi occhi andarono a cercare Kanon, ancora stravaccato sul suo sedile, poco più avanti. Durante quasi tutto il volo lei si era trovata più volte a indugiare sulla figura di quell'uomo che avevano destinato a lei: quando si era alzato per prendere qualcosa dalla borsa di viaggio; quando si era spostato per andare alla toilette in fondo all’aereo; quando si era affacciato nella piccola cambusa, senza oltrepassare le tendine, e aveva preso un semplice tovagliolino di carta. Persino quando era stato chiamato dal padre, Saori aveva seguito con interesse quella conversazione, captando a dire il vero solo poche parole; ma proprio per quel motivo, rimanendone più incuriosita. Per un istante si era domandata come fosse quel fratello di cui stavano discutendo.
Era rimasta a fissarlo anche quando, a causa di un piccolo vuoto d’aria, l’hostess gli era andata addosso, rovesciando a terra il vassoio con i bicchieri vuoti. Aveva visto come Kanon si fosse chinato per aiutarla, sfiorandole più volte la mano e sorridendole sereno. E, una volta di nuovo in piedi, come lei fosse arrossita e si fosse sentita strana nel vedere Kanon che raddrizzava la spilletta d’oro sul lato sinistro della divisa della donna. Neppure in quel momento, nel quale lui era sdraiato comodamente e sentiva la musica, riusciva a togliergli gli occhi di dosso.

Così com’era stato previsto, dopo le modifiche al piano di volo che aveva portato il jet a compiere un paio di giri sopra i cieli dello scalo, l’aereo era poi atterrato su una delle piste secondarie dell’aeroporto di Boston, adibite esclusivamente ai voli privati, rullando infine stancamente verso l’hangar di proprietà della famiglia. Ad attenderli era pronte due auto scure, due modelli di SUV Porsche Cayenne noleggiate assieme ai rispettivi autisti, per il tragitto verso la villa di Mystic Lake.
Con grande sorpresa – e disappunto da parte di Shion – ad attendere all’interno dell’hangar c’era anche Aiolos, appoggiato alla portiera della Lamborghini rossa, con già il portabagagli aperto. La presenza del giovane voleva dire solo una cosa: Kanon aveva in mente qualcosa di diverso dai programmi prestabiliti. Fece appena in tempo a toccare terra col piede e voltarsi verso i suoi ospiti che il figlio, con la borsa in spalla, era subito corso verso la macchina sportiva salutando l’amico con un gesto della mano e scaraventando la borsa nel portabagagli. Poi, si affiancò all’altro, che lo osservava con un ghigno poco raccomandabile e, con un movimento improvviso, gli passò il braccio sulle spalle avvicinandosi all’orecchio.
«And you...; Are all I can see; this boy’s in love with you; You're everything; I can see; This boy's in love with you; You have taken it all; Away from me…» iniziò a canticchiare Kanon, trasformando il sorriso in una smorfia quasi perfida, bloccando ogni tentativo dell’altro di allontanarsi.
Voleva che Aiolos ascoltasse la sua performance per intero. Infine, concluse con un provocatorio bacio sulla guancia. E, non appena l'ebbe lasciato libero, sgusciò via per evitare la reazione dell’altro che aveva già caricato il pugno, andato poi a vuoto. Scansò agilmente anche il secondo tentativo di Aiolos, trovandosi però davanti a un ostacolo non previsto: non era riuscito ad aprire la portiera con celerità, rimanendo così scoperto e vulnerabile.
Aiolos non si lasciò scappare l'occasione e subito gli mise una mano sul sedere, stringendo forte, sogghignando nel sentire l'altro irrigidirsi. Era più che sicuro che Kanon si sarebbe incazzato.
«Tesoro, quanto sei audace! Ti prego, non davanti alla mia fidanzata!» esclamò invece il giovane Hayes, con un tono di voce fintamente scaldalizzato e abbastanza alto affinché tutti gli altri udissero con chiarezza. Approfittando dell'attimo di smarrimento e imbarazzo di Aiolos, si infilò rapido in auto, mettendo subito in moto.
«Dai, salta su o ti lascio a piedi!» gli disse, sfottendolo con lo sguardo.
Aiolos si girò per un momento verso Shion, abbassando contrito gli occhi all’espressione contrariata dell’uomo. Non si fece ripetere l'invito due volte e prese posto sul sedile del passeggero, mentre Kanon faceva sentire il rombo del motore, impaziente di sgommare via.
«Kanon!» lo chiamò a gran voce Shion. «Dove stai andando?»
«Ho alcune faccende urgenti da sistemare. Ci vediamo a casa!» rispose di rimando il figlio, partendo a tutta velocità e facendo stridere le gomme sull’asfalto asciutto dell’hangar, prima di uscire fuori, incurante dell’acquazzone che si era nuovamente scatenato.

*****

«Saga! Dove diavolo sei?»
Kanon spalancò la porta di casa, scuro in volto, urlando il nome del gemello. Era completamente fradicio nonostante avesse lasciato l'auto a pochi metri dall'entrata. In pochi passi era arrivato fin sotto lo scalone principale, alzando lo sguardo verso il piano superiore, pensando che l'altro fosse su, in camera sua. Chiamò di nuovo, con voce ancora più furiosa. Alla terza volta, ottenne solo di far affacciare all'ingresso una preoccupata Nanny.
«Kanon! Mio dolce tesoro, è questo il modo di entrare in casa e di chiamare qualcuno?» lo rimproverò, con voce tutt’altro che severa.
«Ciao, Nanny. Dov'è quel disgraziato di mio fratello?» le chiese, avvicinandosi per darle un bacio sulla guancia e per scusarsi di quella sua irruzione.
La donna lo ricambiò con una carezza, facendosi promettere di comportarsi bene, prima di lasciarlo e tornare in cucina a seguire il lavoro di Francine, che stava preparando qualcosa di speciale per il pranzo di Pasqua del giorno dopo.
Kanon attese ancora qualche secondo, poi si diresse ancora una volta verso lo scalone, guardandosi attorno con occhi che ardevano di rabbia. Aveva già messo un piede sul primo scalino quando gli parve di sentir aprire le porte della biblioteca, alla sua sinistra. Subito si precipitò lì e vide il gemello che ne stava uscendo. Non fece caso all'espressione triste sul suo viso. Lo spinse di nuovo dentro e gli assestò un bel pugno in pieno viso. Poi, con tutta calma, richiuse entrambi i battenti della doppia porta.
«Ma sei impazzito?» si lamentò Saga, piegato sulle ginocchia e con entrambe le mani sul viso dopo il colpo ricevuto. «Il mio naso…»
«Stai zitto!» gli urlò Kanon, ansimando per la rabbia. «Dovrei dartene uno per ogni chiamata rifiutata e per ogni messaggio a cui non hai risposto!» continuò con voce agitata. «Non ti consento di escludermi in questo modo!» sbottò, puntandogli contro il dito accusatore.
Kanon rimase lì, come una statua di marmo. La sua mano era dolorante, ma questo non era nulla in confronto a ciò che aveva provato in quegli ultimi giorni, passati senza avere alcuna notizia da parte del gemello. Continuò a fissare la schiena di Saga per diversi secondi. Poi, con il rimorso che si faceva largo in lui, si avvicinò e sfiorò la sua spalla.
«Ti ho fatto tanto male?» gli chiese con tono pentito. Lo fece girare verso di sé e corrugò la fronte nell'intravedere fra le dita di Saga alcune tracce di sangue. «Fammi dare un'occhiata», disse, allontanandogli le mani. Toccò con molta attenzione e, a parte un lieve naturale gonfiore per il colpo, il naso non sembrava rotto.
«Perché lo hai fatto?»
«E me lo chiedi? Tre giorni di totale silenzio. Tre giorni che non riesco a parlare con te», rispose Kanon, accalorandosi. Sentiva di nuovo l’irritazione salire. «Ero tremendamente in pensiero», terminò in un soffio, abbracciando il gemello fino quasi a soffocarlo.
«Non avevo voglia di sentire nessuno», sospirò Saga, toccandosi il naso. «Però mi pare di avertela scritta una e-mail.»
Kanon lo scostò da sé, guardandolo con occhi sgranati, incredulo per le parole appena pronunciate dal suo gemello.
«Non avevi voglia di…» balbettò. «Io non sono nessuno! Sono tuo fratello!» Le sue mani si strinsero forte nell’arpionare le spalle di Saga.
Gli prese il volto fra le mani e lo fissò negli occhi, nonostante l'altro facesse fatica a sostenere il suo sguardo arrabbiato. Non poteva però rimanere troppo in collera con lui, non di fronte a quel viso e a quegli occhi arrossati, dove una lacrima era rimasta incastrata fra le ciglia. Col pollice gli accarezzò la guancia che stava diventando calda. E una grossa goccia di sangue iniziò a colare dal naso.
«Prendi.» Kanon gli offrì il fazzoletto, prendendolo dalla tasca dei jeans. «Non farlo con la mano.»
«Non fa niente», replicò Saga, senza dargli ascolto e passandosi sul viso il dorso della mano.
Si avvicinò alla scrivania e prese un kleenex dalla scatola, tamponandosi il naso. Poi, ne prese un altro e un altro ancora. Rapidamente i fazzolettini si stavano riempiendo di sangue. Sbuffò, mentre ne prendeva di nuovi con una mano e con l'altra buttava nel cestino quelli sporchi.
«Vieni, Saga, siediti qui e tieni la testa indietro.»
Kanon prese una delle sedie del tavolo intarsiato – sulla sinistra della doppia porta e posto vicino alle grandi finestre – e la piazzò proprio davanti al gemello che tirò per un braccio, costringendolo a sedersi. Infine, dal mini frigo del mobile bar prelevò alcuni cubetti di ghiaccio, li raccolse nel fazzoletto e, poco delicatamente, mise il fagotto sul viso dell'altro.
«Mi dispiace averti colpito.»
«Potevi non farlo», ribatté con tono nasale Saga, iniziando a respirare a fatica con la bocca.
Chiuse gli occhi, mentre il fratello si prendeva cura di lui, ma sentiva la testa che iniziava a dargli sensazioni strane, come se avvertisse girare la stanza attorno a sé. Si raddrizzò un poco, attendendo che passasse quella piccola vertigine. Il naso pulsava, lo sentiva chiuso e pieno, ma almeno aveva smesso di sanguinare. Provò a fare un respiro, ma gli uscì solo una specie di rantolo. Allora tentò di alzarsi e barcollò per alcuni istanti, prima di stabilizzarsi sulle gambe.
«Come ti senti?» gli chiese Kanon, controllando ancora una volta, solamente con lo sguardo, dove lo aveva colpito. Rimpiangeva di averlo fatto, non tanto perché aveva colpito il proprio fratello per una questione, tutto sommato, sciocca; la sua preoccupazione maggiore in quel momento erano le eventuali conseguenze di quel pugno sulla salute di Saga. Anche se erano passati ormai tredici anni dal trauma cranico, non sapeva quali effetti avrebbe potuto avere un eventuale altro colpo, di qualunque natura o intensità esso fosse.
«Mi gira un po’ la testa. Il sangue mi fa impressione, soprattutto quando è il mio», rispose Saga, arricciando il naso e facendo più volte delle smorfie, per sentirsi di nuovo a suo agio nei movimenti. «Piuttosto, scommetto che li hai piantati tutti
in asso in aeroporto, vero? Dai, usciamo di qui e andiamo ad accoglierli. Dovrebbero arrivare a momenti», disse, chiudendo l'argomento.
«Aspetta!» Kanon fermò il gemello per un braccio. «Davvero, vorrei sapere come ti senti, come vanno le cose…» lasciò la frase in sospeso, sottintendendo la sua preoccupazione per gli affari di cuore dell'altro.
«C’è qualche piccolo intoppo, ma sono sicuro che presto si risolverà tutto.»

*****

Quando i due SUV varcarono il grande cancello che delimitava la parte più interna della proprietà attorno alla villa, il tempo sembrava essersi rimesso al bello, con candide e vaporose nuvole che lasciavano intravedere l'azzurro del cielo; ma il clima da quelle parti era solito mutare rapidamente e non sarebbe stato affatto strano che prima del calar del sole ci si sarebbe potuti ritrovare di nuovo sotto un acquazzone. Nel breve tragitto che portava le vetture fino all’ingresso vero e proprio della villa infatti, il tempo si stava già guastando.
I SUV si fermarono sul vialetto ghiaioso, uno a fianco all’altro, a meno di una decina di metri dall’entrata della villa. Una volta scesi, gli ospiti rimasero incantati dallo spettacolo del lago, che riluceva ai raggi del sole quasi come oro liquido. La natura verdeggiante dell’immensa proprietà Hayes faceva da magnifica cornice a quel panorama mozzafiato.
Fu l’anziana mrs Foster ad accoglierli per prima, come una matrona d’altri tempi, scendendo lentamente i gradini del porticato, mentre Shura, che in circostanze normali avrebbe adempiuto lui a tale compito, era stato incaricato di presenziare ad alcuni meeting negli uffici in città. Shion Hayes andò incontro alla donna salutandola con un bacio sulla guancia. Pochi attimi dopo, forse perché rimasti nascosti dietro i tendaggi delle finestre a osservare gli eventi, fecero la loro comparsa anche Kanon e Saga.
«Sono un gruppo di studenti in gita turistica?» chiese a bassa voce Saga, avvicinandosi all'orecchio del fratello.
«Più o meno, fratellino, più o meno», rispose l'altro con una risatina, senza staccare gli occhi dai giapponesi. «Vieni, te li presento.»
Avanzarono l’uno a fianco all’altro, i passi mossi quasi all’unisono. Faceva uno strano effetto vederli assieme, non solo perché erano di aspetto identico, con l’unica differenza delle loro capigliature – come sempre, Saga portava i capelli più lunghi rispetto all’altro – ma in quel momento vestivano anche allo stesso modo, vista la “disavventura” occorsa poco prima in biblioteca.
Per primo, Saga fu introdotto all’accompagnatore dei giovani ospiti che lo squadrò con molta diffidenza. Nei suoi pensieri, Tatsumi probabilmente si stava già prefigurando una versione fotocopia dell’indisponenza e dell'arroganza che aveva imputato a Kanon nei giorni passati a New York. Si limitò a biascicare dei saluti in inglese, rifiutando la mano che Saga gli stava offrendo e preferendo il tradizionale inchino.
Con i due fratelli, Ikki e Shun, il saluto fu meno spigoloso, anche se molto formale da parte del maggiore. Contraccambiò con molto vigore la stretta di mano, ma sembrava voler dire ben altro che un semplice saluto cortese, come se  si ritrovasse ad avere a che fare con un rivale pericoloso.
Shun Kido invece diede segni di lieve imbarazzo nel momento in cui Saga gli rivolse la parola tendendogli la mano: i suoi occhi si spalancarono dallo stupore senza che potesse impedirlo. Forse era dovuto all’essere di fronte a entrambi i gemelli che, in quel momento, lo stavano guardando con particolare intensità. Se con Kanon, nei giorni precedenti, era man mano riuscito a mantenere sotto controllo quelle strane sensazioni che gli suscitava – per l’espansività e la sicurezza di sé che il ragazzo mostrava senza alcun problema – con Saga era fin da subito tutt’altra impressione. Il gemello non difettava certo dello stesso carisma di Kanon, ma emanava maggiore cordialità e un carattere più disponibile che metteva subito a proprio agio.
«Non è il tuo tipo», gli sussurrò maligno Kanon, chinandosi un poco verso il giovane Shun, che arrossì.
Con Saori le cose non andarono molto diversamente. La ragazza parve persino più imbarazzata del cugino, quando il rampollo Hayes le rivolse la parola.
«Miss, lui è Saga, mio fratello», le disse Kanon, presentando il gemello, appellando la ragazza così come aveva fatto la sera del loro incontro e come aveva fatto anche durante il soggiorno a New York. Sorrise divertito alla reazione compassata di lei che sapeva però celare un certo fastidio.
«Buon pomeriggio, miss Kido. Benvenuta a villa Hayes», la salutò Saga, con quel suo sorriso dolce e affabile.
Era stata la prima cosa che la giovane aveva notato non appena i due si erano avvicinati. Era molto simile a quello che Kanon aveva sfoggiato con lei quando l’aveva invitata a mangiare una pizza, ma non aveva la stessa sfumatura di impertinenza del suo promesso. Nel vederli assieme, così vicini, aveva la netta impressione che anche Kanon mostrasse una maggiore dolcezza nei modi; soprattutto, era ben visibile una scintilla di orgoglio fraterno che brillava nei suoi occhi. E quel verde, già così intenso e affascinante, lo diventava ancora di più, mettendola in maggiore soggezione.
L’ultimo a essere presentato a Saga, neanche il gemello fosse stato un principe che passava in rivista le sue truppe – ma forse era il contrario, ovvero era Saga stesso a essere messo in mostra – fu Seiya. Col giovane giapponese non ci fu alcun problema: né imbarazzo di sorta, né tensione o fastidio. Solo un saluto rapido, formale e cordiale al tempo stesso.
Shion Hayes invitò tutti dentro; mentre Kanon assolveva alcune formalità per quel che riguardava le auto e gli autisti, a Saga – come padrone di casa – spettò il compito di accompagnare gli ospiti. Il giovane offrì il braccio a Saori e si incamminarono verso la villa, seguiti dagli altri.
«Mi aspettavo fosse molto più grande», commentò Ikki, con un tono di voce volutamente alto e un’espressione per nulla soddisfatta sul viso, continuando a guardare la villa dall’esterno.
«Temi che non ci siano abbastanza stanze per voi? Guardati attorno, il parco è molto grande, un angolino per piantare una tenda per te lo possiamo trovare!» rispose beffardo Kanon, dopo che si era attardato nel dare istruzioni ai due autisti di portare i bagagli degli ospiti nella struttura alberghiera del Country Club, a un paio di miglia dalla proprietà. «Muoviti a entrare in casa, prima che si rimetta a piovere», gli disse, scrutando per qualche momento il cielo che si stava rapidamente rannuvolando.

*****

Quella lunga giornata era stata stressante per tutti. La casa si era riempita di persone estranee, scombussolando la tranquilla e rassicurante routine a cui alcuni membri della famiglia erano abituati. Erano state solo poche ore, culminate in una cena formale, con gli ospiti che infine erano stati accompagnati all’albergo del Country Club, nel quale avrebbero alloggiato per i restanti giorni della loro permanenza sul territorio americano. Alle undici della sera, l’intera casa era finalmente tornata calma e silenziosa. I gemelli si erano ritagliati una nuova occasione per stare assieme e parlare come da tempo non succedeva più. Kanon raccontò più nel dettaglio com’era stato il suo primo approccio con Saori e la sua famiglia e dei giorni successivi. Saga rise di gusto nell’ascoltare le parole del fratello, seguendo con vivo interesse, ma quando l'altro gli riferì che il padre voleva ugualmente portare avanti quel progetto, fra loro calò il silenzio.
«Lei è carina e piuttosto riservata», commentò Saga, spostando lo sguardo alla finestra.
Entrambi i ragazzi erano seduti per terra, l’uno di fronte all’altro, con le gambe distese e una spalla appoggiata alla grande finestra che dava sul balconcino della camera di Saga.
«È giovane però, forse un po’ troppo per te e non credo tu possa… beh, hai capito, no?» continuò con un certo disagio nella voce, mentre il fratello prendeva un altro sorso della sua birra, direttamente dalla bottiglia.
Kanon sorrise alla pudica discrezione dell’altro, benché questi non fosse un verginello. Anzi, gli ultimi avvenimenti che avevano coinvolto Saga lo avevano mostrato sotto una luce diversa, svelando una natura molto più simile a quella di Kanon di quanto sarebbe potuto sembrare a prima vista.
«C’è ancora tempo per rompere questo accordo assurdo. In fondo, a me lei non interessa e sembra che la cosa sia reciproca.»
Bevuto anche l’ultimo sorso, Kanon appoggiò la bottiglia per terra, iniziando a farla rotolare avanti e indietro con piccoli colpetti della mano.
«Non ne sarei così sicuro. Devi lasciarle il tempo per conoscerti.» Saga mosse la gamba, sistemandosi in una posizione più comoda. «Hai notato come ti ha guardato per tutta la serata?» Col piede diede qualche giocoso colpetto al fianco del fratello.
«Io ho visto come guardava te! E ogni volta che si accorgeva di essere osservata, deviava lo sguardo. Direi che hai fatto colpo, fratellino; e non è stata la sola oggi ad arrendersi al tuo fascino», disse, con un sorriso malizioso sulle labbra e lo sguardo acuto di chi ha individuato la sua preda.
Saga ricambiò quell'occhiata con genuino stupore. Era sicuro di non aver fatto nulla per attirare l’attenzione, né per mettere in secondo piano il gemello.
«Devo ammettere che il ruolo del “bravo ragazzo” attira più consensi rispetto al “bello e ribelle”. Oh, non cadere dalle nuvole, Saga. Non dirmi che non ti sei accorto di nulla quando ti ho presentato; e anche per tutto il resto del tempo è stata la stessa cosa.»
Kanon andò a sistemarsi più vicino al fratello, appoggiandosi con la spalla alla sua. «Hai presente quel piccoletto, Shun, il cugino di Saori? Ebbene, lo hai letteralmente folgorato. Neanche voleva più lasciarti andare la mano. E l’altro, il fratello, per poco non gli veniva una sincope!» esclamò con ilarità, mentre rievocava l’incontro.
«Secondo te, lancio messaggi equivoci?» domandò Saga, lasciando che l'altro gli passasse il braccio sulle spalle e lo stringesse a sé.
Kanon scoppiò in una risata divertita, ma smise subito quando lo vide corrucciato in viso. «Finché si tratta di sguardi, non ho problemi, ma se l’interesse si dovesse fare più esplicito… Chiunque vorrà attentare alla tua virtù mascolina dovrà stare attento, perché lo ammazzo!» disse, accarezzandogli la testa.
Era così che gli piaceva stare con Saga: uniti, vicini, averlo tutto per sé, soprattutto quando mostrava il suo lato un po’ infantile. E lui si sentiva un poco come una mamma chioccia, indispensabile per il suo fratellino.
«Parli da persona gelosa.»
«Tu sei solo mio e non ho intenzione di dividerti con nessuno a meno che non sia una persona davvero speciale, ma anche in quel caso dovrà battersi per averti.» Kanon accompagnò quelle parole appena sussurrate con un sorriso lieve sulle labbra. Fece qualche lenta carezza sulla schiena del gemello e terminò dandogli un bacio sulla testa; infine, nel sentire un sospiro rassegnato di Saga, si rilassò chiudendo gli occhi.
«In fin dei conti è poco più che un ragazzino e anche gracilino a quanto sembra. Non vedo perché debba essere io a… Oh, al diavolo, Kanon! Che razza di discorsi mi fai fare! Mi hai riempito la testa di pensieri ridicoli e ora non so più quello che dico», si lamentò Saga, scostandosi di scatto dall'altro.
Rimase per un attimo stordito da quell'improvviso e brusco movimento e si appoggiò fiaccamente alla finestra. Forse erano ancora i postumi del pugno del pomeriggio. Dopo qualche momento per rifiatare, si alzò in piedi e si diresse nel bagno.
Si sciacquò con vigore e osservò il suo riflesso allo specchio: il viso grondante d'acqua aveva assunto una lieve sfumatura di rossore. Si sentiva caldo, ma non malato. Eppure quei discorsi lo avevano fatto sentire strano. Lui e Kanon erano cresciuti con l'esempio di Shura che non aveva mai nascosto loro le sue preferenze sessuali e dunque erano stati abituati a mantenere una mentalità aperta. Crescendo però, lui aveva iniziato a provare disagio riguardo certi argomenti, mentre Kanon li aveva sempre affrontati con ironia. Che ora il gemello iniziasse a prenderlo in giro, ad alludere certe cose nei suoi riguardi, gli dava da pensare. Doveva forse preoccuparsi di un significato nascosto per tutte quelle premure che riceveva da lui?
«Sciocco!» disse, rivolgendosi alla sua immagine. Si sciacquò una seconda volta: ora il suo viso scottava più di prima.
Loro due erano fratelli, gemelli; erano sempre stati molto uniti, una cosa sola. Era logico e naturale un comportamento del genere fra di loro. Kanon amava scherzare e prendere in giro le persone e lui non faceva eccezione. Scrollò la testa. Non c’erano e non ci sarebbero mai state altre spiegazioni!
Contenne uno sbadiglio. Già che era lì, ne approfittò per prepararsi per la notte. Si tolse il maglione, scompigliandosi un poco i capelli e rimase in camicia. Poi, prese lo spazzolino elettrico e il dentifricio.
«Kanon, adesso vattene in camera tua!» gli disse, senza far caso al silenzio che proveniva dalla camera, già con il ronzio elettrico nelle orecchie.
Iniziava a sentire gli occhi pesanti, forse per le troppe ore passate al computer a terminare una relazione e a confrontare dati su dati, forse per la serata “mondana”.
Con lo spazzolino in mano e la bocca sporca di schiuma, si soffermò un'ultima volta a fissare il suo riflesso impegnato a fare smorfie con il naso. Tutto era a posto, non c’erano lividi o gonfiori antiestetici. Sorrise soddisfatto. A poco a poco però, le sue labbra si incurvarono verso il basso, lasciando intravedere di nuovo la tristezza e la solitudine che in quei giorni albergavano in lui. Doveva sforzarsi di riprendere un'espressione serena, se voleva uscire di là, altrimenti Kanon lo avrebbe subissato di domande alle quali non se la sentiva di rispondere.

Kanon era ancora seduto a terra, accanto alla finestra, dove fino a poco prima era stato in compagnia del gemello. Fissò lo sguardo a osservare la porzione di panorama che le colonnine panciute del parapetto permettevano di vedere. Lentamente alzò gli occhi, vacui per i pensieri che gli affollavano la mente, a osservare il cielo scuro che veniva rischiarato da qualche lampo, al di sopra delle sottili nuvole grigie che si stavano aprendo per far comparire le stelle. La pioggia era finalmente cessata.
In una mano teneva il suo cellulare che aveva preso dalla tasca dei jeans, nell’altra invece, stringeva quello del fratello, che aveva trafugato dal suo comodino dopo che l'altro si era allontanato. Gli aveva dato una rapida occhiata. Quel pomeriggio, Saga gli aveva fatto capire che i suoi problemi fossero delle sciocchezze, ma non era stato convincente. Sperava di scoprire qualcosa di più per poterlo aiutare, ma non aveva fatto i conti con i propri sentimenti; e vedere lì, sul display, tutti i messaggi che gli aveva inviato, neppure aperti, lo aveva demoralizzato.
Saga era sempre nei suoi pensieri, ma lui… evidentemente non era così per il fratello. Si stavano allontanando e stava succedendo in maniera troppo rapida.
«Se solo tu non fossi così come sei…» sospirò, mentre nella sua testa passava un'altra ondata di pensieri malinconici. Chiuse gli occhi per un attimo e si concesse un respiro profondo. Una lacrima scivolò sulla sua guancia. Si sentiva solo. Era strano, lui era un adulto, faceva il pendolare da New York a Boston, aveva grandi responsabilità, era apprezzato e stimato nel suo lavoro; le relazioni amorose non gli mancavano e aveva l’affetto della famiglia e di suo fratello, di questo ne era certo. Eppure, in quel momento stava provando sulla sua pelle cosa fosse la vera solitudine.
Un tuono, più intenso dei precedenti, lo fece sobbalzare, risvegliandolo bruscamente da quello strano torpore. In quel momento si accorse che il cellulare del fratello gli stava vibrando in mano. Sul display era comparsa la scritta “CM”. Provò a frugare nei ricordi per trovare un nome da associare a quelle iniziali, ma non gli veniva in mente nessuno fra le amicizie in comune. Allora premette su “accetta” senza pensarci troppo e subito selezionò anche il vivavoce. La comunicazione era attiva, ma non sentiva alcuna voce arrivare dall’altra parte, solo qualche rumore di fondo.
«Pronto?» azzardò, parlando a voce bassa per non farsi sentire dal gemello.
«Sono io», esordì una voce femminile un poco titubante, lasciando passare diversi secondi di imbarazzante silenzio. «Lo so che anche se avevi detto che avresti atteso il tempo necessario, probabilmente adesso non vorrai parlare con me e non ti biasimo. In questi giorni ho aspettato: che tu tornassi, che aprissi quella porta e invadessi il mio spazio, che mi scuotessi e mi tirassi fuori a forza da questo momento che sto vivendo. Ma tu non sei venuto e io mi sono sentita abbandonata. Perché proprio ora hai deciso di rispettare la mia privacy?»
La voce si interruppe e quell’ultima frase arrivò a Kanon incrinata da un singulto di pianto.
Stava per risponderle, per rivelarle che lui non era Saga, ma fu bloccato dalla mano del gemello che senza fare alcun rumore si era avvicinato e aveva ascoltato in silenzio e con gli occhi lucidi di commozione. Kanon lo fissò con preoccupazione; voleva scusarsi per essersi impicciato in qualcosa che non lo riguardava, ma notò nel volto dell’altro una strana tranquillità e… speranza.
«Non avrei dovuto rintanarmi nuovamente in un angolino ed escluderti, non avrei dovuto lasciarti fuori ancora una volta. La mia reazione è stata esagerata, lo so, ma tutto mi sembrava confuso e surreale. Quello che ho letto, quello che ho visto… mi sono sempre ritenuta una persona determinata e forte nella rabbia che provavo per un’ingiustizia del passato. Ancora non riesco a superare quel dolore e quella rabbia, ma proverei un dolore ancora più forte se questo mio comportamento dovesse allontanarti da me. Non voglio perderti.»
Si udirono altri singhiozzi, nel silenzio che di nuovo era calato.
«Ho cercato l’indirizzo di casa tua. Sono stata quasi tutto il pomeriggio fuori dall’abitazione di Boston. Ci ho messo un po’ a capire che non era frequentata da tempo. Il custode mi ha detto di provare a Winchester; in paese mi hanno poi dato indicazioni per la villa. Ero sicura di me, nella mia determinazione di parlarti, ma quando mi sono trovata di fronte al cancello non sapevo più cosa fare. Sono rimasta ferma ad aspettare lì davanti nella speranza di trovare di nuovo quel coraggio che mi aveva fatto arrivare così vicino a te. Me ne bastava solo un poco per suonare al citofono e farti sapere che c'ero. Le mie mani però non si volevano muovere, né i miei piedi volevano incamminarsi per allontanarsi e riprendere la strada del ritorno. Poi ti ho visto passare in macchina col tuo amico. Avete oltrepassato il cancello e siete spariti. Non so per quanto tempo sono rimasta ancora lì fuori, a guardare da lontano. Nel profondo sentivo che non volevo andarmene senza almeno aver provato a parlarti.»
Attraverso il microfono dello smartphone si sentì distintamente un clacson e poco dopo il rumore dell’acqua di una pozzanghera che si increspava al passaggio di una vettura, forse troppo vicino a lei, e un sussulto spaventato. Infine, un silenzio spettrale.
«Cora! Ci sei ancora? Cora! Dove ti trovi?» disse Saga, con voce ansiosa.
«Sono quasi a Winchester. Poi chiamerò un taxi per tornare in città», rispose lei con un profondo respiro, cercando di calmare la voce che sentiva nuovamente alterata dalla voglia di piangere che la stava attanagliando.
Saga strappò il cellulare di mano al fratello, si mise in piedi e spalancò la finestra, uscendo sul balconcino. Con lo sguardo cercò la strada, ma forse quella non era la direzione giusta; e il fitto della vegetazione, aggiunto al buio della notte e la poca illuminazione della zona, non gli permettevano di avere una buona visuale.
«Incosciente», mormorò, allungandosi il più possibile per cercarla con lo sguardo.
«Saga, che stai facendo?» A stento Kanon lo trattenne per la camicia e lo riportò in camera.
«È ancora qui», disse Saga con voce commossa al gemello: il suo viso esprimeva l'entusiasmo di un bambino.
«Sulla Main street…» si rivolse alla giovane, ancora in linea, «c’è una tavola calda appena dopo il negozio di articoli sportivi. Ti prego, aspettami lì, io arriverò subito.» Le sue labbra tremolavano un poco per l’emozione. Non chiuse subito la telefonata, ma rimase ancora qualche attimo in attesa, sentendo il respiro di lei provenire dall’altra parte. «Cora… grazie.»
Si mise in fretta il cellulare in tasca e si infilò nella cabina armadio, saltellandone fuori un paio di minuti dopo con un nuovo maglione e le scarpe, faticando ad allacciare la seconda. Sorrise al gemello e si precipitò fuori dalla camera da letto, scendendo le scale di corsa e attraversando l’atrio fino alla porta d’ingresso. Non si fermò neppure per chiuderla, lasciandola sbattere sui cardini.
«Saga! Saga!» lo richiamò preoccupato Kanon, affacciandosi al balconcino.
Il ragazzo non poté far altro che osservarlo correre per il parco e imboccare uno dei sentieri che spariva nel boschetto che circondava quel lato della proprietà. Batté contrariato la mano sulla pietra del parapetto. Poi, rientrò nella camera da letto, chiudendo la finestra. Doveva riflettere sulla situazione, ma l’unica cosa che vedeva erano problemi a non finire: per Saga che era scappato in quel modo, per lui stesso che non era riuscito a impedirlo, per Shura che era il responsabile della sicurezza della villa e della famiglia…
Pochi minuti dopo, anche Kanon si precipitò giù per le scale, fermandosi però a prendere i cappotti dal guardaroba dell’ingresso. La notte, soprattutto quella notte, era umida e fredda.
«Eccoti qui, Aiolos! Vieni con me!» ordinò all’amico che proprio in quel momento stava camminando per il vialetto, per tornare a casa. Lo strattonò per un braccio e se lo trascinò dietro.
«Veramente stavo per andare in…»
«L’abbuffata post sesso la farai più tardi. Ora andiamo!»
«Smettila di tirarmi!» si divincolò Aiolos, liberandosi dalla presa dell'altro complice anche il fatto che Kanon avesse i cappotti sul braccio che gli intralciavano i movimenti. «Se non mi spieghi cosa sta succedendo non vengo da nessuna parte! E già che ci sei, perché hai il cappotto di tuo fratello?»
«È proprio di lui che si tratta. È scappato via come un furetto», spiegò Kanon, con un sorriso malizioso sul viso. «Allora, che fai, vieni con me a cercarlo?»
Aiolos non se lo fece ripetere una seconda volta. Con le chiavi dell'auto ancora in mano affiancò l’amico che già stava correndo verso il garage.
«Ma non con quella, vuoi che ci scopra? Prendiamo la golf cart. Piccola, silenziosa…»
«Lenta come una lumaca e scoperta!» concluse per lui Aiolos, sbuffando e sbattendo con forza la portiera.
Anche se non si sarebbe perso per nulla al modo l’occasione di vedere come sarebbe andata a finire quella faccenda, non aveva alcuna voglia di prendersi una vagonata di freddo per inseguire uno un po’ tocco. A malincuore, sotto lo sguardo impaziente di Kanon, fu costretto a sedersi sulla minivettura.
«Ma in fondo, che vuoi che sia una gita di notte non programmata e con appena quattro gradi di temperatura!» aggiunse sarcastico, allacciandosi il cappotto fino all’ultimo bottone e alzando il bavero.

*****

La Main Street di Winchester era una bella via, allegria e piena di vita, con le vetrine dei negozi decorate e illuminate a festa per la Pasqua.
A quell'ora di notte c’era ancora molta gente in giro che passeggiava tranquilla, si fermava davanti alle vetrine, o usciva dai negozi aperti oltre il solito orario.
Cora si strinse nel cappotto, risistemandosi anche la stola di lana che aveva avvolto attorno al collo e alle spalle come una sciarpa. Si fermò in mezzo al marciapiede, girandosi a destra e a sinistra per individuare il locale che le aveva indicato Saga pochi minuti prima al telefono. Probabilmente l’aveva già passato. Si diede della stupida per aver camminato con la testa fra le nuvole per chissà quanto tempo, quando invece avrebbe dovuto prestare più attenzione a dove stava andando. Era anche vero che, una volta arrivata in fondo alla strada, poteva sempre tornare indietro, ma forse avrebbe mancato l’appuntamento con Saga. Fece qualche altro metro, cercando il famoso negozio di articoli sportivi. Forse avrebbe fatto meglio a chiedere a qualcuno, ma in giro vedeva solo coppiette. Si fermò di nuovo, guardandosi attorno. Di fronte a lei c’era un vecchio cinema e subito a fianco si trovava una piccola libreria. Poco più avanti c’era una biforcazione, quindi con molta probabilità la Main Street terminava in quel punto. E se avesse camminato sul lato sbagliato della strada?
Si avvicinò al ciglio del marciapiede per attraversare. Dall’altra parte della strada c’era una pasticceria. I suoi occhi furono attirati dalla sua vetrina, mentre lo stomaco iniziava a farsi sentire. Sembrava ancora aperta, o almeno, le luci al suo interno erano accese. Magari, si disse, poteva entrare e, con la scusa di comprare qualcosa di goloso, chiedere informazioni senza sembrare un'imbranata. Aveva già un piede sulla carreggiata quando da dietro si sentì trattenere da un abbraccio, improvviso e geloso.
«Era duecento metri più indietro», le disse una voce quasi irriconoscibile, carezzandole l’orecchio.
Cora si girò di scatto e lo vide, ansante e senza fiato, ma con un meraviglioso sorriso a illuminargli il viso.
«Cosa ti è successo?» chiese lei, preoccupata, portandosi le mani sulla bocca.
Saga le si era presentato davanti stravolto dalla fatica, con i capelli in disordine e il viso sporco e imperlato di sudore. I suoi vestiti non erano da meno, il maglione aveva dei fili d’erba incastrati nella lana e i jeans erano fradici dalle ginocchia in giù, con una grande macchia di fango appena al di sotto del ginocchio sinistro e alcune strisciate su entrambe le cosce, come se ci si fosse pulito le mani.
«Correre per il bosco con il terreno zuppo e quasi completamente al buio non è affatto semplice come si possa pensare», rispose Saga, senza accennare a smettere di sorriderle. I suoi occhi brillavano dalla gioia.
«Mio Dio, sei… sei un disastro», si lasciò sfuggire Cora, trattenendo a stento una risatina per quel suo stato pietoso. Subito le tornò in mente la prima volta che l’aveva visto e, sovrapposto a quel ricordo, sentì nella sua testa le parole di Jade. Quella strana donna sosteneva di conoscerlo bene, le aveva raccontato tante cose, eppure… il suo Saga era diverso da quello di Jade.
«Neanche tu sei messa tanto meglio, sei bagnata come un pulcino. Sei stata sotto la pioggia per tutto il tempo?» le chiese, passandole una mano prima sulla guancia gelida e poi sui capelli bagnati.
Cora abbassò lo sguardo per l’imbarazzo. Erano lì che parlavano come se non fosse successo nulla, mentre una decina di minuti prima lei stava camminando con la paura nel cuore di aver rovinato ogni cosa.
Rapidamente si tolse la stola e la avvolse addosso a Saga, che sembrava iniziare a patire quel freddo pungente e umido, ancora carico dell’abbondante pioggia che si era riversata sulla zona in quella lunga giornata. Abbracciati l’uno all’altra, tornarono sui loro passi, fino ad arrivare alla tavola calda dell’appuntamento.
Dentro c’era un piacevole calduccio. Si accomodarono a un tavolo in fondo alla sala, in un angolo tranquillo e appartato. Saga ordinò per Cora qualcosa di caldo, una tazza di cioccolata e, guardando il bancone, anche una fetta di torta alle noci. Per sé invece, anche se solitamente preferiva berne poco – ma data la situazione ne sentiva estrema necessità – chiese del caffè, prima di andare in bagno per darsi una ripulita.

Seduti l’uno di fronte all’altra, tenendosi la mano come due fidanzatini, fra imbarazzi mal celati, mezze lacrime, carezze e sorrisi, Saga e Cora avevano parlato così tanto che le loro bevande erano diventate fredde. L’unica cosa che era sparita velocemente era stata la torta, che si erano divisi un boccone ciascuno. Di tanto in tanto, Cora sembrava perdersi in qualche pensiero, volgendo lo sguardo verso gli altri pochi avventori della tavola calda, soffermandosi a guardarli per cercare di capire se le parole di Jade, che ancora le frullavano per la testa, potessero nascondere un fondo di verità. Certo, l’aspetto avvenente di Saga attirava gli sguardi delle donne come un qualsiasi bel ragazzo – e questo era innegabile –, ma sarebbe stato così anche per gli uomini?
Il sospiro di Saga, appoggiato col gomito al tavolo e la mano sotto il mento, la ridestò dai suoi pensieri.
«Sei stanca? Vuoi andare via?» le chiese lui, accarezzandole dolcemente la mano che teneva nella sua.
Cora scrollò la testa, sorridendogli e portandosi la tazza alla bocca, per prendere un sorso di cioccolata.
In quell'ora che erano lì, trovò il coraggio di parlargli del suo passato, di quel terribile Natale che aveva segnato la sua vita per sempre, della sua nuova vita a Philadelphia, condizionata però dall’unico desiderio di tornare a Boston, nonostante fosse felice. Gli parlò anche di Chris. E si sentì lunsingata della gelosia che comparve sul suo bel viso. Gli svelò anche l’obiettivo che si era prefissata – ovvero quello di scoprire la verità sulla morte del padre – e infine, di quanto le fosse stato difficile leggere quei documenti ufficiali.
Pian piano, il locale si stava svuotando anche dei più nottambuli. Da qualche minuto non si sentiva più la musica venire dall’antiquato jukebox posto sulla parete in fondo e come sottofondo arrivavano solo i rumori di bicchieri e tazze dietro il bancone e spezzoni di frasi pronunciate a voce troppo alta dalla cucina, quando le porte venivano aperte dall’andirivieni delle due cameriere che stavano terminando il turno. I tavoli erano stati quasi tutti liberati e le sedie rovesciate su di essi per permettere di completare le operazioni di pulitura, prima della chiusura.
Facendo un ultimo giro, la cameriera più anziana si avvicinò al loro tavolo con il bricco di caffè, ancora fumante, rabboccando con un gesto fulmineo la tazza di Saga, senza attendere che le venisse chiesto, né lasciando il tempo al ragazzo di rifiutare.
«Lei signorina, vuole un po’ di caffè?» domandò a Cora.
Al cortese rifiuto della ragazza, la donna si allontanò portando via il piatto e la tazza vuota.
Saga osservò la donna quasi fosse stata un alieno. Poi, abbassò lo sguardo rassegnato sulla sua tazza, chiedendosi cosa fosse successo. Tanta era stata la rapidità della cameriera che neanche se n’era accorto. Ed ora si ritrovava di nuovo la tazza ricolma.
Cora rise piano, si avvicinò la tazza e ne bevve un sorso.
«Dicevi che non ti piace il caffè in questo modo», disse il giovane, sorridendo.
«Avevo detto che non sono abituata a bere questo tipo di caffè. Però è vero, non mi piace, ma bisognerà finirlo, adesso che te ne ha appena versato dell’altro. O forse vedi qualche vaso con tanto di pianta, in cui versarlo dentro “accidentalmente”, facendo finta di nulla? E poi, chissà che non mi tenga sveglia abbastanza a lungo per tornare a casa.»
Ne sorseggiò ancora un po’, prima che Saga le togliesse la tazza dalla mano e ne bevesse anche lui un lungo sorso.
Le prese la mano nella sua e si stava avvicinando a lei con la voglia di baciarla lì, davanti a tutti, quando un cappotto blu scuro venne appoggiato malamente sullo schienale della sedia vuota al loro stesso tavolo, accanto a dov’era seduto lui. Entrambi i ragazzi sobbalzarono, alzando all’unisono lo sguardo e trovandosi davanti Aiolos. Subito, Saga lasciò la mano di Cora.
«Questo te lo sei dimenticato a casa», disse il nuovo arrivato, slacciandosi il cappotto e appoggiandolo, ben piegato, sullo schienale di una sedia del tavolo vicino. «Buonasera, Caroline Miller», salutò anche la giovane. Poi, si allontanò per andare alla toilette, ricomparendo al tavolo solo un paio di minuti dopo. «Non vi dispiace se mi unisco a voi, vero?» disse, voltandosi con un sorrisetto verso Saga. «Accidenti a Kanon che mi ha trascinato con sé senza lasciarmi neanche il tempo di andare in bagno», borbottò, avvicinando una sedia e sedendosi senza tante cerimonie. Qualche attimo dopo arrivò la cameriera, portando con sé una fetta di cheesecake, due birre alla spina e l’immancabile bricco di caffè.
Questa volta però, Saga fu lesto a coprire con la mano la sua tazza, per non correre il rischio di trovarsela nuovamente piena.
«Avevo chiesto un sandwich ai gamberetti e cetriolo», si rivolse alla cameriera con tono sgarbato Aiolos, non appena gli fu messo davanti il piattino.
«Senti bello, a quest’ora la cucina è chiusa e per nulla al mondo il mio capo ha intenzione di riaprirla, neanche per un bel faccino come il tuo. Questo è rimasto, prendere o lasciare.»
Aiolos fissò quella fetta di dolce, dall’aspetto sembrava molto buona e invitante, ma non era quello che voleva. «Com’è fatta?» domandò alla cameriera, fermandola poco prima che lasciasse il tavolo.
«Tesoro, non troverai niente di meglio di questa torta in tutto il Massachusetts! È fatta con vera ricotta e limone.» La donna lo squadrò per alcuni secondi, poi alzò gli occhi al cielo: sapeva riconoscere a un miglio di distanza i clienti portaguai. «Fra dieci minuti si chiude», avvertì, prima di allontanarsi e sparecchiare un tavolo che si era appena liberato.
«Allora, cosa si dice di bello?» disse Aiolos, guardando prima l'uno e poi l'altra, allontanando da sé il dolce e prendendo invece un grande sorso di birra.
«Si dice che questo non è il tuo posto! Dovevamo solo portargli il cappotto, dare una sbirciatina per vedere se tutto procedeva bene e filare via! Non rovinare il loro appuntamento romantico», intervenne Kanon, presentandosi anche lui al tavolo, borbottando alla fine un “imbecille”.
«A questo punto siediti anche tu», disse in tono deluso Saga, cedendo il proprio posto al fratello e occupando la sedia libera accanto a Cora, rimasta letteralmente a bocca aperta.
«Su, su, fratellino, non fare così. Non avrai davvero pensato che ti lasciassi andare via in quel modo, vero? Ti sei precipitato fuori casa praticamente senza metterti nulla addosso. È forse un tentativo di suicidio per polmonite?»
La giovane sbatté gli occhi diverse volte, incredula nel trovarsi di fronte un perfetto doppione di Saga. Forse era la stanchezza che le stava giocando un brutto scherzo. Il sorriso del nuovo arrivato era bello, dolce e ammaliatore come quello che l’aveva fatta innamorare di Saga.
Kanon Hayes non smise di sorridere, né mentre si allentava la sciarpa e slacciava il cappotto, né mentre si sedeva. «Non la mangi, vero?» disse ad Aiolos, mettendosi davanti la cheesecake. Subito ne prese una bella forchettata, che non esitò a mettersi in bocca. «Ciao, tu devi essere la ragazza della…» si rivolse a Cora, con la bocca impastata dalla ricotta dolce. Vide l’espressione di Saga e si interruppe, cercando di correre ai ripari. «degli sms, vero? Piacere, io sono l’affascinante, simpatico, incredibilmente stupendo Kanon Hayes! Ovvero, il gemello bello di Saga», si presentò, stringendole la mano. Poi, ammiccando, tornò a divorare la torta, mentre Cora continuava a fissarlo imbambolata.
Immaginava cosa la facesse reagire in quel modo: tutte rimanevano interdette quando li vedevano assieme. «Tranquilla, non ho letto di imbarazzante», disse, facendola arrossire.
«Non starlo a sentire, gli piace prendere in giro gli altri, ma è una brava persona», le sussurrò all’orecchio Saga, stringendole la mano.
«Sì, mi piace scherzare», confermò Kanon, che aveva udito le parole del gemello. «Allora, miss… CM, giusto?»
«Caroline. Caroline Miller», rispose Cora, un poco rassicurata.

*****

Si erano intrattenuti in chiacchiere fin oltre l’orario di chiusura e solo grazie alla simpatica sfacciataggine di Kanon, che si era messo a fare il cascamorto con le due cameriere, erano riusciti a evitare di essere messi alla porta.
Nonostante il grande imbarazzo di trovarsi lì, fra loro, Cora si era trovata bene e con Saga al suo fianco che le dava il suo sostegno era stato più facile. Anche se non aveva partecipato molto alla conversazione, era stata grata a Kanon per aver tenuto allegra l’atmosfera, nonostante la sua mente avesse preferito vagare per strani pensieri; forse per la stanchezza di quella giornata particolare, forse per il freddo e la pioggia accomulati in quelle lunghe ore di attesa, piene di timori e incertezze. Per quasi tutto il tempo si era appoggiata a Saga, faticando a tenere gli occhi aperti, ma felice di averlo vicino che le stringeva la mano e giocherellava con le sue dita.
«Che cosa non si fa per il proprio fratello», sospirò Kanon in modo teatrale, aprendo la porta del locale e uscendo in strada all'aria frizzantina della notte.
Sbadigliò e si stiracchiò, incurante dei passanti. Fece qualche passo sul marciapiede, con la testa all’insù a guardare il cielo: non c’era più l’ombra di una nuvola e si potevano vedere le stelle brillare come non mai.
Pochi minuti prima, Saga aveva prenotato un taxi che ora stava già attendendo il suo passeggero, parcheggiato lì vicino. Si avviò all'auto, mano nella mano con Cora. Parlò all’autista, dandogli l’indirizzo e pagando in anticipo la corsa. Poi, aprendo lo sportello alla ragazza, si intrattenne ancora qualche attimo con lei.
«Sei proprio bello con indosso questo cappotto», gli disse Cora con voce un poco assonnata, lisciando la stoffa morbida di cashmere di quel capo blu scuro. «Hai un’aria distinta.» Con le mani gli risistemò il bavero, approfittandone poi per accarezzargli le guance.
Saga le sorrise, ricambiando quelle premure, passandole le dita fra i capelli e giocando con un ricciolo.
«Ce la farai ad arrivare fino a casa o mi devo preoccupare?» Si avvicinò di un passo e l'avvolse in un abbraccio, inspirando l’odore dei suoi capelli.
La sentì mormorare qualcosa e sorrise. Erano così vicini, se lei gli avesse offerto la bocca, l’avrebbe baciata con passione; se fosse accaduto, non l’avrebbe lasciata andare da sola, ma sarebbe salito sul taxi con lei e avrebbe ordinato all’autista di partire a tutta velocità verso Boston. Nessuno avrebbe potuto impedirglielo, né Aiolos, né suo fratello. Si limitò invece a stringerla forte, a sospirare e a dirle senza alcun imbarazzo quanto l’amasse.
«Te lo prometto», disse lei, staccandosi un poco e guardandolo negli occhi, «non rimarrai mai più fuori dalla porta.»
«Lo so. Non succederà più, perché io non permetterò che possa accadere.»
Le sorrise e poi, contrariamente ai suoi propositi, la baciò con passione, faticando a staccarsi da lei.
Kanon sospirò nel vedere i due piccioncini che si stavano salutando.
«Guardalo Aiolos, lo hai mai visto così innamorato e protettivo nei confronti di qualcuno, prima d’ora?»
Per quella notte probabilmente lo avrebbe graziato, ma l’indomani, alla prima occasione buona, gli avrebbe fatto il terzo grado e l’avrebbe tormentato finché non si fosse ritenuto soddisfatto.
Aiolos rispose con uno sbuffo scocciato, stringendosi nel cappotto, troppo intento a rabbrividire di freddo, guadagnandosi così una gomitata al petto da parte dell’amico.
«Hai il senso del romantico di un asino da soma! Vai a prendere la macchina, è parcheggiata dietro l’angolo. Io aspetto il nostro Romeo.»





Note:
Sigari Montecristo A: sono una marca di sigari cubani molto pregiati, conosciuti anche come "Re". Qui trovate la pagina specifica, mentre qui troverete qualche nozione più in generale sulla marca Montecristo.
Snifter: è il nome tecnico del classico bicchiere da Brandy o Cognac.

“And you...
Are all I can see
this boy’s in love with you
You're everything
I can see
This boy's in love with you
You have taken it all
Away from me…”
è una strofa del brano Boy Boy (I'm the boy) dei Culture Club.

Main street: è la denominazione comune, entrata anche nel nostro lessico comune, della strada principale dei piccoli centri abitati soprattutto del Nord America.




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Capitolo 19
*** Capitolo XVIII ***





XVIII



«Per la miseria! Ancora continuo a ricevere lamentele da parte del direttore del Country Club, per quei dannati giapponesi! E questa volta non si è limitato alla solita e-mail. No! Una lettera su carta intestata del Club!»
Shion Hayes sbatté con foga i fogli che aveva in mano sulla scrivania, rischiando di mandare all'aria documenti ben più importanti.
«Calmati Shion, non è poi la fine del mondo. Presto partiranno per tornarsene nel loro Paese e non dovrai più sopportarli. E comunque, anche se la tua immagine dovesse subire qualche piccola crepa, fra i soci-membri del Country Club, dovresti ricordare a quell’uomo che è solo un tuo dipendente, visto che possiedi le quote maggioritarie e potresti farlo sostituire in un batter d’occhio! Il cinquantotto per cento, con le ultime acquisizioni che ti ha suggerito Saga, vero?» disse Shura, alzando lo sguardo e distogliendosi per l’ennesima volta dal resoconto delle spese dell’ultimo trimestre per la gestione della villa e della residenza di città. Detestava fare quel lavoro, perché non era mai andato d’accordo con i numeri, ma era fra i suoi compiti; e l’irrequietezza di Shion gli stava rendendo le cose ancora più difficili.
Il capofamiglia Hayes continuava ad andare avanti e indietro per la stanza, borbottando a più non posso e massaggiandosi le tempie.
«Cosa avresti fatto, tu?» chiese in un mormorio, alzando lo sguardo sul ritratto del vecchio padre che sempre lo giudicava e lo scherniva con la sua espressione severa, mentre si versava un bicchiere di whisky.
Aveva dannatamente bisogno di qualcosa di forte da bere. Si lasciò andare a un sospiro, abbassando il capo. Sapeva bene cosa avrebbe fatto quell’uomo, se fosse stato al posto suo; non avrebbe permesso a nessuno di interferire con i suoi piani: avrebbe fatto sposare Kanon il prima possibile. E per quanto riguardava Saga… l’avrebbe rimesso in riga con ben altri metodi, altro che tenerlo nascosto e al sicuro; e avrebbe fatto di tutto per unire il nome della sua famiglia ai Perkins di New York, poco gli sarebbe importato se quella Jennifer era un’oca viziata. Avrebbe portato vantaggi e prestigio alla famiglia.
Ma lui, Shion Hayes, non era come suo padre. Voleva certo il prestigio, voleva anche vantaggi, ma non a quel prezzo. Ora che aveva conosciuto di persona la giovane Saori, si era convinto che fosse la scelta giusta per Kanon. Doveva solo aspettare che il figlio imparasse a conoscerla meglio e l’avrebbe accettata.
Il ghiaccio nel suo bicchiere si mosse con un leggero scricchiolio, sufficiente per risvegliarlo dai suoi pensieri. Corrugò la fronte e posò il bicchiere sul mobile bar: non aveva più voglia di bere.
«Ho la netta impressione che quel maledetto vecchio abbia architettato tutto per vendicarsi perché ho rifiutato di rinegoziare l’accordo di partership, scaricandomi il suo gorilla solo per rendermi la vita un inferno nei pochi giorni che starà qui. Comunque, stando agli ultimi documenti che ho ricevuto, attualmente è al sessantuno per cento; Saga sta inoltre acquistando diversi terreni attorno al lago e vari lotti nei paesi vicini. Ma non chiedermi perché lo stia facendo, non capisco proprio cosa abbia in mente quel ragazzo.»
«E con questo ho finito!» esclamò soddisfatto Shura, chiudendo finalmente con i conti.
Raccolse il materiale nella cartelletta e ripose il tutto nel cassetto centrale della scrivania di mogano, sprofondando poi nella poltrona. Non c’era nulla di più stressante e faticoso per lui che fare la contabilità delle spese.
«Shura ha ragione», si fece sentire Saga, affacciandosi dalla porta della biblioteca, intervenendo nella discussione. «Qualche ospite “capriccioso” non è la fine del mondo. Il direttore si sarebbe lamentato in ogni caso. È da quando abbiamo fatto aprire il maneggio, l’anno scorso, che non perde occasione per dire la sua su tutto quello che accade al club. Vorrebbe mantenere il luogo più “esclusivo” e ridurre le strutture. Vedrai che quando l’ampliamento del centro sportivo sarà ultimato, darà di matto ancora di più, tranne poi placarsi quando si renderà conto che, proprio grazie a quei lavori, il fatturato aumenterà del venticinque per cento, soprattutto con le manifestazioni che vi si svolgeranno.»
I due uomini si girarono di scatto nel sentire la voce del ragazzo, guardandolo per qualche istante con occhi sgranati. Shion, soprattutto, era quello più sorpreso.
«Scusate, non volevo intromettermi. Ho bussato, ma forse non mi avete sentito.»
Era un Saga sorridente e sicuro di sé, quello che se ne stava a metà sulla soglia della biblioteca, con in mano diversi fascicoli e una chiavetta usb nella quale aveva caricato una dettagliata presentazione per il prossimo consiglio di amministrazione, per l’autorizzazione dei nuovi progetti. Si avvicinò alla scrivania e vi lasciò il tutto. In cima al mucchio, aveva preparato anche alcuni documenti che necessitavano la firma del padre.
«Se dovessi aver bisogno di qualche chiarimento per questi documenti, potrai chiedere a Kanon quando rientrerà in casa, sono sicuro che risponderà in maniera esauriente.»
«Ora dove si trova?» chiese Shion.
«L’ho lasciato che prendeva il sole sul pontile», rispose con pacatezza Saga.
«Anche tu eri lì a prendere il sole?» domandò Shura in tono divertito, alzandosi dalla poltrona e facendo il giro della scrivania, per poi raggiungere una delle grandi finestre da cui si poteva vedere bene sia il pontile che la rimessa delle barche.
«Per me fa ancora troppo freddo. Anche per Kanon fa troppo freddo, ma non ha voluto ammetterlo quando gliel’ho fatto notare», ridacchiò il giovane.
Non aveva altro da fare, lì. Si guardò un attimo in giro, poi si mise le mani in tasca e fissò il ritratto del nonno: era un’abitudine che aveva preso da Shion, ma a differenza del genitore la sua era mera curiosità per una persona che non aveva mai conosciuto e che, tutto sommato, non gli incuteva alcun timore, ma solo curiosità.
«Aspetta, non te ne andare. C’è qualcosa che vorrei chiederti», lo trattenne Shion, vedendo il figlio che stava per uscire. Si avvicinò alla scrivania e, sovrappensiero, accarezzò una vecchia cartelletta di cuoio, semi sepolta da altre carte. «Come giudicheresti una persona che…» fece una pausa cercando le parole adeguate, senza staccare gli occhi da quella cartelletta, «una persona che credi di conoscere e di cui ti fidi ciecamente e poi scopri che ti tiene nascoste delle cose, magari delle cose importanti?»
Era strano per Saga vedere il proprio padre non avere quasi il coraggio di guardare negli occhi una persona quando le rivolgeva una domanda. Soprattutto se stava parlando con uno dei suoi figli. Rimase in silenzio per un attimo, per cercare di capire se quella domanda fosse in qualche modo un trabocchetto, ma l’atteggiamento del padre non sembrava proprio avvalorare quell’ipotesi.
«Ognuno di noi ha dei segreti, papà», rispose, sempre in tono pacato e sereno. «Alcuni sono piacevoli, altri dolorosi, altri ancora sono vergognosi o terribili; e non sempre si è disposti, o si ha la possibilità, di condividerli. Ma se questa persona è arrivata a tanto, deve avere le sue ragioni.»
Qualcosa gli diceva che stavano per affrontare un argomento importante. Fissò il genitore negli occhi, dopo che questi aveva alzato la testa di scatto, nell’udire la sua risposta e lo vide diventare serio. In quel momento sentì una strana tensione nella biblioteca, arrivare sia dal padre, sia da Shura che, nonostante fosse più appartato, stava seguendo il discorso con un certo interesse. Era la conferma ai suoi sospetti, quindi anche lui avrebbe mantenuto la stessa serietà degli altri.
«Quando però questi segreti vengono a galla, se essi sono negativi per chi ci sta vicino, allora bisogna pagarne le conseguenze», aggiunse.
A quelle parole Shion si irrigidì ancora di più. Non era sicuro di riuscire a interpretare l’atteggiamento improvvisamente così enigmatico del figlio, né tantomeno a decifrare e comprendere il significato di ciò che aveva appena detto. C’era forse un messaggio sottinteso in quelle sue parole?
Il comportamento che Saga stava tenendo in quel momento era davvero insolito. Negli anni si era sempre dimostrato un libro aperto per i membri della sua famiglia e ora… ora sembrava più chiuso e guardingo, per ciò che lo riguardava.
Che si fosse sbagliato nel giudicarlo? O forse, era solamente diventato adulto e lui non se ne era accorto, troppo intento a tenerlo sotto controllo e limitarlo in quello che faceva, che vedeva solo ciò che voleva vedere?
«Tu hai qualche segreto, Saga?» gli chiese Shion, per metterlo alla prova.
«Sì, ne ho», rispose il giovane, tornando a sorridere lievemente, avvicinandosi alla scrivania, senza mai staccargli gli occhi di dosso e compiendo lo stesso gesto fatto poco prima dal padre.
«E saresti disposto a condividerli?»
Anche se non aveva detto una parola, né si era scomposto, Saga fece intendere con chiarezza che non avrebbe risposto a quella domanda.
«Vado in città», disse invece, all’improvviso. «Non sono sicuro di tornare questa notte.»
Picchiettò un paio di volte le dita sulla cartelletta di cuoio e si girò, allontanandosi di qualche passo dalla scrivania. «Non sono ancora pronto», mormorò fra sé. «Forse un giorno, se qualcuno non farà la spia prima», rispose infine, girandosi di tre quarti e mostrando al padre un sorriso enigmatico.
Poi, il suo sguardo si focalizzò quasi per caso su qualcosa che si intravedeva per terra, vicino a una delle gambe del mobile. Si chinò e raccolse un pezzo di carta molto rovinato. Lo studiò per qualche momento e lo gettò sopra le altre carte presenti sulla scrivania senza dargli troppo peso, uscendo dalla biblioteca.

Nella biblioteca calò un silenzio tombale, nel quale i due uomini si scambiarono uno sguardo incredulo per ciò che era avvenuto pochi attimi prima. Shura sentì i sudori freddi corrergli lungo la schiena. Si affannò a raggiungere la scrivania e verificò ciò che la sua mente aveva immaginato.
«Accidenti alla tua mania di tirarla fuori e guardarla in continuazione, Shion!» esclamò con una punta di panico. «Ti è andata bene che ormai non si distingue quasi più nulla!»
Tirò un sospiro di sollievo e riconsegnò la fotografia all’amico, che sembrava ancora impietrito.
Shion infatti era perso nei propri pensieri. D’un tratto gli tornarono in mente le parole che Kanon aveva pronunciato sull’aereo, quando aveva sottolineato il comportamento strano di Saga. Lo aveva notato anche lui che negli ultimi tempi il figlio era diverso: meno concentrato, meno attento, meno emotivamente stabile…
«Ha detto che va in città», mormorò. «Non aveva mai manifestato il desiderio di andare in città. Sarà il caso che tu lo accompagni», suggerì a Shura, riprendendo una maggiore padronanza di sé; e quello sembrò in tutto e per tutto un ordine.
«Credo che Saga non accetterà la mia presenza. E non sarà di certo per una questione di “passaggio con la macchina”», rispose Shura. «Del resto, da quello che sono venuto a sapere, finora è sempre andato avanti e indietro con mezzi propri, ma se ti farà stare più tranquillo, proverò a chiedergli se posso accompagnarlo», concesse, in tono più conciliante.
«Sai qualcosa a riguardo?» chiese Shion, squadrandolo con espressione stupita: lui di tutto ciò non sapeva nulla.
«Non credo ci sia nulla di cui preoccuparsi, Shion.»
D'improvviso qualcuno bussò alla porta, erano stati due colpi con le nocche e Aiolos fece capolino. «Shura, avrei bisogno di parlati», disse in tono serio, ma senza lasciar trapelare nulla che potesse mettere in allarme il capofamiglia Hayes. «È piuttosto importante.»

*****

Cora posò una grande ciotola di popcorn, appena usciti dal microonde e ancora fumanti, sul tavolino e subito dopo si buttò a peso morto sul divano.
«Ieri sono stata all’agenzia di mr Price per vedere se il mio posto di lavoro era ancora salvo. Sai, dopo tutti questi giorni in cui non mi sono presentata, anche se avevo avvertito, temevo il peggio. Il titolare mi ha fatto una ramanzina tale che avrei voluto sotterrarmi.»
Si lasciò andare a una risatina imbarazzata mentre raccontava a Saga quanto era accaduto nei giorni in cui non si erano sentiti. Dopo quella strana e splendida serata alla tavola calda di Winchester, aveva iniziato a raccontargli tutto: di come passava le giornate, di quello che faceva al lavoro e anche di quello che raccontava alla sua famiglia. Sbadigliò e si risistemò più composta, occupando il cuscino centrale del divano. Indossava una felpa rovinata – che un tempo era la parte superiore della sua vecchia tuta di scuola – e i pantaloncini arancioni; e i capelli erano ancora umidi per la doccia che si era fatta solo una mezz’ora prima. Non le importava di apparire trasandata di fronte al suo ragazzo, poiché sembrava non dare alcuna importanza a quell'aspetto.
«Ci ho pensato molto, in questi giorni», continuò, protendendosi verso la ciotola e prendendo una grossa manciata di popcorn. «Nonostante mi piaccia quel lavoro tranquillo, defilato e con orari che mi permettono di fare il mio comodo, ho deciso di accettare il consiglio di mr Price e iscrivermi ai corsi di criminologia.»
Piegò la testa un poco all’indietro, girando lo sguardo oltre lo schienale del divano, cercando di inquadrare Saga per vedere la sua reazione alla notizia, ma lui si infilò in bagno. Sbuffò annoiata, rimettendosi dritta. Terminò in fretta i popcorn che aveva in mano e concentrò la sua attenzione su un angolo del plaid sul quale Kitty dormiva acciambellata e incurante dei movimenti bruschi che faceva. Era incredibile come quella gattina avesse subito preso possesso della sua vecchia coperta di pile. Ogni volta ci giocava, la tirava, la mordeva, vi affondava dentro le unghiette e poi ci si sdraiava sopra, lasciandoci su un sacco di peli. Talvolta, Cora la trovava arruffata per terra in un angolo, fuori dalla porta della camera da letto, oppure vicino alla ciotolina dell’acqua, oppure ancora dietro la porta del bagno. Quello era da sempre il suo plaid preferito e avrebbe voluto usarlo ancora per tanto tempo. Invece, pochi giorni nelle zampe di quella bestia ed era già da buttare.
Scrollò la testa, sbuffando di nuovo, ma questa volta di rassegnazione: il plaid era diventato di proprietà di Kitty. Punto. Stop. Fine della discussione!
«Lascerai il lavoro?» le chiese Saga, tornando nel salotto e strofinandosi i capelli con l’asciugamano.
Era arrivato nella tarda mattinata per stare un po’ con lei, pranzare assieme e parlare ancora un po’ di quello che Cora gli aveva raccontato la sera prima di Pasqua. L’aveva trovata mezza addormentata che usciva dalla cucina con solo le mutandine e la canottiera addosso, dopo che aveva dato da mangiare a Kitty. L’aveva vista molto stanca e le aveva fatto tenerezza. Avevano quindi deciso di prendersela più comoda, tornando a letto e passando il tempo a farsi un po’ di coccole.
Si avvicinò al tavolino e pescò alcuni popcorn dalla ciotola, mangiandoli però senza tanta voglia, considerando che non approvava quel genere di cose, riprendendo subito dopo ad asciugarsi.
«No, il lavoro che ho mi piace. È interessante e stimolante e poi mi è utile per imparare, ma soprattutto mi serve!» spiegò Cora, allungandosi a prendere altri popcorn: ne avrebbe mangiati fino a scoppiare se avesse potuto. «Saranno anche solo trecentocinquanta dollari alla settimana, ma non li disdegno. Però dovrò modificare un po’ gli orari. I corsi ad Harvard sono al pomeriggio, per tre giorni alla settimana. Quindi, in quei giorni pensavo di lavorare di mattina. Poi naturalmente dovrò studiare e probabilmente fare anche qualche esercitazione pratica assieme agli altri studenti.»
Cora alzò lo sguardo verso Saga e gli vide una strana espressione sul viso. Timorosa di aver detto qualcosa di male, iniziò a tormentarsi l’unghia del pollice con i denti, aspettando una sua risposta.
Il ragazzo continuò a sfregarsi i capelli; in apparenza dava l’impressione che non gli importasse molto dell’argomento. Le diede le spalle e si diresse in cucina per prendere qualcosa da bere. Si tolse l’asciugamano e quasi lo sbatté sul piano di lavoro, passandosi poi le mani fra i capelli, pettinandoli all’indietro, esprimendo  in quel modo i suoi veri sentimenti. Fece qualche respiro profondo, forse uno sbuffo, e aprì il frigorifero, studiando quello che c’era dentro.
«Va tutto bene?» chiese Cora.
Si era alzata dal divano, incurante di disturbare la gattina che ancora dormiva beata e si era affacciata in cucina, percependo quel rumore strano e improvviso, come una frustata, provenire da lì.
«E se te ne dessi io… cinquecento alla settimana?» le propose Saga, senza voltarsi. Sentiva gli occhi della ragazza su di sé e poteva ben immaginare la sua espressione stupita e dubbiosa.
«E cosa dovrei fare, restarmene a casa a fare la mantenuta?» ripose lei, con tono seccato e al tempo stesso sconcertato.
«Non sarebbero certo per te, ma per il mantenimento di Kitty!» replicò Saga voltandosi e guardandola con una certa sorpresa. «Ma se ti può far sentire meno a disagio, posso sempre farti un regolare contratto di assunzione come catsitter», aggiunse con il sorriso da monello sulle labbra. Trattenne una risata nel vedere la reazione oltraggiata di lei.
«Dai, vieni qui», le disse, allargando le braccia in un invito ancora più esplicito ad avvicinarsi; Cora però si girò dall’altra parte, offesa.
Il ragazzo la raggiunse in un attimo e l’abbracciò, catturandola completamente e facendola indietreggiare assieme a lui fino a tornare ad appoggiarsi ai mobiletti della cucina. Le baciò il collo, sopra i capelli. Poi, glieli scostò, scoprendo la pelle umida, così com’era umido lo scollo della felpa. Iniziò a solleticarla con la punta del naso, facendola ridacchiare.
«Con questo tuo nuovo impegno, come dovremo organizzarci?» le chiese, rattristandosi. «Staremo assieme ancora meno di quanto riusciamo a fare adesso», sospirò. Era stato un soffio caldo che aveva accarezzato il collo della ragazza provocandole dolci brividi. «Siamo ancora solo all’inizio e già dobbiamo ritagliarci a fatica qualche momento per noi…»
Cora posò le mani su quelle di Saga, rilassandosi e abbandonandosi fiduciosa fra le sue braccia.
«Questa casa è più che sufficiente per tutti e tre; e il letto è grande e troppo vuoto per una sola persona. Vivi qui con me.» Il tono di Cora era serio e convinto, ma vi era anche un pizzico di timore per un eventuale rifiuto.
«Vorresti davvero un uomo che ciondola per casa tutto il giorno, aspettando il tuo ritorno a casa, magari con la cena pronta in tavola?» ribatté Saga. Senza volerlo ci mise una punta di fastidio nel tono della sua voce.
«Perché fai così, adesso?» Cora provò a girarsi ma si sentiva blccata fra le braccia del ragazzo. «Io non chiedo certo questo. Ti ho semplicemente proposto di stare con me, sotto lo stesso tetto, in questo appartamento che in fin dei conti è tuo.»
«Ti stancheresti presto della situazione e io lo stesso!» disse lui, con tono secco, quasi offeso. La lasciò andare, riprese l'asciugamano e uscì dalla cucina senza aggiungere altro, chiudendo in quel modo l’argomento.

«Sono quasi le due, sbrigati a vestirti anche tu, così facciamo la strada assieme», le disse dalla camera da letto.
A Cora sembrò una situazione surreale: Saga le aveva parlato con naturalezza, come se ciò che era successo solo pochi attimi prima non fosse mai accaduto; o forse, come se per lui non avesse avuto alcuna importanza quella discussione.
«Dai, così ne approfitto per fare anche alcune commissioni. E magari, se faccio in tempo, passo da Aiolia al campus», le disse, affacciandosi di nuovo in cucina mentre si infilava il maglione a collo alto. «Lo sai che fa parte della squadra di atletica dell'Università? Fra qualche giorno ci saranno delle gare. Potremmo andare a vederle, che ne dici?»
Non notando alcuna reazione da parte di Cora, ancora a piedi scalzi si avvicinò a lei e le alzò la testa, vedendola con un'espressione avvilita. Le diede un piccolo bacio sulle labbra imbronciate.
«Ti ha dato fastidio che ti abbia chiesto di vivere qui con me? Sono stata forse invadente o troppo precipitosa?»
In quelle parole Saga avvertì tutto il dispiacere di Cora.
«No, assolutamente no. Ne sono stato molto lusingato a dire il vero, però… non mi è possibile accettare», le disse, mostrandole tutta la serenità e la sincerità di cui era capace. «La tua vita si sta riempiendo così in fretta di impegni importanti e io sono felice per te, ma saresti sempre fuori casa. Io non voglio limitarti nelle tue aspirazioni, ma non voglio neanche rimanere indietro, ad aspettarti qui da solo. È forse troppo egoistico da parte mia volerti per me per il maggior tempo possibile?»
«E allora, la soluzione perfetta non sarebbe condividere la stessa casa?» insistette lei, con voce quasi implorante.
Saga la guardò negli occhi, le sorrise accarezzandole i ricci umidi e la baciò.
«Non posso accettare... per ora.»

*****

Il tempo del tragitto fino all’agenzia lo trascorsero mano nella mano. Eppure, in quei minuti si sentirono più distanti che mai. Saga la salutò con un bacio, sorridendole come faceva sempre, aspettando lì davanti al portone finché lei non fosse entrata. Poi, iniziò a incamminarsi. Poco prima di uscire di casa, facendo attenzione a non farsi vedere da lei, aveva preso alcuni documenti che si era subito messo in tasca. Voleva sistemare le cose rimaste in sospeso ed era certo che lei, se gliene avesse parlato, avrebbe protestato vibratamente. Ne avrebbe approfittato anche per chiarire l’equivoco dal quale erano poi scaturiti tutti quei cambiamenti nelle loro vite. Quando ripensava a quella sera, non riusciva a capire perché fosse successo e la sua mente si riempiva di domande.
A pochi metri dall’incrocio Saga si voltò indietro, soffermandosi a guardare ancora una volta l’ingresso nel quale era entrata Cora, pensando a come lei avrebbe reagito se avesse saputo di quelle sue intenzioni. Percorse ancora un centinaio di metri, poi fermò un taxi.

*****

Il taxi lo scaricò proprio davanti al portone dello stabile di Dohko. Si sentiva un po’ nervoso se ripensava a quando, quella sera, il cinese si era sentito male davanti a lui. Sperava di non dover assistere a una replica. Chiuse gli occhi e fece un grosso respiro. Prima di incamminarsi verso il portone, controllò di aver portato con sé tutta la corrispondenza. Poi, sentendosi pronto ad affrontare il padrone di casa, alzò lo sguardo e si ritrovò davanti una vecchia conoscenza che lo stava squadrando, braccia incrociate al petto.
«Cosa ci fai qui?» chiese.
«Nulla di particolare», rispose Aiolos, con noncuranza. «Passavo da queste parti. È forse un reato? E tu invece, sei venuto a trovare la tua ragazza?» domandò a sua volta, con un mezzo sorriso di scherno.
Non aveva davvero la necessità di porgli quella domanda, perché la risposta la conosceva bene, ma si chiedeva se Saga fosse a conoscenza di ciò che sapeva lui. L’effetto che conseguì con le sue parole lo vide nel viso irrigidito dell'altro e gli fece provare una certa soddisfazione, ripagandolo anche del tempo perso a bussare alla porta dell’appartamento di Cora.
A Saga non piacque affatto il tono di Aiolos, né tantomeno una tale intromissione nelle sue faccende personali. Se fino a quel momento, ovvero da quando, settimane prima, l'amico gli aveva confessato il proprio malumore nei suoi confronti facendolo poi sentire in colpa, ora per la prima volta era lui stesso che iniziava a provare un certo fastidio nel ritrovarselo di fronte. Rimase a fissarlo, aspettando – sperando – di vederlo andar via. Invece, imperterrito, Aiolos continuava a sostenere il suo sguardo, aspettando a sua volta. Sospirò con rassegnazione e salì i gradini di cemento che lo separavano dal portone. Lo vide socchiuso, quindi non indugiò ed entrò nella palazzina.
Bussò alla porta di Dohko con tocchi leggeri e rimase ad aspettare.
«Non ho bisogno della guardia del corpo.»
«È il mio lavoro», rispose Aiolos, impassibile. Dalla tasca del cappotto prese il pacchetto di chewing-gum, ne scartò una e se la mise in bocca. «Uno dei tanti», mormorò, trattenendo un mezzo sorrisetto nel sentire sospirare Saga.
Lo vide mettersi le mani nelle tasche del cappotto e attendere con stoica pazienza davanti alla porta. Lui non era stato altrettanto bravo quando gli era toccato: aveva bussato così tante volte e così forte che quasi la scardinava.
Si sentì un gran trambusto di porte che sbattevano, rumori varie e uno scalpiccio affannoso. Poi, all'improvviso ci fu di nuovo silenzio e infine, il catenaccio che veniva tirato e il padrone di casa che, contrariamente alla sua solita prudenza, spalancò la porta.
«Ti ho già detto che la ragazza non abita più qui e non so dove sia andata!» disse veemente il vecchio cinese, con voce roca e nasale, iniziando a tossire senza tregua.
Si era presento col viso arrossato e imperlato di sudore, un asciugamano attorno al collo che emanava uno strano odore di erbe e il respiro ansimante. Anche dall'appartamento arrivava il medesimo odore. Quando finalmente quella crisi passò, alzò gli occhi sulle persone che gli stavano davanti e, ancora una volta, nel vedere Saga si sentì mancare.
«Di nuovo tu?» balbettò, coprendosi la bocca con un lembo dell’asciugamano.
I suoi occhi febbricitanti si velarono di lacrime e, trattenendo a stento altri colpi di tosse, si avvicinò a Saga. Allungò la mano tremante provando a sfiorargli la guancia, ma il ragazzo scacciò la sua mano e si ritrasse.
Aiolos osservò stupito e al tempo stesso incuriosito il comportamento di entrambi. Quando lui, qualche giorno prima, aveva nominato la famiglia Hayes, il vecchio gli era parso molto spaventato; ora invece sembrava sì, ancora spaventato, ma era anche commosso nel vedere Saga. Cosa c’era sotto che gli sfuggiva?
Dohko impallidì d'un tratto e barcollò indietro, iniziando a respirare male. Grondava sudore dalla fronte. Provò ad arrivare fino a un mobiletto lì vicino, ma le sue gambe cedettero e si accasciò a terra. Anche in quel momento, il vecchio non smise di fissare gli occhi su quel ragazzo così somigliante a uno spettro del suo passato. Ormai sapeva che Saga era concreto e reale; eppure, quella straordinaria rassomiglianza l’aveva scioccato di nuovo.
Saga rimase immobile, distante. Neanche provò ad avvicinarsi per prestargli soccorso.
«Cadono proprio tutti ai tuoi piedi!» mormorò Aiolos con studiata malizia, affacciandosi sulla soglia e osservando anche lui la figura pietosa del vecchio. «Che facciamo, gli diamo una mano?»
Senza aspettare una risposta si accovacciò accanto a Dohko, accertandosi delle sue condizioni. Poi, si guardò un attimo attorno: l’ingresso era piccolo e spoglio, vi erano tre porte una delle quale era socchiusa.
Sbuffò e si grattò la testa. Lo prese sotto l'ascella sinistra e lo aiutò ad alzarsi. In quel momento vide Saga fare altrettando, ma non sembrava molto convinto. Portarono l'uomo nel salotto e lo fecero accomodare su una vecchia poltrona reclinabile, di quelle che si vedevano nelle televendite.
La stanza era molto pacchiana, nel tipico stile cinese, dalle tinte rosse e nere, con statuette di giada verde appoggiate ovunque e bastoncini d’incenso accesi sulla mensola del caminetto che emanavano odori pungenti. Le pareti erano piene di pannelli di carta di riso, lunghi e stretti, dipinti a mano e raffiguranti scene campestri, animali fantastici e fiabe tradizionali.
Nella stanza l'aria era pesante, non solo per l'incenso, sul tavolo giaceva ancora la bacinella per i suffumigi – l'acqua ormai fredda – nella quale erano state mischiati essenze e oli balsamici.
Aiolos portò dalla cucina un bicchiere d’acqua ma il cinese gli chiese la sua tisana, indicandogli il vassoio con il thermos e un paio di tazze, posto sulla credenza lì vicino. Poi, si mise in un angolo appartato. Osservò Dohko che teneva la testa bassa, il mento appoggiato al petto e le mani giunte abbandonate sulla pancia: sembrava essersi assopito. Spostò l'attenzione su Saga e vide quanto fosse taciturno, seduto sul bracciolo del divano mentre guardava fuori dalla finestra con occhi vacui. Provò una strana sensazione nel vederlo in quello stato. Notò anche un insolito pallore sul suo viso. Continuò a sturdiarlo per diversi secondi e vide come lentamente quella maschera di apparente calma – che sembrava indossare – svanisse per mostrare ben altro. Pochi momenti dopo infatti, iniziò a sudare e a respirare con affanno.
Dohko riaprì gli occhi e, con mano tremante, avvicinò a sé la tisana, fissando quel liquido ambrato, ancora fumante, con occhi tristi e pieni di nostalgia. Poi, guardò Saga e sorrise lievemente ai ricordi che nella sua mente si facevano più chiari.
«È passato tanto tempo. Quasi una vita, eppure…» All’improvviso il vecchio diede due colpi di tosse e si sentì un rantolo stanco. «Sei uguale a com’era tuo padre quando l’ho visto la prima volta. Si presentò alla mia porta una notte, era un bel giovane dai capelli biondi, lunghi come i tuoi adesso, timido e con lo sguardo innocente. Era fine estate, ma lui portava un cappotto di lana scuro e teneva fra le braccia un neonato», continuò Dohko, con voce più libera.
Avvicinò la tazza alla bocca e sorseggiò piano.
«Lei si sta sbagliando», disse Saga, sempre con lo sguardo fisso sulla finestra.
Dohko sorrise, abbassando di nuovo gli occhi sulla tazza e su quelle lievi volute di vapore che poco alla volta si alzavano e si dissolvevano nell'aria.
«Andiamocene, Saga», lo esortò Aiolos, muovendosi dal suo angolo.
«Perdonate, sono un pessimo ospite. Non vi ho ancora offerto nulla. Gradite una tisana?» disse il vecchio.
Provò ad alzarsi, ma ricadde pesantemente sulla poltrona.
«Lascia stare vecchio», ribatté Aiolos, continuando però a guardare Saga. Lo vide sempre più pallido e iniziare a tremare. «Va tutto bene?» chiese, avvicinandosi a lui.
Saga deglutì a fatica, serrando le labbra per bloccare il senso di nausea che aumentava ogni secondo di più. Da quando erano entrati aveva iniziato a sentirsi male.
Aiolos aprì la finestra e subito Saga si precipitò, respirando a pieni polmoni aria pulita.
«Sei proprio tu, non mi sbaglio», sorrise Dohko, osservando il ragazzo. «Fin da piccolo non sopportavi l’odore delle mie erbe.»
«Se qui non abbiamo nulla da fare, è meglio andarcene», propose Aiolos.
«Hai ragione. Ero venuto per sistemare delle cose», disse Saga, grazie a quei pochi momenti a contatto con l'aria fresca di quel pomeriggio stava riprendendo colorito sulle guance. «Sono venuto per saldare i conti di Caroline Miller.»
Dalla tasca interna del cappotto estrasse il libretto degli assegni e lo posò sul tavolo. Poi, cercò ancora nelle tasche, accigliandosi. Iniziò a sentire di nuovo un cerchio alla testa e la nausea tornare a farsi viva. Aiolos affiancò l’amico e gli porse la sua penna d’oro, ricevuta in regalo da Shion Hayes il giorno della laurea.
Saga la prese senza batter ciglio e, con pochi rapidi tratti, compilò un assegno da cinquemila dollari. «Dovrebbe coprire anche la parte di spese arretrate per i lavori di ristrutturazione e per il suo disturbo», disse, porgendoglielo.
Il vecchio rimase a fissare quel braccio teso, con una strana luce di avidità negli occhi.
«Prendilo!» lo esortò Saga con tono secco. L’odore delle erbe che impregnava la casa lo stava facendo sentire di nuovo male e irritabile.
Dohko si alzò a fatica dalla poltrona e fece qualche passo verso di lui, prendendogli la mano nelle sue. «Assomigli molto anche a tua madre, sai? Aveva una grande determinazione, la stessa che hai mostrato in questo momento. Si era presentata assieme a tuo padre e a un altro ragazzo, un giovane ispanico che all'epoca bazzicava da queste parti molto spesso. Ti teneva fra le braccia, me lo ricordo bene perché più volte aveva sussurrato il tuo nome per calmarti e farti smettere di piangere. Anche lei mi aveva offerto dei soldi, perché vi dessi asilo per qualche tempo, a voi due e a vostro padre.»
Dohko interruppe il suo racconto e tossì forte più volte, fino a piegarsi quasi sul tavolo. Sentiva su di sé due paia di occhi che lo fissavano; avvertiva il timore di Saga e l'ostilità dell'altro.
«Quando ti ho rivisto, pochi giorni fa, ho creduto di vedere un fantasma, soprattutto dopo quello che successe in seguito», sospirò. «Tutto di te mi ricorda com’era Anthony: la tua voce, il tuo viso, lo sguardo triste e spaventato che hai in questo momento…»
«Sta dicendo delle sciocchezze! Mio padre è Shion William Hayes e non credo proprio potrebbe mai avere a che fare con...»
«Basta così, Saga, non è il caso di continuare questa conversazione assurda», interuppe Aiolos, trascinando l'amico fuori dalla stanza per un braccio. Sapeva che c’era qualcosa di strano e, quando quella mattina ne aveva parlato con Shura, aveva trovato la conferma nel momento in cui aveva ricevuto l’incarico di tenere d’occhio Saga.
«Ti prego, ascoltami, ti sto dicendo la verità! Siete stati qui per quasi tre mesi. Tante volte mia figlia ti ha cullato, tu e tuo fratello, proprio nell'appartamento che occupava quella ragazza. Ecco perché...»
Dohko si reggeva a fatica sulle gambe malferme, per l’età ma soprattutto per quell’influenza che in quei giorni lo aveva indebolito. Provò a raggiungerli, strascicando i piedi, ma incespicò su una delle sedie del tavolo.
«Ti posso dare altre prove!» gridò, sperando di sortire effetto.
Nonostante i ripetuti tentativi del cinese, Saga non si fermò, né lo ascoltò, ma non appena mise piede fuori dalla palazzina fu costretto a reggersi alla cancellata di ferro. D'un tratto tutto il malessere di cui aveva sofferto nell'appartamento di Dohko si ripresentò e più forte. Di slancio raggiunse il cestino dell'immondizia lì vicino e diede di stomaco.
«Senti, vecchio», disse Aiolos, rivolgendosi a un Dohko spaventato, afferrandolo per la casacca e quasi alzandolo di peso. «Se credi che questo tuo patetico tentativo di sconvolgere il mio amico ti farà guadagnare soldi facili, ti sbagli di grosso! Non sarà certo qualche banale trucco da imbonitore che farà di te un uomo ricco. Anzi, ti porterà solamente un mucchio di guai. Agli Hayes non piace essere presi in giro», lo minacciò.

Quando scese per strada, trovò Saga che attendeva appoggiato al corrimano di ferro, la testa bassa e lo sguardo fisso sul cemento dei gradini. «Immagino che tu sia venuto qui con i mezzi pubblici o in taxi. Se hai bisogno, posso darti un passaggio fino a casa. Ho la macchina poco più avanti», gli disse; nella sua voce e nel suo modo di fare non c'era il minimo accenno di malizia.
Non si stupì di non ricevere risposta da parte di Saga. Nonostante il tempo passato, lo conosceva ancora bene e sapeva che quando era turbato si chiudeva in se stesso. Chiunque lo sarebbe stato nel sentire le parole di Dohko. Pian piano, nella sua mente si formava una strana idea: quel nome, Anthony, iniziava a incontrarlo troppo spesso, nel quadernetto di Gregory Miller, nel resoconto di Kanon di quando il padre si era ubriacato, e ora dal vecchio. E poi, quella storia dei gemelli, il caso di rapimento di cui stava leggendo…
Ora che ci rifletteva meglio, Saga e Kanon non assomigliavano per nulla a Shion Hayes, né al vecchio Abraham Hayes. Ma forse, quel fatto non era poi così rilevante, avrebbero potuto prendere tutto dalla madre.
Guardò Saga di sottecchi: camminava lentamente, sempre con lo sguardo fisso nel vuoto, i tratti del viso inespressivi.
«Siamo arrivati», disse, scendendo dal marciapiede e facendo il giro dell'auto.
Saga si fermò poco più avanti, fece un respiro profondo e si voltò a guardare l’amico.
«Non badare a quello che ha detto quel tipo. Hai visto com’era conciato, no? È vecchio e malato. Chissà cosa si stava fumando quando siamo arrivati», disse Aiolos appoggiandosi con il braccio al tettuccio dell'auto.
«Vorrei fare due passi a piedi per schiarirmi le idee. Tu vai pure, grazie lo stesso.» Con le mani ben ficcate nelle tasche del cappotto, Saga riprese a camminare lungo il marciapiede.

*****

Saga si sentiva frastornato. Camminava a testa bassa, senza una meta vera e propria. Ci mise quasi un'ora, ma alla fine si ritrovò di fronte a quelle vetrine a lui tanto familiari della bottega del vecchio Josh. Scostò il lembo del cappotto e prese un piccolo mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni. Lo soppesò per alcuni secondi: quel giorno non aveva programmato di andare nel laboratorio, ora però aveva bisogno di riflettere e passare del tempo impegnato nel creare qualcosa lo aiutava. Girò la chiave nella serratura della porta del negozio e vi entrò, richiudendosela subito alle spalle. Sospirò. Il buio del locale lo faceva sentire al sicuro. Si diresse nel retrobottega e subito varcò la porta laterale che dava sulle scale interne. Salì fino all'appartamento. Come d'abitudine si cambiò e vestì abiti più comodi, quelli che cosiderava “da lavoro”, ma non tornò subito al piano di sotto, ma si buttò sul divano, chiudendo gli occhi. C'era qualcosa che non andava anche in casa, in qualche modo la sentiva diversa, come se non fosse più sua.
Kitty sbucò dalla cucina e subito lo raggiunse, sedendosi ai suoi piedi. Quando non ottenne attenzione si fece sentire miagolando e grattando con le unghiette sulla stoffa dei jeans.
«Ciao, piccolina.»
Saga la prese e se la portò al petto. Era ancora talmente piccola e leggera che le stava quasi in una mano. La gattina ricambiò con delicate fusa che lo fecero sorridere. Nonostante questo però, quella tenera compagnia non riusciva a farlo sentire meglio. Il giovane provava un profondo senso di smarrimento, come se fosse diventato d'un tratto consapevole che stava vivendo la vita di un altro e lui non avesse un posto tutto suo nel mondo. Sospirò, passandosi le mani sul viso, mentre Kitty si acciambellava sul plaid tutto arruffato lì vicino a lui.
Lasciò la piccola di casa immersa fra le pieghe di quel morbido pile e scese nel laboratorio: forse impegnare la mente in qualcosa di concreto lo avrebbe aiutato a capire la situazione.
Accese le luci al neon e si avvicinò agli scaffali in ferro dov'erano riposte le scorte dei materiali, soffermandosi a studiare cosa gli sarebbe occorso. Una volta preso ciò che gli serviva, si sedette al tavolo e stese davanti a sé un grande foglio per progetti. Dapprima lo divise a metà e, sulla parte destra abbozzò il disegno, ombreggiando alcune parti per dare profondità. Appuntò alcune cifre e note sui lati, anche di sbieco; cancellò, ridimensionò qualche dettaglio, modificò l'angolo superiore... Ci mise una mezz'ora buona per terminare quel primo step e avere un'idea generale di ciò che sarebbe stato in seguito. La restante parte del foglio la riempì di calcoli e altre misure, elencando infine quantità e grandezze dei singoli pezzi da realizzare.
Si sgranchì gambe e schiena per qualche minuto, da quel momento in avanti la sua concentrazione sarebbe dovuta essere al massimo. Prese la sua solita bandana e se la legò in testa. Poi, si rituffò nel lavoro.

*****

Fuori, in strada, parcheggiato sul lato opposto della strada quasi di fronte all’entrata del negozio, Aiolos sedeva in auto e controllava la situazione. Anche se con molta riluttanza aveva permesso che Saga se ne andasse via da solo. Non era riuscito a spiegarsi il perché vederlo allontanarsi in quello stato gli aveva fatto sentire quella strana tristezza addosso, ma aveva deciso di seguirlo. Quel pomeriggio tardo avrebbe dovuto incontrarsi con Aiolia fuori dal campus e fare poi una capatina a casa – la madre Georgina era riuscita a estorcergli quella promessa – ma quando era stato il momento di svoltare a destra al semaforo, aveva invece preso la direzione opposta.
Era seduto in auto da più di un'ora. Ogni tanto alzava la testa dalla sua lettura e fissava dal finestrino chiuso la vetrina di quel negozio che sembrava abbandonato da anni, domandandosi più volte cosa stesse combinando Saga lì dentro. Scese dall'auto e fece un giro nei dintorni. Non conosceva quel quartiere. Non c'era quasi nessuno per strada. Camminò per qualche decina di metri lungo il marciapiede, poi entrò in un videonoleggio e chiese qualche informazione, uscendone poco dopo senza nulla di utile. Provò allora dal barbiere a fianco; il padrone era un uomo anziano decisamente cordiale che di sicuro avrebbe potuto soddisfare le sue curiosità meglio che il ragazzo indiano interpellato prima, ma ottenne lo stesso risultato: quando chiese del negozio chiuso il barbiere lo liquidò senza tanti preamboli.
L'unica cosa che gli rimaneva da fare era tornare all'auto e pazientare: sarebbe rimasto lì finché l’altro non fosse uscito.
«Gregory Miller», mormorò, accarezzando la copertina del quadernetto «dimmi quello che voglio sapere.»
Diede un'ultima occhiata alla porta del negozio e si immerse nella lettura.

“agosto 1984
… Anthony Young, se questo è il suo vero nome, è una persona avvolta nel mistero più assoluto. Prima di adesso non c’è mai stato niente a suo carico, nemmeno una multa per eccesso di velocità o sosta vietata. Più cerco qualcosa su di lui, più mi ritrovo punto e a capo. Se almeno riuscissi ad accedere agli atti del suo processo...”

“15 agosto
… Alla fine, dopo infinite richieste e delle concessioni che ora, col senno di poi, mi pento di aver fatto, sono riuscito a ottenere ciò che mi serviva: in mano ho la copia del suo fascicolo. È stato davvero faticoso convincere il guardiano notturno degli archivi del tribunale dei minori, ma sono stato fortunato. Per una volta, la mancanza di personale ha giocato a mio favore. Mi vergogno un po’ per quello che ho fatto, mi sembra quasi di aver commesso una corruzione. Non sono stato educato in questo modo e se lo venisse a sapere mio padre sarebbe il primo a denunciarmi alla disciplinare, ma sento che per me è importante trovare queste informazioni.
Forse, agendo in questo modo, sono andato oltre le mie competenze, però credo proprio che ne sia valsa la pena. Chissà che non scopra il movente dietro a tutto questo e chiarisca se quel ragazzo è davvero colpevole come tutti ormai sono certi, oppure se è innocente.”

“20 agosto
… Solo oggi, dopo mille sotterfugi, sono riuscito finalmente a esaminare le carte. Sono rimasto molto sorpreso da ciò che ho letto. Ho provato un forte disagio, ma in un certo senso è stata anche una delusione. So che prima o poi dovrò abituarmi a frugare nella vita degli altri, è un aspetto fondamentale del mio lavoro, ma questo non mi fa stare meglio.
Anthony non ha avuto vita facile fin da ragazzino. A soli tredici anni è stato coinvolto nella rapina di una farmacia nella quale sono state uccise delle persone: il proprietario e una delle commesse. Gli agenti di polizia intervenuti lo hanno trovato chino accanto al cadavere della donna, con le mani sporche di sangue e in pugno ancora l’arma del delitto: un coltello a serramanico.
L’arresto è stato immediato e pare, dalla foto segnaletica allegata, non ci siano andati tanto per il sottile, nonostante la sua giovanissima età. Nel rapporto del procuratore distrettuale di quel tempo c’è la raccomandazione, basata sul rapporto preliminare degli agenti che hanno investigato, di processarlo come adulto per l’efferatezza del delitto compiuto.
Ho già sentito parlare di questo procuratore, è rigido e intransigente fino all’eccesso nell’applicare la legge, arrivando anche a distorcerla per dare l’esempio, se necessario. Qualche anno fa si è dato alla politica e si è trasferito a Washington. È una fortuna per noi. Purtroppo però sta spingendo molto per inasprire le leggi, soprattutto quelle per i reati commessi da minori.
Ulteriori indagini hanno invece portato alla luce il coinvolgimento, sia per la rapina che per gli omicidi, di altri tre ragazzi, poco più che maggiorenni, che parlavano con un accento straniero. Grazie alle dichiarazioni dei testimoni che hanno riferito la reale entità del ruolo di Anthony, la sua posizione è stata ridimensionata. Faceva solo da palo. Dopo le due brutali aggressioni, invece di scappare assieme agli altri, si è seduto accanto alla donna, ancora agonizzante, cercando di salvarla. Su questo fatto sono stati tutti concordi, anche se è strano da credere che un ragazzino di quell’età potesse avere delle nozioni di pronto soccorso. Un uomo ha detto agli agenti che il giovane Anthony borbottava alcune frasi, sembrava che parlasse con qualcuno e a un certo punto gli è parso di sentirlo pronunciare il nome di un dottore.
Un altro testimone, una donna anziana, ha detto che il ragazzo sembrava spaventato dagli altri della banda e durante quei momenti di grande confusione e agitazione per tutti, si era nascosto, uscendo solamente dopo la fuga dei ragazzi più grandi; catturati poi a pochi isolati di distanza dal luogo del crimine.
Alla fine, valutate le prove e grazie ad alcune attenuanti, il procuratore è stato costretto a passare la competenza del caso, per quel che riguardava il bambino, al tribunale dei minori, che però non gli ha evitato un periodo detentivo in riformatorio da scontare fino alla maggiore età. L’atteggiamento che ha tenuto per tutta la durata del processo, un ostinato mutismo e un oltraggioso disinteresse per ciò che gli accadeva, ha indispettito la Corte al punto che fu comminato il massimo della pena concessa dalla legge.
Nel fascicolo sono presenti anche dei rapporti dell’unico psicologo della struttura detentiva nella quale era stato affidato Anthony. Si parla di lui come un elemento restio a collaborare, schivo ed emotivamente chiuso. Incapace di relazionarsi con gli altri e nessun interesse a tornare nella società. Lo psicologo lo ha valutato ogni quattro mesi, durante la sua detenzione e non ha riscontrato alcun cambiamento sostanziale che potesse far sperare in un recupero positivo. Ha evidenziato invece una marcata chiusura, accompagnata da una sconcertante passività.
Di queste valutazioni però, ce ne sono solo quattro nel fascicolo. L’ultima è stata redatta poco prima dell’affidamento, con una nota ufficiale di raccomandazioni che ne sconsiglia vivamente l’affido, valutando il ragazzo come potenzialmente pericoloso perché profondamente traumatizzato, a favore invece di una terapia in un istituto psichiatrico.
In una nota a margine invece, scritta a matita come fosse un qualcosa di poco conto, lo psicologo ha annotato alcune informazioni che gli sono state riferite dalle guardie: in due anni e mezzo circa, il ragazzo è stato vittima di continue violenze e vessazioni, ma non ha mai detto una parola di denuncia contro i suoi aguzzini. A dire il vero, riferiscono che non ha mai pronunciato una sola parola.
Non posso neanche immaginare come possa essere non parlare per così tanto tempo. Forse, la scoperta di questi nuovi fatti sul passato di Anthony dovrebbero farmelo vedere in modo diverso, eppure rimango della mia idea: un errore del passato non può essere un marchio d’infamia per un’intera vita e lui ha pagato per il suo sbaglio, ma ha pagato un prezzo troppo alto!
La nota continuava ancora, c’erano forse maggiori dettagli, ma la parte finale è stata cancellata con molta insistenza.
Quello che mi ha stupito nell’osservarla è che progressivamente il tratto con cui sono state scritte quelle frasi si faceva sempre più marcato, come se l’uomo fosse via via sempre più nervoso, o furibondo. Ho provato a studiare meglio quella parte del foglio, a vederla con una lente di ingrandimento, ma si distinguevano a fatica davvero pochi tratti per poterne decifrare il segreto. Purtroppo in mio possesso ho solamente una copia, non posso neanche provare a scoprire qualcosa tastando la superficie del foglio o annerendo il foglio sottostante. Questi dettagli non si sono impressi nella fotocopia, che purtroppo non è neanche di buona qualità.”

«Un criminale fin da piccolo. Con tutto quello che deve aver passato non mi stupisco che fosse taciturno, riservato e anche ostinato.»
Aiolos appoggiò il quadernetto sul sedile del passeggero e fissò ancora una volta – con insistenza – la vetrina oscurata del negozio. Il suo sguardo in quel momento era molto concentrato e nella sua mente iniziavano ad accavallarsi strane e terificanti immagini.
«Certo, anche Saga è molto riservato e qualche volta bisogna cavargliele con le tenaglie le parole dalla bocca, ma non ha nulla a che fare con questo tizio, questo Anthony. Il nome è molto comune, così come il suo cognome, Young. Sembra quasi uno di quei nomi che vengono dati agli orfani», considerò. «E poi…»
Si bloccò nelle sue considerazioni, perché vide la porta del negozio aprirsi e uscirne un ragazzo. Faticò a riconoscere l'amico, conciato in quella maniera così trasandata. Lo vide attraversare la strada di corsa e incamminarsi lungo il marciapiede. Ebbe l'impulso di avviare il motore e seguirlo, ma preferì attendere: era certo che sarebbe tornato indietro, prima o poi. Intanto, ne avrebbe approfittato per soddisfare la sua curiosità ed entrare a dare un'occhiata in quel locale così misterioso.
Ci mise qualche attimo di troppo a decidersi e quando infine scese dall'auto, Saga era già sulla via del ritorno. Lo osservò sostare davanti alla vetrina per alcuni secondi, togliersi la bandana e grattarsi la testa, prima di sparire di nuovo dietro quella porta a vetri coperta di giornali.
Aiolos si ritrovò così ancora una volta in attesa, seduto su quel sedile che d’un tratto era divenuto scomodo e stretto. Riprese in mano il quadernetto, ma in quel momento non aveva più voglia di andare avanti nella lettura. Con un movimento scocciato controllò l'ora: erano le sei e mezza del pomeriggio. Sbuffò. Nei suoi programmi aveva ben altro di meglio da fare che stare dietro alla “principessina” Saga, ma doveva ammettere che l'aveva scelto lui.
Di sfuggita notò dei movimenti alla finestra del piano superiore e poco dopo affacciarsi proprio Saga. Le sue labbra si piegarono in un accenno di ghigno, quando la figura dell'amico svanì dietro la tenda bianca. Venti minuti più tardi lo vide uscire da un portone di legno, vestito così com'era arrivato, e incamminarsi a testa bassa lungo il marciapiede.
«Finalmente», si lasciò sfuggire, Aiolos. Per qualche minuto lo seguì con lo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore; poi, quando fu a una certa distanza, avviò il motore, fece inversione a U e riprese a seguirlo.

*****

Le parole di Dohko avevano fatto presa su Saga più di quanto lui stesso avesse creduto. Nonostante i suoi sforzi non era riuscito a scrollarsi di dosso quelle insinuazioni che erano andate ad aggiungersi a vecchie paure di quando era solo un adolescente e a un senso di non appartenenza che talvolta, in determinati momenti, lo coglievano alla sprovvista. Voleva chiarire la situazione, ma al tempo stesso non era certo di voler sapere. Eppure, si stava incamminando di nuovo verso la palazzina dove viveva il vecchio cinese.
Quando arrivò di fronte al portone, erano già le sette e mezza della sera; lo vide che stava rientrando, sul braccio teneva una casacca appena ritirata dalla lavanderia e ancora nella plastica e in mano un sacchetto con il logo del ristorante.
«Sei tornato. Speravo che lo facessi», disse Dohko nel vederlo lì in piedi, di fronte a lui. «Vieni. Ti prego, vieni dentro.» Sul suo volto rugoso affiorò un sorriso sincero, aveva così tante cose da raccontare a quel ragazzo, ormai uomo, che non vedeva da quando era in fasce. Tante cose soprattutto che riguardavano il padre, che nei pochi mesi che era rimasto nel quartiere era riuscito a farsi voler bene da tutti.
Aprì il portone d'ingresso e lo invitò a entrare.
Saga lo fissò per diversi secondi, in silenzio. Non condivideva affatto gli stessi sentimenti di quell'estraneo. Strinse i pugni nelle tasche del cappotto, indeciso se assecondarlo o riprendere la strada. Poi, lo seguì. Ne uscì quasi un'ora più tardi, di nuovo nauseato per l'effetto delle erbe e pallido in volto.
«Ora sei pronto per tornare a casa?» gli chiede Aiolos, appoggiato allo sportello dell'auto, parcheggiata proprio lì di fronte, risparmiandogli la solita inflessione sarcastica che gli veniva naturale quando parlava con lui.
Saga sgranò gli occhi. «Sei rimasto qui ad aspettare tutto il pomeriggio, oppure mi hai seguito?» replicò Saga, con tono diffidente, già sulla difensiva.
Aiolos rifletté un momento su quale risposta dare. Scrollò piano la testa e gli fece cenno di salire in auto. Non era lui che doveva dare spiegazioni.



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Capitolo 20
*** Capitolo XIX ***





XIX



Quella sera il traffico che si era riversato sulle strade era stranamente intenso. Più di una volta si erano formati degli ingorghi, neanche fossero transitati per le strade di New York all’ora di punta. Sembrava come se tutti i bostoniani si fossero mossi per scappare dalla città in un immenso esodo per raggiungere le zone di villeggiatura. Quella piccola odissea, vissuta dai due ragazzi, stava mettendo a dura prova la loro pazienza, di Aiolos soprattutto, che mal sopportava quel tipo di inattività e l’atmosfera nell’auto non aiutava certo a far passare prima il tempo.
In uno di quei momenti di pausa forzata, Saga tirò fuori il cellulare: il display segnava due chiamate perse. Nel controllarle si lasciò sfuggire uno sbuffo, massaggiandosi sovrappensiero la tempia. Nuovamente aveva mancato di rispondere a Kanon e non aveva certo voglia di una replica del bentornato che il gemello gli aveva servito, perché probabilmente non sarebbe stato così fortunato come la prima volta e il naso glielo avrebbe rotto. Al solo ricordo, già gli faceva male. L’altra invece, era di Cora. Avrebbe voluto richiamarla subito, ma dopo un sospiro – che sembrava più uno sbuffo rassegnato – preferì mandarle un sms. Con Kanon avrebbe parlato di persona una volta arrivato a casa.
«Dovresti pensare di inserire una suoneria, è evidente che la sola vibrazione non basta», disse Aiolos, interrompendo i suoi pensieri.
«L’ho tolta apposta perché mi dava fastidio», rispose Saga, terminando di comporre il messaggio per la sua ragazza. «Normalmente non ho problemi ad accorgermi quando arrivano le chiamate.»
Si rigirò lo smartphone fra le mani per qualche altro minuto, poi lo ritirò nella tasca interna del cappotto, prendendo al suo posto il portafoglio. Lo fissò per diverso tempo, mentre ne accarezzava la superficie di pelle nera, morbida ed elegante, ma senza trovare il coraggio di aprirlo e prendere il documento d’identità sul quale vi erano riportati i suoi dati anagrafici. Ma erano davvero i suoi?
In quel momento si sentiva estraneo al mondo.
«Forse allora non te ne sei accorto perché avevi la testa altrove», riprese l’altro, spezzando quel mesto silenzio, continuando a osservarlo con discrezione con la coda dell’occhio, prima di rimettersi in marcia e imboccare finalmente la strada per uscire dalla città, in direzione del lago.
Il tragitto fino alla vasta proprietà degli Hayes continuò di nuovo nel silenzio e senza ulteriori intoppi, anche se non si poteva dire che trascorse in modo piacevole.
«Se fosse vero», intervenne ancora una volta Aiolos, mentre svoltava per la strada privata che portava alla villa, «se quel vecchio, nelle sue farneticazioni, avesse detto la verità, tu e…»
Lasciò in sospeso la frase, fermando l'auto a pochi centimetri dal cancello automatico. Rilassò le braccia, appoggiando le mani sulla parte bassa del volante. In quel momento avrebbe voluto voltarsi verso l’altro e vedere come stava, ma stranamente non trovava il coraggio necessario per farlo, rimandendo a fissare il cancello davanti a sé. Si passò una mano fra i capelli, grattandosi la nuca per nascondere l’imbarazzo crescente.
«Essere adottati non è un dramma come si possa pensare», rispose Saga, facendo una pausa prima di pronunciare la parola “adottati”.
Nella sua testa erano però ben altri i termini che avrebbe voluto usare e che risuonavano insistenti e dolorosi: abbandonato, scambiato, venduto, non voluto…
Continuava a mantenere lo sguardo fisso, perso nel vuoto, e un’espressione assente che contraddiceva l’affermazione appena fatta. Perché non ci credeva neppure lui a quello che aveva detto.
«Allora cos’è che ti turba tanto? È perché Shion Hayes ha tenuto il segreto, o perché sei venuto a scoprirlo in questo modo? O forse, perché hai paura che le cose possano cambiare e tu perdere quello che hai?» insistette Aiolos, dopo un momento di titubanza, mentre osservava l’altro dimostrare ora una calma stonata per quella situazione. Se ci fosse stato lui al posto dell’amico, sarebbe stato furioso. Saga invece, sembrava tutto sommato aver incassato bene la notizia.
«Perdere quello che ho…» mormorò Saga, ripetendo le parole di Aiolos, voltando lo sguardo a osservare quello scorcio di boschetto che nascondeva il muro in mattoni che cingeva la parte più interna del parco della villa. «Cambierebbe la tua opinione su di me, o su Kanon, se quelle cose dovessero essere confermate? Pensi che tua nonna ci guarderebbe in modo diverso e muterebbe il suo affetto nei nostri confronti?»
«Stai parlando con uno che è stato scaricato da una madre adolescente e da un padre che è scappato all’estero per non prendersi le proprie responsabilità. Devo forse ricordarti che sono stato cresciuto dallo stesso uomo che ha cresciuto te e Kanon e dalla stessa donna che ha fatto da madre a tutti quanti, Shion Hayes compreso, in questa famiglia?» Il volto di Aiolos si era fatto serio e la voce era stata ferma e risoluta, nella sua estrema convinzione di quanto aveva appena detto. «Non ci vedo nulla di diverso da com’eravamo questa mattina. Anzi, questo ci rende più uguali.»
«Allora, siamo ancora fratelli?»
«Abbiamo mai smesso di esserlo?», ribatté Aiolos, girandosi verso l’altro. Posò la mano su quella di Saga, che teneva appoggiata mollemente sulla coscia, e gliela strinse un poco.
«Come vedi, le cose veramente importanti non me le può portare via nessuno», rispose Saga, sospirando e chiudendo gli occhi, ricambiando quella stretta.
«E Caroline Miller?» Aiolos assottigliò lo sguardo, tornando a guardare dritto davanti a sé, portando la mano sulla leva del cambio. «Di lei, che mi dici? Non è da molto che la conosci, non credi che potrebbe perdere interesse se…» Si trattenne dal completare la frase, temendo di ferire Saga con parole sconvenienti.
«È vero, la conosco poco. Entrambi ci conosciamo poco», confermò; e sul suo viso comparve un sorriso impacciato. «Ma quello che so di lei, che ho capito fino a questo momento, mi fa essere fiducioso nell’onestà dei suoi sentimenti nei miei confronti», disse in un sospiro, abbassando gli occhi sul tappetino dell’auto. «Se sapessi come ci siamo conosciuti, non ci crederesti. E poi…»
«Tu ti innamori troppo facilmente», commentò distrattamente Aiolos, riavviando il motore e azionando il comando del cancello che iniziò ad aprirsi davanti a loro.
«È la stessa cosa che dice anche Kanon, ma credo che lo faccia per prendermi in giro.»
Aiolos non se la sentì di replicare e dare ragione a Kanon, che ben poche volte nella sua vita si era innamorato. Del resto, lui stesso non aveva mai vissuto quel sentimento nella maniera limpida e genuina come faceva invece Saga. Aveva sempre attribuito quella sua facilità di innamorarsi alle conseguenze dell’incidente e forse non era poi così lontano dalla verità. Non ci voleva una laurea in medicina per rendersi conto che da quel giorno, o meglio, dal giorno del suo risveglio, era cambiato.
Lo vide toccarsi la tempia destra, massaggiandosela ripetutamente e si accigliò. Forse era per quella natura sospettosa che ormai era tanto radicata in lui, a causa dell’ambiente in cui era sempre vissuto e delle persone con le quali aveva a che fare nel suo lavoro, che faceva fatica a credere nella sincerità delle persone. Soprattutto poi quando entravano così all’improvviso nella vita altrui. Ma quella ragazza, Caroline Miller... la gente che frequentava… il lavoro che faceva…
Scrollò la testa, cercando di accantonare quelle idee e pensare solamente a guidare.
«Con Shura cosa pensi di fare?» chiese, mentre l'auto imboccava il vialetto che portava al garage.
Saga fece un respiro profondo. «Lo dovresti sapere. Sia negli affari che nel privato, mio padre e Shura sono amici inseparabili; proprio come lo siete tu e Kanon. Se mio padre ha qualche segreto, Shura ne è sicuramente al corrente.»
Poi, serrò le labbra, stringendosi il cappotto addosso, facendo capire all'altro che non aveva più voglia di parlare dell’argomento.

*****

Non appena l'auto si fermò di fronte alla porta basculante aperta della rimessa, Saga scese e si diresse subito in casa, camminando in fretta, a testa bassa e con le mani nelle tasche del cappotto. I suoi capelli ondeggiavano stanchi sulle spalle, nell’ombra dell’ultimo squarcio di tramonto.
Aiolos lo seguì con lo sguardo, prima attraverso lo specchietto retrovisore, poi, scendendo e appoggiandosi allo sportello aperto. Lo vide arrestarsi a pochi passi dalla porta d’ingresso, esitare per qualche secondo, quasi avesse cambiato idea e volesse fuggire da lì, infine riprendere ed entrare in casa.
«Sta forse per arrivare la fine del mondo?»
La voce di Shura arrivò dall’interno del garage con un vago tono ssarcastico, cogliendo di sorpresa Aiolos.
«Di cosa parli?» chiese il giovane, girandosi di scatto e strizzando un poco gli occhi per provare a scorgere l’altro, ben mimetizzato nella penombra.
Faticò a individuare Shura, ma infine, lo vide appoggiato alla carrozzeria dell’auto preferita di Shion Hayes: un’autentica Rolls Royce degli anni ’20, perfettamente funzionante.
«Parlo di te e Saga, seduti in macchina a chiacchierare tranquillamente, a scambiarvi confidenze mano nella mano. Parlo di te che non lo hai stuzzicato neanche una volta. Cosa sta succedendo?»
«Come fai a sapere che noi…»
Shura sogghignò. Uscì allo scoperto e si avvicinò ad Aiolos. «Ti sei dimenticato che da dopo l’aggres…» si interruppe all'improvviso, mordendosi la lingua per non svelare troppo, «che da dopo l’incidente di Saga, sono state messe delle telecamere di sicurezza tutt’attorno alla proprietà, nei punti di accesso soprattutto? E non devo ricordarti che è mio compito tenere tutto sotto controllo», concluse, recuperando in fretta da quella sua leggerezza.
Ad Aiolos però non era sfuggito il nervosismo che aveva permeato la voce dell’uomo, solo pochi momenti prima.
«Mano nella mano con Saga», ripeté a bassa voce Shura, con un tono di vago disprezzo, scuotendo la testa.
«Sei forse geloso?»
«Geloso, io? E per quale motivo, per qualcosa che non succederà mai?» ribatté tranquillamente l'uomo. Ma il suo sguardo, in quel momento esprimeva tutt’altro. «A Saga fanno ribrezzo i finocchi. Chissà cosa penserebbe se conoscesse la verità su di te.» A quelle parole, Shura lo vide serrare le mascelle e fece una smorfia di compiacimento, nel rendersi conto che l'altro aveva subito il colpo.
«Cosa vuoi che mi importi di ciò che pensa quello!» replicò Aiolos, sostenendo lo stesso atteggiamento dell’altro.
Se Shura pensava di umiliarlo con quelle sue parole, aveva sbagliato i conti. Fin dal primo anno di università Aiolos aveva imparato a ignorare i commenti sprezzanti, gli epiteti denigratori e le frecciatine, detti a mezza voce, che riguardavano le sue preferenze sessuali. Se li era sempre sentiti strisciare addosso, nonostante fosse stato attento a celare tutto ciò che riguardava la sua vita privata. E ora, detti apertamente dal suo amante, lo facevano essere ancora più determinato. Spinse Shura contro il cofano dell'auto e premette il suo corpo su quello dell’altro, facendogli sentire tutto il suo peso e la sua prestanza fisica.
«Abbiamo ancora un po’ di tempo prima di cena», sussurrò con tono sensuale.
Gli occhi dell’uomo si animarono di una scintilla lussuriosa. Benché più volte si era detto di volere una relazione più stabile e matura, quel ragazzo lo faceva andare su di giri, soprattutto quando voleva fare il duro.
«Allora andiamo di sopra», propose Shura, afferrandogli una natica e stringendo con forza, avvicinandolo ancora di più a sé.
«Nella tana del lupo», commentò Aiolos, percependo l’eccitazione del momento. «L’idea non è affatto male.»

*****

«Sei stato particolarmente silenzioso, ma forse dovrei dire pensieroso», considerò Shura, stiracchiandosi e lasciandosi andare a uno sbuffo, appoggiandosi con le spalle alla testata del letto.
«Avresti preferito che gemessi e urlassi come una ragazzina eccitata?»
Aiolos non sembrava in vena di fare conversazione. Fissava il soffitto, respirando lentamente. Avrebbe dovuto decidersi ad alzarsi e rivestirsi, per rientrare in casa senza destare troppi sospetti, ma preferì girarsi dall'altra parte.
«Sarebbe stato almeno qualcosa. Non è la prima volta che noto che sei poco coinvolto. Dunque è arrivato il momento di lasciarti prendere la tua strada?»
L’uomo si passò le mani sul volto e si alzò dal letto, dirigendosi nel piccolo cucinino dell’ampio open-space sopra il garage, che in quegli ultimi anni era stato trasformato in centro di sorveglianza e tana personale di Shura. Si prese una birra ghiacciata e la bevve a grandi sorsi.
«Dai, alzati!» gli disse, dando una pacca sul sedere del giovane, che pareva essersi appisolato. «Se non ti sbrighi arriverai tardi a cena e rischierai di sorbirti la ramanzina da tua nonna.»
Con un movimento lento e pigro, Aiolos si grattò la testa, scompigliando ancora di più i suoi riccioli castani, e si mise seduto sul bordo del letto, sbadigliando. Cercò i suoi vestiti e si domandò come facessero ogni volta a volare dappertutto.
«E tu invece, non ti prepari?» chiese a Shura, mentre si infilava i boxer.
«Io ho altri programmi, per stasera», rispose l’altro, ributtandosi sul materasso e continuando a bere la sua birra.
Aiolos mugugnò qualcosa, mentre si infilava i pantaloni e si chinava a prendere la camicia tutta sgualcita che era caduta per terra lì vicino. Se la rigirò per qualche secondo fra le mani, senza riuscire a trovare il verso giusto.
«Accidenti, mi hai strappato un bottone! Se la nonna vedesse questo pasticcio… non oso immaginare a cosa penserebbe!»
«Puoi sempre dirle che sei stato “aggredito” da una bruna màs caliente. La renderesti felice!» lo schernì Shura, alzandosi e iniziando a rivestirsi anche lui. «Lo sai che non vede l’ora di vederti sistemato.»
Il giovane sbuffò contrariato, senza però dare molto peso a ciò che aveva detto l’amante. Sbottonò la camicia e se l'infilò, guardando insoddisfatto il piccolo bottone scuro che penzolava miseramente appeso a uno stoico filo che ancora resisteva, stuzzicandolo e riflettendo se fosse meglio toglierlo del tutto, oppure cercare di nascondere il danno.
«Aggredito…» borbottò distrattamente, neanche fosse stata una parola banale. D’un tratto si bloccò corrugando la fronte, mentre con le mani sistemava la camicia nei pantaloni. Era stato come se avesse avuto un flash che lo aveva sorpreso e stordito. «Di quale aggressione stavi parlando, prima?»
Sul suo giovane volto incorniciato dai riccioli spettinati comparve la stessa perplessità di chi sta cercando di capire una cosa che sfugge in continuazione dalla mente.
L’uomo si irrigidì, stringendo fra le mani il maglione, dopo averlo già infilato per la testa. «Non ho mai parlato di alcuna aggressione. Ti stai sbagliando», rispose, terminando l’operazione con movimenti nervosi.
«No! Hai parlato di aggressione, lo hai fatto prima, riferendoti a Saga!» insistette Aiolos, gettandosi sull'altro e afferrandolo per il maglione. Non si era reso conto che la sua voce era diventata più acuta.
Shura si liberò con uno strattone, squadrandolo in modo duro, mentre il suo vecchio Io, quello violento e attaccabrighe, voleva riemergere con prepotenza.
La determinazione che vedeva negli occhi dell'amante gli stava facendo nascere di nuovo un sospetto: gli suonava troppo strano, un interesse così acceso nei confronti di Saga da parte di Aiolos, considerato che poco più di una mezz’ora prima ne aveva parlato quasi con disprezzo.
«Credevi forse che per ridursi in quello stato, Saga fosse semplicemente inciampato per terra?» sbottò, spingendolo via, per uscire dall’angolo in cui era andato a cacciarsi con le sue stesse parole. Non avrebbe dovuto dargli corda, eppure, era stato più forte di lui.
«E chi…» provò a insistere Aiolos, visibilmente sorpreso da ciò che aveva appena appreso.
«Non ti impicciare degli affari che non ti competono!» gli urlò in faccia Shura, afferrandolo per la camicia e alzandolo di peso.
La rabbia che stava provando in quel momento era incontenibile. Non solo verso l’altro, che stava rivangando un episodio del passato che ancora protraeva i suoi effetti sulla famiglia, ma provava rabbia anche contro se stesso, perché in quell'occasione aveva mancato il suo dovere. Per non pentirsi in futuro di ciò che avrebbe potuto fare o dire, preferì uscire da lì.
Aiolos rimase scioccato. Era la prima volta che vedeva Shura reagire in quel modo così violento. Avvertì il suo corpo tremare e per un attimo, solo per un breve attimo, sperimentò la stessa paura che aveva provato a Philadelphia. Si accasciò sul letto, con il respiro pesante e la mente svuotata di ogni pensiero.
Quando finalmente riprese padronanza di sé, uscì dalla stanza e scese le scale. Si ritrovò Shura appoggiato con le spalle alla parete, fermo sul primo gradino; la sua espressione ancora torva.
«Mi sono lasciato andare. Non dovevo reagire in quel modo. Devi capire che quello è un argomento molto delicato, del quale sarebbe bene non parlare, almeno per il momento. Perdonami.»
Gli diede le spalle e, con le mani ben calate nelle tasche dei pantaloni, si incamminò fuori dal garage, prendendo il vialetto per la dependance.
Aiolos lo seguì con lo sguardo, mentre nella sua mente iniziava a rivalutare alcune cose: riguardo a Saga e alla sua vita, alle allusioni di Kanon, alle mezze parole e gli atteggiamenti troppo cauti di Shion e di Shura stesso nei confronti della “principessina”...
In quegli ultimi tredici anni c’era stata una fin troppo marcata cautela per tutto ciò che riguardava Saga.

*****

«Hai acceso il camino. Hai così tanto freddo?» chiese Kanon, entrando nella biblioteca e notando che Saga era intento ad attizzare il fuoco.
«Non particolarmente», rispose il gemello, con tono tranquillo e pacato, senza voltarsi. «Ma stasera avevo voglia di guardarlo scoppiettare. Vuoi unirti a me?» disse, invitandolo con un gesto della mano a sedersi sulla poltrona.
«Solo se bevi qualcosa con me!» replicò con enfasi l’altro, avvicinandosi al mobile bar; rovistò al suo interno e versò in due bicchieri la prima cosa che aveva trovato di suo gusto, poi si mise sotto braccio l’intera bottiglia e raggiunse l'altro.
Dopo una cena passata un po’ sottotono, alla sola presenza di Nanny, Aiolos e del gemello, Kanon aveva deciso di dare un po’ di brio almeno alla serata, approfittando dell’assenza del padre – complice una cena d’affari che lo aveva tenuto lontano – per bere qualcosa di speciale. Per quel motivo si era recato a quell’ora della sera, quasi mezzanotte, in biblioteca, certo di non trovare nessuno. Ma quando invece vi trovò il gemello, decise di modificare un poco i programmi. E quale occasione migliore gli si poteva presentare, per una serata divertente, se non bere in compagnia del suo amato fratello?
«Ah, la cassaforte del vecchio gufo è aperta!» esclamò, alzando lo sguardo sul dipinto, notando come la grossa cornice fosse scostata dal muro e facesse intravedere lo sportello blindato della cassaforte, anch’esso un poco aperto. «Non posso credere che papà o Shura siano usciti e l’abbiano dimenticata aperta. Saga, l’hai forse aperta tu? Hai trovato la combinazione?» chiese, con tono ammirato, frenando a stento la curiosità. Fin da ragazzino era sempre stato attratto da quello scrigno segreto e nascosto, al quale non aveva mai potuto avere accesso. Quando, tanti anni prima, aveva provato a forzarla, era stato subito beccato in flagrante e strigliato a dovere da Shura.
«E dimmi, c’è qualcosa di interessante dentro?» domandò ancora, lasciando perdere i drink e iniziando a frugare lui stesso al suo interno.
«Non ci troverai nulla di quello che ti aspetti», disse il gemello, vagamente annoiato, continuando a concentrare il suo sguardo sulle fiamme del camino. «Non c’era nulla allora e non c’è nulla adesso. Ci sono solo le solite cose: certificati, polizze, azioni, documenti delle varie proprietà, copie del testamento…» Nella mano teneva una pallottola di carta, che buttò pigramente fra le fiamme.
«Da quanto tempo sei al corrente del suo contenuto?» Kanon si voltò di scatto verso l'altro, lasciando perdere la cassaforte. In fin dei conti, non era più ragazzino da un pezzo. «Pazienza, in fondo era solo una curiosità. Strano però, ero sempre stato convinto che ci fosse qualcosa di più compromettente, se quei due adottavano tanta segretezza.»
Tornò al mobile bar e prese i bicchieri che aveva preparato.
«Et voilà! Per il mio adorato fratello. Con ghiaccio e soda, come piace a lui!» lo servì, con tanto di sorriso e di lieve inchino cerimonioso. «Certo però, sprecare del buon whisky in quel modo…» non mancò di borbottare, con vaga malizia, nei suoi confronti. «Accidenti, ho lasciato la cassaforte aperta!», esclamò, notando con la coda dell'occhio che il ritratto era ancora scostato dalla parete, mentre si lasciava cadere sulla poltrona, pregustando il sapore forte e pregiato del suo drink. «Sarà meglio rimetterla a posto prima che qualcuno se ne accorga. Sono troppo grande per prendermi delle sculacciate», disse, alzandosi nuovamente.
«Lasciala pure così», lo fermò Saga, posando il suo bicchiere accanto a quello del gemello.

Il crepitio delle fiamme riempiva il silenzio nella stanza; le vivide lingue di fuoco, nella penombra di quell’antro dalle sembianze antiche, animavano gli occhi dei gemelli e facevano loro compagnia, seduti al suo cospetto come due giovani re in esilio. Kanon trasse un sospiro di apprezzamento nel gustare il suo whisky, riserva speciale del padre; Saga invece, era taciturno.
«Eravamo d’accordo che avresti bevuto anche tu», gli ricordò con tono tranquillo.
Non era passato inosservato ai suoi occhi, nonostante Saga potesse apparire calmo e riflessivo, che qualcosa gli stesse dando pensiero. Il respiro lento e trattenuto non indicava sicuramente che si stesse godendo la serata.
«Stavo riflettendo…»
«Lo so. Sento le rotelle del tuo cervello che stanno facendo gli straordinari», scherzò Kanon. «Ma questa notte…» disse, controllando l'ora sul suo nuovo Rolex Submariner dalla ghiera verde smeraldo, che indicava ormai l’una passata, «non è consentito pensare, né riflettere, né rimuginare, né fare qualsiasi cosa ti venga in mente come sinonimo per rovinarmi questo momento! Quindi, caro fratellino», continuò, prendendo il whisky e soda e mettendoglielo sotto il naso, «manda giù, che poi te ne preparo un altro!»
Saga ubbidì senza ribattere, bevendo lentamente il suo drink.
«E ora, avanti, sputa il rospo», concesse Kanon: non poteva vedere oltre l’espressione rattristata dell’altro.
Saga prese un altro sorso, poi fissò il suo bicchiere per lungo tempo, facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio, mentre con la mano destra si massaggiava la piccola cicatrice bianca, leggermente nascosta dall’attaccatura dei capelli.
«Se noi non avessimo tutto questo: case, proprietà, soldi, mezzi di lusso, istruzione superiore… tu, come la prenderesti?» chiese con voce seria e allo stesso tempo anche titubante.
«Ancora con questo discorso, Saga?» ribatté Kanon, muovendosi incomodo sulla poltrona. «Mi sembra di tornare indietro nel tempo. Se noi fossimo qualcun altro. Se questa non fosse la nostra vita. Se ci togliessero tutto… credevo ci fossimo lasciati questi discorsi alle spalle, assieme all’adolescenza. Cosa ti passa per quella tua testa matta, fratellino?» gli chiese, scrollando la testa e sorridendo condiscendente al mesto silenzio del gemello. «Ti fai scrupoli di coscienza per qualcosa che non esiste. Perché credi di non meritare quello che hai?»
«Non hai intenzione di prendermi sul serio, vero?»
«Non quando torni su queste sciocchezze!» lo rimbrottò Kanon.
Scrollò di nuovo la testa nel vedere gli occhi del suo adorato gemello farsi lucidi. Mise la mano su quella di Saga, appoggiata sul bracciolo della poltrona e rimase a osservarlo per un po'. Poi, spostò lo sguardo sulle fiamme nel camino che gradualmente perdevano la loro forza e sospirò.
«Niente più tennis e nuoto al Country Club, o qualsiasi altro sport; niente più ristoranti di lusso; feste ed eventi vari neanche a parlarne… dovremmo ricominciare tutto da zero: trovare un lavoro comune, magari dividere un monolocale e usare i mezzi pubblici. Risparmiare… per non parlare poi che non potremo più permetterci l'assicurazione sanitaria decente!» Tacque per qualche secondo, assaporando un altro sorso di quel whisky pregiato del padre. «No, la prenderei decisamente male!» disse, sogghignando. «Prima di rinunciare a tutto questo ben di Dio, possiamo trasferire i nostri conti alle Cayman? Giusto per assicurarci una pensione decente.»
«Oh, Kanon», rispose Saga, facendo una pausa e rattristandosi ancora di più. «Così mi deludi. Ero convinto che tu lo avessi già fatto da tempo!»
Il rampollo Hayes sgranò gli occhi. Ci mise qualche secondo per capacitarsi del tono di scherno che aveva usato l'altro, ma poi scoppiò in una bella risata.
«Il mio fratellino che si prende gioco di me! Questa sì che è una cosa che merita di essere festeggiata!» Afferrò la bottiglia di whisky e l'alzò in direzione del fratello. «Al mio gemello preferito!» Si prese un grosso sorso, direttamente dalla bottiglia, poi la passò all’altro. «Ora tocca a te!» lo esortò; e Saga, anche se un po’ riluttante, non si tirò indietro, prendendone anche lui un sorso.

*****

Shion Hayes rientrò molto tardi a casa quella notte e salì subito in camera da letto, per concedersi una buona notte di riposo; ma non appena la testa toccò il cuscino, la stanchezza e il sonno che quasi lo avevano avvinto già durante la strada del ritorno sparì di colpo. Neanche la lettura del noiosissimo libro che teneva sul comodino da più di un anno e che spesso fungeva da rimedio all'insonnia, questa volta sortiva alcun effetto. Si infilò la vestaglia e decise di scendere in cucina per un bicchiere di latte caldo. Avrebbe dovuto passare per le scale di servizio; invece, sovrappensiero, passò per lo scalone principale e udì un leggero vociare e brevi risate provenire dalla biblioteca. Vi si avvicinò alla porta socchiusa e riconobbe i due figli.
Sorrise. Anche se dalla sua posizione aveva una visuale limitata, potè comunque osservarli parlare e scherzare serenamente. Vide Kanon alzarsi dalla poltrona e spostarsi verso il fratello, in mano reggeva la bottiglia ormai vuota di whisky che riluceva alle deboli fiammelle del camino.
«... E allora il direttore ha chiamato di nuovo facendo il diavolo a quattro. Shura mi ha raccontato che era la terza telefonata nel giro di un paio d’ore. Quel gorilla si era lamentato un’altra volta della camera. Era la quarta! La quarta che gli cambiavano negli ultimi due giorni!» Si lasciò andare a un’altra improvvisa risata. «E allora papà, trattenendosi dallo scoppiare, gli ha chiesto cosa non andasse questa volta; e il direttore: “Gli ospiti stranieri si sono lagnati perché gli occupanti della suite attigua fanno troppo baccano! Pretendono una sistemazione più adeguata e tranquilla!”», disse, scimmiottando con maestria il modo di fare del direttore. «Ma l’hotel del Country Club in questi giorni è praticamente al completo!» interruppe per un momento il resoconto, per spiegare la situazione al gemello, dimenticandosi che Saga era praticamente di casa, lì. «A quel punto, bocciate varie possibilità, papà ha chiesto se c’erano altre alternative. Il direttore però, sulle prime è stato molto restio. Alla fine ha dovuto tirare fuori l’asso nella manica e proporre l’unica soluzione possibile.»
Si interruppe di nuovo, spostando la sua attenzione sul camino, senza però perdere di vista con la coda dell’occhio il gemello che pendeva letteralmente dalle sue labbra. Si schiarì la voce, per prendere altro tempo: sentiva l’attesa dell’altro crescere per conoscere il resto del racconto.
«Saga…» disse, aumentando la suspense. «Sii forte, quanto sto per dirti credo non ti piacerà.»
Prese coraggio con un lungo respiro e si inginocchiò di fronte a lui, prendendogli entrambe le mani. Vedeva come Saga iniziasse ad avere qualche sospetto. Era come un libro aperto per lui e sapeva di non sbagliarsi davanti a quegli occhi impauriti e quella bocca tremante che iniziava a mormorre dei “no”.
«Lo so che per te questo sarà tremendo», continuò, ben sapendo quanto quel suo fratello debole fosse tanto attaccato alle cose di sua proprietà. «Siamo stati costretti a dare il permesso di usare la suite indipendente, quella con la terrazza privata che si affaccia a ovest, che il direttore ha detto essere di tua esclusiva proprietà. Devi credermi, è stato necessario per preservare la sanità mentale di papà!» si giustificò Kanon, stringendo più forte le mani del fratello.
Saga rimase immobile, rigido, neanche respirava più. Il viso era una maschera di pallore e gli occhi fissi su quelli del gemello. Neppure un gemito usciva dalla sua bocca.
«C’è di buono che sono rimasti molto entusiasti della nuova sistemazione», provò a sdrammatizzare. «Saga, Saga, fratellino… sei ancora vivo?» disse Kanon, con evidente preoccupazione, perché non vedeva alcuna reazione da parte dell'altro.
Lentamente, Saga si portò le mani alle tempie, cominciando a massaggiarle piano, chiudendo gli occhi e facendo respiri profondi.
«Meglio adesso che dopo», mormorò fra sé e sé Saga, riconquistando pian piano la calma, prima di riaprire gli occhi e fissarli di nuovo in quelli del gemello, per lunghi e interminabili secondi. «Sei fortunato Kanon, davvero molto fortunato!»
L’altro sbatté le palpebre, non riuscendo a capire il motivo di tanta fortuna attribuitagli.
«Era mia intenzione ristrutturare completamente quell’appartamento, ma per alcuni contrattempi i lavori sono stati rimandati alla fine di aprile. Almeno mi risparmierò il disturbo di far fare la disinfestazione, quando se ne andranno via!» spiegò a denti stretti Saga.
Kanon scoppiò in una fragorosa risata, sbilanciandosi all’indietro e finendo per terra col sedere. Condivideva appieno il pensiero dell’altro a proposito di quei giapponesi.
«Lo sapevo che con questo bel faccino non avresti potuto prendertela più di tanto», disse, rialzandosi e dandogli un bacio sulla guancia. «Ma toglimi una curiosità: perché diamine hai un appartamento privato al Country Club, quando hai a disposizione la villa che è a cinque minuti di macchina? Ma soprattutto», e dicendo quello si ributtò a sedere sulla poltrona, mentre le sue belle labbra si deformavano in un ghino e il suo sguardo si faceva più sottile, «perché non ne hai mai fatto parola con me?»
Saga sbuffò a disagio, soppesando la risposta da dare. «Pretendevi forse che portassi Jenny nella mia camera da letto come un adolescente qualsiasi porta la sua amichetta del cuore?»
«Ma non mi dire: il tuo letto è ancora vergine?» disse, scoppiando di nuovo a ridere.
«Come il tuo, del resto!» ribatté in tono offeso Saga.
«È vero! Ma la mia camera è il mio rifugio: off-limits per tutti, uomini e donne! E comunque sia, non potrei mai “divertirmi” sapendo che tu sei nella camera accanto. Certo non si può dire lo stesso per New York: quello di letto ne ha viste davvero tante! Ma tu non sei stato da meno, non ti sei forse fatto un’alcova segreta?»
«Siamo arrivati alle confidenze sul sesso?»
«Hai iniziato tu, fratellino!» rispose Kanon, continuando a ridere.
Con lo sguardo che appannato dall'alcol, fece un paio di tentativi goffi di afferrare la bottiglia vuota di whisky che giaceva a terra. E, quando ci riuscì, storse il naso nel constatare che fosse terminata. «Credo che ce ne vorrà un’altra», disse, barcollando un poco. «Oh, abbiamo svegliato il gran capo!» esclamò, tirando le labbra in un enorme sorriso, nel vedere il padre in piedi accanto alla porta, le braccia incrociate al petto e uno sguardo severo. «Quando sei tornato?» gli chiese, incespicando con la lingua.
«Avete bevuto finora?» domandò Shion, arrivando fino alla scrivania di mogano, dirigendo poi lo sguardo al mobile bar. «La mia riserva speciale, invecchiata vent’anni…» sospirò.
«In verità sembrava molto più vecchio. Diciamo più o meno come te!» scherzò Kanon, trattenendo a stento un’altra risata, ma gli diventava più difficile ogni momento che passava. «Te ne offrirei un po’, ma temo sia finito! Però, se mi dici dove trovarne un’altra…»
«Tu, Saga, non hai nulla da aggiungere? O forse sei conciato come quell’altro?» disse in tono alterato l'uomo.
Il ragazzo si alzò lentamente e si girò verso il padre. Non si sentiva certamente in piena forma, era un po’ brillo, ma non quanto il gemello. Nessuno poteva arrivare al livello di Kanon e riuscire a rimanere ancora in piedi. Non dubitava affatto che il gemello avesse fatto apposta a farlo bere di meno di quanto avesse fatto lui, perché sapeva che non riusciva a reggere troppo bene l’alcol.
«Non è stato molto di mio gusto, ma ho fatto volentieri compagnia a mio fratello», rispose, rimarcando quel secondo “mio” con uno tono di voce strano.
Kanon non sembrava molto interessato a quello scambio di battute fra padre e figlio, benché in qualche modo stessero parlando anche di lui. Prese dal tavolino i due bicchieri e, con la bottiglia già in mano, si mosse lentamente – sbandando un poco – verso il mobile bar, seguito dallo sguardo da Shion.
Con quel suo sorrisetto da sbornia passò vicino al genitore, pronto a elargire qualche battutina delle sue, ma non ebbe il tempo di aprir bocca che subito le sue velleità si smorzarono nel vedere il suo volto farsi rigido e gli occhi diventare furenti. Gli ci vollero alcuni secondi per capire cosa stesse fissando con tanta insistenza, girandosi infine anche lui nella medesima direzione.
«Ops…» si lasciò sfuggire, seguito poi da un'altra risatina, questa volta più nervosa. «Noi non c’entriamo! Era già aperta, vero Saga? Forse Shura si è dimenticato di chiuderla.»
«Non c’è bisogno di giustificarsi, Kanon», disse il fratello, per tranquillizzarlo. La voce di Saga era pacata e limpida, il suo volto rilassato e un leggero sorriso era disegnato sulle sue labbra.
«Kanon, è molto tardi, vai in camera tua», ordinò il padre, con tono freddo, fissando negli occhi l’altro figlio.
«Senti, papà, non credo sia così grave; e poi, dentro non c’è nulla di…»
«Va tutto bene, Kanon. Per favore, fai come ti ha detto», lo interruppe Saga.
Kanon si girò di scatto verso il suo gemello guardandolo stupefatto. Forse, per la prima volta da quando si era ripreso – almeno fisicamente – dall’incidente, Saga stava mostrando una sicurezza e una maturità che si addiceva all’uomo adulto che era. O forse, in tutti quegli anni era solo lui che aveva continuato a vedere e a trattare il fratello come qualcuno di limitato. Tutto quell'alcol che aveva in circolo complicava la percezione di quanto stava assistendo.
«Se hai bisogno… chiamami», gli disse, passando accanto al padre per uscire dalla biblioteca.
Una volta soli, Saga e Shion rimasero per diversi secondi a guardarsi, come fossero stati al centro di una strada polverosa, in attesa dello scoccare del mezzogiorno, pronti a estrarre le pistole per la resa dei conti.

Il capofamiglia Hayes si avvicinò alla cassaforte a muro e aprì completamente lo sportello. Gli bastò una rapida occhiata per capire che mancava la cosa più importante. Il suo cuore perse un battito.
«Dimmi dov’è», disse con voce alterata. «Dove l’hai messo?» E quella seconda esortazione sembrò un’accusa esplicita.
Gli si avvicinò a grandi passi e lo afferrò per il maglione, strattonandolo con forza.
Saga rimase in silenzio, si limitò a deviare lo sguardo di lato e concentrarsi sulle fiamme che languivano ora abbandonate nel camino. In quel momento, Shion sentì una stretta al cuore e il petto iniziare a dolergli.
Si era forse materializzato davanti ai suoi occhi il suo desiderio più recondito?
Quante volte, in tutti quegli anni, aveva provato l’irresistibile voglia di prendere lui stesso quei documenti così pericolosi per tutti e bruciarli, liberandosi così da un peso a volte troppo insostenibile; ma anche se sarebbe stata la soluzione più facile e logica, per evitargli qualsiasi conseguenza futura, non ne aveva mai avuto il coraggio. Del resto però, nonostante fossero una costante spada di Damocle per lui, quei documenti rappresentavano anche dei preziosi – seppur spesso dolorosi – ricordi; ed erano l’unica prova della vita che sarebbe dovuta spettare ai gemelli: il loro retaggio, le loro origini.
Si lasciò cadere in ginocchio, davanti al camino, osservando inerme quelle braci ancora incandescenti fra i ciocchi carbonizzati che iniziavano a lasciare piccoli fili di fumo nero e acre. Sentiva il viso andare in fiamme per l’intenso calore dell’aria. Eppure, il suo sangue in quel momento era come congelato nelle vene. Provò ad allungare le mani, tremanti, in tentativi infruttuosi di recuperare qualcosa, mentre i suoi occhi bruciavano di lacrime represse, ma non riuscì neppure ad avvicinarsi a quelle braci.
«Era così tanto prezioso per te quel plico?» chiese Saga, con insolito distacco, rimanendo lì in piedi, dove solo un attimo prima era stato aggredito. «Eppure, in questo modo non dovrai temere più nulla.»
«Non hai idea di quello che hai fatto», mormorò Shion con un filo di voce. «Sì, quei documenti erano preziosi più di quanto tu possa immaginare.»
«Allora non ti affannare a disperarti per qualcosa che non è andato perduto», ribatté Saga, lasciando cadere a terra, accanto alle ginocchia del padre, la cartelletta di cuoio.
L’uomo sussultò nel vederla. Per un attimo trattenne il respiro e, con mano ancora tremante, la prese, lisciandone la superficie con eccessiva devozione.
«Da quanto tempo sei al corrente dell’esistenza di questi documenti?» gli chiese, rimanendo ancora inginocchiato di fronte alle braci del camino, ma non ottenne risposta.
Sospirò.
«Allora è questo il motivo del tuo comportamento così distante e accondiscendente di questa mattina», considerò, ricordando i discorsi della mattina. «Devo quindi presumere che tu ne abbia anche letto il contenuto.»
«Non ero sicuro di voler sapere, ma alla fine… sì, ho letto.»
Saga si concesse qualche momento per riflettere e per fare dei respiri profondi. Si avvicinò al mobile con le foto di famiglia, contemplandole tutte, soffermandosi su quella che per lui più rappresentava la famiglia: ritraeva Kanon, lui stesso e Shion Hayes accovacciato fra loro due, tutti e tre in posa davanti all'obiettivo e li abbracciava stretti. Era stata scattata allo Zoo di Boston, quando erano solo due bambini di neanche sei anni. Quella giornata di primavera era stata memorabile per loro, non solo per la gita del tutto inaspettata, ma anche perché l'avevano passata assieme al padre; e, per finire, a casa li aspettava una montagna di dolci, preparati da Nanny.
Aveva sempre creduto che lo strano sorriso del padre in quella foto fosse il frutto del suo imbarazzo nel farsi vedere in atteggiamenti troppo familiari. Ora invece, quel sorriso lo vedeva per ciò che era davvero, così come capiva anche il significato di quegli occhi tristi, che stonavano in una fotografia tanto gioiosa. Si ricordò che era stato Shion stesso a insistere per andare allo Zoo, in quel giorno particolare.
«Sai, è strano», riprese, sempre con lo sguardo fisso su quella fotografia. «Per tanti anni avevo sospettato una cosa del genere. Erano perlopiù sciocche paure di un ragazzino, debole e malato, che aveva ascoltato per caso una conversazione che non avrebbe dovuto», confessò. «Kanon mi prendeva in giro quando gliene parlavo. Diceva che viaggiavo troppo con la fantasia, che era perché stavo tutto il giorno a letto, che leggevo troppi libri… Col passare del tempo ci ho creduto anch’io, mi ero convinto che fosse frutto della mia immaginazione alterata dalla febbre che andava e veniva senza darmi tregua. Questo pomeriggio ho parlato con una persona: mi ha detto di aver fatto parte della mia vita; mi ha raccontato alcune cose che mi hanno fatto riflettere. È stato solo a questo punto che ho deciso di iniziare a cercare per fare chiarezza, benché avessi avuto la possibilità di farlo già da molto tempo.»
Shion ascoltò in silenzio, tenendo il suo sguardo fisso sulle braci che rapidamente stavano morendo; morendo un poco lui stesso a ogni parola che il figlio pronunciava.
«La persona con cui hai parlato, chi è?» gli chiese.
«Un vecchio cinese.»
«Un cinese?» ripeté l’uomo, con tono sorpreso. «E come diamine sei entrato in contatto con un cinese? Ragazzo mio, ti sei fatto ingannare da un truffatore!»
«Anche tu credi che sia un ingenuo sprovveduto?» Saga si girò di scatto in direzione del padre, mostrandogli tutto il tormento che stava provando in quel momento. Poi, addolcì lo sguardo. «Anche Aiolos ha detto la stessa cosa.»
«Aiolos è al corrente di questa faccenda?» La voce di Shion Hayes era un misto di sorpresa e fastidio. Era da tempo che valutava la possibilità di mettere a parte di quel segreto Aiolos, per poi affiancarlo a Saga, così com’era sempre stato nei progetti fin da quel lontano giorno di tredici anni prima, ma essere stato anticipato in questo modo lo indisponeva.
«Io stesso, all’inizio, non potevo crederci», riprese Saga, senza dar peso all’interruzione del genitore, «ma quell’uomo ha detto delle cose… ha detto che assomiglio a mio padre, al mio vero padre, ad Anthony. Ha parlato di cose, di aspetti particolari, dettagli. Sembrava parlasse di me», disse, tornando a guardare quell'uomo che aveva sempre amato e ammirato, mostrandogli questa volta una freddezza che non gli era mai appartenuta. Vide Shion Hayes sussultare a quel nome e irrigidirsi, confermando in qualche modo che qualcosa di vero c’era nelle parole di Dohko. «Dimmi, Shion William Hayes», disse, chiamando con il suo nome per esteso; dalla tasca dei pantaloni estrasse un foglietto tutto spiegazzato. «In quale aspetto potrei assomigliare a un uomo che ha venduto i propri figli per pagare un debito?»
Il respiro di Saga si fece più affannoso e irregolare. Gli occhi bruciavano di rabbia e di lacrime trattenute, mentre li teneva fissi su quell’uomo che lo aveva cresciuto; e la tempia… gli doleva come non mai.
Shion Hayes sgranò gli occhi: non poteva credere a quanto avesse detto l'altro; quell’accusa gli provocò un altro forte dolore al petto. Era strano sentire il proprio figlio che parlava di quella persona; ancora più strano e mortificante era avvertire dell’astio nella sua voce, quasi disprezzo per una persona che Saga neanche aveva avuto modo di conoscere, ma che lui aveva amato in passato. Non poteva sopportare che Saga, ignaro di tutto, si permettesse di giudicare senza sapere. Eppure comprendeva la sua reazione.
«Non è così, Saga. Qualunque cosa tu abbia letto, l'hai mal interpretata.»
La biblioteca cadde in un silenzio assoluto. Le luci, già di per sé soffuse, sembravano aver perso ancora più intensità, facendo piombare la stanza in una penombra più scura.
L'uomo si mise una mano nella tasca della vestaglia ed estrasse la vecchia e sgualcita fotografia che negli ultimi tempi teneve sempre con sé. La fissò per diversi secondi con occhi pieni di commozione, nonostante i volti ormai non si distinguessero più.
«Forse avrei dovuto dirvelo molto tempo fa. Ma poi tu…»
«Io… io sono diventato difettoso», completò Saga, abbassando la testa e portandosi la mano alla tempia.
«No, Saga», disse Shion, sorridendo mesto.
Si avvicinò a suo figlio e lo abbracciò. In quell’ora tarda della notte non gli importava di mostrarsi sentimentale. Con Saga gli veniva naturale lasciarsi andare a quelle dimostrazioni di affetto, molto più che con altri; persino con Kanon e con Nanny non si sentiva molto a suo agio, ma Saga… difettoso o meno che si ritenesse, era la copia vivente di Anthony.
«Ciò di cui parla quel biglietto è un debito morale. Anthony, il tuo padre naturale, tuo e di Kanon, era il mio migliore amico e… no, non è la verità. Lui era molto più di un amico», sospirò. «Non era affatto in debito, ma si sentiva tale; e la colpa è solamente mia. Per tanti anni l’ho ritenuto responsabile di un tradimento nei miei confronti e gli ho voltato le spalle quando lui e tua madre erano disperati e avevano tentato di chiedere il mio aiuto. In realtà ero io a essere in debito.»
Shion Hayes fece una pausa, passandosi una mano fra i capelli castani striati di bianco. Provava un certo timore e vergogna nel guardare negli occhi il figlio, ora che aveva ammesso ad alta voce i suoi tormenti.
«Tu sei proprio com’era lui alla tua età; e non parlo solo dell'aspetto, così straordinariamente simile al suo, ma anche nel carattere. Lui era buono e generoso, aveva fiducia nella gente e l'aiutava come poteva, senza chiedere o aspettarsi nulla in cambio. Sempre col sorriso sulle labbra.»
Alzò gli occhi su Saga e sorrise: in quel momento sul viso del giovane vi era la stessa dolcezza un po' triste che aveva sempre caratterizzato Anthony.
«Se come dici era tanto buono, perché ci ha dati via?»
«Anthony vi ha affidato a me come ultimo grande atto di amore nei vostri confronti. Ancora oggi non so di preciso cosa possa averlo spinto a tale gesto, nella mia cocciutaggine non ho mai voluto indagare, non mi sono mai voluto preoccupare per la sua sorte, né prima e né tantomeno dopo che ha rinunciato a voi, se non dopo anni, quando ormai per lui era troppo tardi.» Rovistò nella cartelletta di cuoio e prese un ritaglio di giornale, che porse al figlio. «Non riesco neppure a immaginare quale inferno debba aver passato. Quello che so per certo è che è arrivato a prendere quella decisione tanto dolorosa solo per il vostro bene. Sapeva che io vi avrei amati come figli miei e avrei fatto di tutto per la vostra incolumità.»
«Non mi pare che tu ci sia riuscito molto bene», commentò Saga.
«Di cosa stai parlando?»
«Parlo della gente strana che tredici anni fa si aggirava nei dintorni del parco.» Saga si portò nuovamente la mano alla tempia destra, iniziando a grattare la piccola cicatrice fino a farla sanguinare. «Parlo dell’uomo che è stato ucciso nella rimessa delle barche, da due sconosciuti che poi hanno tentato di uccidere anche me. Parlo di due killer a sangue freddo che hanno massacrato quell’uomo inerme, già a terra, infierendo su di lui senza alcun motivo. Un uomo la cui unica colpa, probabilmente, era stata quella di introdursi nella nostra proprietà per scattare delle fotografie e per questo ha trovato una morte orrenda. Parlo di quei due che, una volta accortisi di me, mi hanno inseguito per tutto il parco, fino a raggiungermi e colpirmi, lasciandomi poi a terra privo di sensi da qualche parte e per chissà quanto tempo.» Man mano che andava avanti a raccontare, la sua voce si faceva più nervosa e acuta, come se in quel momento a parlare fosse l’adolescente Saga e non l’adulto.
«Ricordi…» sussurrò Shion, con voce tremante e gli occhi gonfi di lacrime. «Finalmente ricordi? E poi, cos’altro?» lo incalzò.
«Solo sensazioni, odori, voci, dolore», sussurrò Saga. La sua mano continuava a tormentare sempre di più la cicatrice e le unghie si stavano ombrando di rosso. «Qualcuno sopra di me. Puzzava di sigarette al mentolo. I suoi occhi erano assatanati. Ricordo qualcosa di freddo che premeva sulla mia fronte e una voce sprezzante che diceva che mi avrebbe ucciso… e rideva: forte, sguaiato.»
Ansimò. Gli occhi divennero vacui e qualche lacrima rigò le sue guance divenute mortalmente pallide. Stava tremando. Saga tremava nel corpo e nell’anima, nel riportare a galla quei frammenti di ricordi.
Shion accorse per sostenerlo, notando come il figlio si reggesse in piedi a stento. Provò a farlo avvicinare alla poltrona per farlo sedere, ma Saga, con un brusco gesto del braccio, lo scacciò via, tenendolo a distanza con uno sguardo furibondo, benché i suoi occhi fossero colmi di lacrime.
«Perché non abbiano portato a termine il loro lavoro e mi abbiano lasciato in vita, non saprei dirlo. Forse... un contrattempo. Ricordo che l’altro, un ragazzo biondo, molto chiaro, gli disse qualcosa in modo scocciato. E poi… credo di aver perso conoscenza», terminò il suo racconto.
Shion rimase scioccato da quel resoconto così ricco di dettagli importanti, nonostante il figlio continuasse a sostenere di ricordare poco o niente. Finalmente la verità su quell'avvenimento tanto misterioso stava venendo a galla. Mancava solo da capire chi fossero le persone che Saga aveva visto quel giorno e soprattutto chi fosse la vittima.
Ma a che sarebbe servito dopo tutti quegli anni?

Saga si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Nell'altra teneva ancora l'articolo di giornale che poco prima gli aveva dato il padre. La carta era ingiallita e le lettere avevano i contorni sbavati, ma ancora le parole si potevano leggere.
Il trafiletto parlava di un “incidente” avvenuto nel carcere di Boston, di una rissa fra detenuti che era degenerata in una mezza rivolta, sedata con troppo zelo dalle guardie e di come ci era scappato il morto. Il giornalista aveva riportato anche il nome del detenuto: Anthony Young. Aggiungendo che al momento della morte era ancora in attesa di giudizio e che per un errore di trascrizione era stato messo con i criminali più pericolosi.
A passo incerto si avvicinò alla scrivania e vi lasciò cadere il pezzo di carta. Poi, senza più rivolgere la parola a Shion Hayes, si diresse alla porta, indugiando però ancora una volta di fronte alle foto di famiglia.
«Una persona, non molto tempo fa, mi ha detto che si può crescere felici anche con dei genitori adottivi», disse. In quel momento l'espressione sul suo viso divenne triste. «Sì, papà, avresti potuto dircelo tranquillamente, noi avremmo capito. Potevi seguire l’iter per l’adozione. Ma falsificare dei documenti… hai reso le nostre vite una menzogna, fin dalle fondamenta. Probabilmente anche i nostri nomi non ci appartengono veramente.»
«Ho fatto ciò che andava fatto per salvaguardare il vostro bene», rispose l'uomo.
«E quali circostanze hanno richiesto un tuo così alto coinvolgimento e tanta segretezza? Un rapimento? Il programma di protezione testimoni dell’FBI?» chiese Saga, permeando quelle parole di un sarcasmo innaturale per lui. «Dimmi un’ultima cosa: era un criminale?»
«Faresti un grave torto alla sua memoria se credessi questo di lui. No, lui era innocente e puro di animo», rispose Shion.
«Capisco», fu la risposta semplice e composta di Saga. Il ragazzo si voltò verso il padre, mostrandogli una ritrovata serenità e uno sguardo limpido. «30 maggio», mormorò, con un lieve sorriso sulle labbra. «Che strana coincidenza. È una data importante. E forse, in futuro, lo diverrà ancora di più», disse, prima di uscire dalla biblioteca.
Quella era infatti la data di nascita sua e di Kanon, riportata su una scrittura privata, convalidata da un piccolo e semisconosciuto studio legale di Boston.

*****

Rientrò in camera da letto con la sola voglia di infilarsi sotto le coperte e buttare fuori dalla sua testa tutti quei pensieri che vi si stavano accavallando. Sentiva che di lì a poco gli sarebbe scoppiata, avvertiva già quel dolore strisciare pian piano. Col capo appoggiato al cuscino, il corpo lungo disteso sul materasso e le braccia larghe, fissò il soffitto ammantato di ombre. Vi passò diversi minuti in quella posizione, immobile, senza decidersi a prepararsi per dormire; la stanchezza diventava sempre più invadente e il torpore del whisky, bevuto in compagnia del gemello, iniziava a fare il suo dolente effetto, appannando ancora di più i suoi sensi già storditi.
A fatica si portò un braccio alla fronte, sentendola un poco calda. Si girò su un fianco, con la nausea e il mal di testa che pretendevano il loro tributo. Gli occhi, stanchi, caddero distrattamente sul comodino e sul suo cellulare col display attivo e luminoso che vibrava producendo un fastidioso ronzio. Rimase a osservarlo, ma forse non lo vedeva realmente. Poi, di colpo spalancò gli occhi e si mosse per prenderlo, ma quando premette il tasto per accettare la chiamata era ormai troppo tardi. Sbuffò, ributtandosi sul materasso, chiudendo gli occhi e passandosi una mano fra i capelli. Quella notte sembrava non volergli dar tregua con i problemi.
Con molta lentezza si tirò su a sedere, accese la luce e controllò meglio il cellulare. Quella appena persa non era l’unica telefonata che aveva ricevuto. Ve ne erano state altre, tutte da parte della stessa persona, tutte molto ravvicinate.
Il display indicava quasi le tre del mattino. Era incerto se richiamare, oppure attendere qualche ora e provare a dormire un po’. Si stese sul fianco sinistro, il cellulare stretto nella mano e la tempia che iniziava a pulsare sommessamente. Il suo respiro si fece lento e impercettibile. Voleva solo rilassarsi e riuscire a prendere sonno. C’era però un piccolo tarlo che non glielo permetteva: il pensiero di Cora che lo aveva cercato a quell’ora tarda e con tanta insistenza.
Visualizzò di nuovo l’elenco delle chiamate. Il suo cuore prese a battere tachicardico senza apparente motivo. Premette il tasto di chiamata rapida, accostando poi il cellulare all’orecchio e rimanendo in febbrile attesa. Più passava il tempo, più contava mentalmente il susseguirsi degli squilli e più strani timori nascevano in lui. L’impazienza li alimentava ed essi si trasformavano in ansia. Dopo l'ennesimo squillo, con rassegnazione – e la delusione nel cuore – abbassò lo smartphone, continuando però a fissarlo, senza riuscire a chiudere la chiamata. Aveva già il pollice sull'icona, quando infine gli giunse la voce della ragazza.
«Saga…»
«Cora, finalmente!» esclamò lui, mettendo il vivavoce. «Ho trovato le tue chiamate. Mi dispiace di non aver potuto rispondere prima. Cosa succede, dove sei?» le chiese, ansioso.
«Io… non volevo disturbarti così tardi…» Si interruppe a causa di un singulto di pianto. «Ma tu sei l’unico che può aiutarmi…»
Dall’altra parte della linea, nonostante le sue condizioni non proprio lucide, Saga riusciva a percepire la disperazione della ragazza. Gli si formò un nodo allo stomaco.
«Sono al… al St. Francis Clinic Center.»
Nuovamente Cora si interruppe, questa volta però a Saga sembrò che qualcuno l’avesse distratta.
«Cora, cosa ti è successo? Stai bene?» le chiese, in tono concitato.
Continuava a sentire come lei fosse sconvolta. Poi, uno strano vociare lì vicino si intromise nella telefonata e le uniche parole che Saga riuscì a capire furono: medicare e operazione urgente.
«Ti prego, vieni subito…»
La chiamata si interruppe bruscamente.



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Capitolo 21
*** Capitolo XX ***





XX



Come se non gli fosse stata sufficiente la giornata appena trascorsa, piena di eventi che avevano sconvolto quella che credeva essere la sua vita, la telefonata di Cora gli aveva dato l’ennesimo colpo. Rimase lì, seduto sul bordo del letto, impietrito e col respiro trattenuto, mentre fissava con occhi vacui il cellulare che stringeva in mano. La sua testa era completamente svuotata. Lo stomaco gli mandava una fitta di dolore e una strana sensazione di angoscia gli premeva sul cuore, facendosi sempre più insistente ogni momento che passava. Sentiva il sangue gelarsi nelle vene, quasi smettere di scorrere; e le mani diventare insensibili e fredde come il marmo.
Chiuse gli occhi, sbuffando fuori il fiato tutto d’un colpo; la situazione era cambiata poco. Quel nodo allo stomaco persisteva. Con mano tremante e la testa ancora non troppo lucida, riprovò a chiamare la ragazza. A ogni tentativo sentiva dall’altra parte il messaggio automatico che avvertiva che l’utente non era raggiungibile. E ogni volta, la preoccupazione si faceva più pesante.
Completamente in trance, si diresse in bagno per sciacquarsi il viso. Forse, lo stress di quella giornata gli aveva fatto immaginare tutto. Forse aveva sognato. Eppure, la sensazione che gli appesantiva lo stomaco era reale, l’angoscia che provava era reale. Ancora una volta, selezionò il numero di Cora. Era cosciente che fosse tardi e in circostanze diverse non avrebbe chiamato, ma in quel momento non gli sarebbe importato di svegliarla, voleva sentire la sua voce, accertarsi che stesse bene. Così com'era successo le volte precedenti, si inserì il messaggio automatico e il suo cuore perse un battito.
Spalancò la porta della camera del gemello e si precipitò a fianco del letto, dove Kanon dormiva un sonno scomposto e pesante. La stanza era immersa nel buio più totale e solo la luce lasciata accesa nel bagno permise a Saga di vedere il corpo del proprio gemello, ancora vestito, sdraiato sulle coperte tutte arruffate.
«Kanon! Kanon» Col cellulare stretto in mano provò a scuoterlo, ottenendo solo dei grugniti e qualche parola sconnessa. «Kanon!»
«Sì, sì… ti voglio bene anch’io… fratellino.»
Il ragazzo si girò lentamente su un fianco, gemendo, dando poi le spalle all’altro.
«Kanon!»
Tutti i tentativi di Saga di svegliarlo fallivano miseramente, ma anche se ci fosse riuscito, dubitava gli sarebbe servito a qualcosa, nelle condizioni in cui era il gemello. Sospirò sconsolato. La stanchezza si stava facendo sentire di nuovo, così come gli effetti, seppur blandi, dell’alcol ingerito quella sera. Uscì sul corridoio, scoraggiato più che mai, e si guardò attorno, senza sapere cosa fare, né a chi rivolgersi. Su Kanon, la sua àncora, non poteva fare affidamento, al padre non poteva certamente chiedere, non dopo quanto accaduto poco prima in biblioteca; Shura non l’aveva visto per tutta la sera, sospettava fosse andato da qualche parte a divertirsi e chissà in quali condizioni lo avrebbe trovato.
I suoi occhi si fissarono sulla porta di fronte a sé, quella della camera da letto di Aiolos. Anche se quel pomeriggio stesso avevano parlato e in qualche modo sembrava si fossero riavvicinati, come avrebbe preso ora l’amico una sveglia inopportuna come quella che gli stava per fare? Sarebbe stato disposto ad aiutarlo?
Se solo si sentisse più sicuro a guidare l’auto, se solo non fosse così stanco e se non avesse bevuto quella sera…
La sua mano era già alzata e pronta a bussare, ma esitava, in preda a troppi scrupoli. Poi, il pensiero di Cora prese il sopravvento su tutto il resto e diede due, tre colpi con le nocche sul legno della porta. Dall’altra parte non proveniva alcun rumore.
Riprovò, questa volta con colpetti, più ravvicinati e impazienti. Ancora lunghi attimi di silenzio.
Saga non poteva permettersi di irrompere nella camera di Aiolos così come aveva fatto prima in quella di Kanon. Di nuovo, alzò la mano per ritentare.
Dall'interno della camera arrivò un “Chi diavolo è?”, in tono assonnato. Poi, uno sbuffo e un breve trambusto. «Chi è?» disse Aiolos, con voce strascicata, aprendo la porta di uno spiraglio.
«Aiolos. Ho bisogno di… un favore», disse sottovoce e con tono contrito Saga.
Al ragazzo occorse qualche secondo per mettere a fuoco la vista e capire chi aveva davanti. Sgranò gli occhi quando riconobbe Saga e subito si ritrasse, tirandosi  giù più che poteva la maglietta che aveva indossato poco prima, cercando di coprirsi le parti intime. Ringraziava il cielo che non fosse invadente quanto Kanon, altrimenti si sarebbe ritrovato la porta spalancata e lui squadrato da capo a piedi e ricoperto da risate sguaiate.
«Cos’è, sta andando a fuoco la casa?» chiese, affacciandosi di nuovo e dando fondo a tutto il sarcasmo a cui le sue condizioni permettevano di attingere. Poi, lo osservò meglio e vide quanto fosse sconvolto. «Cosa ti serve a quest’ora di notte? Non puoi aspettare dopo colazione?»
«Ti prego, accompagnami in un posto.»
«A quest’ora di notte? Ma tu sei fuori di testa! Vattene a dormire!»
«Ti prego…» insistette Saga.
Aiolos titubò. Lo sguardo ansioso dell’altro, la sua voce addolorata e quel comportamento così inusuale, gli stavano facendo capire che qualcosa non andava. Si girò per un attimo verso il letto.
«Vai a fare qualche moina a tuo fratello e chiedilo a lui. Sono stanco, me ne torno a dormire», disse con molta risolutezza nella voce, tornando a fissare Saga negli occhi. Stava già richiudendo la porta, sicuro che l’altro si sarebbe dato per vinto, come faceva di solito; invece trovò un ostacolo che bloccò la porta. Alzando lo sguardo vide la mano di Saga, aggrappato con disperazione, che tentava di fare resistenza con tutto il peso del corpo.
«Per favore…» sospirò Saga. «Lui… lui non può. Stasera ha bevuto troppo, neanche riesco a svegliarlo; e comunque non sarebbe in grado di guidare.»
«Hai bevuto anche tu, a quanto sento», disse Aiolos, in tono sprezzante e con un sorrisetto malizioso sulle labbra. «Non è un problema mio!» Il suo sguardo si fece duro, astioso. «Sei abbastanza grande da risolverteli da solo i tuoi casini.»
A quelle parole, l’opposizione che stava esercitando Saga si fece meno resistente, consentendo all’altro di chiudere finalmente la porta.
Nonostante avesse potuto tirare un sospiro di sollievo, per essere riuscito a lasciare fuori quella scocciatura, Aiolos rimase lì, appoggiato alla porta, con lo sguardo torvo e la pessima sensazione di essere solo un ripiego. Non era cambiato niente: come al solito per Saga prima veniva Kanon; prima aveva bisogno di Kanon; la sua prima scelta era sempre e solo Kanon. E allora al diavolo, che si rivolgesse a Kanon!
Saga rimase lì, con gli occhi annebbiati di lacrime e la disperazione nel cuore.
«Non è per me. Si tratta di Cora… Caroline. Le è successo qualcosa, mi ha chiamato da un ospedale e adesso non riesco più a contattarla. Per favore… Lo so che non ho alcun diritto di chiederti niente, ma Caroline non c’entra nulla con i problemi che abbiamo tu ed io.»
«Sei un idiota. Cieco, stupido, ingenuo…» mormorò Aiolos, con rabbia e gelosia.
Quelle parole gli sfuggirono dalla bocca come un pensiero segreto che viene liberato nel vento. Con un sospiro stanco si staccò dalla porta. Le parole che si erano scambiati in auto, nel pomeriggio, quel “non abbiamo mai smesso di essere fratelli” gli rimbombava nella testa. Ci aveva creduto davvero quando glielo aveva detto, oppure lo aveva fatto solo per consolarlo in un momento di difficoltà? La risposta era stata chiara da come si era comportato.
«A volte mi domando se ti conosco davvero.»
Shura accese la luce nella stanza. Scostò le coperte e si sedette sul bordo del letto per alcuni momenti, appoggiando i piedi sul parquet scuro. Poi, si alzò e prese i vestiti del suo amante ammonticchiati sulla sedia, butandoglieli addosso.
«Sei uno stupido», disse, con voce artificiosamente calma. «Ora vestiti alla svelta e raggiungilo, prima che possa commettere una sciocchezza. Se gli dovesse capitare qualcosa, nessuno te lo perdonerebbe. Kanon per primo.»

*****

Se fosse capitato in un altro momento e in altre circostanze, Saga non avrebbe esitato in quel modo e si sarebbe fidato delle sue sole forze; soprattutto non avrebbe cercato così disperatamente l’aiuto di qualcuno. Ma ad acuire tutto c’era l’ormai costante angoscia che gli opprimeva il cuore e lo faceva agire con poca lucidità. In quei momenti così drammatici per lui, stava vivendo la stessa paura che aveva provato quando non l’aveva trovata nell’appartamento, quando non aveva risposto ai suoi messaggi e alle sue telefonate, la sera prima del trasloco.
Era rimasto davanti alla porta chiusa di Aiolos ancora per diversi secondi, consapevole che stava perdendo tempo prezioso, ma continuava a sperare che l'altro cambiasse idea. Poi, provò a chiamare Cora un'ultima volta, ottenendo sempre il messaggio automatico, o la segreteria. Sentiva di aver già perso troppo quella sera, non avrebbe sopportato di perdere anche Cora.
Si affrettò a scendere i gradini dello scalone principale; il suo respiro si faceva via via più affannoso, sentiva uno strano nodo alla gola. Si fermò per un attimo a metà dello scalone, aggrappandosi al corrimano di mogano. Sentiva le tempie pulsare e la nausea salire. Il suo cuore batteva accelerato. Il tempo di un respiro profondo, seppur doloroso, e riprese a scendere, nonostante all’improvviso la vista gli si fosse sfocata un poco. Davanti a sé si ritrovò il padre che invece saliva per ritornare nelle sue stanze. Si guardarono negli occhi, ma non si scambiarono una parola.
Negli occhi arrossati del figlio, Shion vi intravide tanto dolore. Sospirò, pensando che forse, quel suo stato così agitato, era dovuto al dialogo che avevano avuto in biblioteca. Eppure, era certo che, prima di congedarsi da lui, Saga gli avesse mostrato un poco di serenità. E ora si chiedeva, con la stanchezza che gli pesava addosso, cosa fosse potuto succedergli per sconvolgerlo in quel modo. Lo seguì con lo sguardo, lo vide prendere il cappotto e uscire di casa con molta fretta.
«Lo seguo per evitare che faccia qualche sciocchezza», disse Aiolos, incrociando a sua volta Shion sulle scale, non appena questi si era voltato per proseguire.
Il giovane rallentò il passo giusto il tempo per risistemarsi il maglione addosso; poi, tirò dritto per la sua strada, senza badare al lento e stanco gesto di assenso dell’altro.

Shion Hayes seguì anche i movimenti dell’altro, che stava ripercorrendo gli stessi di Saga: prima il cappotto e poi, di corsa fuori dalla porta di casa. Sospirò, scrollando gravemente la testa. Tutto stava accadendo troppo in fretta, tutto stava mutando in qualcosa di difficile da gestire. La sua famiglia si stava sgretolando davanti ai suoi occhi. I suoi figli gli stavano scivolando via dalle mani, lontani dal suo controllo e dalla sua protezione. Saga si stava allontanando da lui…
Riprese a salire le scale, con stanca lentezza; a ogni gradino si aggrappava sempre più forte al corrimano, per sostenersi. Nonostante si sentisse ancora decisamente giovane e forte, per i suoi cinquantasei anni di età, in quelle ultime settimane gli era piombato addosso, tutto in una volta, tutto il peso delle responsabilità di quella famiglia dal nome importante.
«Cos’hai, Shion, ti senti bene? Che cos’è successo?» gli chiese Shura, vedendo l’amico così gravato dalle preoccupazioni.
Il capofamiglia non si accorse della presenza del suo fido braccio destro che era appena comparso nel corridoio, fin quando non gli rivolse la parola. Con la mano stava già sulla maniglia della porta della sua camera da letto, pronto a rifugiarvisi dentro.
«Saga è a conoscenza di tutto, o quasi», gli rivelò con voce triste e rassegnata. «E probabilmente, adesso anche Kanon saprà tutto.»
«Sapevi che prima o poi questo segreto non sarebbe più stato tale. Forse rivelarlo adesso non sarà stato meno scioccante, ma ormai sono adulti, sicuramente reggeranno bene il colpo», commentò Shura.
Shion si concesse un lungo sospiro, l’ennesimo in quella lunga notte di tormenti, mentre abbassava la maniglia della porta, bloccandosi poco dopo senza aprirla.
«A questo punto», riprese Shura, «non resta che parlarne anche con Aiolos, per prepararlo ai suoi nuovi incarichi.»
«A quanto pare, anche lui sa già qualcosa», disse Shion. Poi, corrugò la fronte. «Perché diamine stai uscendo di soppiatto dalla camera di Aiolos?» gli domandò, girandosi verso l’altro e guardandolo come se fosse un perfetto sconosciuto. I suoi occhi si erano involontariamente fermati su un punto al di sotto della vita di Shura e la sua espressione divenne d’un tratto dura.
L'uomo rimase perplesso da tale sguardo; si osservò anch’egli e, con grande imbarazzo, si accorse che la zip dei jeans era rimasta aperta per metà. Subito corse ai ripari, ma quei suoi tentativi risultarono un po’ goffi e maldestri, per la fretta.
«Non dirmi che lo hai fatto davvero?» chiese Shion, non risparmiandogli uno sguardo di biasimo; ma in verità non voleva saperlo sul serio. Immaginava già la risposta e questa non gli piaceva affatto. Lo fissò con severità ancora per diversi secondi, poi chiuse gli occhi, ormai troppo provato da quella notte. «No, lascia perdere, non lo voglio sapere. Ne parleremo un’altra volta. Ora non sarei in grado di sopportare anche questo…» disse infine, anticipando la risposta dell'altro. Aprì la porta della camera da letto e vi entrò, barricandovi dentro.

*****

Quella che stava trascorrendo così terribilmente lenta era una notte particolare e strana. Nessuno aveva avuto sentore che si sarebbe rivelata tanto pesante per alcuni membri della famiglia Hayes.
Shion si era ritrovato a dover svelare a suo figlio parte di quei segreti che aveva tenuto per sé per metà della sua vita. Era rimasto sorpreso dalla reazione di Saga, lo aveva sempre giudicato il più fragile emotivamente, quello da proteggere; comprensibilmente era rimasto scioccato, ma il suo comportamento era parso anche enigmatico agli occhi del genitore. Ora però, Shion doveva pensare anche all’altro figlio e non sapeva proprio cosa doversi aspettare.
Saga, a sua volta, stava iniziando a riempire un enorme vuoto del suo passato che lo aveva condizionato per anni e che ancora adesso portava con sé degli strascichi non indifferenti. La sua vita era stata limitata, ingabbiata, per così tanto tempo che nessuno aveva davvero fiducia in lui e nella possibilità che potesse condurre una vita normale come tutti gli altri. Aveva finalmente raccontato a voce alta parte di ciò che accadde quel lontano giorno di dicembre del 1998, facendo uscire quelle immagini, così vivide e dettagliate nei particolari, fuori dai confini dei suoi incubi. Aveva però dato loro dei connotati diversi, più terrificanti e misteriosi, di quanto non avesse mai creduto; perché ora su di essi aleggiava lo spettro del dubbio: com’erano collegati quei suoi ricordi sopiti col segreto delle sue origini? E se non c’era alcun collegamento, perché quel giorno aveva rischiato di morire?
Shura, dal canto suo, aveva anche lui delle preoccupazioni che gli erano cadute addosso all’improvviso. La grave imprudenza che aveva commesso, nel passare la notte nella camera di Aiolos, forse troppo sicuro della calma apparente che si era respirata in quella casa, gli aveva fatto abbassare la guardia. Certamente, quell’incontro intimo non era stato programmato, soprattutto non all’interno della villa, ma entrambi gli amanti si erano lasciati fuorviare dai sentimenti che provavano e alla fine si erano addormentati. Credendo poi che la situazione si fosse nuovamente calmata, affidandosi a un pessimo tempismo, si era dato letteralmente la zappa sui piedi, facendosi scoprire da Shion mentre usciva dalla camera di Aiolos per ritornare alla dependance. Ora che la sua relazione segreta era venuta allo scoperto, come sarebbe stata la sua vita da quel momento in poi?

*****

Aiolos lo trovò aggrappato al volante e con la fronte appoggiata alle mani. Bussò un paio di volte al finestrino con la nocca dell’indice destro. Poi, con un sorriso quasi di scherno, aprì lo sportello.
«Fammi posto, guido io», disse, godendosi l’espressione sconvolta e confusa sul volto di Saga, invitandolo anche con un cenno della mano a spostarsi sul lato del passeggero.
Saga fissò Aiolos per diversi secondi con diffidenza, stringendo nervosamente la presa sul volante, prima di accettare la sua offerta e scivolare sul sedile a fianco.
«Imposta la destinazione sul navigatore e spera che nessuno ci fermi, perché non ho intenzione di pagare eventuali contravvenzioni», gli disse ironico, mentre usciva in retromarcia dal garage e sgommava, senza tanti complimenti, sull’acciottolato del vialetto, lasciando solchi ben visibili. Sarebbe poi stato compito dei giardinieri risistemare il tutto.
Per tutto il tempo che trascorsero in macchina, non si dissero una sola parola, nemmeno si scambiarono uno sguardo. L’imbarazzo era una presenza quasi tangibile fra loro due. Più volte Aiolos lo scrutò con la coda dell’occhio, vide quanto Saga fosse teso e al tempo stesso malinconico, mentre continuava nei suoi tentativi di contattare la ragazza.
Impiegarono poco più di venticinque minuti ad arrivare: data l’ora così tarda, o forse troppo presto, non avevano incontrato praticamente nessuno sul loro cammino. Anche lo spiazzo del parcheggio, di fronte alla loro meta, era quasi completamente deserto.
Esternamente, la struttura non dava affatto l’impressione di essere un ospedale, anche se l’insegna al neon riportava a grandi lettere la parola “clinica”.
«Sei sicuro che questo sia l’indirizzo giusto?» chiese, sporgendosi un poco in avanti, per guardare meglio. «A me non sembra affatto», mormorò.
Saga si slacciò la cintura di sicurezza e si precipitò fuori, lasciando Aiolos a sbuffare annoiato mentre lo osservava allontanarsi ed entrare nella struttura.
Con un leggero rumore ovattato le porte automatiche si dischiusero davanti a lui e si ritrovò nella hall di una piccola clinica, non troppo spaziosa, ma completamente deserta; illuminata a giorno da lampade al neon troppo forti, tanto che dovette schermarsi gli occhi.
Il cuore batteva agitato come non mai. Si sentiva spaesato, mentre si guardava attorno con apprensione. Ai due lati di quell’ambiente all’apparenza asettico, con le pareti dipinte di due colori – bianco nella parte superiore e verde menta nella metà più bassa – erano disposte delle file di sedie in plastica della medesima tonalità di verde. Dritto davanti a sé, quasi in fondo a quell’ambiente così straniante, c’era il bancone della reception, anch’esso sguarnito. Lo raggiunse con passi affrettati e vi si appoggiò pesantemente con i gomiti, prendendosi la testa fra le mani.
Sentiva l’angoscia diventare opprimente. Non era più riuscito a parlare con Cora e non era neppure lì, dove credeva di trovarla. Quel luogo era immerso in un macabro silenzio; l'attesa che arrivasse qualcuno era dolorosa e snervante. Era una sensazione insopportabile per lui. Il ronzio delle luci al neon gli entrava nel cervello e lo stava facendo impazzire.
Sentì aprire una delle porte, alzò la testa di scatto e vide una donna che indossava una divisa verde da infermiera sistemarsi dietro il bancone.
«Caroline Miller, dov’è? Sta bene?» chiese con voce agitata. «È castana, alta più o meno così», disse, indicando all’incirca all’altezza delle sue spalle. «Mi ha chiamato una mezz’ora fa, forse un poco di più: era sconvolta, piangeva.»
«Sì, sì, si calmi ora», gli sorrise con indulgenza la donna, stringendogli con gentilezza un braccio per rassicurarlo. «La ragazza che cerca è di là, in una delle salette d’aspetto, che riposa», confermò, indicando la porta dalla quale era appena entrata.
La donna lo accompagnò sino alla soglia della porta che divideva la zona pubblica della clinica, dalle salette di visita e quelle post operatorie. Poi, gli indicò quella che recava il numero cinque, dietro la quale avrebbe trovato la ragazza che stava cercando e tornò al suo posto. Proprio in quel momento anche Aiolos fece il suo ingresso all’interno della struttura, annunciandosi con un grosso sbadiglio.
«Saga! Sei riuscito a trovarla?» Il suo richiamo non ebbe alcun esito e lui fece in tempo a vederlo sparire dietro la porta in fondo alla hall.

Anche quella parte della clinica era illuminata da luci al neon, fastidiose agli occhi. Saga si ritrovò in un corridoio lungo e stretto; l’odore dei disinfettanti era forte e si univa a quello di animali. Tutto però era calmo. La porta col numero cinque era socchiusa. Saga rimase per qualche momento fermo lì davanti, col cuore in gola e la paura di scoprire quello che c’era nella stanzetta. Poi, con una leggera spinta l'aprì. Non appena la vide, sdraiata sulle tre sedie accostate a una delle pareti e con la testa sulla borsa che le faceva da cuscino, si dovette appoggiare pesantemente al muro, tirando un gran sospiro di sollievo. Rimase per qualche secondo a osservarla dormire, poi le si accovacciò vicino e le accarezzò con gentilezza la testa, risvegliandola senza volerlo.
Cora aprì gli occhi a fatica, con la vista confusa e un po’ di mal di testa, per quel riposo scomposto. Si passò diverse volte il dorso della mano sugli occhi, mentre si raddrizzava sulla sedia: era intontita e le ci vollero diversi secondi per riconoscere la persona preoccupata che le stava davanti e la guardava con gli occhi lucidi.
«Saga?» disse con tono sorpreso, spalancando gli occhi. Subito gli si gettò al collo cominciando a piangere per dare nuovamente sfogo a tutto lo stress accumulato in quelle ore. «Saga… mi dispiace», si scusò, fra un singhiozzo e l’altro.
«Mi hai fatto preoccupare da morire», disse lui, prendendole il viso fra le mani e guardandola negli occhi per secondi interminabili. «Ancora una volta…» sussurrò, sottintendendo che era la seconda volta che provava una paura irrazionale di perderla. «Ho provato a richiamarti, più e più volte, ma entrava sempre la segreteria telefonica.»
L’abbracciò di nuovo, stringendola forte a sé, accarezzandole la schiena e la testa, per calmarla e per calmare anche se stesso.
«Mi dispiace! Mi dispiace! Il cellulare ha smesso di funzionare e non voleva più accendersi. Non ho potuto spiegarti. Mi dispiace!» disse lei con voce disperata, nascondendo il viso nel suo petto, inumidendogli la stoffa del cappotto con le lacrime che scendevano copiose sulle sue guance.
«Non fa nulla, non fa nulla. Spiegami ora», la rassicurò, con tono calmo e gentile. Si slacciò da quell’abbraccio disperato e le si sedette accanto. «Cosa ci fai in questo posto, tu stai bene, vero? Cos'è successo?»
«Non so cosa sia successo, non so spiegarmelo», iniziò, tirando su con il naso. «Sembrava una notte come le altre, tutto era tranquillo. Sono andata a letto più presto del solito, perché mi sentivo stanca. Mi stavo già addormentando, quando all’improvviso ho sentito un gran vociare provenire da fuori, forse dalla strada o dal cortile. Ho pensato che fosse qualcuno che aveva bevuto troppo. È durato solo qualche momento, un minuto o due, poi tutto è tornato tranquillo. Così mi sono tranquillizzata anch'io e ho provato a riprendere il sonno, quando ho sentito di nuovo qualcosa che non andava. Dei rumori forti e altri schiamazzi, come se qualcuno si divertisse a lanciare delle bottiglie di vetro contro i muri e a colpire con dei bastoni o delle spranghe i cassonetti. Allora mi sono decisa ad alzarmi e sono andata a controllare le finestre che davano sulla strada e la finestra della cucina, ma tutto era calmo», raccontò.
Prese un bel respiro e proseguì. «Quando mi stavo accingendo a tornare in camera da letto, mi sono accorta che lei non era al suo solito posto. Avevamo guardato un po’ di televisione sul divano dopo cena e l’avevo lasciata che dormiva lì, tranquilla. Ho pensato allora che fosse venuta sul letto; fa ancora fatica ad arrampicarcisi, ma qualche volta ci riesce, anche se graffia le coperte», divagò un attimo, passandosi le mani sul viso ad asciugare le lacrime. «L’ho cercata per un po’, per vedere dove fosse andata a cacciarsi e non ritrovarmi con qualche spiacevole sorpresa.»
Fece un respiro profondo, sentiva gli occhi pesanti per la stanchezza e le lacrime. Era spossata, ma la presenza del ragazzo la confortava.
«Mi sento così in colpa, Saga. Ero scocciata perché volevo tornare a dormire. Credo di aver fatto avanti e indietro per la casa almeno tre volte. Quando alla fine stavo tornando in camera, ho guardato anche nell’ingresso. Non ci avevo fatto caso subito, ma in quel momento mi era parso di aver sentito un rumore. È stato allora che l’ho trovata.» Nascose il viso fra le mani e scoppiò di nuovo a piangere. «Lì per lì avevo creduto che si fosse addormentata, anche se la posizione mi sembrava strana, quasi innaturale: il suo corpicino era allungato e le zampine erano tese verso l’esterno; ma non ci avevo dato troppo peso. Mi sono avvicinata a lei senza accendere la luce, c’era abbastanza chiarore che filtrava dalle finestre del salotto da permettermi di distinguere la sua sagoma. Mi sono seduta accanto a lei e ho iniziato a stuzzicarla col dito. Pensavo si sarebbe spazientita e avrebbe reagito tentando di morderlo, ma non l’ha fatto. Ha mosso leggermente il muso e ho sentito un lieve sbuffo. Con un dito le ho alzato una delle zampine, ma questa è ricaduta a terra come se fosse stata priva di vita.»
Saga continuava ad ascoltarla in silenzio.
«Ho provato a farla alzare, ma il suo corpo era molle e la testa… mio Dio! A quel punto ho iniziato a spaventarmi. L’ho presa fra le mani e la sua testa le ricadeva di lato come se fosse pesante quanto un macigno. Quando l’ho avvicinata a me e l’ho guardata con le lacrime agli occhi…» Cora scrollò la testa, singhiozzando ancora più forte. «I suoi occhietti erano socchiusi e le palpebre interne ben visibili. Dalla sua bocca usciva un po’ di saliva e la lingua… sembrava che avesse smesso di respirare. Ho provato a chiamarti perché non sapevo cosa fare, ma tu non rispondevi.» Alzò lo sguardo su Saga e subito dopo, nuovamente, nascose il viso nel suo petto.
Calò un silenzio pesante in quella saletta. Saga la strinse a sé, accarezzandole la schiena e la testa, tutta spettinata.
Dopo qualche altro momento, Cora riprese a raccontare, con voce più calma. «Mi sono vestita di corsa, ho avvolto Kitty nella sciarpa e mi sono precipitata fuori. Ho camminato per qualche minuto e poi mi sono buttata sul primo taxi che ho trovato. L’autista aveva appena terminato il suo turno e sicuramente avrebbe voluto tornare a casa sua, ma è stato molto disponibile e gentile, quando gli ho spiegato la situazione. Così mi ha portata qui.»
«Tutta questa urgenza, tutto questo gran correre, solo per un animale?» si intromise Aiolos; non aveva fatto nulla per nascondere il tono scocciato della sua voce, stanca per il sonno sottratto, né quanto quella situazione venutasi a creare lo infastidisse.
Fino a quel momento, Saga si era concentrato solo ed esclusivamente su Cora, coccolandola e sostenendola, ma dopo aver sentito Aiolos pronunciare quelle parole per la prima volta nella sua vita lo fissò con astio e con la sola voglia di dargli una lezione, dimenticandosi dell’aiuto che gli aveva prestato. Il suo corpo era già in tensione e pronto a scattare, ma fu trattenuto da Cora, che lo fece desistere aggrappandosi al suo cappotto.
«Perdonami, lui ha ragione. Ti ho fatto correre fin qui a quest’ora per una questione di così poco conto e tu lo hai fatto perché eri in pensiero per me e invece di arrabbiarti, ti stai dimostrando così comprensivo.»
Cora si rimise seduta dritta. Teneva la testa bassa e le mani sulle ginocchia: era consapevole di aver creato non pochi problemi sia a Saga che ad Aiolos; si sentiva un'approfittatrice della sua gentilezza e della preoccupazione di Saga.
«Per favore, esci da qui», disse Saga, con una inusuale freddezza, riservandogli uno sguardo altrettanto freddo, prima di dare di nuovo tutta la sua attenzione alla ragazza.
Per Aiolos fu come tornare di colpo adolescente, a un tempo lontano, nel quale si trovò a rivivere il medesimo senso di esclusione di quando i gemelli erano diventati inseparabili; ma era anche molto simile a ciò che aveva provato poco meno di un'ora prima, quando si era sentito la seconda scelta.
«Come vuoi tu», rispose con sufficienza. «Ti aspetto in auto.»
Non se lo fece ripetere due volte e uscì dalla stanzetta, lanciando però un’ultima occhiata veloce ai due: appoggiato completamente allo schienale della sedia, Saga stringeva la mano di Cora, ma sul suo viso vi era una strana espressione. Ad Aiolos non pareva di compassione nei confronti della ragazza, ma non riusciva comunque a darle un nome. Fece spallucce e si tolse dalla luce della porta, preferendo però rimanere lì vicino, con la schiena appoggiata al muro del corridoio, curioso di conoscere gli sviluppi.
I due ragazzi rimasero in silenzio per cinque minuti, forse di più. Cora non aveva avuto il coraggio di dire nulla dopo quell’estenuante racconto e Saga, anche lui in quel momento non se la sentiva di parlare. Con uno sbuffo stanco, Cora cambiò posizione, risistemandosi meglio sulla sedia, avvicinandosi e sfiorando il braccio di Saga. Questi le lasciò la mano e le passò il braccio dietro le spalle, incoraggiandola ad appoggiarsi meglio a lui. In quei minuti la sua mente, già messa a dura prova, prese a riflettere: a considerare che forse, quella proposta che lei gli aveva fatto quel pomeriggio… forse…

«Mi dispiace averla fatta attendere così a lungo, ma abbiamo terminato solo ora un’operazione d’urgenza a un labrador. Vedo però che fortunatamente non è più sola», si annunciò un uomo, che sembrava essere sbucato dal nulla, entrando nella stanzetta. Si tolse la cuffietta dalla testa, mentre la mascherina pendeva dal collo.
Tese la mano al ragazzo che subito si era alzato e lo salutò cordialmente.
«Non ci sono stati cambiamenti rilevanti fino a questo momento. Ho effettuato un prelievo di sangue e ho qui i risultati. Da quanto è stato evidenziato dalle analisi, in effetti si tratta proprio di un avvelenamento», spiegò.
A sentire quelle parole, Cora ebbe un sussulto e d’istinto strinse la mano di Saga che ascoltava attentamente ciò che il dottore stava dicendo.
«Non le è stata somministrata alcuna sostanza nociva vera e propria, come sospettato durante la visita preliminare. Si tratta in verità di un comune tranquillante e probabilmente glielo è stato fatto ingerire tramite del cibo. Nella bocca erano presenti ancora alcune tracce di carne macinata. Il motivo principale per il quale l’animale fatica a riprendersi, è l’elevata concentrazione del farmaco nel suo organismo, che ha avuto l’effetto di un potente anestetico operatorio e che non riesce a smaltire da solo.»
Durante il resoconto del veterinario, Aiolos era rientrato nella stanzetta senza fare rumore, affiancandosi a Cora.
L’uomo fece una pausa, osservando attentamente e con severità tutti i presenti, soffermandosi poi sulla ragazza. «Non è assolutamente indicato somministrare questo tipo di farmaco a un animale così piccolo e con problemi di denutrizione; soprattutto quando il farmaco in questione è raccomandato per animali di grossa taglia», disse.
«Glielo giuro, dottore, non ho dato niente a Kitty! In casa non ci sono medicine di questo tipo, ho solamente dell’aspirina. E mai e poi mai potrei fare qualcosa di male alla mia gatta. Saga, per favore, tu mi credi, vero?» si rivolse implorante e con gli occhi velati di lacrime al ragazzo che le stava a fianco.
Il veterinario fece un profondo sospiro, prima di continuare. Ancora non era del tutto convinto della responsabilità della giovane; durante la visita, la sua perplessità era stata molto forte ma ora, vedendo la sua reazione a quella notizia – e con quanta foga negasse la responsabilità di quel fatto – stava gradualmente cambiando opinione, propendendo per l’innocenza.
«In effetti c’è una cosa che mi dà da pensare. Siamo stati molto fortunati in quanto la quantità di tranquillante era sì eccessiva e pericolosa, ma non al punto di essere letale; o almeno, siamo arrivati in tempo per scongiurare tale possibilità. È come se, chiunque sia il responsabile, avesse deliberatamente calibrato la dose somministrata, facendo in modo che destasse perlopiù preoccupazione e allarme. Ora le ho fatto un’iniezione con uno stimolante che dovrebbe contrastare l’azione dell’altro farmaco. È solo questione di tempo e la paziente dovrebbe tornare vispa come prima.» L’uomo fece un’altra pausa, osservando ora la reazione di sollievo della giovane. «C’è però ancora una cosa che ho riscontrato e che durante la visita preliminare mi era sfuggita. È un qualcosa di davvero singolare. È per caso stata soggetta a scherzi o maltrattamenti?» domandò ai presenti, ma la ragazza scrollò vivacemente la testa: da quando era stata trovata da Saga, Kitty non aveva mai lasciato l’appartamento. «Ebbene, il ventre della gattina è stato completamente rasato nella parte inferiore. Come se fosse stata preparata per un’operazione di sterilizzazione.»
A quell’ultima rivelazione, Cora sentì le gambe diventare molli e il pressante bisogno di sedersi. Chiuse gli occhi e fece qualche respiro profondo per calmare la nausea che all’improvviso si era presentata. E poi, di nuovo provò delle fitte tremende al ventre.
«Stai bene?» le chiese Saga, vedendola così pallida, avvicinandosi a lei.
Cora annuì stancamente.
Nel congedarsi dai presenti, il veterinario chiamò il suo tirocinante – che stava sfacchinando nell’ennesimo turno di notte – ordinandogli di portare ai proprietari la gattina.

*****

«Sono quasi le cinque. Cosa facciamo, ora?» chiese Aiolos, esibendosi in un lungo e rumoroso sbadiglio, completando lo spettacolo con uno stiracchiamento generale. Si girò distrattamente verso l'altro per capire quali fossero le sue intenzioni.
«Andiamo a riposare», disse Saga, passandosi una mano sugli occhi stanchi e arrossati, coprendosi subito dopo la bocca per nascondere lo sbadiglio che anch'egli fece, condizionato da Aiolos. L’altra mano stringeva quella di Cora che camminava silenziosa e a testa bassa accanto a lui, portando in braccio il piccolo fagotto con Kitty.
«D’accordo, allora si torna a casa, alla villa», approvò, prendendo dalla tasca del cappotto la chiave e rigirandosela nella mano un paio di volte, prima di azionare il comando di apertura a distanza.
«No, preferisco andare da un’altra parte. Te la senti di guidare ancora?» disse Saga.
«E perché, guideresti tu altrimenti?» ribatté l’altro, con una punta di acidità nella voce, osservandolo con la coda dell’occhio.
Se ne pentì subito del tono che aveva usato. Forse ci aveva fatto troppo l’abitudine a trattarlo in quella maniera e ora gli veniva tristemente naturale. Eppure, c’era ancora la speranza di ritrovare quel rapporto complice e solidale che avevano da ragazzi. Quei momenti in auto, nel tardo pomeriggio, ne erano la dimostrazione.
Saga non replicò alla nuova provocazione, ben conscio che Aiolos aveva ragione: lui non era stato in grado di guidare all’andata, figurarsi se lo sarebbe stato in quel momento, ancor più stanco e distratto.
Aiolos lo osservò aprire la portiera e far accomodare la ragazza, sul sedile posteriore, fare il giro e aprire quella dal lato passeggiero. Per pochi istanti si illuse che prendesse posto davanti, invece Saga si limitò a impostare il nuovo indirizzo sul navigatore e si spostò dietro, accanto a Cora.
«L’autista prende servizio…» mormorò ironico, salendo in auto.
Sogghignò nel leggere la nuova destinazione. Senza perdere tempo avviò il motore e, con tutta tranquillità, si immise sulla strada. A quell’ora della mattina il traffico era ancora pressoché inesistente, non ci avrebbero messo molto ad arrivare al negozio abbandonato.
Di tanto in tanto dava uno sguardo allo specchietto retrovisore, aggiustandolo meglio per poter osservare i due passeggeri: Cora era appoggiata con la testa alla spalla di Saga e il fagotto era posato pigramente sulle sue gambe. La mano stretta a quella del ragazzo che non avrebbe più lasciato fino a destinazione. Anche Saga si era concesso una posizione più rilassata, con la testa a sua volta appoggiata al capo della ragazza, ma quell’espressione pensosa, mentre guardava fuori dal finestrino opposto, non l’aveva abbandonato.
«Fine della corsa, signori. Siamo arrivati!»
Dopo aver terminato le manovre di parcheggio, Aiolos si voltò indietro con un sorriso esausto sul volto, che subito gli morì sulle labbra nel vedere Saga ancora più rattristato, quasi rassegnato a qualcosa di inevitabile.
«Mi sono addormentata di nuovo», mormorò Cora, ridestata da una carezza del ragazzo, raddrizzandosi e stropicciandosi gli occhi con la mano.
Alzò lo sguardo per cercare quello di lui, ma non incontrò il suo solito viso sereno; Saga le stava già dando le spalle mentre scendeva dall'auto. Provò una strana sensazione, che durò giusto un attimo, perché subito Saga le porse la mano per aiutarla a scendere, a sua volta; ma era stata sufficiente affinché ci rimanesse male. Di fronte al portone d’ingresso, Saga le chiese le chiavi – che lui nella fretta di raggiungerla aveva dimenticato di prendere – aprendo e lasciando strada perché sia lei che Aiolos potessero entrare.
In fila indiana iniziarono a salire i gradini delle scale che portavano all’appartamento: Cora camminava avanti a tutti e subito dietro seguiva Aiolos.
Saga invece, che avrebbe dovuto chiudere la fila, si era attardato al primo gradino, attirato da uno strano refolo d’aria fredda che gli aveva solleticato il volto. Poco dopo, gli parve di sentire un sommesso rumore di cocci e lo sbattere della porta sul retro, quella che dava l’accesso al cortile interno. Quella porta aveva sempre avuto un leggero difetto e anche se ben chiusa a chiave, tendeva un pochino a muoversi: un problema che si presentava soprattutto nelle giornate particolarmente ventose. Quella mattina presto però, non c’era affatto vento, non abbastanza almeno da giustificare tali rumori.
Si diresse alla vecchia porta di metallo e trovò il vetro della finestrella quasi completamente in frantumi, ma con ancora alcuni pezzi rimasti precariamente attaccati alla cornice grazie a uno spesso strato di mastice, benché ormai secco e pieno di crepe. Dondolavano mossi dai brevi movimenti che produceva la porta appena socchiusa. Si avvicinò per verificarne lo stato, aprendola e chiudendola un paio di volte, provocando così la caduta di altri frammenti. Nonostante quel danno evidente, tutto sembrava funzionare come al solito. Era troppo tardi per controllare con maggiore accuratezza e lui era decisamente stanco. Senza perdere ulteriore tempo, decise di richiuderla a chiave – così com’era sempre stata – ma nei suoi tentativi di girare fino in fondo la chiave nella toppa, questa si bloccava ogni volta, facendo resistenza. Dopo un altro paio di tentativi infruttuosi desistì, anche per non aggiungere danno a danno, rimandando quel problema di qualche ora. Raggiunse gli altri sul pianerottolo ed entrarono.

La casa era rimasta esattamente come l’aveva lasciata Cora quando era uscita di corsa, con l’ingresso e le stanze adiacenti al buio e l’unica luce accesa nella camera da letto dalla quale si poteva vedere il letto sfatto e il pigiama buttato per terra.
Quando Cora accese la luce nell’ingresso furono visibili agli occhi di tutti alcune piccole tracce di saliva secca che indicavano dov’era stata trovata Kitty. Senza fare gli onori di casa, corse subito nella sua camera portando con sé la gattina, sempre avvolta nella sciarpa e ancora pesantemente addormentata. Saga trovò a malapena la forza di togliersi il cappotto e sistemarlo sull’appendiabiti. Senza dire nulla entrò in cucina e si servì un bicchiere d’acqua che bevve tutto d’un fiato. Lo riempì di nuovo e lo portò con sé, ritornando per un momento nell’ingresso dove Aiolos, nel frattempo, si stava guardando attorno curioso.
«Vieni, da questa parte c’è una camera da letto dove potrai riposare», gli disse, facendogli strada fino alla stanza attigua alla camera da letto padronale che occupava Cora.
Aiolos vi si affacciò per dare un’occhiata: la stanza sembrava avere un’aria d’altri tempi e anche l’odore che si respirava – e che impregnava i mobili antichi – dava l’idea di un passato stantio.
«No, grazie. Mi prendo il divano, se non ti spiace», disse, mentre tornava verso l’ingresso. Non poteva certo dirgli che preferiva stare il più lontano possibile da loro due, nel caso avessero deciso di “dormire” insieme.
«Il divano è di là», disse, indicandoglielo con un movimento del braccio. «Per qualsiasi cosa dovessi aver bisogno, sentiti libero di fare come se fossi a casa tua.» Poi, entrò nella camera da letto di Cora.
Ora che la situazione iniziava a tornare un poco alla normalità, Saga sentiva scivolare via da sé l’effetto dell’adrenalina che lo aveva tenuto in piedi fino a quel momento. Al tempo stesso, avvertiva gravargli addosso tutto il peso della mancanza di sonno e lo stress di quella lunga giornata. Rimase per qualche secondo a osservare Cora, seduta sul letto a gambe incrociate, che accarezzava dolcemente il pelo lucido della gattina. Lentamente si chiuse la porta alle spalle, lasciando però un piccolo spiraglio. Si avvicinò al comodino e vi appoggiò il bicchiere.
Si sedette sul bordo del letto e notò come lei, in quel momento, si fosse irrigidita, scostandosi un poco da lui, aveva persino smesso di coccolare Kitty.
«C’è qualcos'altro che ti preoccupa?» le chiese con tono gentile, sfiorandole una ciocca di capelli.
Cora scrollò la testa, ma non fu affatto convincente. Era palese che qualcosa la turbava, così come era evidente agli occhi di Saga che lei non se la sentiva di parlare.
«Solo…» La ragazza si morse il labbro e, raccogliendo le ginocchia al petto, vi appoggiò la fronte. «Mi vergogno per quello che è successo e di come mi sono comportata. Ho dato l’impressione di essere una sciocca isterica; una sprovveduta che si fa sopraffare dalla sua stessa ombra.»
«Hai avuto una reazione più che normale in quella circostanza», la rassicurò lui. L'attirò a sé e l'abbracciò. «Ora è tutto passato. Puoi stare tranquilla. E poi…» continuò, sorridendole, «ora siamo di nuovo assieme», le sussurrò.
Si staccò un momento da lei e la guardò, rasserenandosi nel vederla un poco più rilassata, mentre tornava a giocare con la gattina.
A fatica soffocò uno sbadiglio. La stanchezza che provava si stava facendo ancora più pesante. Tentò di allontanarsi dal letto, ma si sentì tirate da dietro: con un dito Cora si era agganciata a uno dei passanti per la cintura dei jeans.
«Resta qui con me», supplicò lei, tenendo lo sguardo basso.
«Non me ne sto andando, voglio solo fare il giro del letto e mettermi dall’altra parte», le rispose Saga con un sorriso.
Cora scrollò di nuovo la testa. «Sali da qui.»
«Da qui?» si stupì lui. «Allora fatti un po’ più in là.»
Anche questa volta ci fu un diniego da parte di lei.
«E allora come faccio?»
Sbuffò sommessamente, portandosi le mani sui fianchi: a quel punto l’unica soluzione fattibile era quella di scavalcarla. Si chinò in avanti, appoggiandosi con le mani al materasso e, facendo attenzione, mettendo un ginocchio sul materasso, salì sul letto. Non si sentiva molto a suo agio in quella posizione: stava praticamente gattonando sul letto. All’improvviso sentì le mani di Cora accarezzargli il viso, catturarlo e alzarlo verso di lei. I loro occhi erano vicinissimi, così come i loro nasi e le loro bocche. Cora gli diede un bacio leggero, accarezzandogli ancora una volta il viso e sussurrando piano un “grazie” che lo fece sentire appagato.
Pian piano, proprio come aveva detto il veterinario, la bestiola iniziò a recuperare la sua vitalità. Anche se ancora le movenze e i riflessi non erano rapidi e scattanti, rispondeva con più interesse ai movimenti del dito che Cora le agitava davanti al musetto, tentando di colpirlo con la zampina.
«Hai visto? Finalmente si sta riprendendo», esclamò Cora, girandosi verso Saga, tutta entusiasta per quei piccoli progressi.
Lo trovò già addormentato, con la testa appoggiata sulla mano chiusa a pugno e il gomito affondato nel cuscino. Non resistette e gli diede una carezza sul volto dolcemente rilassato. Con molta cautela, senza svegliarlo, lo aiutò a cambiare posizione per prenderne una più comoda e tirò le coperte fino alle sue spalle. Con la punta delle dita gli scostò i capelli dalla fronte e vi posò un bacio. Era così bello vederlo dormire. Sentiva il suo cuore più leggero, perché lui era lì con lei.
Spostò la gattina sul cuscino e si accoccolò vicino a Saga, appoggiandosi piano con la schiena al suo petto, chiudendo anche lei gli occhi. In quel momento si sentiva protetta.
«Sei rimasta la mia unica certezza», mormorò Saga, avvolgendola nella coperta e cingendole la vita in un abbraccio.

*****

Dallo spiraglio lasciato aperto Aiolos aveva assistito a quello sdolcinato siparietto, osservando con insofferenza come entrambi i giovani avessero ritrovato complicità e affetto. Senza fare troppo rumore uscì dall’appartamento e si sedette sui primi gradini della rampa di scale, per riflettere. In mano stringeva il cellulare. Compose il numero di casa Hayes. Stava per confermare la chiamata quando si bloccò, ricordandosi solo in quel momento dell’orario decisamente poco consono per una telefonata del genere. Dal piano terra arrivavano i primi chiarori dell’alba. Preferì allora una più comoda e discreta e-mail indirizzandola a Shura, nella quale spiegava la situazione, ma senza scendere troppo nei particolari. Ci avrebbe pensato l’uomo a rassicurare gli altri che tutto andava bene.
Si stiracchiò pigramente e scese al piano terra, dove trovò quella che presumibilmente era la porta interna che conduceva al negozio dove aveva visto entrare Saga il pomeriggio precedente. Provò ad aprirla ma era chiusa a chiave. Allora andò alla porta di servizio danneggiata, dalla quale stava entrando l’aria fresca del mattino. Raccolse da terra uno dei cocci e se lo rigirò nella mano esaminadolo con cura, accigliandosi nel constatare che era un vetro spesso e resistente. Lo lasciò cadere quasi con svogliatezza e trovò conferma ai suoi sospetti. Un altro particolare catturò la sua attenzione: quella porta sembrava sì vecchia, almeno quanto l’immobile – e non era quindi così strano che fosse anche un po’ malconcia – ma era evidente che quei segni così marcati, quelle graffiature vicine alla serratura, non erano dovuti al passare degli anni, ma a un’azione ben diversa.
Aprì la porta e si affacciò all'esterno, sul cortile, dando un'occhiata: era un banalissimo cortile interno che serviva diverse palazzine, uno spiazzo cementato abbastanza grande per permettere il parcheggio di una decina di auto e per fare manovra. Vicino a uno dei muri c’erano dei grandi cassonetti per la spazzatura, arrugginiti e ammaccati, accanto a un muro erano invece stati abbandonati rottami di vario genere. Tutto sembrava nella norma. Poco prima di decidersi a rientrare, Aiolos intravide una persona appoggiata al muro di fronte, vicino a un’altra porta di servizio, che sembrava lo stesse fissando con insistenza.
Lo sconosciuto si toccò il cappello in un gesto di saluto e si dileguò dietro una porta metallica.
Aiolos rimase perplesso per qualche secondo. Poi, si mise la mano in tasca per prendere nuovamente il cellulare e scattò qualche foto, sia all’interno che all’esterno; e questa volta, senza farsi alcuno scrupolo per l’ora, chiamò il padre. Sapeva che quel giorno era di turno in caserma. Con tono molto formale gli chiese di passare da quelle parti non appena gli fosse stato possibile.
Infine, tornò in casa. La sonnolenza che si era insinuata in lui fino a un attimo prima, nonostante il tempo che aveva impiegato nel fare il detective principiante, era ormai scomparsa, lasciando posto alla noia. Essere l’unico sveglio in una casa completamente estranea non era la migliore delle situazioni. Si mise a curiosare qua e là, giusto per passare il tempo, in attesa della colazione, ma non c'era nulla che riusciva a interessarlo. Saga non gli aveva fatto fare il giro della casa, ma Aiolia, qualche giorno prima, gli aveva parlato di un certo tipo di materiale che Cora teneva in una delle stanze da letto. Visto che era lì, e cnsiderato che non aveva di meglio da fare, perché non approfittarne?
Magari avrebbe trovato qualche altro quadernetto o dell'altro materiale per approfondire la storia di Anthony.
La cameretta era proprio di fronte a quella che Saga gli aveva mostrato in  precedenza. Non appena aprì la porta, notò che era arredata per una bambina e riadattata per altri scopi. Era proprio come gliel'aveva descritta Aiolia, con il computer sulla scrivania e gli altri oggetti – che aveva visto nel bilocale – sistemati un po' ovunque. Annuì, socchiudendo la porta e allontanandosi da lì.
Entrò in cucina e si mise a frugare negli armadietti e nel frigorifero; il sonno latitava, ma lo stomaco era ben presente e iniziava a reclamare. Dall’armadietto angolare prese una confezione di merendine. Di caffè non c’era traccia, ma nel frigorifero c’era del succo di frutta.
Dopo aver fatto il pieno, tornò nella cameretta.



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Capitolo 22
*** Capitolo XXI ***





XXI



«Buongiorno, Kanon», salutò Shura, posando la tazza di caffè sul tavolo; ricevendo invece dal giovane un gemito straziato come risposta.
«Buon…» tentò Kanon, in uno sbadiglio, appoggiato stancamente con la spalla allo stipite della porta, mentre con le mani faceva dei lenti movimenti circolari sulle tempie per lenire il mal di testa. «Ma chi voglio prendere in giro, la giornata è già iniziata da schifo…» bofonchiò.
Pallido in volto, arrancò fino alla caraffa del caffè, che vedeva come una cura miracolosa a quell’emicrania devastante che gli stava facendo scoppiare la testa.
«Sei uno straccio. Anche tu hai passato una nottataccia?» domandò Shura, seguendolo con lo sguardo.
«Sssssht… per carità, non urlare», fece l’altro, piegandosi sul piano di lavoro, incrociando le braccia e posandovi la fronte, sbuffando e gemendo.
A tentoni prese dal pensile una tazza, portandosela alla fronte: la ceramica fredda gli diede un breve ma immediato sollievo. Poi, la riempì fino a farla traboccare di caffè nero ancora fumante. Ne inspirò a lungo l’aroma e sospirò di beatitudine, prima di concedersi un bel sorso rigenerante.
«Ci voleva proprio!» esclamò, facendo seguire altri sorsi altrettanto lunghi, svuotandola in pochi secondi. Se ne servì una seconda e si girò verso l’altro, appoggiandosi in modo rilassato al piano di lavoro. Di colpo il suo viso sembrava essere tornato fresco e pimpante. «Che brutta faccia che ti ritrovi», gli disse, sogghignando e prendendo l’ennesimo sorso di caffè. «Hai due occhi che sembrano quelli di un pugile! Hai fatto a botte con qualcuno, oppure la serata è stata più movimentata del dovuto?»
«Non farei tanto lo spiritoso, se fossi in te», ribatté Shura, riprendendo in mano il quotidiano e dandogli un colpetto deciso per raddrizzare le pagine.
Con la coda dell’occhio seguì con divertimento i movimenti del ragazzo che nel frattempo si era seduto al tavolo con una fetta di pane tostato che gli pendeva dalla bocca, l’altra mano invece era occupata dal barattolo di burro di arachidi.
«Ho saputo che anche tu ci hai dato dentro con i divertimenti. Ti sei scolato la riserva speciale di tuo padre o sbaglio?» continuò, passando all’inserto sportivo.
«Le voci circolano alla svelta, in questa casa», disse Kanon, accennando un sorriso pieno di soddisfazione, prendendo il coltellino da burro e usandolo per spalmare la crema ambrata sulla fetta di pane. «Ma non ero da solo, mio caro!» Completata l’opera, diede un bel morso, sporcandosi gli angoli della bocca.
«Mmh… che delizia», mugulò con la bocca piena, pronto a replicare.
«Beh, se non sei ancora stato esiliato da questa casa, né disconosciuto dalla famiglia, devo immaginare che sia stata la tua notte fortunata, considerato quanto tuo padre tenesse a quel liquore», scherzò Shura, abbandonando la sua lettura e appoggiandosi allo schienale della sedia per osservare meglio il ragazzo.
«Dipende dai punti di vista. A essere sincero non mi sento poi così fortunato», sbuffò annoiato. «Anche se bere in compagnia di Saga è stato un evento eccezionale che meritava qualcosa di davvero speciale! Mmmmh... Non ricordo più quando è stata l’ultima volta che l’abbiamo fatto.»
«Ora come ora, mi sa che neanche ti ricordi come ti chiami», sogghignò Shura.
«E comunque, come punizione direi che questo mal di testa è più che sufficiente. Tanto più che…» controllò rapidamente l’ora e con evidente fastidio notò che aveva appena una mezz’ora di tempo prima del suo appuntamento, «fra poco dovrò passare al Country Club. Oh, mamma…» si lamentò, lasciandosi andare a una smorfia quasi di disgusto, perdendo quel poco di buonumore che gli era rimasto dopo la sveglia della mattina. Si portò entrambe le mani alla testa mugugnando qualcosa per un improvviso giramento. «Non credevo che quella roba potesse essere così forte, andava giù così liscia che sembrava acqua.»
Si appoggiò con la fronte sul tavolo, fiacco, respirando piano.
«Piuttosto…» Shura arrotolò il giornale e lo colpì piano la testa, «è successo qualcosa di particolare ieri sera?»
«Di che tipo?» chiese dall’oltretomba l’altro.
«Non lo so, qualcosa di strano, o di inusuale.»
Kanon ci rimuginò su per qualche secondo, poi alzò lentamente la testa e allungò la mano a rubare un biscotto al cioccolato dal piatto di servizio posto in mezzo alla tavola. «Qualcosa di strano…»
«Ma sì, con tuo fratello», lo imbeccò Shura.
«Non mi pare. Più che altro direi nella norma di questo ultimo periodo», disse Kanon, masticando rumorosamente il biscotto e mandandolo giù con un altro bel sorso di caffè. «Se non consideriamo che Saga sembra aver rispolverato quella sua vecchia paranoia… e se non contiamo che ha una nuova ragazza e quindi ha la testa fra le nuvole… direi di no!» disse, tutto soddisfatto, pescando un altro biscotto.
Allo sguardo interrogativo di Shura rispose con un ghigno. Poi, visto che era in vena di fare follie, riprese il barattolo del burro di arachidi e ne spalmò una generosa quantità sul biscotto, mangiandolo con gusto.
«Non penso che questa sia il suo tipo, però», aggiunse, leccando il coltellino e chiudendo il barattolo. «È simpatica e alla mano, forse un po' troppo timida, almeno per quel che ho potuto constatare di persona, ma sono convinto che non durerà a lungo. Sai com’è fatto lui, no? Il suo problema è che quando gli piace qualcuna, poi diventa troppo zuccheroso! Se glielo fai notare, lui lo nega, ma neanche se ne accorge che è proprio così! Sai, le donne trovano il suo modo di fare molto lusinghiero; lui però esagera a ricoprirle di attenzioni e loro se ne approfittano. Oh, il mio povero fratellino ingenuo», piagnucolò. «E poi, come ogni volta, papà diventa apprensivo. E sai chi è che deve sorbirsi le “sue” di paranoie?»
«Io!» rispose Shura, sghignazzando.
«Devo ammettere però che non mi ha dato l'impressione di una che avanzi pretese da principessina e Saga sembra fare veramente sul serio questa volta», terminò, addolcendo la voce e accennando un sorriso.
Kanon fece un gran sospiro e terminò il suo caffè. Ora si sentiva decisamente meglio e anche i postumi della sbornia erano poco più di un fastidio appena percettibile.
«E tu, sei innamorato di qualcuna?» chiese Shura, avvicinandogli il piatto dei biscotti per invogliarlo a parlare ancora.
«Io non sono così stupido da sbandierare i miei fatti personali», ribatté il giovane, guardandolo negli occhi, spostando a sua volta il piatto, per riportarlo al centro del tavolo. «A te invece, come stanno andando le faccende di cuore, in questo periodo?»
Shura rispose con una specie di grugnito, tornando a prestare attenzione al giornale: proprio come Kanon, neanche lui amava parlare della sua vita privata, men che meno di quella amorosa.
«A proposito, sono le dieci passate e non c’è anima viva in casa», commentò Kanon, alzandosi per andare di nuovo alla macchina del caffè. «Prima sono passato dalla camera di Saga, pensando di trovarlo ancora addormentato, ma il suo letto era a malapena in disordine. Ho come la vaga sensazione che questa notte sia venuto da me per chiedermi qualcosa…»
«Te lo sei perso un’altra volta?» gli domandò l’altro, con un pizzico di sarcasmo nella voce, alzandosi e avvicinandosi anche lui per prendere un altro po’ di caffè. «Hai mai considerato di attaccargli un bel guinzaglio al collo o fargli impiantare un microchip sotto la cute?»
«Come si fa con i cani? Non mi tentare», sghignazzò Kanon, rabboccando la tazza di Shura.
«Che impegni hai al Country Club?»
«Le solite “pubbliche relazioni” con quei giapponesi. Sembra quasi che mi debba sposare con tutta la tribù, anziché solo con quella ragazza», rispose il giovane, cambiando repentinamente di umore, tornando a uno più scocciato. «Ora credo proprio che mi tocchi andare.»
Shura allungò una mano e con la punta del pollice gli sfiorò l’angolo della bocca, pulendola da una briciola di biscotto.
«Certe volte pare che tu sia rimasto un bambinone.»
«E a te invece piace fare la mammina premurosa.»
Un leggero sussulto di sorpresa arrivò da dietro le spalle di Kanon e li fece voltare entrambi verso la porta della cucina, dove si erano fermati Shion Hayes e la giovane Saori. L'uomo fulminò con lo sguardo Shura, colpevole di essere stato beccato con la mano sul viso del giovane.
«Buongiorno, papà!» salutò con un sorriso Kanon, completamente a suo agio in quella situazione. «Buongiorno anche a te, miss.»
«Potresti per cortesia chiamarla col suo nome, Kanon?» lo rimproverò l'uomo.
«Hai ragione, sono stato sgarbato. Buongiorno, Saori», ripeté il saluto, in modo più cortese e con voce dolce, facendola arrossire. «Non avevamo appuntamento al Country Club?»
La ragazza abbassò lo sguardo e annuì, tormentando il manico della piccola borsetta coordinata al leggero vestito in seta dai colori pastello che indossava quella mattina.
«Beh, ora che sei qui, che ne dici di fare una passeggiata? Il parco della villa è molto ampio e in questo periodo dell’anno dà il meglio di sé.» Si avvicinò alla ragazza e le prese la mano. «Ci vediamo più tardi per sistemare quella faccenda, Shura. Il microchip non è affatto un’idea malvagia!» ridacchiò, salutando l’altro con un gesto della mano, prima di uscire dalla cucina in buona compagnia.

Dalla sera precedente, l’umore di Shion era mutato, ma in peggio. Se poche ore prima era gravato da preoccupazioni e timori per il pericolo di perdere le persone che più amava, quella mattina la sua testa era piena quasi esclusivamente di pensieri per ciò che aveva scoperto per puro caso.
«Saga e Aiolos non sono ancora rientrati», esordì Shura, con voce calma, seppur non senza un pizzico di incertezza. Com’era intuibile, l’altro non gli rivolse la parola. Lo vide avvicinarsi, prendere una tazza dal pensile e servirsi del caffè. «Te ne faccio ancora un po’», si offrì Shura: fra lui e Kanon ne avevano lasciato ben poco agli altri.
«Non importa», rispose Shion, in tono roco e severo. Dal frigorifero prese del latte e lo versò nella tazza.
«Ho ricevuto un'e-mail da Aiolos, questa mattina presto. Non ti devi preoccupare, ha scritto che Saga sta bene e che probabilmente staranno fuori per tutta la giornata, o comunque, fintanto che Saga non se la sentirà di tornare.»
Shion si limitò ad annuire distrattamente, sedendosi al tavolo. Avvicinò a sé il quotidiano e iniziò a sfogliarlo, prendendo di tanto in tanto un sorso dalla tazza.
«Da quanto tempo va avanti questa storia?» domandò, senza staccare lo sguardo dalla lettura.
«Come?»
Nascosto dietro il giornale, il capofamiglia Hayes scrollò la testa.
Shura non era uno stupido, anche se, con quella sua risposta, era cosciente di aver commesso un errore ingenuo. Sospirò e si mise a preparare dell’altro caffè. Alle sue orecchie arrivò il rumore stizzito della carta che veniva maltrattata mentre l’altro girava la pagina.
«Quando abbiamo iniziato…» provò a spiegare. «Aiolos era già maggiorenne. Lo so cosa stai pensando: che l’ho visto nascere, che l’ho visto crescere, che sono stato presente in ogni fase della sua vita.» Shura sospirò di nuovo. «Non devo certo giustificarmi con te, né con nessun altro, ma se ti può consolare, non l’ho traviato.»
Ebbe la sensazione di parlare al vento, o forse di convincere se stesso della bontà del proprio comportamento, nonostante tutto; eppure sentiva perfettamente la presenza di Shion, lì in cucina con lui, farsi sempre più ingombrante e pesante.
«Ora ci stai provando anche con Kanon?»
«Era un gesto innocente. Non puoi pensare davvero che potrei toccare uno dei gemelli.»
«Con Aiolos non hai avuto alcun problema», gli rinfacciò l'uomo.
«È stato lui a dichiararsi. E io… sapevo che non era giusto. Ho aspettato quasi due anni, sperando che la sua fosse solo un’infatuazione. Ero sicuro che fosse confuso nella sua sessualità, ma il ragazzo era determinato e alla fine me ne sono innamorato», si giustificò Shura, dando la schiena a Shion e appoggiando entrambe le mani al piano di lavoro.
«Lo sapevi bene che quei ragazzi erano intoccabili.»
Dopo quella lapidaria affermazione di Shion Hayes si sentì il rumore della sedia trascinata indietro e i passi dell’uomo allontanarsi dalla cucina.

*****

Con il suo piccolo e umido tartufo nero, allungandosi più che poteva, stava annusando la punta dell’indice di quella mano che penzolava fuori dal divano, appena un poco. D’improvviso, come distratta da qualcosa, si girò per osservare tutto attorno a sé. I suoi occhi erano attenti e le orecchie tese a captare ogni rumore, ogni possibile pericolo. Fece un giro su se stessa, un rapido movimento della lingua e tornò a fissare la sua preda, allungandosi nuovamente sotto di lei. Seduta sul parquet, con le zampe posteriori piegate e la codina sdraiata sul legno lucido – dritta come un fuso – agitò una zampina in aria, per cercare di toccare quel dito: le sue sottili unghiette, candide e dolcemente affilate, ben visibili.
Ci fu un leggero scarto della mano e un mugugno impercettibile, che mise in allarme la piccola, facendola bloccare come una statuina; poi, tutto tornò tranquillo.
Tentò ancora con la sua zampina, sfiorandola appena e fermandosi; poco dopo, provò di nuovo, riuscendoci una seconda volta, un po’ più forte. Anche questa volta ci fu una reazione da parte della sua preda. La gattina rimase a fissarla con gli occhi spalancati, le pupille belle tonde e completamente dilatate, per la penombra nella stanza, piegando la piccola testa nera di lato. Ancora una volta riprese a stuzzicare quella mano; e ancora, ancora, ancora, sempre più incalzante, senza mai staccare il sedere da terra. Più quella mano faceva movimenti impercettibili, più lei la fissava con occhi curiosi e acuti, più aveva voglia di continuare quel gioco. Un rapido movimento della sua piccola lingua rosa, a inumidire il tartufo, e nuovamente puntò la sua attenzione su qualcosa che solo lei pareva percepire; rapida si acquattò sotto il divano.
Tutto era tranquillo nella stanza. Eppure…
Passi lievi, silenziosi, sul vecchio parquet, si avvicinavano senza fretta.
«Kitty, c’è la pappa!» sussurrò Cora, camminando leggermente chinata, passando dietro il divano. Faceva strusciare a terra, agitandolo un poco, il piumino colorato della gattina per catturarne l’attenzione.
L’aria nel salotto si stava riempiendo dell’aroma di caffè, di pane tostato e uova strapazzate che arrivava dalla cucina.
«Kitty! Guarda che ti ho vista. Esci fuori!» insistette, ma senza alcun risultato.
Non poteva alzare di più la voce, altrimenti avrebbe corso il rischio di svegliare Aiolos che dormiva sul divano; e non sarebbe stato bello farsi vedere con in dosso solo una vecchia felpa e le mutandine. Non poteva nemmeno andare troppo avanti e indietro per la stanza, per cercare quella palletta di pelo, perché il risultato sarebbe potuto essere il medesimo. Sbuffò stancamente, nascondendo uno sbadiglio, lasciando poi che il suo sguardo si posasse su quell’ospite scomodo.
«Sembri persino carino, quando dormi», commentò con un filo di voce. «Peccato che invece quando sei sveglio sei uno…» Preferì trattenersi e fare un respiro profondo, piuttosto che terminare la sua considerazione.
Subito dopo tornò a prestare attenzione a quella che era la sua priorità: cercare la piccola birbante prima che potesse combinare qualche guaio; era in casa da troppo poco tempo e ancora non si era abituata né alla cassettina, né alla lettiera, per fare i suoi bisognini.
«Kitty», bisbigliò un’ultima volta. Dopo qualche minuto, passato a frugare con gli occhi dappertutto nel salotto, arrivando anche a guardare dietro le tende, facendo però sempre attenzione ad Aiolos, sospirò e si arrese. Era ormai evidente che la gattina non voleva farsi trovare da lei, quindi tornò alla svelta in cucina.
La piccola peste sbucò fuori dal suo nascondiglio. Continuò a rimanere circospetta, allungando il musetto nero sul parquet, osservando in direzione della cucina. Poi, girò la testolina di scatto e uscì completamente da sotto il divano, puntando lei, ancora lei: quella mano che tanto la stava facendo ammattire e che era diventata la sua ossessione. Uno slancio agile, allungando il suo corpicino fine e delicato, e finalmente riuscì ad addentare uno dei polpastrelli, provocando però a malapena un po’ di solletico, ricadendo infine a terra goffamente: era ancora troppo piccola per poter fare danni maggiori.
«Mmh…» mugugnò Aiolos, girandosi un poco di fianco e portando la mano sul petto.
Kitty rimase sul posto per qualche secondo, come stordita, dopo quell’atterraggio non proprio aggraziato. Non era la prima volta che mostrava le sue scarse doti feline; ma, ciò nonostante, niente l’aveva fermata dal continuare a mettersi in quelle situazioni. Drizzò le orecchie, scattando in piedi e tendendo subito il corpo verso la cucina. Per una frazione di secondo, l’orecchio destro si mosse un poco, dopo aver sentito ancora qualche leggero lamento provenire dal divano, ma ormai aveva perso interesse per quel gioco. Puntò la sua attenzione su un punto particolare e corse verso la cucina, da dove sentiva arrivare l’invitante rumore dei croccantini agitati nella scatola dalla sua padrona.
«Eccoti qui, finalmente!» disse Cora, vedendo comparire quella piccola ombra nera, mentre versava la porzione di croccantini nella ciotola. Nel privato della cucina, la voce della ragazza era più spontanea e rilassata. «Non devi giocare con quello là; non sai cosa ti potrebbe succedere», la sgridò, stuzzicandola con il dito sulla codina, approfittando di quel momento di calma e docilità di Kitty: la piccola infatti era tutta impegnata ad allungarsi per annusare il contenuto della ciotola. Poi, una volta che la vide iniziare a mangiare, pensando che tutto stesse procedendo per il meglio, le accarezzò piano la schiena.
A quel contatto però, Kitty fece uno scatto di lato, finendo con una zampina nella ciotola dell’acqua lì vicina e rovesciandone fuori un po’, fissandola con gli occhi sgranati. C’era uno strano rapporto di diffidenza fra le due. Rimasero a sfidarsi per diversi secondi: Cora accovacciata da un lato della ciotola, in una posizione ben poco “dignitosa”, e Kitty dall’altra parte, che agitava convulsamente la zampetta bagnata, schizzando gocce d'acqua dappertutto, senza distogliere un attimo lo sguardo da lei.
«Guarda che non sono mica infetto, né mi metto a picchiare gli animali, anche se questi mordono a tradimento», esordì Aiolos, appoggiato tranquillamente con la spalla a uno degli armadietti della cucina e con un mezzo sorriso di scherno sulle labbra. «Ma forse, a ben vedere, è da te che dovrebbe guardarsi.»
Cora si girò sorpresa nell’udire quella voce, Kitty invece sgattaiolò fuori, correndo senza fermarsi fino alla porta della camera da letto e intrufolandosi dentro.
«Non è educato arrivare alle spalle della gente.»
«Così come non è educato fare certi “apprezzamenti” quando la gente dorme. Anche se poi non vengono espressi apertamente…» ribatté l’altro, per nulla impressionato dallo sguardo della ragazza che nel frattempo si era rimessa in piedi.
Vedeva come si stava muovendo nervosa, tirava quella povera felpa verso il basso con la mano libera, cercando al tempo stesso di coprirsi anche con la scatola dei croccantini.
«Che c’è di buono per colazione?» chiese Aiolos, con tono decisamente sarcastico.
«Arrangiati con questi!» esclamò invece Cora, lanciandogli addosso la scatola di croccantini e correndo subito verso la porta della cucina.
La sua fuga venne bloccata dal ragazzo, che la trattenne con la forza per un braccio. Dati i loro precedenti, era palese che fra loro due non corresse buon sangue e anche questa occasione non faceva eccezione, tanto più che Aiolos era urtato dall’essere stato scaraventato senza volerlo in una situazione per lui fastidiosa.
«Non farmi passare per il bastardo della situazione», le disse, stringendo un poco la presa e guardandola intensamente, prima di lasciarla andare. Lei non gli piaceva e sentiva che dall’altra parte il sentimento era reciproco. «Eravamo tutti stanchi e per ragioni diverse anche sconvolti. Non era mia intenzione sminuire ciò che hai passato», provò a giustificarsi; vedeva però come le sue parole non riuscivano a convincere la ragazza.
Cora lo fissò negli occhi per qualche momento, ma non poté resistere a lungo allo sguardo serio del ragazzo. Iniziò a tormentarsi il labbro, il suo cuore prese a battere agitato e deboli fitte si facevano sentire allo stomaco. Negli ultimi anni mal sopportava la tensione e lo stress, in qualsiasi misura si presentassero, ancor meno poi dopo la terribile notte appena passata.
«Probabilmente non hai mai avuto animali domestici e per questo hai giudicato in modo superficiale. Sei scusato, ma non sei perdonato», rispose lei, accettando le scuse dell’altro, ma erano ben lontani da un chiarimento definitivo.
Aiolos la lasciò andare, allontanandosi da lei per occuparsi di qualcosa che, in quel momento, gli interessava di più. Si avvicinò ai fornelli e diede un’occhiata veloce, inspirando profondamente l'odore che sprigionava la padella ancora calda.
«Le uova sono troppo cotte, sono poche e… se volevi farle strapazzate come nelle ricette degli chef stellati, hai dimenticato di mettere il formaggio cremoso», le fece notare, senza molto tatto. «E poi non hai preparato il bacon», aggiunse.
«Non ce l’ho, non l’ho comprato.»
«Nessuno rimane senza bacon!» ribatté Aiolos, scandalizzato. «Non sei un vero americano se non hai del bacon!»
«Che vuoi che ti dica… evidentemente non sono una buona americana», fece spallucce, Cora.
Aiolos però notò come lei avesse fatto fatica a nascondere quanto in realtà si fosse risentita di un'affermazione che reputava innocua. In quel momento gli tornò in mente un accenno del passato della famiglia Miller che il vecchio vigile del fuoco gli aveva raccontato, ovvero che il nonno della ragazza riteneva lei e la madre delle “straniere”, nell’accezione negativa del termine. E chissà quante volte se l’erano sentito ripetere, più o meno apertamente. Si portò una mano al mento, rimuginando per qualche secondo.
«Anche dei mini hot dog andranno bene», le disse, pensando di rimediare.
«Bene. Allora esci e comprateli!» gli urlò Cora, già fin troppo esasperata dall’atteggiamento dell’altro, uscendo dalla cucina di corsa per rifugiarsi in camera da letto.
«Complimenti, idiota, hai fatto la frittata. E questa volta non puoi darle torto se è stata sgarbata. Fare lo spiritoso per stemperare la situazione non è proprio il tuo forte…» si rimproverò, passandosi una mano fra i capelli scompigliati.

Cora si appoggiò con la schiena alla porta chiusa della camera da letto. Aveva il fiatone, il cuore batteva forte nel petto che si alzava e abbassava ferocemente. Teneva la testa bassa e lo sguardo a terra. Nella stanza, in penombra, c’era silenzio.
«Cora?» la chiamò Saga, con voce impastata, tirandosi un pochino su, facendo cigolare il letto. «C’è qualcosa che non va?»
«Va tutto bene», rispose lei, sorridendo lievemente. «La colazione è pronta.»
Saga si passò una mano sugli occhi e si voltò verso la sveglia, che segnava le dieci e mezzo passate. Poi, si lasciò cadere di nuovo con la testa sul cuscino. «Non ne ho voglia», disse, girandosi sul fianco.
Da sotto una piega della coperta spuntò fuori Kitty che subito si arrampicò sul cuscino e, con il suo grazioso musetto, si avvicinò al viso del ragazzo. Con il suo giovane e morbido pelo accarezzava dolcemente la pelle di Saga, provocandogli un leggero solletico, affatto fastidioso. Insistendo in quelle coccole, la gattina gli sfiorò più volte le labbra con il tartufo umido, leccandole con qualche movimento rapido della lingua.
«Anche tu vuoi che mi alzi?» sussurrò alla piccola di casa, lisciandole il pelo della gorgiera, morbida e setosa, con un dito.
«Sì, anche lei vorrebbe che tu ti alzassi», rispose Cora per la gattina, sedendosi sul bordo del letto e accarezzando a sua volta il braccio del ragazzo.
Solo un'altra volta lo aveva visto dormire fino a tardi, ma glielo poteva concedere, visti i problemi che lei gli aveva causato. Anzi, era bello averlo lì con lei. Per più di un minuto rimase a rimirare la schiena di Saga, prima di accoccolarsi accanto a lui, mettendosi schiena contro schiena.
«A quest’ora il pane tostato sarà diventato gommoso e immangiabile», disse, provando a scuoterlo leggermente, senza ottenere alcuna reazione. «Le uova saranno fredde, o forse se le sarà mangiate tutte il tuo amico, anche se non ha fatto altro che lamentarsi di come le ho preparate», riprovò, rannicchiandosi ancora di più e sbuffando sommessamente.
«Non fa niente, non mi piacciono le uova.»
Cora gli diede un colpetto, ridacchiando al sospiro che sentì provenire da lui.
«Allora cosa preferiresti?»
«Vorrei…» iniziò Saga, riflettendo per qualche istante, mentre le dava ancora le spalle e continuava a giocare con Kitty, che sembrava gradire molto, «latte e cereali al cioccolato.»
«Ma…» Cora si tirò su di scatto, rimanendo a bocca aperta.
Con una mossa fulminea, Saga la ribaltò sul letto, facendole sfuggire un gridolino di sorpresa e bloccandola poi col peso del suo corpo. Sul suo viso c’era un sorriso meraviglioso che diceva quanta voglia avesse di giocare. Le diede un bacio leggero sulle labbra e le accarezzò una guancia, scostandole i capelli dal viso. Era così diverso da poche ore prima...
«Scommetto che vorresti anche la sorpresa nella scatola», disse lei, guardandolo con occhi languidi.
«Naturalmente.»
Poi, ci furono altri baci, teneri e appassionati, e la mano di Saga che lentamente scendeva a sfiorarle la coscia nuda in un romantico preliminare.
«Non davanti a lei…» mormorò Cora, con finto imbarazzo, ansimando per quelle carezze intime e i baci sul collo che le provocavano brividi di piacere. Con le mani però, stava già sbottonando i jeans del ragazzo.
«Non ti preoccupare, Kitty non è gelosa.»

*****

«Ora sei disposta a dirmi qual è il vero motivo per il quale hai preferito venire qui, anziché rimanere al Club con i tuoi familiari?» chiese Kanon; passeggiavano a braccetto sul prato ancora umido di rugiada di quella mattina di primavera.
Avvertì la mano di Saori stringersi per un attimo attorno al suo braccio, prima di rilassarsi nuovamente e tornare a essere il lieve ed elegante tocco che era stato fino a quel momento.
Dopo quella che poteva essere considerata una “fuga” frettolosa dalla cucina, sperando di trovare un po' di tranquillità, constatò a malincuore che la compagnia della sua ospite non stava affatto mutato la sensazione che aveva provato durante la colazione con Shura. E ora, ecco che accanto a lui c’era un’altra persona che pareva nascondere qualcosa. Infatti, lo strano comportamento della ragazza non era sfuggito ai suoi occhi. Per tutto il tempo della passeggiata, Saori gli diede l’impressione di essere nervosa e indecisa, più di quello che mostrava di solito quando era in sua compagnia.
Ciò che distoglieva l’attenzione della giovane dalle parole di Kanon – e non le faceva godere quella bella giornata e il parco lussureggiante che per molti aspetti le ricordava quello che circondava la villa che la sua famiglia possedeva a Nagano – era il pensiero di riuscire a sfuggire a una persona.
Kanon si fermò, lasciando che lei proseguisse di qualche passo. Sorrise malizioso nell'osservarla continuare a camminare, ma dentro di sé era seccato perché lei neanche se n'era accorta. Si mise le mani in tasca e fece vagare lo sguardo sull’immenso parco della villa, che arrivava addirittura sulle sponde del lago Mystic, perdendosi qualche secondo nei suoi pensieri. Anche lui, come tutti, aveva i suoi problemi e le sue preoccupazioni.
Piegò la bocca in un mezzo sorriso nell'avvertire d'un tratto su di sé gli occhi della giovane, ma forse chi lei stava guardando veramente era qualcun altro. Aveva notato già da tempo un'ombra che si nascondeva dietro agli alberi del boschetto lì vicino.
«Beh, è evidente che la mia compagnia non ti interessa, quindi io tolgo il disturbo. Se vuoi tornare al Country Club, senza essere vista da occhi indiscreti puoi prendere quel sentiero», disse, indicandoglielo con un cenno della testa. Poi, riprese a camminare, dirigendosi verso il pontile.
Saori sapeva dov'era il passaggio di cui parlava Kanon, era lo stesso che aveva usato quella mattina per arrivare alla villa, ciò che invece fissava era lo sguardo insistente di Seiya, che l'aveva tenuta d'occhio per tutto il tempo. Era sicura che fosse lì per riportarla indietro, proprio come faceva ogni volta che lei si allontanava troppo dal controllo della famiglia, nonostante i sentimenti che provava per lei.
Strinse la borsetta fra le mani, indecisa su cosa fare. Poi, si girò verso Kanon, osservando la sua schiena mentre si allontanava e lo seguì di corsa. «Ti prego, aspetta! Mi dispiace, non volevo essere così maleducata. Per favore...»
Saori inciampò su una piccola zolla leggermente sollevata, cadendo a terra in modo goffo, complici anche i sandali che calzava, con tacchi con la punta sottile – anche se non troppo alti – che non erano molto adatti su una superficie soffice come quel prato.
«Ti sei fatta male?» chiese Kanon, accorrendo e chinandosi su di lei.
Saori scrollò la testa, ma teneva lo sguardo basso, mentre si metteva a sedere, stringendo i pugni sulla gonna chiara che si era sporcata di erba. La sua borsetta era caduta poco più avanti.
«Non ti credo, altrimenti non avresti gli occhi pieni di lacrime», le disse, alzandole il mento.
Si raddrizzò e guardò nella direzione del giovane nipponico che in quel momento era uscito allo scoperto, pur rimanendo vicino al tronco. Lo fissò per diversi secondi, prima di fargli segno di avvicinarsi, ma quando vide che l'altro non era intenzionato a muoversi, fece spallucce.
«Ce la fai ad alzarti e a tornare alla villa?» le chiese, chinandosi di nuovo.
Non le diede il tempo di rispondere, le passò un braccio dietro la schiena e l’altro sotto le ginocchia e la sollevò da terra.
«Fammi scendere, riesco a camminare anche da sola!» protestò debolmente la giovane, arrossendo e stringendosi con la mano al maglione del ragazzo.
«Se lo sforzi adesso potrebbe gonfiarsi», le disse lui, in tono comprensivo, indicandole il ginocchio sbucciato. «Pensi che il tuo amico si unirà a noi?» Si volse di nuovo verso il boschetto e urlò al giovane. «Ehi, ragazzo, noi stiamo tornando in casa!» lo avvertì.

*****

«Santo cielo! Kanon! Cosa ti è successo?» esclamò Nanny, portandosi le mani al petto nel vedere il ragazzo uscire dal bagno del piano terra con il maglione imbrattato di sangue.
Kanon si fermò di colpo e la fissò con occhi sgranati. Si diede un’occhiata e sorrise.
«Questo dici? Non ti preoccupare, devo essermi sporcato quando ho riportato in braccio la nostra ospite. È caduta mentre facevamo una passeggiata», le raccontò, avvicinandosi a lei e dandole un bacio sulla guancia.
«Povera ragazza, si è fatta male?»
«Non troppo. L’ho fatta sedere sul divano del soggiorno. A proposito, dov’è la cassetta del pronto soccorso? Non riesco a trovarla.»
«La tengo in cucina, nel mobiletto sotto il lavello», rispose la donna. Nonostante le rassicurazioni di Kanon, non era del tutto convinta. Con le mani rugose iniziò a tastare con cura il petto del ragazzo per accertarsi delle sue condizioni.
«Guarda che io sono tutto intero», le ripeté, prendendole le mani. Poi, le passo un braccio sulle spalle ancora forti e la strinse a sé. «Dai, accompagnami in cucina.»
«Sai se si fermerà a pranzo?» chiese Nanny, cambiando argomento: visto l’approssimarsi del mezzogiorno, doveva organizzarsi.
Kanon corrugò la fronte, poiché non sapeva cosa risponderle; quando entrarono in cucina fu investito da un odorino davvero invitate. La cuoca Francine stava lavorando alacremente fra i fornelli e tutto l’ambiente era pervaso dal profumo della torta che stava già cuocendo in forno, mentre il piano di lavoro era pieno di ingredienti per le pietanze che aveva deciso di cucinare per pranzo.
Il ragazzo curiosò un po’, inspirando a lungo e tentando più volte di rubare qua e là qualcosa, riuscendo però solo a prendere un pezzetto di sedano.
«Cosa ci prepari di buono?» chiese alla cuoca.
Francine era una strana donna: ottima cuoca che probabilmente avrebbe fatto la fortuna di qualsiasi ristorante in cui avesse lavorato, ma era poco incline alla socializzazione; neppure dopo tutti gli anni che aveva passato in quella casa – ed erano ormai quattordici – riusciva ancora a dare confidenza ai membri maschi della famiglia Hayes. L’unica amica che aveva in quella casa era la governante, che preferiva chiamare mrs Foster, anziché Nanny come facevano tutti.
Alla domanda di Kanon la donna non rispose nulla, limitandosi a scoprire da sotto gli strati di carta assorbente un meraviglioso pezzo di filetto di manzo che aveva appena tolto dalla marinatura: emanava ancora un forte odore di vino.
«Brasato di manzo? Ho già acquolina in bocca!» disse, stupito e già ingolosito, alzando lo sguardo su Francine che invece reagì come sempre, ovvero girandosi dall'altra parte e continuando a lavorare. «Non ce l’ha con me, vero?» disse con un'espressione da cucciolo abbandonato, rivolgendosi alla sua Nanny.
«No, piccolo mio, non ce l’ha con te. Lo sai, è fatta così!» rispose lei, con un sorriso affettuoso. «E per dessert ha preparato qualcosa di speciale: la cheesecake newyorkese. È la tua preferita, vero?»
Kanon tornò a sorridere all'istante. «Si festeggia qualcosa di particolare?»
«L’altro giorno c’era qualcosa di speciale per tuo fratello, oggi invece tocca a te. Perché non faccio preferenze», gli disse con dolcezza, dandogli una carezza.
«Dimmi la verità: cosa c’è sotto?» chiese lui, diffidente, trafugando anche un pezzetto di carota, che sapeva di vino.
«Allora, la tua ragazza rimarrà a pranzo?» sviò la domanda Nanny.
«Penso che glielo chiederò. E già che ci siamo, fai preparare anche per un altro ospite. Ho la sensazione che presto se ne aggiungerà uno all’ultimo momento», le rispose lui, dandole un bacio.
Poi, sotto l'occhio vigile di Francine, recuperò la cassetta del pronto soccorso e prese un paio di bibite dal frigorifero, prima di uscire per raggiungere Saori in soggiorno.
«Ti sei dimenticato di prendere del ghiaccio!» lo richiamò Nanny, prendendo in fretta una manciata di cubetti dal freezer e mettendoli in una ciotola. «Se è caduta, ne avrà bisogno.»
«Sei insostituibile», disse lui, liberandola dalla ciotola e stringendola in un forte abbraccio.

«Eccomi di ritorno! Scusa se ti ho fatto attendere, ma non trovavo il disinfettante e i cerotti. Come va?» domandò a Saori, fermandosi proprio di fronte a lei, appoggiando ciò che aveva in mano sul tavolino.
La ragazza era seduta sul divano, ma con le gambe distese a occupare tutto il restante spazio. Il suo viso era gentilmente corrucciato e dolente. Con una mano teneva un fazzoletto premuto sulla ferita, mentre l’altra, sbucciata anc'essa, la teneva col palmo rivolto in alto e vicina al petto. I suoi occhi erano arrossati: era evidente che, nel tempo in cui lui era rimasto lontano, avesse pianto.
«Tieni, bevi qualcosa, intanto che io do un’occhiata», le disse, porgendole una delle bibite. Si inginocchiò e alzò il fazzoletto, ormai striato di sangue. «Potrebbe bruciare un po’», l'avvertì, mentre apriva la bottiglietta di disinfettante e ne lasciava stillare il liquido sulla ferita.
Poi, con una garza sterile iniziò a pulire e tamponare tutto attorno, per togliere i residui di erba e terra, prima di spalmare la pomata cicatrizzante. Stava usando una tale delicatezza nei suoi gesti che Saori involontariamente arrossì.
«Lo fai spesso?» gli chiese.
«Cosa, rattoppare le ragazze dopo una caduta maldestra?» la schernì lui. «No, tu sei la prima.»
Nonostante la presa in giro che la fece arrossire di nuovo, Saori si sentì rasserenata. Riconobbe lo stesso ragazzo dolce e gentile che aveva incontrato la prima volta, ma senza la sfacciataggine che aveva mostrato in seguito. Anche se non voleva darlo a vedere, si sentiva onorata di tale trattamento: si sentiva come una principessa.
Kanon alzò lo sguardo su di lei, vedendo una lieve smorfia sulle sue belle labbra carnose. «Fammi vedere quella mano», le disse, distogliendosi dal ginocchio per concentrarsi sull’altra ferita.
Le prese la mano e la tirò un poco a sé, replicando le stesse operazioni fatte in precedenza. La sbucciatura era più evidente e profonda rispetto a quella sul ginocchio. Dalla cassetta del pronto soccorso prese il rotolo di garza e bendò con qualche giro la mano, accarezzandole il palmo una volta terminato.
«Questa è a posto.»
«Grazie.»
Un toc toc contro gli infissi di legno della finestra del soggiorno, ruppe l’incanto di quel momento, facendo sobbalzare Saori.
«Seiya…» sussurrò la ragazza, che subito, ancora più imbarazzata di prima, abbassò la gonna per coprirsi pudicamente le gambe.
«È permesso?» chiese il giovane in un inglese stentato, con tono titubante.
«Ah! Finalmente ti sei deciso», disse Kanon, scostando di nuovo la gonna della ragazza per terminare la medicazione al ginocchio.
«La tua borsetta, Saori… era rimasta sul prato», si giustificò il giovane.
«Vieni avanti, accomodati. Sei invitato a unirti a noi per il pranzo», gli disse, continuando a dargli le spalle, lo vedeva però riflesso sullo specchio della vetrinetta antica appoggiata sulla parete opposta alla finestra. «Ecco fatto, miss», decretò la fine della medicazione, una volta fasciato anche il ginocchio e fermato la garza con il gancino.
Si alzò e, dalla ciotola, prese una manciata di cubetti di ghiaccio che avvolse in u panno leggero, appoggiando infine quel fagotto sul ginocchio della giovane.
«Tienicelo sopra, così non si gonfierà», le ordinò. Si chinò un'ultima volta su di lei e le diede un bacio, il loro primo bacio. La sua bocca sapevano di lucidalabbra alla fragola: in fin dei conti era ancora una bambina. «Vi lascio da soli», le sussurrò, con un sorriso malizioso, vedendola arrossire ancora di più.

*****

Cora aprì la porta con cautela. Ancora accaldata e con il cuore che batteva forte per l'emozione, diede una sbirciatina fuori: tutto sembrava calmo. Poi, si girò verso il letto, soffermandosi a guardare Saga, il suo ragazzo, sdraiato di traverso e sul fianco, che stuzzicava la gattina semi sepolta dalle pieghe delle coperte, tutta intenta ad arruffarle ancora di più.
«Prima ti ho mentito. Non è vero che non mi piacciono le uova; e cucinate strapazzate sono le mie preferite. Però, in qualunque modo tu le abbia preparate andranno benissimo», le disse. Il suo viso aveva ritrovato la serenità che gli era mancata quella notte.
«Ormai saranno davvero immangiabili; e poi, credo di aver fatto un mezzo disastro», rispose lei, con un pizzico di vergogna che le imporporava le gote. Non che fosse una cuoca da stelle Michelin, era a un livello dignitoso, considerato che aveva iniziato presto ad arrangiarsi da sola perché la madre era troppo impegnata Mickey, ma almeno le uova le aveva sempre sapute cuocere alla perfezione, soprattutto perché lei ne era ghiotta e non le dispiaceva sperimentare.
«Faccio una corsa a comprare qualcosa, altrimenti davvero sarai costretto a mangiare cereali e non saranno quelli al cioccolato, perché non ci sono; e anche senza latte, perché anche quello è quasi finito», gli disse, sorridendo come una bimba dopo una marachella. «Quindi hai tutto il tempo di farti una doccia e rilassarti ancora un po’, se vuoi.»
«Se Aiolos è ancora qui, chiedigli di accompagnarti.»
«Ma il minimarket è a due passi. Non ho bisogno della balia per attraversare la strada!» protestò Cora.
«Lo so. Però mi faresti stare più tranquillo», disse Saga, alzando lo sguardo su di lei.
Cora sospirò. Non per la visione del suo ragazzo, sul letto e coperto a mala pena da un lembo del plaid; né per quella che le sembrava una mancanza di fiducia nei suoi confronti, anche se mascherata da tenera preoccupazione, ma era l’idea di doversi portare appresso Aiolos a disturbarla.
Appoggiò la testa alla porta e si sofferò ancora qualche secondo a guardare Saga che giocava con Kitty. Il suo sorriso era così accattivante, quando era rilassato come in quel momento. Aprì piano la porta e uscì. Il chiarore che in quel momento entrò nella stanza svelò l’aura di sopore di cui era impregnata.
L’anticamera era sgombra. Dalla cucina veniva un invitante profumino di pancetta croccante e di carne rosolata nel burro. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Le sembrava persino di sentire il leggero sfrigolio che faceva il burro nella padella. Poi, una strana idea le balenò in testa, come se si fosse ricordata di aver dimenticato qualcosa sul fuoco, ma lei era sicura di aver spento tutto. Si diresse in cucina a grandi passi, fermandosi sulla soglia e stupendosi di ciò che i suoi occhi stavano vedendo.
«Alla buon’ora!» disse Aiolos, voltandosi appena verso di lei e accennando un sorrisetto malizioso, tornando poi a prestare attenzione alla padella sfrigolante. «Il bell’addormentato ha intenzione di dormire ancora, per riprendersi dalla fatica della “sveglia”, oppure si unirà a noi per il pranzo?»
«Pranzo?» chiese Cora, confusa.
Quando si era rifugiata in camera da letto non era poi così tardi. Il suo viso diventò rosso nel cogliere in ritardo l’allusione che fatta dall’altro. Ciò che aveva temuto di più, ovvero che li avesse sentiti fare l'amore, era avvenuto. Di solito lei non era tipo da urlare o gemere forte, ma questa volta… forse anche un po' per colpa di Saga che era stato molto appassionato, senza rendersene conto si era lasciata andare un po’ troppo.
«Non sentirti troppo in imbarazzo», la rassicurò lui, nonostante la sua voce e il suo atteggiamento esprimessero ben altro. «Dopo i primi cinque minuti di concerto sono andato a farmi un giro. Ne ho approfittato anche per comprare il bacon, così non rimarrai senza la prossima volta», le disse, rigirando con la pinza gli involtini, per farli rosolare anche dall’altro lato. «Spero che ti piacciano. Sono involtini di vitello, avvolti nella pancetta e ripieni con spinaci e formaggio. È una ricetta di mia nonna che ci faceva quando eravamo piccoli.»
La diffidenza di Cora verso di lui era giustificata, ma in quel momento c’era qualcosa di diverso nel ragazzo che glielo stava facendo vedere sotto una luce diversa. Davanti ai fornelli, impegnato a preparare quel piatto tanto semplice quanto appetitoso – e il profumino che veniva dalla padella le aveva risvegliato lo stomaco – Aiolos non sembrava più il ragazzo antipatico e indisponente col quale si era scontrata anche prima, ma un bel ragazzo, sereno, sicuro di sé, affidabile e gentile.
«E… ve li faceva spesso?» gli chiese, provando a intavolare una conversazione civile, sentendosi stranamente a suo agio.
«Praticamente tutti i giorni, per quasi due anni; e solo perché la principessina Saga si era impuntato a non voler più mangiare le verdure», rispose lui, sogghignando e spegnendo il fuoco.
Cora giurò di aver sentito una punta di malignità e divertimento nel tono del ragazzo. Dentro di sé si rimangiò subito la considerazione positiva appena fatta.
Aiolos avvolse il manico della padella con lo strofinaccio e si avvicinò ai tre piatti che aveva sistemato lì vicino in precedenza, servendo due involtini a testa. «E quello», continuò come nulla fosse, prendendo poi una grossa ciotola di insalata di cavolo dal tavolo, «era l’unico modo che aveva escogitato mia nonna per fargliele mangiare senza che lui si mettesse a fare i capricci.»
«Io la ricordo in modo differente», intervenne Saga, affacciandosi in cucina giusto qualche secondo dopo, con i capelli ancora umidi e tutti pettinati all’indietro.
«Tu ricordi male», ribatté con tono sicuro Aiolos. «Per colpa del…» disse, lasciando volutamente in sospeso la frase, ma toccandosi con un dito la tempia destra.
«Non c’entra niente. Hai raccontato una cosa antecedente», insistette Saga, con una sottile vena di irritazione nella voce.
Inconsciamente però, si era portato una mano alla tempia, stuzzicandosi la piccola cicatrice, abbassando lo sguardo. Sapeva che l’altro non aveva poi tutti i torti: c’era stato un lungo periodo, anche dopo la convalescenza, in cui aveva continuato a confondere ricordi e situazioni, ad avere problemi di concentrazione e ad avere momenti in cui si perdeva letteralmente nel vuoto; ma quel tempo era passato da un pezzo e la sua testa era tornata a funzionare bene, senza più alcuna ricaduta. Almeno, così aveva sempre pensato.
Aiolos si limitò ad alzare le spalle, quasi a voler dire che non riteneva importante ciò che sosteneva Saga, e a terminare l’impiattamento. Cora invece, con la confusione nello sguardo, si sentì come in mezzo a due fuochi; non riusciva a capire a cosa si stessero riferendo. Si voltò verso Saga e lo vide un poco turbato.
«Come mai avevi smesso di mangiare le verdure?» gli chiese con tono dolce e compassionevole e una genuina curiosità di voler conoscere un aneddoto della sua infanzia.
Saga le sorrise, di nuovo rasserenato. «È stato quando Kanon mi mise un lombrico nell’insalata», raccontò, senza imbarazzo. «Avevamo più o meno otto anni.»
«Era sbucato fuori da sotto una foglia di lattuga e si era messo a strisciare sul bordo del piatto; e tu, non appena te ne accorgesti, balzasti dalla sedia come una molla!» aggiunse con una risatina Aiolos, tralasciando di svelare che all’epoca aveva urlato in modo isterico e spaventato. Poi, prese i piatti pronti e li portò in tavola.
Cora rimase stupefatta e a bocca aperta.
«Naturalmente mi vendicai mettendogliene un altro nel letto», continuò. «Purtroppo però, quello scherzo mi si ritorse contro, perché dopo quella volta Kanon iniziò a venire a dormire nel mio di letto. E durò parecchie settimane!»
Cora trattenne a stento una risatina: faticava a vederlo bambino, ma soprattutto, le era quasi impossibile immaginarselo così monello. E la sua perplessità aumentava nel vederlo con un’espressione serena e pacifica sul suo bel viso, mentre mangiava il piatto che aveva cucinato Aiolos. Mentre lo osservava, stupita e incredula, di nuovo le tornarono alla mente le parole della vicina impicciona Jade: la donna aveva detto, o comunque fatto intendere, che Saga non si fidava delle persone; eppure, ogni volta lui dimostrava di essere proprio l’esatto opposto. Ma forse era normale che con le persone a lui vicine, quelle di famiglia, fosse diverso.
«Non ti piace?» le domandò Saga, vedendo come la ragazza avesse il piatto ancora pressoché intatto.
«Affatto. È molto buono.»
«Allora c’è qualcos’altro che non va?»
Senza neanche rendersene conto Cora si era ritrovata a fissarlo con strana insistenza, cercando di intravedere quel punto sulla tempia di cui Aiolos aveva accenato poco prima.
«Forse vorrebbe sapere qualcosa di particolare, ma non sa come chiedertelo», intervenne Aiolos, portandosi alla bocca mezzo involtino.
Saga sistemò ordinatamente le posate nel piatto, si pulì la bocca con un lembo del tovagliolo di carta e si appoggiò allo schienale della sedia, assumendo una posizione rilassata e al tempo stesso molto formale.
«Chiedimi pure tutto quello che vuoi.»
La suoneria del cellulare di Aiolos la salvò da una situazione imbarazzante, poiché l'unica cosa che a Cora sembrava interessata era approfondire ciò che era stato appena accennato dai due ragazzi. Erano stati molto enigmatici, ma ugualmente si era percepita una certa tensione nel rivangare quel particolare.
Il giovane corrugò la fronte nel vedere chi era e si alzò in fretta da tavola per rispondere. Poi, un paio di minuti dopo, tornò indietro, annunciando che stava arrivando una persona. Vide Saga diventare all'improvviso teso e irrigidirsi sulla sedia.
«Tranquillo, è solo Thomas. Gli ho chiesto di passare per darmi un parere su una certa cosa», lo rassicurò, facendo il bis di insalata di cavolo.




note del capitolo:

Gorgiera: nel gatto, la gorgiera è la parte che va più o meno dalla gola al petto, la parte davanti, per intenderci, che solitamente si presenta un pochino più folta rispetto al resto della pelliccia. Poi naturalmente dipende anche dalle razze.
Tartufo: (che non è quello che si usa per cucinare!) sempre nel gatto, è il naso. Ha forma triangolare ed è leggermente ruvido. Un gatto in buona salute lo deve sempre tenere umido.





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Capitolo 23
*** Capitolo XXII ***





XXII



Quel “sono lì da te fra cinque minuti!” glielo aveva detto con un entusiasmo tale che alle sue orecchie era suonato sospetto, troppo sospetto, e in un certo senso anche inquietante: neanche fosse stato un appuntamento galante con una bella donna. E infatti, puntuale e preciso come solo un marine di razza sa essere, Thomas Cooper parcheggiò esattamente di fronte al numero civico della strada che lui gli aveva indicato, annunciandosi a tutto il vicinato con le sirene spiegate e i lampeggianti accesi dell'auto di servizio. Come se non fosse bastato, si era presentato con un grande sorriso stampato su quel suo viso ancora tanto affascinante da avergli permesso di vincere, per il secondo anno di seguito, il titolo di “Il vigile del fuoco più bello di Boston”.
«Aiolos!» lo salutò l’uomo, con un sorriso radioso sul viso, che per nulla lasciava trasparire la stanchezza accumulata negli ultimi giorni. «Sono molto felice che tu mi abbia chiamato», disse, chiudendo la portiera e fermandosi in mezzo al marciapiede, impettito e sicuro di sé.
«Non era necessario fare tutto questo baccano e soprattutto essere così appariscente», lo accolse Aiolos, con tono a metà fra l'annoiato e l'infastidito, appoggiato con la spalla al portone d’ingresso.
«Mi hai detto che era una cosa importante. E hai usato un tono molto serio», replicò l’uomo, stringendo in una mano il cappello dell’uniforme, indeciso se indossarlo oppure no. «E poi, tu che hai bisogno del mio aiuto per due volte in pochi giorni… l’occasione meritava come minimo l’uniforme di ordinanza. Purtroppo non ho fatto in tempo a ritirare dalla lavanderia quella da cerimonia», disse. Questa volta era stato il suo turno di tirargli una frecciatina. Dentro di sé si era divertito nel vedere il poco velato fastidio nel figlio, mostrando apertamente un sorriso sghembo che nulla aveva da invidiare ai soliti che amava sfoggiare il ragazzo. Senza ombra di dubbio, anche a occhi profani, quei due erano proprio padre e figlio.
Ciò che Aiolos aveva definito “appariscente” – e che gli stava urtando visibilmente i nervi, oltre all’atteggiamento strafottente dell’uomo – in realtà non era altro che l’uniforme con i gradi e non la solita divisa che usava durante le missioni di pronto intervento e che, a ogni fine turno, era sempre malconcia. Quel completo blu scuro, con la camicia bianca, la cravatta altrettanto scura e il distintivo dorato che spiccava sul petto, quasi facevano sembrare Thomas una persona rispettabile e importante. Ma era solo agli occhi di Aiolos che il padre non era una persona rispettabile: non gli aveva ancora perdonato l’abbandono di quando era piccolo e probabilmente non lo avrebbe mai fatto.
«Avrei preferito ti fossi presentato in modo normale», ribatté il giovane, con uno sbuffo scocciato che neanche si era premurato di nascondere o mascherare, accennando a rientrare. «Vedi di non intimidire nessuno.»
«Spiacente, figliolo, arrivo adesso da un meeting in Municipio col Sindaco», disse Thomas, facendo spallucce, preferendo non dar peso all’atteggiamento dell’altro. Alzò lo sguardo verso il piano superiore della palazzina e sul suo volto comparve un sorriso affascinante e malizioso, scrutando l’ombra fugace che si era affacciata alla finestra.

*****

«Vieni via», le sussurrò all’orecchio Saga, cingendola ai fianchi e trascinandola lontano dalla finestra.
«Che c’è di male se do una sbirciatina fuori?» disse lei, ridacchiando per quello che le sembrava un dispetto bello e buono e, chissà, forse anche una piccola manifestazione di gelosia. Le piaceva quando il suo ragazzo si dimostrava così affettuoso, quasi possessivo, come in quel momento.
Saga si limitò a darle un bacio sulla guancia, ad accarezzarle i riccioli disordinati che quel giorno teneva raggruppati con un mini mollettone all’altezza della nuca e a sorriderle. Lo sguardo del ragazzo era limpido come quello di un bambino, ma altrettanto mutevole, e ne diede prova staccandosi da lei e tornando a sparecchiare la tavola in silenzio e, altrettanto in silenzio, iniziando subito a lavare i piatti.
«Ma non avevi detto che non sapevi farlo?» gli ricordò lei, in tono scherzoso e anche un pochino offeso, riponendo le tovagliette usate per quel pranzo veloce, affiancandolo poi al lavello.
Lui si girò un attimo e la guardò con occhi sbarrati, non capendo subito a cosa si stesse riferendo. All’improvviso si ritrovò uno schizzo di schiuma sul viso.
«Era il nostro primo incontro. Non volevo scoprire subito le mie carte migliori!» le rispose, restituendole il colpo e ridendo divertito al gridolino di Cora, tornando poi a insaponare con maestria il bicchiere che aveva in mano.
«Questo però non ti ha impedito di infilarti nel mio letto.»
«Sei stata tu a invitarmi», ribatté lui.
Cora immerse di nuovo le mani nell’acqua sporca, pronta a infliggere un altro colpo per l’affermazione dell’altro, ma Saga la prevenne con un bacio.
«Allora era una tattica collaudata quella di sembrare imbranato?»
Il ragazzo fece spallucce, concentrandosi sulla padella, che sfregava con molto vigore.
«La stai grattando troppo. Se continui in questo modo sarà da buttare. Lascia fare a me», gli disse, spostandolo con un colpetto di anca e prendendo il suo posto. Saga si esibì in un broncio infantile e la schizzo con la schiuma una seconda volta. «In verità non è che sia proprio un casalingo provetto: non so cucinare, non so fare il bucato, non so neanche preparare un caffè decente», ammise senza alcuna vergogna. «Però, non mi sembra così difficile lavare i piatti, l’ho visto fare molte volte; e poi so riordinare!»
«Stavi usando troppo detersivo», lo ribeccò, Cora. «Chi è la persona che stava parlando con Aiolos, qui sotto?»
«Dai, finiamo di sistemare queste cose», le disse lui, mutando all'improvviso atteggiamento e tono di voce, fissando l'acqua che scorreva dal rubinetto e creava all'interno della vasca del lavello della nuova schiuma bianca.
Cora rimase perplessa e turbata da quel cambiamento. Non capiva cos'avesse detto di sbagliato per guastare l'umore del ragazzo. Sospirò, voltandosi un momento verso la finestra, poi tornò a sciaquare i piatti, passandoli a Saga affinché li asciugasse con lo strofinaccio e li riponesse nel pensile.

*****

Aiolos rientrò nell’appartamento con una certa fretta, precedendo il padre di qualche minuto. Lo aveva lasciato nello scantinato a terminare dei controlli, dopo che avevano valutato assieme le condizioni della porta che dava sul cortile, dicendogli che lo avrebbe atteso di sopra. In quel modo sperava di poter avere il tempo sufficiente per provare a rimediare all’enorme balla che si era lasciato sfuggire poco prima. Era stata un’avventatezza dettata solo dal desiderio di placare le incessanti domande che l’uomo gli aveva rivolto nei riguardi della sua vita privata: non sopportava quel tipo di cameratismo che l’altro invece sembrava così generosamente voler condividere con lui. Si era pentito amaramente di ciò che si era lasciato sfuggire di bocca, ma per sua fortuna aveva trovato subito Cora che in quel momento non pareva così indaffarata e, soprattutto, non era in compagnia.
«Dov’è Saga?» chiese in tutta fretta.
«È andato in soffitta. Ha detto che non voleva essere visto», rispose la ragazza, provando a fare l'indifferente; in verità, anche se lui le aveva dato una spiegazione, non ne era rimasta troppo convinta.
Aiolos annuì pensoso. «Ha ragione. Se Thomas lo vedesse qui, farebbe un sacco di domande e lo andrebbe a riferire a mia madre che non perderebbe tempo a dirlo alla nonna; e nel giro di un'ora lo saprebbero tutti in famiglia», disse, massaggiandosi il retro del collo e sbuffando. Si prese un momento per valutare la situazione e infine si decise a correre il rischio: tanto peggio di così non sarebbe potuta andare. «Tu mi devi un favore!» le disse, un po’ rudemente, guardandola con una strana espressione sul viso che non faceva presagire nulla di buono.
«Cosa? Io non ti devo proprio niente!» ribatté lei.
«Devo forse ricordarti cos’ho passato per colpa tua?» le rinfacciò lui, con un ringhio minaccioso, afferrandola per un braccio per impedirle di sottrarsi alla sua richiesta. Era pronto anche a rivangare ogni disavventura che gli era capitata da quando aveva avuto la sfortuna di incontrarla se ciò fosse servito.
Cora provò a divincolarsi dalla presa, ma Aiolos era decisamente più forte di lei. Lo fissò negli occhi con astio e, sotto quello strato di arroganza e antipatia, scorse del panico e un autentico bisogno di aiuto.
«Allora?» la incalzò lui, con voce agitata, strattonandola di nuovo e stringendo un poco di più la mano.
Cora strinse le labbra. Non aveva alcuna intenzione di farsi intimidire dall’altro; eppure, il suo corpo iniziò a tremare un poco, sotto lo sguardo serio dell'altro. Per una frazione di secondo le sembrò che Deline si fosse materializzato di fronte a lei, ma durò solo un attimo: anche se furiosi, in quegli occhi castani non c’era alcuna parvenza della malvagità del mostro di Philly. Deglutì, concentrandosi su dove fosse, con chi fosse e su se stessa.
«Sentiamo, cosa diavolo vuoi da me?» concesse, nonostante l'evidente astio nella voce.
Un favore. Un unico e definitivo favore era disposta a concedergli. Altrimenti… davvero avrebbe preso in considerazione la soluzione che le aveva proposto lo zio Phil quando, saputo che le strade dei due si erano di nuovo incrociate, aveva mostrato la pistola che teneva nella fondina.
«Quando mio padre... Thomas, entrerà da quella porta, qualunque cosa dovesse dire lui, qualsiasi cosa dovessi dire o fare io, dovrai reggermi il gioco. Siamo intesi? E mai e poi mai devi dargli corda!»
Cora sbatté le palpebre un paio di volte. Aprì la bocca per rispondere qualcosa, ma senza riuscire ad articolare alcun pensiero sensato. Non doveva lavorare troppo di fantasia per immaginare quanto le stesse prospettando l’altro, perché quella sembrava proprio la classica situazione da commedia, nella quale lo sfigato presenta alla famiglia la finta fidanzata.
«Devo dirtelo, Aiolos, da quanto ho visto la situazione dello stabile non è dei più confortanti. Se dovesse passare un ispettore credo che non ci metterebbe molto a dichiararlo non conforme alle leggi.» La voce dell'uomo, che stava salendo le scale, si sentì amplificata dall'eco delle scale, arrivando chiara e forte ai due giovani dalla porta d'ingresso rimasta spalancata.
Thomas si fermò sul pianerottolo di casa; si pulì diligentemente i piedi sullo zerbino e si spolverò la manica della giacca dell'uniforme scura dalla polvere e dalle ragnatele che erano rimaste attaccate durante la sua ispezione nel seminterrato. Poi, si schiarì la gola e si annunciò con il classico “Permesso?”, rimanendo impettito sulla soglia di casa con il berretto sottobraccio.
«Mi raccomando!» sussurrò Aiolos all'orecchio della ragazza, stringendo la mano al suo braccio per sottolineare l'importanza di quella situazione per lui.
«Ho capito!» rispose fra i denti Cora, dando uno strattone e riuscendo a liberarsi.
Se avesse potuto, avrebbe dato volentieri un pugno a quel ragazzo arrogante. Invece, lo accompagnò all’ingresso, mossa dalla curiosità di conoscere la persona che aveva la capacità di rendere così nervoso e intrattabile Aiolos.

«Buongiorno! Mi chiamo Thomas Cooper; e tu devi essere la fidanzata di Aiolos. Sono molto felice di conoscerti», la salutò, stringendole la mano in maniera calorosa. «Sai, questo ragazzaccio non ci ha mai parlato di te. È così bravo a tenere segrete le sue “amicizie” che sua madre è arrivata a pensare possa essere diventato gay. Ma le ho sempre risposto che è impossibile che il mio ragazzo sia uno di quelli, nonostante le sue pessime frequentazioni», continuò, guardando negli occhi il figlio che invece ricambiava con uno sguardo torvo.
Anche se Shura, durante gli anni della scuola, era stato – ed era tutt’ora – il suo migliore amico, e col tempo avesse accettato la sua omosessualità, non era mai stato un vero sostenitore di quella gente, soprattutto per via della mentalità militare inculcatagli dal padre fin da bambino e degli anni trascorsi nei Marines. Cora rimase stordita da quella presentazione; ma, trasportata dall’affabilità dell’uomo, ricambiò il saluto. «Molto piacere. Io sono Caroline Mill…»
«Cora Milligan!» intervenne Aiolos, sovrastando la voce della ragazza e tagliando corto quella presentazione che gli stava già dando i nervi. Nonostante fosse stato lui a chiamarlo, mal sopportava la presenza dell'uomo; soprattutto quel suo atteggiamento solare che metteva a proprio agio le persone.
«Milligan? Del Milligan’s Pub nel North End?» chiese, con una strana scintilla negli occhi e un tono così gioviale da essere pericolosamente contagioso. «Sapevo che quella vecchia canaglia di Amos avesse una figlia, ma non immaginavo che fosse così carina, considerato quanto è brutto quel caprone tinto! Scommetto che hai preso tutto da tua madre, vero?»
La giovane tentennò per qualche attimo per quel nome inventato così su due piedi, rivolse uno sguardo ad Aiolos, esprimendo in modo eloquente che non sapeva come rispondere.
«Lei viene da Philadelphia», rispose con molta durezza Aiolos, fissando il padre negli occhi.
«Capisco», disse l’uomo, passandosi una mano dietro la nuca, incassando la reazione scostante del ragazzo.
«Non ti ho chiamato qui per fare conversazione. Allora, cosa ne pensi?» rincarò la dose il giovane.
«La casa è molto vecchia e non rispetta le attuali normative sulla sicurezza. L’impianto elettrico e quello idraulico vanno rifatti completamente, così come quello per il riscaldamento. Di sotto ho riscontrato che nel corso degli anni sono stati fatti tentativi di riparazione, ma non da qualcuno qualificato. È un miracolo che ancora non si sia verificato un incendio. La costruzione è degli anni ’30, vero?»
Cora annuì. Sul suo viso comparve un’espressione preoccupata, mentre ascoltava con attenzione ciò che l’uomo le stava dicendo. «Ma… qui funziona tutto. Non c’è stato alcun problema.»
«Probabilmente le tubature sono ancora quelle originali in piombo; e non escludo che possa esserci addirittura dell’amianto», le spiegò ancora Thomas, assumendo una postura più rilassata, nonostante il suo viso si fosse fatto serio. Era consapevole che ciò che le stava dicendo poteva spaventare, ma al tempo stesso cercava di essere il più rassicurante possibile.
«Non sei qui per fare quel genere di perizia, ma per un parere su quei segni alla serratura», lo interruppe Aiolos, pericolosamente irritato.
«Hai ragione. Ti posso confermare che si tratta proprio di un tentativo di scasso e, chiunque sia il responsabile, ha fatto di tutto per lasciare tracce molto evidenti. Quel tipo di porta di servizio è molto vecchia e con una serratura facile da manomettere. Persino un bambino potrebbe aprirla con del semplice fil di ferro. Invece, la porta dell’appartamento è stata forzata in maniera più attenta. Infatti i segni sono davvero minimi e, chiunque sia stato, deve aver usato anche qualche tipo di lubrificante, per rendere ancora più agevole il lavoro.»
Cora sussultò, portandosi le mani alla bocca. In quelle ultime ore, quasi si era dimenticata della brutta avventura vissuta la notte precedente, quando aveva trovato la gattina riversa sul pavimento dell’ingresso, proprio dove ora si trovavano loro. Non aveva collegato il fatto che qualcuno poteva essere penetrato in casa. Eppure… era la cosa più logica da pensare. Doveva essere così! Si avvicinò alla porta e iniziò a esaminarla con maggiore attenzione, accarezzando la toppa della serratura esterna con i polpastrelli e poi anche con le unghie, per accertarsi lei stessa di quei micro graffi sulla parte del rotore di cui parlava Thomas.
«È sicuro?» domandò, con voce un poco tremante. «Non potrebbe trattarsi più semplicemente dei normali segni dell’usura?»
«Quelle graffiature sembrano differenti rispetto a quelle provocate dal normale utilizzo. Sono molto recenti», confermò l’uomo, con tono serio e, questa volta, anche preoccupato. «Ma io sono un semplice vigile del fuoco, non un agente della scientifica, quindi potrei anche sbagliarmi. Comunque, sarebbe meglio far cambiare le serrature, tanto per stare tranquilli!»
La ragazza sperò che quella sua obiezione riscontrasse maggiore appoggio, almeno per fugare la preoccupazione che si stava facendo presente nel suo animo. Non voleva pensare che potesse essere stata una sua leggerezza ad aver agevolato il lavoro dell’intruso. Anche se abitava in quell’appartamento da pochi giorni, era già capitato che dimenticasse di chiudere la porta a chiave, credendosi scioccamente al sicuro con solamente il portone sulla strada ben serrato. Ed ora, il dubbio di non aver chiuso la porta le pesava sulla coscienza.
«Secondo lei…» continuò, «è possibile ricavare un calco della chiave direttamente da una serratura montata?»
«Non sono un esperto di queste cose, ma non credo», rispose Thomas.
«Forse una cosa del genere è fattibile solo al cinema o nei romanzi», sospirò lei, pensando che sicuramente la madre avrebbe potuto utilizzare l’idea per uno dei suoi racconti.
«Beh…» L’uomo provò a spezzare la tensione che si era creata. «Basterà cambiare la serratura della porta del cortile e di quella di casa e il problema sarà risolto, almeno per il momento», disse, avvicinandosi un poco a lei per incoraggiarla a stare tranquilla. Aiolos però, sapendo quanto fosse cascamorto il padre, fu più lesto di lui e si accostò a Cora, mettendole una mano sulla spalla e stringendola a sé, sussurrandole qualcosa all'orecchio.
La giovane parve risvegliarsi di colpo. «Mi perdoni, sono proprio una maleducata, non l’ho neanche invitata ad accomodarsi, né chiesto se gradisce un caffè!»
«Thomas non può trattenersi oltre.»
Cora guardò Aiolos con stupore, stava per ribattere che non era educato trattare così una persona che le stava facendo un favore, ma alla fine si morse il labbro per frenarsi.
«Non ti preoccupare, cara», la tolse dall'impiccio l’uomo, dando una veloce occhiata all’orologio. «In effetti si è fatto tardi, dovrei tornare a casa.»
«Se ne va di già?»
«Purtroppo sì», confermò Thomas. «Anche se mi piacerebbe trattenermi, sono reduce da un turno di notte e da un meeting estenuante. Ma uno di questi giorni puoi venire tu da noi! Anzi, perché domenica non venite entrambi a pranzo, mia moglie fa uno stufato coi fiocchi!»
«Di pollo?» chiese Cora, quasi con infantile entusiasmo. «È uno dei miei piatti preferiti fin da bambina!»
«Certamente! Così ti presenterò a Georgie, mia moglie. Lei non vede l’ora di conoscerti. Sono sicuro che andrete d’accordo. Aiolos, la porterai, vero?»
Aiolos si limitò a un grugnito e una mezza smorfia che non voleva dire né sì, né no. Di certo non ci pensava minimamente ad assecondare le voglie di famigliola felice di quei due. Così come non era disposto ad alimentare le fantasie della madre su una potenziale fidanzata. Si sarebbe inventato qualcosa, un litigio, un tradimento... per non continuare quella farsa. Con un cenno del capo invitò il padre a uscire dall'appartamento e lo accompagnò fino al portone. Quando poi rientrò in casa, trovò la ragazza pensierosa che mormorava qualcosa fra sé e sé.
«È andata meno peggio di quanto credessi», sbuffò di sollievo.
«Milligan?» disse lei, incrociando le braccia al petto. «Ma ti pare che io possa assomigliare anche solo minimamente a un’irlandese? Cosa c’era che non andava nel mio cognome?»
Aiolos avrebbe dovuto ingegnarsi per trovare una scusa plausibile, ma sul momento non gli stava venendo niente in mente; non gli andava di rivelarle che aveva chiesto proprio al padre informazioni sulla sua famiglia, anche se avrebbe potuto giustificarsi dicendo che il nome Miller era abbastanza comune, ma sarebbe stata comunque una coincidenza sospetta e la ragazza non l’avrebbe di certo presa bene. Preferì rimanersene in silenzio, ma poco gli sarebbe importato se poi avessero finito per litigare con lei.
«Pensi che possa c’entrare lui in qualche modo?» le domandò, senza l’ombra di malizia nella voce.
«Lui, chi?» disse Cora.
«Il tizio di Philadelphia, quel Del…» Aiolos si accorse subito dell’effetto che stava suscitando in lei anche solo quell’accenno di nome ed evitò di completarlo.
«No!» esclamò con voce agitata. Quel nome aveva il potere di riempire i suoi occhi di puro terrore.
Si rese conto lei stessa della sua reazione esagerata, prese un bel respiro profondo e provò a calmarsi. «No, non credo», ripeté, questa volta. «Non può avermi seguita fin qui… non ce ne sarebbe motivo.»
«E la storia del gatto?»
Di nuovo si sentì come raggelare a quelle parole. L’obiezione di Aiolos riportava in primo piano gli avvenimenti della sera precedente: un mistero che non aveva spiegazione.
Cora chiuse gli occhi per un momento, cercando di concentrarsi per ricordare le sensazioni che aveva provato in quelle ore buie. C’era forse stata una presenza in casa, lì con lei? Aveva forse percepito lo scricchiolio del vecchio parquet e dei respiri?
«Che cosa ti ha fatto quel tipo, per spaventarti in questo modo?» le chiese Aiolos.
«Non sono affari che ti riguardano!» rispose lei con decisione, alzando lo sguardo su di lui. Il suo respiro era tornato a essere più agitato.
«Glielo dirai?» riprovò Aiolos, facendo anche un cenno con la testa, indicando la direzione delle scale.
«No, no! Non è come pensi e poi... anche questi non sono affari tuoi», ribatté Cora, forse con un pizzico di panico misto a risentimento nella voce.
Sentiva l'angoscia che stava premendo per prendere il sopravvento, approfittando di quel suo momento di debolezza. Al tempo stesso però, percepiva che ciò che stava provando era diverso dalle altre volte, poiché non era stata colta dalle solite dolorose fitte al ventre che le toglievano il respiro e la lasciavano sconvolta, ma qualcosa di più ridimensionato. Era stata una domanda inopportuna, certo, ma che aveva avuto il potere di tenerla aggrappata alla realtà di quella sua nuova vita, nella quale la brutta esperienza di Philadelphia non doveva trovare posto.
«Si è fatto tardi, devo andare al lavoro», disse con voce più calma, chiudendosi in camera da letto.
Quando ne era poi uscita, circa dieci minuti dopo, con un maglioncino scuro a mezze maniche, jeans attillati, stivaletti di camoscio morbido e con le mani impegnate a legare i capelli in una coda di cavallo, mentre percorreva il corridoio per raggiungere l'ingresso intravide nella penombra la figura di Saga, seduto sui gradini più bassi della scala. Gli fece un bel sorriso e si avvicinò a lui.
«Sto andando al lavoro. Ti troverò a casa, quando ritornerò?» Il ragazzo annuì, sorridendole dolcemente. «Allora per cena ti farò una delle mie specialità!»
«Sandwich e insalata?»
«Quella è roba per single. Nel mio repertorio ci sono anche piatti per coppie», ammiccò lei, un poco maliziosa, dandogli un bacio leggero sulle labbra. «Se ti fidi di me…»
Lasciò di proposito la frase in sospeso, guardandolo fisso negli occhi, attendendo la sua risposta e rincuorata perché lui non aveva disatteso le sue speranze.
«Se sarai abbastanza brava, potrei anche sposarti», le sussurrò lui a fior di labbra, prima di darle un bacio pieno di passione.

Saga l’accompagnò fino in strada tenendola per mano. Davanti al portone d’ingresso la salutò con un altro bacio, proprio come una giovane coppia di sposini, osservandola poi con malinconia correre lungo il marciapiede per raggiungere la fermata dell’autobus. Sulla sua mano era presente ancora la sensazione che lei gli fosse sgusciata via per non tornare più. Scrollò la testa per scacciare via quel pensiero infondato.
Anche Aiolos guardò la ragazza allontanarsi, rimanendo però nascosto appena oltre la soglia, chiedendi se da davvero Deline non c’entrasse nulla con quell’effrazione e l’attentato alla gattina di casa, perché quella sembrava un’azione dai connotati troppo personali. E poi, ora che gli veniva in mente, c’era anche quello strano individuo che aveva intravisto quel mattino presto. In un primo momento non ci aveva dato molto peso, ma dopo aver passato le due ore seguenti a frugare nei file e nelle e-mail della ragazza, riflettendo a mente fredda, poteva anche darsi che fosse lì a controllarla.
Le sue labbra si piegarono in una strana smorfia, mentre affiancava l’amico: perché diavolo si stava preoccupando tanto per quella ragazza che gli risultava antipatica?
«Puoi tornare a casa.»
«Va bene. Allora salgo a prendere i nostri cappotti e ce ne andiamo», disse, con un mezzo sorriso.
«Io non vengo», replicò Saga, senza alcuna emozione nella voce, mettendosi le mani in tasca e avvicinandosi al ciglio del marciapiede, pronto ad attraversare la strada.
«Cosa stai dicendo? Ehi! Dove stai andando, adesso?»
«Vado a comprare delle serrature nuove.»
«Se hai sentito anche tu quello che ha detto Thomas, saprai che ci vorrà ben più di un paio di serrature nuove!» gli ricordò Aiolos. «Quella casa non è abitabile e di certo, tutti i problemi che ha non si risolveranno in mezza giornata di lavoro.»
«Lo so», ammise Saga. «Ci vorrà qualche tempo prima di iniziare i lavori che ho in mente di fare. Per questo voglio stare con lei per i prossimi giorni, prima di farla tornare a Philadelphia. Lei non la prenderà bene…» sospirò con tono avvilito.
Anche se non proprio nitidamente, Aiolos colse un pesante velo di delusione nell’ultima frase di Saga. Quello che l’altro non sapeva era forse il vero motivo per il quale Cora avrebbe sicuramente obiettato a tale decisione. Ma lui non poteva arbitrariamente mettere al corrente l’amico di ciò che era venuto a conoscenza: era una decisione che spettava a Cora.

*****

Dalla finestra della biblioteca Kanon osservava i due ospiti passeggiare per la proprietà e parlare mano nella mano. Era appoggiato di spalla e teneva le braccia incrociate al petto, mentre i raggi del sole gli accarezzavano il viso e rendevano ancora più luminosi i suoi capelli biondi, donandogli dei riflessi d’oro, ma di una tonalità più chiara rispetto al gemello. In quel momento sembrava avvolto da una strana melanconia.
Sospirò.
«Cosa c’è che non va, tesoro mio?» chiese Nanny, vedendolo tanto pensieroso.
La donna era solita evitare la biblioteca perché era lo spazio degli uomini della famiglia Hayes – così come la sala da biliardo al piano seminterrato – entrandovi solo in rare e importanti occasioni; ma quel pomeriggio qualcosa l’aveva attirata lì. Nel suo cuore di vecchia tata, aveva sentito una sensazione fastidiosa farvi capolino rendendola inquieta; e infatti aveva trovato il suo adorato ragazzo fin troppo serio e taciturno, caratteristiche che appartenevano più al gemello che a lui. Ma i suoi occhi, anche se ormai risentivano dell’età e non erano più perfetti, non l’avevano ingannata. C'era qualcosa che non andava e ne ebbe conferma quando Kanon sospirò di nuovo, continuando a fissare fuori dalla finestra.
In quell’ultima mezz’ora infatti, sembrava che il rampollo Hayes non riuscisse a fare altro. Il lavoro, neanche a parlarne, giaceva dimenticato sulla scrivania.
Si tormentò il labbro per qualche secondo; i due ragazzi stavano tornando nella sua visuale: pareva tutto normale, eppure la postura di quel ragazzino gli diceva che c'era qualcosa di diverso. Il suo atteggiamento nei confronti di Saori sembrava più intimo.
«Kanon, tesoro, ti senti bene?»
«Non è niente, Nanny», disse, girandosi un poco verso la tata e sforzandosi di sorriderle.
«Dimmi la verità», insistette la donna, accarezzandogli la fronte, per scostargli i capelli dagli occhi.
«È che… non lo so», sbuffò lui; davvero non sapeva dire perché stesse in quel modo, non riusciva a dare un senso a ciò che provava. «D’un tratto mi sento… solo», confessò. I suoi occhi tornarono a seguire la giovane Saori, ma solo per curiosità, non perché le interessasse particolarmente, non in quel momento, almeno. «È come se mi mancasse qualcosa.»
«E come mai?» chiese la donna, con voce dolce e al tempo stesso apprensiva.
Kanon alzò le spalle e fece un sorriso triste. «Non lo so. È come un vuoto nel petto che si è formato all’improvviso.»
«Stai cercando di imitare tuo fratello?»
«Tu cosa fai quando lui si sente in questo modo?»
«Sai, tante volte lui si sentiva triste e solo, in questa grande casa, soprattutto dopo la lunga malattia e quando tu e Aiolos siete tornati alla vostra vita normale. Allora io gli portavo una bella fetta di Boston Cream pie, un bicchiere di latte e gli facevo sputare il rospo», ridacchiò.
«E funzionava?» chiese ancora Kanon.
«Il più delle volte», confermò la donna, facendogli un’altra carezza sulla guancia. «Ma quando si trattava di problemi di cuore, la faccenda era più complicata e necessitava qualcosa di più forte», aggiunse, riportando alla mente quanto avesse visto sconvolto Saga poche settimane prima, intristendosi un poco anche lei.
«Ma io non ho affatto problemi di cuore! Però mi sento tanto triste. Cosa mi puoi dare di buono per consolarmi?» disse Kanon, esibendosi in uno sguardo da cucciolo abbandonato che fece ridere la donna.
«Dovrebbe essere rimasta un po’ di cheesecake, che ne dici?»
Kanon fece una mezza smorfia. «Credo che ci vorrà “quel” qualcosa di più forte», disse, con un tono di voce da adulatore e con una scintilla di malizia nei suoi begli occhi verdi.
«Ecco, ora riconosco il mio Kanon! Allora ti preparerò dei brownies al cioccolato. Sono il massimo per tirar su di morale e funzionano sempre!»
«Magari... al rum?» azzardò lui, non ancora del tutto soddisfatto.
«E rum sia», cedette Nanny, felice di vederlo tornare al suo solito umore.
Nonostante Kanon fosse ormai un uomo adulto, forte, responsabile, serio e sicuro di sé, certe volte la donna faticava a vederlo tale, preferendo rifugiarsi nella visione dell’adolescente scapestrato e gioioso che in passato aveva riempito la casa con la sua straripante energia. Ma prima ancora, era il bambino che aveva cresciuto e amato fin dalla notte in cui Shion lo aveva portato in casa, la stessa in cui era nato suo adorato nipote Aiolos.
«Perché non domandi alla tua fidanzata se gradisce unirsi a noi? Sarebbe una cosa carina, non trovi?» gli disse, prendendolo sottobraccio.
«Non credo che sia il caso», rispose distrattamente. Diede un’altra occhiata fuori dalla finestra; vide i due ospiti molto vicini fra loro, soprattutto notò Seiya prendere la mano di Saori e sorriderle timido, ricambiato da lei.
Fece un respiro profondo e sorrise alla sua vecchia tata. «Senti, Nanny, potrò sporcarmi le mani anch'io, o dovrò rimanere in disparte in un angolino a fare da spettatore?» le disse, mentre l'accompagnava in cucina.

*****

Quel pomeriggio, Aiolos gli rimase attaccato come un’ombra e stranamente non gli dispiacque affatto passare la giornata in quel modo. Se la notte precedente l’aveva vissuta come una scocciatura, ora quella situazione stava addirittura iniziando a piacergli. Non aveva mai avuto occasione di conoscere Saga in un contesto diverso da quello della villa di famiglia e vederlo impegnato in cose banali e comuni come entrare da un ferramenta per delle serrature nuove, oppure camminare completamente a suo agio per il quartiere, era interessante. Trattenne un sorriso quando nel negozio lo vide rigirarsi fra le mani un mazzetto di chiavi di Allen senza sapere cosa fossero. E continuò a osservarlo mentre ascoltava con attenzione le spiegazioni che il commesso gli stava dando, annuendo, facendo domande; e il suo viso era disteso e sereno.
Si chiese distrattamente come facesse a parlare in maniera tanto rilassata con degli estranei. «Hai deciso quale prendere?» domandò quasi in uno sbuffo scocciato, vedendo l’amico indeciso nel scegliere fra alcuni modelli di chiavistello. «Guarda che non stai comprando un anello di fidanzamento!»
«La sicurezza è importante.»
«Se pensi davvero alla sicurezza allora ti conviene far demolire tutto e ricostruire da capo», lo schernì, appoggiandosi con il gomito al bancone.
Avevano passato quell’ultima ora e mezza fra quei piccoli scaffali strapieni di ogni genere di articolo – dai più moderni a quelli vintage – di quel modesto ma ben fornito ferramenta e cominciava a non poterne più di stare lì dentro ad aspettare la decisione del secolo, ma non aveva il coraggio di dirgli apertamente che si era stufato e voleva andarsene, perché la risposta che avrebbe ricevuto sarebbe stata scontata.
«È un edificio storico, non si può. E comunque non lo farei lo stesso», rispose Saga, per nulla offeso dalle lamentele dell’altro. Anzi, neanche ci stava facendo caso. Da qualche minuto si era soffermato su un modello in ottone, decorato in stile art déco, osservandolo attentamente. Lo rimise sul bancone e annuì al commesso, sorridendo, perché era la scelta giusta.
Aiolos tirò un sospiro di sollievo quando finalmente varcarono la porta del negozio e tornarono sulla strada, con un pesante sacchetto di plastica in mano.
«Almeno, sai come si montano?» gli chiese, mettendosi le mani nelle tasche.
«Per il chiavistello non dovrebbero esserci grossi problemi», rispose Saga. «Per il resto invece chiamerò qualcuno, voglio far sostituire anche la porta sul retro», spiegò, soffermandosi con lo sguardo sulle vetrine, intanto che procedevano.
«Hai intenzione di fare altri acquisti?» disse Aiolos, seguendolo a un passo di distanza, ma senza ottenere risposta. Saga sembrava ormai perso in un altro mondo.
Continuò a seguirlo e a osservarlo attentamente in tutto quello che faceva: era così diverso da Kanon. Seppure anche l’altro gemello fosse molto spontaneo e alla mano con tutti, manteneva quel pizzico di superiorità che lo faceva distinguere dalla massa; Saga invece, mostrava un qualche tipo di ingenuità e semplicità e forse era proprio quello che metteva a proprio agio le persone. E mentre nella sua testa si formavano quei pensieri, Saga lo aveva sorpreso con atteggiamento assolutamente infantile: occhi sgranati pieni di meraviglia e naso attaccato alla vetrina di un negozio di pegni.
Non sapeva bene come spiegarselo, eppure, era affascinato dal comportamento dell’altro. In quel momento iniziava finalmente a comprendere l’entusiasmo col quale spesso suo fratello Aiolia gli parlava di Saga.
Sbuffò, passandosi la mano nei capelli: che ci stava facendo in un posto del genere con Saga?
Quel pomeriggio c’era un bel sole caldo, era una vita che non si godeva anche lui una giornata tranquilla che chiedeva solo di essere vissuta senza pensieri, proprio come sembrava stesse facendo “la principessina”. E lo vedeva, lo vedeva bene: gli occhi di Saga, il suo viso… tutto di lui, in quelle ore passate assieme, gli dicevano quanto fosse pieno di vita. Aiolos scrollò la testa e si passò la mano sul volto, sfregandosi gli occhi. Dov’era finita quella malinconia, quell’onnipresente velo di apatia che l’amico aveva sempre addosso quando era alla villa e che a lui dava tremendamente fastidio? Ne aveva intravisti alcuni sprazzi la notte precedente, poi nulla più, era come se fosse diventato un altro.
«Dai, andiamo a casa», disse Aiolos, sorridendogli e passandogli il braccio sulle spalle, tirandolo letteralmente via da quella vetrina.
Saga rimase sorpreso da quel gesto, provando a protestare un poco, ma non fece in tempo a riprendere a camminare normalmente che i cellulari di entrambi suonarono quasi all’unisono. I due si guardarono per un secondo.
Con uno sbuffo annoiato Aiolos prese dalla tasca il suo e aprì il messaggio. «Ma che gran…» borbottò.
Saga osservò l’amico, perplesso; poi, controllò il suo di messaggio e sgranò gli occhi nel vedere le foto che il gemello gli aveva mandato: lui, assieme a Nanny, guancia a guancia, che addentavano dei golosi brownies, esibendosi in una serie di espressioni buffe.
Scoppiò a ridere, girando il display verso l’altro.
«Sono le stesse che ha mandato a me!» disse Aiolos. Dentro di sé rimuginava di farla pagare a Kanon che si approfittava sempre della sua assenza per fregargli l’affetto della nonna.
Alzò lo sguardo su Saga e subito gli balenò nella mente la vendetta perfetta. Con una rapidità quasi stordente arpionò l'altro e lo strinse a sé, mozzandogli il respiro in gola.
«Sorridi!» lo esortò, mostrando lui stesso un sorriso che sembrava piuttosto una smorfia grottesca, scattando a tradimento un selfie che subito si premurò di mandare all’altro. Sapeva bene che nulla avrebbe fatto ingelosire e al tempo stesso incazzare Kanon che sequestrargli in quel modo il gemello.
Il ritorno non ebbe altre soste. Si fermarono di fronte al portone della palazzina, accanto alla vetrina coperta di pagine di giornale della bottega del vecchio Josh. Saga ci mise qualche minuto per aprire: aveva perso tempo a cercare la chiave nelle tasche dei pantaloni; Aiolos allora ne approfittò per avvicinarsi alla vetrina e provare a dare una sbirciata.
«Cosa c’è lì dentro?» domandò, giusto per chiacchierare un po’.
«È una vecchia legatoria, dove si facevano anche restauri», spiegò Saga, aprendo finalmente la porta. Poi, memore di quanto era successo con quella sul retro e quella dell’appartamento, prima di entrare controllò con accuratezza le condizioni della serratura – che aveva fatto un poco di resistenza – e anche della porta stessa. Tutto sembrava in ordine.
«È tuo anche questo locale?» chiese ancora Aiolos, sottintendendo che aveva capito che l’appartamento fosse di sua proprietà.
Saga annuì, precedendolo dentro.
«Che senso ha possedere un’attività e poi tenerla chiusa?» mormorò il giovane, seguendolo a ruota.
Si fermò di colpo, con un piede dentro e l'altro fuori, come se avesse sentito un rumore o intravisto una presenza alle sue spalle con la coda dell’occhio. Forse se n’era accorto anche prima, nel riflesso opaco del vetro, nel punto dove la carta di giornale mal celava l’interno della bottega scura. Si voltò di scatto, aguzzando la vista e scandagliando il marciapiede dall’altra parte della strada, indugiando su un paio di individui che gli sembravano sospetti. C’era un giovane, inginocchiato, che stava liberando la bicicletta dalla catena con la quale l'aveva assicurata al palo della luce e che, per diversi secondi, lo aveva fissato da sotto il berretto da baseball, prima di alzarsi e pedalare fino all’incrocio. Poi, c’era un uomo, una ventina di metri più avanti, che si stava accendendo una sigaretta: pensò che ci stesse mettendo troppo per compiere un’operazione tanto semplice.
Fece un respiro profondo, rilassandosi e dandosi dell’idiota per quel breve momento di paranoia che gli aveva preso senza che ci fosse un motivo valido. Poi, corrugò la fronte nel vedere un’ombra scomparire nel vicolo, dall’altra parte della strada. Era sicuro di aver già visto quella persona, gli sembrò di riconoscere l’uomo che quella stessa mattina aveva notato nel cortile interno, anche se neanche in quell’occasione era riuscito a vederlo bene in volto. Eppure qualcosa gli diceva che non si stava sbagliando.






note del capitolo:

Il North End è un quartiere di Boston, che un tempo era abitato prevalentemente dagli irlandesi. Poi, gradualmente, questi sono stati sostituiti dalla comunità italiana (infatti è considerato una specie di Little Italy), ma non dubito che ancora oggi i due gruppi siano ben presenti.
Chiave di Allen: è un piccolo attrezzo a forma di L che serve ad allentare delle particolari viti a testa cava. Da noi in Italia è meglio conosciuta come brugola o chiave a brugola. Gli amanti del fai da te, o chi si è cimentato qualche volta in piccole riparazioni domestiche, oppure ha costruito qualcosa in kit, tipo mobili IKEA, avranno sicuramente avuto modo di maneggiarla o quantomeno di vederla. Qui, potrete trovare informazioni più dettagliate.



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Capitolo 24
*** Capitolo XXIII ***





XXIII


Winchester, Boston
Quell’ultimo mese era passato quasi in un lampo. La vita alla villa, sul lago Mystic, era trascorsa di nuovo tranquilla e serena: senza un problema, senza un imprevisto o incomprensione, senza tensioni nascoste o atteggiamenti diffidenti, che non fossero almeno causati da qualche inopportuno ospite che alloggiava al Country Club. In pratica, erano stati giorni contrassegnati dalla solita noiosa quotidianità nell’opulenza magnificamente ostentata di quell’angolo di paradiso che erano i dintorni del lago, alle porte di Boston. Maggio era forse il mese migliore dell’anno da passare sulle sue rive, magari per prendere il sole, oppure fra i campi da tennis all’aperto, o per approfittare del rinnovato green a diciotto buche del golf club, o ancora per godersi la natura campestre con rilassanti passeggiate a cavallo lungo i percorsi che si snodavano fra i boschetti circostanti: proprio in quel periodo era stato inaugurato il nuovo maneggio.
La primavera nei dintorni del lago Mystic era esplosa in tutta la sua bellezza. E gli Hayes, padroni quasi assoluti di tale porzione di territorio, non potevano non approfittare delle sue innumerevoli attrattive per partecipare agli eventi organizzati e rinsaldare i rapporti con la comunità, apparendo come munifici mecenati e benefattori che tanto avevano fatto in passato e tanto stavano facendo anche nel presente. Kanon in questo si era rivelato un vero portento, sorprendendo in modo piacevole Shion, che ben volentieri aveva delegato a lui quel lavoro di rappresentanza.
Accantonati i comportamenti irriverenti e le bravate da ragazzaccio, il primogenito della famiglia Hayes era diventato più dinamico e, al tempo stesso, più responsabile in tutto ciò che faceva, anche nelle attività di ufficio. Per questo, Shion gli aveva restituito i suoi precedenti incarichi in seno alla società principale. Forse tale cambiamento poteva essere dovuto in parte anche al fatto che proprio in quell’ultimo periodo i suoi interessi e quelli di Aiolos non coincidevano più. Ed era stata una cosa assai strana, perché loro due erano cresciuti come fratelli inseparabili; anzi, Kanon considerava l’amico quasi come un terzo gemello, tanto erano sempre stati complici nel fare casini.
Ma poteva veramente essere solo quello la causa? Potevano una manciata di giorni, qualche settimana al massimo, e il distacco dall’amico fraterno, far scattare in lui quel tipo di evoluzione? Oppure dietro c’era finalmente il raggiungimento di una più matura consapevolezza del suo ruolo nella famiglia e negli affari? Qualunque cosa fosse, la conseguenza più evidente era stata quella di ritrovarsi un Kanon più pensieroso e taciturno, con lo sguardo attento, ma anche un po’ stanco e greve.
Nessuno in famiglia ci aveva fatto molto caso a quel cambiamento, o se ne era preoccupato più di tanto, reputandolo un passo ulteriore nella sua crescita di uomo, nella quale finalmente iniziava a prendere con maggiore serietà la vita. Probabilmente solo occhi estranei avrebbero potuto percepire, in quell’improvvisa maturità, quel qualcosa che stonava un poco. Lei, Saori, che sempre più spesso frequentava la casa, l’aveva infatti notato e ne era rimasta incuriosita a tal punto che, non rendendosene conto, quando era in sua compagnia lo cercava in continuazione con lo sguardo, per seguire ogni cosa facesse, ma senza farsene accorgere.
Anche Saga aveva ripreso il suo ruolo all’interno della famiglia. Dopo quel breve periodo di “ribellione”, nel quale era rimasto lontano da casa dando poche notizie di sé – con l’unica eccezione di Aiolos che, svolgendo al meglio il suo incarico ufficioso, teneva regolarmente aggiornati i familiari sulle sue condizioni, tacendo però alcune informazioni – era ritornato a essere il pacato, mite e sereno ragazzo che era sempre stato e che tutti si aspettavano fosse. Da quando era tornato, tutti nella casa erano più rilassati e bendisposti. E quando Saga stava bene, anche tutti gli altri stavano bene.
A Kanon aveva iniziato a pesare un po’ quella condizione di iperprotettività nei confronti del gemello, quel senso generale di allerta che li faceva scattare tutti quanti preoccupati, lui compreso, ogniqualvolta il principino della casa aveva il minimo problema; ma doveva ammettere però che vedere il gemello sereno rendeva sereno anche lui, che vedere Saga soddisfatto, lo tranquillizzava e gli faceva tirare un sospiro di sollievo. Provava sentimenti contrastanti, talvolta gelosia, ma alla fine prevaleva sempre l’affetto per quel fratello che aveva rischiato di perdere troppo presto e che era rimasto indietro, a quel lontano dicembre del 1998. Era così almeno che lui riteneva stessero le cose: ai suoi occhi Saga era – e sempre sarebbe stato – l’adolescente malaticcio di un tempo, incastrato nel corpo di un adulto dall’aspetto uguale al suo. A volte, soffermandosi a guardarlo sorridere e parlare con qualcuno, oppure anche solo seduto a leggere un libro, o a sorseggiare il caffè in poltrona davanti alla televisione, si domandava come sarebbe stata la vita di entrambi senza quel famoso episodio che aveva scombinato la vita di tutti; se il loro rapporto sarebbe stato lo stesso, o se invece le loro strade si sarebbero divise prima.
Quel punto di svolta era stato una benedizione per loro due, per il loro rapporto, oppure si era rivelato una catena che teneva saldo il loro legame, ma nel modo sbagliato?
In fin dei conti però, a lui non dispiaceva affatto quella situazione di dipendenza che suscitava Saga, ma percepiva anche un sempre più evidente bisogno di conoscere ogni aspetto della vita del suo gemello, soprattutto ora che lo sentiva gradualmente allontanarsi da lui. E allora si fermava a domandarsi: chi dei due era davvero dipendente dall’altro? Chi dei due aveva davvero bisogno del sostegno dell’altro? Chi stava rimanendo indietro?
Lasciò cadere la matita sulla pagina del rapporto che stava correggendo, osservandola rotolare lentamente, prima sulla superficie bianca e poi su quella di legno, per terminare il suo percorso a pochi centimetri dal bordo della scrivania. Se fosse caduta a terra sarebbe stato un interessante diversivo a quei suoi pensieri che si stavano facendo troppo malinconici per i suoi gusti. Era tutta la mattina che se ne stava appartato in biblioteca a lavorare, interrotto solo da un paio di telefonate al cellulare con il padre e qualche fugace partita a Spider al computer, giusto per spezzare il carico e non arrivare al completo esaurimento delle sue funzioni cerebrali. Nessuna però gli era riuscita e invece di ottenere un poco di svago si era solo innervosito.
Sprofondò nella poltrona in pelle, con i gomiti appoggiati ai braccioli e la punta delle dita congiunte. Se ne rendeva conto anche da solo di essere diventato un po’ ombroso in quell’ultimo periodo e questo gli dava ulteriori pensieri. Con uno sbuffo annoiato diede una spinta coi piedi per scostarsi dalla scrivania e poi si alzò dalla poltrona, stiracchiandosi la schiena e lasciandosi andare anche a uno sbadiglio svogliato. Da una delle finestre aperte della biblioteca entrava il calore del sole, accompagnato da un refolo di vento; e con esso anche il profumo dei fiori e delle piante del giardino.
Kanon si avvicinò e diede una sbirciata fuori: quel tepore che gli accarezzava il viso era piacevole. Si concesse qualche secondo di straniamento, chiudendo gli occhi per godersi quel momento. In lontananza gli parve di sentire delle voci e delle risate allegre, ma quando riaprì gli occhi, aspettandosi di scorgere qualcuno, non vide nessuno. Pensando di aver riconosciuto la voce di Saori aveva sorriso un poco; e quella lieve piega sulle labbra non si era cancellata, nonostante la constatazione di essersi ingannato. Quello che era stato un fugace pensiero sulla giovane finì per occupare la sua mente fino a mette in secondo piano tutto il resto: in quei giorni l’aveva vista perdere gradualmente la sua iniziale timidezza, così come quella rigida compostezza che la faceva sembrare sempre sulle sue, per mostrarsi più aperta e spontanea, seppur senza dare ancora troppa confidenza. Doveva riconoscerlo, nonostante la sua giovane età, Saori era una bella ragazza, educata, colta, elegante: ai tempi del vecchio Abraham Hayes sarebbe stata perfetta come moglie di un Hayes; forse... lo sarebbe stata anche adesso.

Si servì due dita di Scotch con ghiaccio e tornò alla finestra, appoggiandosi con la spalla allo spigolo del muro e la mano nella tasca dei jeans. Ne prese un sorso, gustandolo lentamente per assaporarne appieno l’aroma. Un leggero senso di bruciore gli invase la gola, scendendo poi giù, fin nello stomaco. I suoi occhi si fissarono su qualcosa di invisibile, un punto lontano: forse, ciò che stava guardando, era la visione del suo prossimo futuro... e riprese a pensare.
Fino a poco tempo prima, ogniqualvolta il rampollo degli Hayes incrociava sulla sua strada quegli stranieri, o quando veniva anche solo accennato l’argomento con qualcuno, dentro di sé si rammaricava dell’avventatezza giovanile che lo aveva portato ad accettare con troppa enfasi un futuro già segnato. Ricordava che a quel tempo si era immaginato solo gli aspetti positivi della vicenda: una posizione importante a capo di una multinazionale – indipendente dall’impero del padre – condita da successo, potere e soldi.
Si bagnò appena le labbra con un altro piccolo sorso del drink, sospirando. Ricordava con nostalgia quando aveva raccontato quelle fantasie al gemello, profondendosi in monologhi entusiastici, gonfiando il petto d’orgoglio e vanità, decantando i vantaggi e le infinite possibilità di quel suo futuro, mentre l’altro era quasi un prigioniero nella sua stessa casa. Forse a quel tempo non aveva notato la delusione che Saga non era riuscito a mascherare del tutto, dietro le apparenti felicitazioni che gli aveva fatto e i sorrisi partecipi a quei discorsi, ma poco gli era importato, troppo concentrato su se stesso. Mai un solo istante si era preoccupato di spendere del tempo a considerare davvero a quali rinunce sarebbe andato incontro.
Si passò la mano sul viso, aggrottando la fronte per un momento. Quanti pensieri si stavano accavallando nella sua mente, per un semplice break che si era concesso dal lavoro.
«Che palle…» sbuffò un poco innervosito. «Se è questo che significa essere adulti, allora preferisco continuare a fare lo scemo.»
Non ci credeva nemmeno lui alle parole che gli erano appena uscite dalla bocca, in quel sussurro malinconico, sottintendendo il fastidio che gli davano quelle continue ondate di pensieri che lo stavano sfibrando ancor più che se avesse partecipato alla riunione annuale di tutti i contabili della corporation per la revisione dei bilanci.
Scrollò il capo con vigore, lasciando agitare liberi alla luce del sole i suoi fluenti capelli biondi che non avevano nulla da invidiare a quelli del gemello, provando a scacciare quei pensieri che si stavano intrufolando di nuovo nella sua testa. Ancora una volta gli parve di udire la voce di Saori, allegra e gioviale, provenire dal giardino.
Quanto gli ci era voluto per iniziare ad accettare davvero quella stramba idea? Qualche settimana? Perché negarlo era ormai impossibile: seppur tanto, troppo giovane, non sarebbe stato un grande scandalo averla come moglie, sempre che i sentimenti fossero reciproci.
Sospirò, scrollando di nuovo la testa.
Se solo avesse ragionato di più le cose sarebbero andate diversamente. Il padre una scelta gliel’aveva data. La possibilità di rifiutare quella proposta e di scegliere un’altra strada gli era stata messa lì, a portata di mano; Shion non glielo avrebbe mai rinfacciato. Anzi, forse sarebbe stato addirittura orgoglioso di lui. Ma a quindici anni era troppo stupido e arrogante; e i due piatti della bilancia che gli erano stati presentati gli erano sembrati così sproporzionati da non lasciargli effettiva scelta, considerata anche la sua indole. Se il padre glielo avesse proposto ora, da adulto, non ci avrebbe pensato due volte a dire di no, perché nel suo cuore c’era già una persona speciale, anche se non era così sicuro sarebbe stata quella giusta o meno.
Avvicinò il bicchiere alla bocca, senza però toccarlo con le labbra, ma soffermandosi un secondo di più a sentirne l’aroma. Il liquido ambrato mandò dei piccoli bagliori ai raggi del sole.
«Kanon!»
Il ragazzo, completamente perso nei suoi pensieri, sobbalzò nel sentire chiamare il suo nome con quello che gli parve un tono quasi allarmato. Si girò di scatto e vide il gemello sulla soglia della biblioteca, col viso leggermente arrossato e un lieve fiatone che gli faceva alzare e abbassare il petto in modo irregolare.
«Non credi che sia troppo presto per bere?» lo ammonì Saga.
Kanon avrebbe voluto rispondergli con una battuta del tipo “Da qualche parte nel mondo è l’ora giusta per bere”, ma si trattenne per risparmiarsi l’eventuale paternale che l’altro avrebbe potuto fargli. Invece, lo squadrò dalla testa ai piedi, osservandolo avanzare nella stanza e avvicinarsi a lui. Sembrava proprio il classico ragazzotto benestante e perditempo, con nessun pensiero o preoccupazione in testa, se non quello di divertirsi, che si vedeva nei vecchi telefilm polizieschi come Matlock, o Murder, she wrote che guardava di nascosto da adolescente.
Scarpe da ginnastica, pantaloncini corti, maglietta polo e pullover legato sulle spalle, tutto rigorosamente bianco panna, ma con qualche dettaglio in blu scuro e l’immancabile sorriso di chi è in perenne vacanza.
«Sei pronto per partecipare al torneo di Wimbledon?» gli domandò, con una mezza smorfia sulle labbra, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto assomigliare a un sorriso e invece era un qualcosa di indefinito.
Saga rispose alla sua battuta con un sorriso sereno, senza malizia, che fece sorridere più sinceramente anche lui.
«Sua maestà la regina aspetta anche te», replicò il gemello, battendo leggermente la racchetta sulla spalla.
«Allora dovrà attendere un bel po’!»
«Ma eravamo d’accordo per un doppio…» sussurrò un poco deluso Saga.
«Lo so. Mi dispiace, fratellino, ma ho troppo lavoro arretrato. Devo preparare un rapporto generale dettagliato e il nostro caro e amorevole genitore lo pretende per quando tornerà a casa questa sera.»
Il primogenito si avvicinò di nuovo alla scrivania, appoggiandovi il bicchiere e passandosi poi una mano fra i capelli, pettinandoli all’indietro e sospirando stancamente. Non ne poteva più di tutte quelle carte.
Borbottò qualcosa di incomprensibile, osservando il rapporto preliminare che era aperto sulla scrivania e che fino a una mezz’ora prima stava tentando, con poco successo, di studiare. Si appoggiò con entrambe le mani sulla scrivania, sbuffando scocciato. Il suo sguardo si spostò sugli altri rapporti, quelli accatastati in bella mostra alla sua sinistra, ancora da leggere e valutare. Il solo pensiero gli faceva venire il mal di testa.
«Io credo che un po’ di svago non possa che farti bene», disse Saga, raggiungendo il fratello e sedendosi sulla poltrona.
Kanon alzò un poco lo sguardo sul fratello. Con quell’angolazione particolare i suoi occhi sembravano quasi incolleriti per le parole che l’altro aveva appena pronunciato, nonostante lui non sentisse certo quel sentimento nei confronti del gemello; anzi, era ben felice di averlo vicino a sé. Ma era anche vero che un po’ gli aveva dato fastidio il suo atteggiamento. Era come se non si rendesse conto del momento che stava vivendo e dello stress che quella mole di lavoro gli provocava.
«Tieni!» Saga gli puntò la parte rotonda della racchetta contro il petto, spingendo un poco in modo scherzoso, senza far troppo caso allo sguardo scocciato dell'altro. «Prendi il mio posto e sfogati al Country Club. Tanto il campo cinque è prenotato per tutto il giorno; e poi ci sarà anche Aiolia! Non vorresti dargli una bella lezione come ai vecchi tempi? Per non parlare di quel Seiya. Sono sicuro che appena inizierai a prenderlo a pallate ti sentirai subito meglio!»
«Non sai quanto mi piacerebbe, ma non me lo posso permettere», rispose Kanon, scostando la racchetta.
«Certo che puoi!» ribatté Saga, infastidito perché lo vedeva così avvilito e rinunciatario. In quel momento non lo riconosceva più. Kanon non era mai stato così: era un ribelle, uno che amava divertirsi e cogliere al volo ogni occasione per fare un po’ di casino. «Ci penso io a smaltire questo lavoro e poi ti passerò un resoconto dettagliato.»
«Come quello dell’altra volta?» disse Kanon, con una punta di malizia nella voce.
«Nessun trucco od omissione, questa volta», lo rassicurò Saga, con un sorriso disteso, ma guardandolo dritto negli occhi.
Kanon rimase sbalordito davanti all’atteggiamento risoluto del fratello. Durò solo una frazione di secondo, ma in quello sguardo così deciso vide qualcosa di strano, che riuscì a turbarlo. Era come se all’improvviso si fosse reso conto che qualcuno gli aveva sottratto qualcosa di importante senza riuscire a impedirlo. Saga era diverso rispetto alle ultime settimane, ma in qualche modo era diverso anche da quegli ultimi tredici anni. C’era una luce particolare in quei suoi occhi verdi, dietro alla loro limpidezza e alla sincerità che li aveva sempre contraddistinti, c'era una nuova consapevolezza e una ritrovata gioia di vivere. Un fugace tuffo nel passato, a quando loro erano bambini e la vita era ancora solo un gioco.
Avrebbe dovuto rallegrarsi per quelle sensazioni, ma non sapeva spiegarsi il perché non ci riuscisse; non in quel momento, almeno. Da un lato gli dava fastidio vedere Saga con un atteggiamento così aperto e socievole, col sorriso sempre disegnato sulle labbra e una spensieratezza che talvolta gli sembrava fuori luogo, mentre lui si sentiva come soverchiato di preoccupazioni, di pensieri e… più vecchio di quanto non fosse in realtà. D’altro canto però, dietro un’invidia che non si faceva scrupoli di far capolino nella sua mente – e che non aveva il coraggio di confessare neanche a se stesso – si sentiva decisamente più sollevato nel vederlo di nuovo entusiasta, scherzoso e, perché no, anche un po’ infantile, ma nel senso buono.
In quell’ultimo mese erano tornati a essere più inseparabili che mai, eppure Kanon aveva avvertito che qualcosa era cambiato. Se n’era accorto già da tempo, ma ora era più evidente: il suo gemello era permeato da una serenità più piena, era più sicuro e più maturo. Ai suoi occhi, Saga mostrava un mix incredibile di emozioni colorate, più vere, che nulla avevano in comune con la monocromatica aura che lo aveva avvolto e protetto come una barriera, negli anni passati. Continuò a osservarlo, seduto alla scrivania, lasciando che il tempo scorresse libero, assaporando quella sensazione di affetto che sentiva spandersi nell’austera biblioteca. Sorrise a tutti quei pensieri, così diametralmente opposti a quelli che avevano invaso la sua testa quella mattina e gli stavano facendo uno strano effetto.
«Cosa ti ha fatto cambiare in questo modo?» mormorò, preferendo puntare il suo sguardo sul rapporto che Saga teneva in mano e che aveva appena iniziato a leggere, anziché sul gemello stesso.
«Hai detto qualcosa?» chiese Saga, alzando la testa.
«Stavo notando che c’è qualcosa di diverso in te.»
Kanon non badò alla perplessità dipinta sul viso dell'altro, si liberò un angolo della scrivania e vi si sedette, tornando a fissarlo. Ora se ne stava rendendo conto per davvero: di fronte a lui non c'era il debole Saga, quello sempre bisognoso di protezione perché incapace di reggersi sulle proprie gambe; non c'era il fragile Saga che al primo soffio di vento rischiava di dissolversi come un lieve miraggio; non c'era il cagionevole Saga che bisognava vegliare per tutta la notte per assicurarsi che lui si sarebbe svegliato il mattino seguente.
Sentì qualcosa incrinarsi dentro di sé e forse… forse finalmente comprese il significato di quell’improvviso vuoto e quel senso di solitudine che lo aveva angosciato qualche settimana prima. La spiegazione era così semplice. Non era abituato ad avere a che fare con un fratello che ora aveva la forza di affermare la propria indipendenza.
Ma ora, quale sarebbe stato il suo ruolo se il gemello avesse continuato per la propria strada senza aver più bisogno del suo sostegno? Forse lo spaventava un rapporto paritario con Saga?
«Ti senti bene?» gli chiese Saga, con voce preoccupata, trovandosi ancora sotto esame dallo sguardo ora corrucciato del gemello.
«Grazie, fratellino. Mi stai salvando la vita», disse Kanon, abbracciandolo all’improvviso, senza dargli ulteriori spiegazioni, ma lasciandolo ancor più esterrefatto e senza fiato per quel gesto.
Certo non poteva rivelargli ciò che davvero gli dava pensiero, si era quindi limitato a stringerlo forte, come se da un momento all’altro gli potesse sfuggire.
«Va bene, va bene…» ansimò Saga. «Ora però sparisci, prima che cambi idea. Ma domenica prossima mi devi una partita!»

Non appena vide sparire il fratello oltre la soglia dalla biblioteca, Saga tirò un sospiro di sollievo e si rilassò. Accantonò subito il lavoro che si era offerto di fare e per qualche secondo si dondolò sulla poltrona, pensando a come organizzarsi. Poi, da uno dei cassetti prese una piccola agendina con la copertina di pelle grigia, avvicinò a sé il telefono e compose il numero, attendendo.
«Martin!» chiamò, non appena sentì il “pronto” dall’altra parte della linea. «Smuovi il sedere e vieni alla villa, c’è del lavoro urgente da fare!» ordinò con tono deciso, ma se l’altro fosse stato nella stanza con lui, avrebbe visto un mezzo sorrisetto sulle sue labbra.
«Ma… capo, è sabato! Avevo organizzato un barbecue e una partita a poker con alcuni colleghi! Non si può rimandare a lunedì?» azzardò l’uomo, con voce un poco lamentosa. Anche se Saga non aveva un ruolo ufficiale nella società di famiglia, era sempre bene non contrariare troppo un Hayes.
«Scommetto che ci sono anche Jimmy e Stu, vero? Ottimo! Porta anche loro, più siamo e prima finiamo!»
Un analista di mercato, un contabile, un assistente legale… e poi c’era lui, il jolly del gruppo, che in sé racchiudeva le medesime competenze di tutti gli altri, ma che si era scelto il ruolo più semplice di dattilografo e di supervisore. Nel corso degli ultimi anni, Saga aveva formato quel piccolo team molto efficiente e affiatato, col quale svolgeva al meglio il lavoro che gli veniva assegnato dal padre e, all'occorrenza, prendendo in consegna anche quello di Kanon, ottenendo sempre ottimi risultati.
Attese per diversi secondi che dall’altra parte l’uomo replicasse qualcosa, ma alle sue orecchie arrivavano solo dei respiri incerti e nervosi.
«Sai, Martin, mi ritrovo fra le mani un paio di biglietti per quel match tanto atteso al Madison Square Garden. Sono posti riservati, in ottima posizione… ma non so cosa farci. Mi dispiacerebbe se andassero sprecati. Tu mi avevi detto che ti interessava quell’evento, non è vero?» gli chiese, con voce pacata, quasi melliflua.
Saga era certo che sarebbe bastato solo un piccolo incoraggiamento per ottenere ciò che voleva e la conferma gli arrivò pochi istanti dopo con un verso strozzato dell'impiegato che fece ben intendere che avrebbe ceduto a quella richiesta. Gli concesse mezz’ora per presentarsi da lui, passando naturalmente dall’accesso secondario, quello che costeggiava il lago. Terminata la telefonata chiuse gli occhi, soddisfatto e si rilassò completamente. Non gli restava che vincere la sfida con Kanon per ottenere quei famosi biglietti e tutto si sarebbe incastrato alla perfezione. Quella era la parte più facile: Kanon era un ottimo atleta, uno sportivo d’eccellenza, imbattibile a basket e a hockey, ma a tennis non aveva speranze contro di lui. Negli ultimi dieci anni Saga non era mai stato battuto e non lo sarebbe stato neppure questa volta, vista la posta in palio.
Nel silenzio della biblioteca si sentì il lieve suono della vibrazione del suo smartphone. Sul display comparve il nome di Jenny, storse la bocca in una smorfia nel leggerlo. Continuò a fissarlo fin quando non smise di vibrare e tirò un sospiro di sollievo. Non che gli desse fastidio che lei lo volesse contattare dopo tutte quei mesi di silenzio, ma sapeva bene cosa voleva da lui e ora non c'era più possibilità di rimettersi assieme.
Non riuscì a terminare quei pensieri che il cellulare si animò una seconda volta: ancora una volta era lei. Saga scelse di non rispondere e di nuovo attese. Poi fu la volta di un messaggio. A questo poteva anche dare un'occhiata. Se ne pentì subito: il tono era drammatico e teatrale come solo Jenny sapeva essere, gli comunicava che al ritorno dall'Europa Cicci e lei avrebbero passato tutto il mese di settembre al Country Club e non vedevano l'ora di stare con lui.
Si lasciò andare a una risatina, mentre cancellava il messaggio; fece un pensierino anche se cancellare in maniera definitiva dal cellulare il contatto di Jenny, ma ci ripensò. Appoggiò lo smartphone sulla scrivania e si concesse qualche altro secondo per rilassarsi.
Certo, non aveva programmato di farsi carico del lavoro di Kanon, ma almeno per qualche ora sarebbe stato in pace con i propri pensieri e soprattutto non avrebbe dovuto fingere una spensieratezza che in quell'ultimo periodo non gli apparteneva. Presto però, le cose sarebbero cambiate.

Si alzò di slancio dalla poltrona e, dopo essersi messo in tasca il cellulare, a passo spedito, andò in cucina, dove Francine stava lavorando con dedizione, nonostante quel giorno avrebbero pranzato tutti al Country Club. Si annunciò con qualche colpetto di tosse, avvicinandosi poi piano, con accortezza, poiché la donna non reagiva molto bene alla gente che le arrivava alle spalle di soppiatto e soprattutto non le piaceva essere controllata nel suo lavoro.
«Buongiorno, Francine», la salutò, sfoderando il suo miglior sorriso e lo sguardo più dolce che fosse in grado di fare.
La donna mosse il capo in risposta, ma continuò a tritare le erbette aromatiche che aveva sul tagliere.
«Avrei da chiederti una piccola cortesia…» Un toc un poco più forte lo mise in guardia dal non osare troppo. Sospirò. «Vorrei organizzare qualcosa di speciale per la cena di domenica prossima.»
La donna ebbe un leggero tentennamento col movimento della lama. Poi, lentamente, alzò lo sguardo sul giovane padrone di casa. Non era certa di ciò che il ragazzo stava per chiederle, ma sperava di avere un po’ di libertà per il menù.
«Ci sarà un ospite particolare, molto importante per me, e…» Saga trattenne per un attimo il respiro, sotto lo sguardo torvo della cuoca. Non che la donna lo mettesse in soggezione, anche se era in qualche modo la pupilla di Nanny e lei sì che sapeva mettere in riga la gente quando serviva, ma bisognava lo stesso andarci cauti con lei. «Come te la cavi con la cucina italiana?» azzardò.
«Le ho mai preparato qualcosa che non fosse buono?» ribatté lei in risposta, lasciando il coltello sul tagliere e incrociando le braccia al petto. Quella domanda l’aveva percepita come una mancanza di fiducia nei suoi confronti e, posta in quel modo, le era parsa persino offensiva.
«La nostra Francine si è già cimentata nella cucina italiana regionale e con gran successo, dovresti saperlo bene!» disse Nanny, entrando in quel momento nella stanza e avvicinandosi alla donna. «E se tu ci fossi stato, quando abbiamo mangiato quel meraviglioso brasato, adesso non avresti bisogno di fare una domanda tanto sciocca», lo rimproverò.
Per la prima volta in vita sua, Saga stava sperimentando com’era mettersi contro due donne e sentirsi letteralmente sbattuto all’angolo: da un lato c’era la cuoca che lo guardava un poco risentita, dall’altro invece, Nanny aspettava una spiegazione e delle scuse da parte sua. Dopo tutti quei giorni, il giovane non si era ancora confessato con lei e questo stava iniziando a diventare una brutta abitudine. Soprattutto, l’anziana donna sentiva che il suo piccolo si stava allontanando dalla sua ala protettrice.
«Ehm… sarebbe quindi improprio chiedere di replicare lo stesso piatto, vero?» domandò lui, con timido imbarazzo.
Nanny voltò lo sguardo verso Francine, rivolgendole una tacita domanda e questa, sbuffando pensierosa, annuì la testa.
«Qualunque cosa vorrai venisse servita a questa cena, Francine saprà di sicuro accontentarti.»
La fiducia della governante di villa Hayes nelle capacità della cuoca era ben riposta, non solo perché la donna non aveva mai mancato di sfoggiare le sue doti culinarie che l’avevano resa un’esperta della cucina americana, ma grazie a quella sua passione era diventata una fine conoscitrice anche di quella europea. Non a caso il suo sogno nel cassetto era da sempre un tour gastronomico nelle più belle città francesi e italiane.
«Vuole qualcosa di particolarmente oppure restare nel classico? Freddo o caldo? Impegnativo oppure leggero?» domandò con tono burbero la cuoca; e sarebbe andata avanti ancora per un bel po’ con quelle domande, se non avesse notato come il giovane fosse stordito da tante opzioni.
«Credo… credo…» Saga si portò una mano alla testa, grattandosi la fronte leggermente aggrottata; stava provando a ricordare se lei gliene avesse parlato o meno. «Cucina del Nord Italia», disse, anche se non ne era certo. «Francine, ti do piena libertà nella scelta!» disse, provando in quel modo a riconquistare i favori della cuoca, semmai li avesse mai avuti.
La donna era un individuo assai indecifrabile per ognuno dei membri di quella famiglia e nessuno, a esclusione di Nanny naturalmente, sapeva come prenderla per il verso giusto. E poi, se ripensava a quante volte aveva fatto il difficile con i piatti che lei gli aveva cucinato, quando era malato… con tutta probabilità lui era quello visto meno di buon occhio dalla cuoca.
«Qualcosa di speciale, particolare… magari rustico, ma unico! Che faccia venire nostalgia di casa», concluse, con uno strano sorriso imbambolato disegnato sulle labbra.
Nanny sospirò, scrollando la testa. Vedere così il suo piccino le faceva uno strano effetto. Era infine arrivato anche per lui il tempo provare il vero amore e lei non poteva farci nulla, non poteva fermare il tempo e proteggerlo da tale sentimento. E al diavolo le altre storie che aveva avuto negli anni passati, lo sapeva bene che non avevano mai avuto alcun valore. In quell’aspetto Saga era proprio come Shion. Ma ora… ora era diverso. Lo sguardo languido del giovane era lo stesso che lei aveva visto negli occhi di suo marito durante i primi anni di matrimonio, prima che si rivelasse il buono a nulla che era; e, a malincuore, doveva ammettere che era lo stesso sguardo che aveva visto negli occhi di Georgie – e che ancora vedeva – quando aveva conosciuto quel disgraziato del suo genero.
«L’amore…» sospirò lei, con gli occhi che erano diventati un poco lucidi.
«Va bene!» acconsentì la cuoca, riprendendo in mano il coltello e ricominciando a tritare, ancor più finemente, le erbette sul tagliere, che sarebbero servite per la marinatura dei filetti di salmone che erano in programma per la cena. C’era però qualcosa di diverso da prima: i toc rimbombavano pericolosamente più secchi e nervosi di prima.
Saga rimase ancora qualche minuto in cucina, ma più passava il tempo, più si faceva largo la consapevolezza che quel luogo diventava meno sicuro per la sua salute. Se avesse provato a disturbare ancora Francine, avrebbe di sicuro rischiato la vita. Preferì salutare educatamente le due donne e svignarsela, rinunciando a soddisfare il languorino che saliva dal suo stomaco: certi odorini, che si spandevano in quell’ambiente, avrebbero risvegliato l’appetito anche di un morto.

Salì di corsa, a due a due, i gradini dello scalone principale, con il cuore che batteva forte nel petto e si rintanò nella sua camera da letto. Presto sarebbero arrivati i suoi collaboratori, ma aveva ancora alcuni minuti tutti per sé. Una volta nel suo rifugio, il sorriso che aveva continuato a mostrare a tutti quanti lasciò posto a una maschera di triste malinconia. Lì dentro poteva liberare i suoi veri sentimenti, senza correre il rischio che qualcuno lo assillasse per saperne il motivo. In quell’ultimo mese aveva sperimentato ancora di più quanto potesse essere pesante e opprimente lo sguardo di tutti su di sé e il dover misurare ogni azione per non far trasparire il disagio che provava a essere studiato così al microscopio.
Lì era libero. Fece un respiro profondo: presto non avrebbe dovuto più fingere di essere sereno e spensierato.
Come un fanciullo birichino si lasciò cadere sul letto, osservando le piccole ombre sul soffitto che animavano quella tela bianca. Respirava con lentezza, sorridendo, mentre accarezzava con la mano il copriletto chiaro. La luce del sole entrava invadente nella stanza; un refolo di vento smuoveva le tende leggere in una danza delicata e armoniosa.
Prese il cellulare dalla tasca e si girò sul fianco. Attivò lo schermo, aprì la casella dei messaggi e rilesse l'ultima chat tenuta con Cora. Il sorriso tornò a fare capolino sulle sue belle labbra. Era rimasto sdraiato, a sognare a occhi aperti, per per almeno cinque minuti buoni. Poi, con improvvisa apprensione diede guardò l’ora, tirando un sospiro di sollievo: aveva tempo.
Si alzò dal letto e si affacciò alla finestra aperta, senza però uscire sul balconcino, che Kanon, in un momento di particolare malizia, aveva ribattezzato di Romeo. Non se l’era presa per quella presa in giro, ma da quel momento in avanti si era sentito un poco in imbarazzo ad affacciarvisi. Col cellulare ancora in mano aprì la rubrica e selezionò il numero di Cora. Lasciò squillare per diverse volte, aspettando paziente.
«Ciao», la salutò con un sorriso. Dall’altra parte ci fu un leggero ansimo, poi anche lei rispose. «Come vanno le cose da te?»
«Tutto bene. Mia madre mi fa impazzire; non mi lascia sola neanche quando voglio uscire a fare spese o a fare una passeggiata! E da te?» chiese lei, trattenendo il respiro.
«Qui è sempre tutto grigio… perché non sei con me.» Dall’altra parte della linea Saga sentì una risatina divertita, nonostante Cora avesse cercato di camuffarla. «Troppo sdolcinato?» disse, per nulla in imbarazzo, né offeso.
«Sì. Però mi piace.»
«Mi manchi», disse all’improvviso Saga, con tono più serio, ma c’era anche tanta dolcezza nella sua voce e un poco di malinconia.
«Mi manchi anche tu», replicò lei, sospirando. «Mi hai chiesto di tornare dalla mia famiglia e l’ho fatto; mi hai chiesto di rimanere qui per qualche giorno e l’ho fatto. Ma quando potremo stare di nuovo assieme?»
Saga non poteva vederla ma lo sentiva che dietro l’emozione che permeava la sua voce si nascondeva tanta tristezza e forse anche un velo di risentimento.
«La casa è ormai pronta. Volendo, potresti tornare anche subito», le disse, «ma…» Fece una pausa, mordendosi il labbro; non sapeva come lei avrebbe preso una richiesta del genere. «Vorrei che tu rimanessi lì ancora un po’. Voglio che tutto sia perfetto per quando ti presenterò in famiglia.»

*****

Philadelphia
Come ogni volta che sentiva la sua voce, o riceveva un messaggio da lui, l’umore di Cora schizzava alle stelle. Quell’euforia durava qualche ora, le faceva sembrare tutto bello, le dava infinite energie per fare qualsiasi cosa e poi, come se le batterie si scaricassero all’improvviso, cadeva in un lieve stato di malinconia e inedia.
Talvolta si sentiva fuori posto, in quella che era stata la sua casa dopo che sua madre e lei – assieme al fratellino ancora in fasce – se n’erano andate da Boston; si sentiva come un’ospite non sempre gradita, come un’estranea. Lei stessa faceva poco o nulla per migliorare quello stato di cose. Tutti in casa si erano un po’ abituati a vederla così.
In quelle occasioni, Teresa provava a scuoterla, a coinvolgerla nella cucina, nella stesura dell'ultima bozza a cui stava lavorando, o in qualsiasi altra cosa le passasse per la mente per distrarla: qualche volta ci riusciva, altre volte invece preferiva non insistere troppo, per non peggiorare le cose.
Phillip non vedeva di buon occhio quella situazione, ma immaginava bene a cosa potesse essere dovuto quel suo comportamento. Sapeva che in qualche modo c’entrava il tizio col quale lei ora viveva, però non aveva mai esternato le sue preoccupazioni con la compagna per non generare altre preoccupazioni e successive discussioni. Aveva sempre confidato nel buon senso della sua figlioccia e così avrebbe continuato a fare, ma al primo sentore di problemi non avrebbe esitato a risolvere a modo suo. Su quel punto era stato fin da subito molto chiaro con Cora.
E Mike… lui era un solo ragazzino che stava entrando nella fase problematica dell'adolescenza. Si era stufato presto della situazione e aveva continuato con la sua vita come nulla fosse. Del resto, sapeva che prima o poi la sorella se ne sarebbe andata di nuovo, dimenticandosi di lui.
Era passata quasi una settimana dalla richiesta di Saga di rimanere a Philadelphia e pazientare ancora un poco. In quegli ultimi giorni il comportamento di Cora aveva iniziato a cambiare gradualmente. Aveva iniziato a sentirsi strana, più stanca e assonnata del solito e anche più volubile di quanto non fosse già di natura.
Quel giorno, nonostante fossero le undici e mezza passate di mattina, la ragazza si era ritirata in camera sua e si era stesa di nuovo sul letto, accoccolandosi per bene sotto la coperta e stringendo al petto uno suoi vecchi peluche. Nei primi tempi le era parso strano tornare a dormire nella sua vecchia stanza, ma non aveva potuto farci nulla: l'appartamento che la madre le aveva comprato e che per tanti anni aveva condiviso con Chris, era stato dato in affitto a una giovane coppia di professionisti. Non poteva certo pretendere di rompere il contratto e cacciarli da lì solo per qualche settimana che si sarebbe fermata in città. E quella non era stata l’unica novità che aveva trovato: Chris era tornato a vivere dai genitori, almeno per il tempo che rimaneva prima del suo trasferimento in California; ma non solo, l’aveva anche sostituita all’agenzia investigativa dello zio Phil! Ed essendo lui uomo, lo zio lo portava spesso in “missione” con sé.
Cora iniziò a tormentarsi le dita, sbuffando e sospirando, agitandosi e rigirandosi nervosamente sul materasso. Le sembrava di essere diventata la protagonista adolescente di un filmetto rosa, preda dei primi amori: sempre con le farfalle nello stomaco, un sorrisetto ebete stampato sul viso e negli occhi le perenni fantasie di una vita assieme alla sua anima gemella.
Quella situazione, a dire il vero, in parte l’aveva già vissuta. Non era stato certo tutto cuoricini rosa e occhioni sbrilluccicanti con Chris, ma quell’impazienza, la voglia di vivere assieme a lui, in una casa tutta loro… erano le medesime che sentiva in quel momento, con la sola differenza che – anche se non riusciva a capirne il motivo – questa volta non voleva confidarsi con nessuno su ciò che provava e per chi lo provava.
Si girò sul fianco, schiacciando quel povero gufetto di peluche che teneva stretto a sé e che aveva visto giorni migliori. Con gli occhi chiusi, affondò il viso nella morbida pelliccia sintetica, mentre ripensava di nuovo a quegli ultimi giorni trascorsi a Boston: i più felici della sua vita, a dispetto di quello che aveva detto Saga, ovvero che si sarebbe stancata di vederlo gironzolare per casa senza niente da fare. Forse, complici anche i lavori per risistemare l’appartamento e i tanti progetti che avevano discusso, non c’era stato mai un attimo di vera noia. Le era sembrata quasi una maledizione, uno strambo e innocuo stalker che la seguiva ovunque andasse ad abitare, quel continuo dover impacchettare e spacchettare le sue cose, spostare, smontare, coprire con i teli di plastica e i fogli di giornale tutto quello che doveva essere salvaguardato. Ma in fondo, un po’ la divertiva pure. Le era sempre piaciuto rivoluzionare la casa. In quell’occasione aveva visto in Saga un lato che non immaginava potesse avere; si era sorpresa di scoprire che il ragazzo che amava era un bravo architetto, nonostante non avesse mai studiato tale materia.
E poi, le notti: belle e romantiche, dolci, passate a parlare, a fare l’amore, a coccolarsi e prendersi cura di Kitty che proprio in quei giorni era stata portata di nuovo dal veterinario, ma questa volta per essere sterilizzata. Non che le volessero male, ma non sarebbe stato facile, né pratico, dover gestire la gattina in condizioni “diverse”, così come non avrebbero potuto, di conseguenza, tenere altri cuccioli. Forse era in qualche modo crudele ed egoistico, ma perché mettersi in una situazione che poi non avrebbero potuto gestire?
«Kitty…» mugugnò, un po’ in pensiero per quella gattina.
Ancora non erano diventate anime gemelle, né poteva dire di andare d’accordo con quella piccola peste, ma ormai si stava affezionando a lei; e poi, Saga l’adorava e quella palletta di pelo ricambiava fin troppo. Cora ci passava sopra, perché nonostante la sciocca gelosia che sentiva nei confronti dell’animale, era bello vedere Saga sorridere quando giocava con lei. Le era dispiaciuto non averla potuta portare con sé a Philadelphia, poiché suo fratello era allergico; e neanche Saga aveva potuto portarla alla villa. Non aveva domandato il motivo, ma aveva capito che lui si era sentito in un certo imbarazzo quando avevano discusso sul da farsi. L’unica soluzione che era sembrata praticabile era stata allora quella di lasciarla in custodia a Jade, la vicina impicciona che abitava nella palazzina oltre il cortile.
Sospirò.
Si sentiva stanca, di nuovo, come se non dormisse da giorni; eppure le ore di sonno erano aumentate visibilmente. In quegli ultimi giorni passava più tempo in camera, stesa sul letto, che in piedi con gli altri. Lentamente si stava lasciando vincere ancora una volta dalla sonnolenza, come sotto l’influsso di un anestetico o di una qualche strana malattia del sonno. Le stava capitando fin troppo spesso. “Solo qualche minuto”, ripeteva fra sé e sé, guardando l’ora sul display della sveglia. Ogni volta le sembravano solo pochi minuti, ma quando riapriva gli occhi erano passate delle ore.

*****

Aprì lentamente la porta della camera, sbadigliando senza troppo riguardo. La casa era invasa dalla luce del sole; in una delle stanze si sentiva risuonare della musica: rumorosa e fastidiosa, pensò Cora, non del tutto lucida. Con dei vecchi calzettoni grigi e rosa ai piedi percorse il corridoio fino ad arrivare in cucina, dove proveniva un delicato aroma di agrumi.
Il suo stomaco brontolò, ma non era sicura se fosse per la fame o per il leggero senso di nausea che sentiva persistente in quegli ultimi giorni. Entrò, sbadigliando e stiracchiandosi la schiena.
«Buon pomeriggio, tesoro. Hai fame? Ti ho tenuto da parte un po’ di salmone, vuoi che te lo prepari?» le chiese la madre, intenta a mescolare nella casseruola una crema molto densa.
Cora si limitò ad annuire svogliata e si avvicinò al frigorifero per prendere qualcosa, qualsiasi cosa la ispirasse sul momento, perché proprio non aveva idea di cosa voleva.
Dal salotto arrivarono delle voci estranee. Ci mise qualche secondo per rendersi conto che si trattava della televisione: era il telegiornale. Anche se era da un po’ di tempo che non lo sentiva più, alla fine riconobbe la voce dell’anchorman, con quell’inconfondibile esse sibilante che le faceva accapponare la pelle.
«Ma... sono le news delle cinque?» chiese, voltandosi verso la madre. D’un tratto era completamente sveglia.
Teresa annuì, sorridendo. «Sei riuscita a riposare?» le chiese. La preoccupazione per la salute di quella figlia un po' distratta era sempre fra i suoi pensieri. «Allora, hai fame?»
Cora fece spallucce, mentre si avvicinava a lei per dare una sbirciatina a ciò che stava facendo la donna.
«È crema pasticcera all’arancia», disse «In frigorifero ci sono delle coppette, sono le prove che ho fatto. Prendine pure una, così mi dici se ti piace.»
La ragazza non se lo fece ripetere due volte e, bella pimpante, arraffò quella che le sembrava la più piena.
«Quest’anno ho pensato di variare un po’ la nostra solita torta di compleanno.»
«È squisita!» esclamò la giovane, con la bocca piena di quella dolcezza all’arancia. «Mmh… ma c’è anche il Pan di Spagna al cacao!» disse, dopo aver preso un secondo boccone più che generoso, affondando il cucchiaio e scoprendo sul fondo della coppetta quella base golosa, bagnata con sciroppo, sempre all’arancia.
«Non è Pan di Spagna, ma una pate génoise», rivelò Teresa. «Una pasta genovese», ripeté, ma questa volta in italiano, anche se ormai la sua pronuncia aveva assunto le tipiche storpiature degli italoamericani.
Del resto, la sua lingua madre l’aveva abbandonata molti anni prima, ovvero da quando i suoi genitori erano tornati in Italia per vivere lì gli anni della pensione. Ci aveva provato a insegnare l'italiano alla figlia, anche per mantenersi in esercizio, ma con scarsi risultati. Caroline non se n’era mai interessata veramente. Tutto il contrario di Mike che invece si stava preparando seriamente allo studio dell’italiano; e che voleva scegliere come lingua straniera quando avrebbe iniziato a frequentare le medie.
«Il risultato è simile, ma il procedimento è differente!» spiegò la donna.
Cora ridacchiò divertita, non solo per quella escursione nell’italiano che non sentiva da quando era bambina, ma anche per la posa da esperta che aveva mostrato la madre. «Vedo che conosci la materia, ti stai documentando per un libro di cucina? Stai cambiando genere?» le chiese, continuando a mangiare di gusto. Poi, all’improvviso, si chetò, sedendosi sulla sedia e sbuffando fuori l’aria, un poco spossata.
«Ti senti bene?» le chiese Teresa, intravedendo con la coda dell’occhio la figlia che si passava la mano fra i capelli in modo svogliato.
Cora annuì, sospirando e tornando a ripulire la coppetta che teneva in mano, ma non era stata molto convincente: il suo viso era pallido.
Versata la crema in una ciotola immersa in acqua ghiacciata e applicata poi della pellicola da cucina, la donna abbandonò il resto e si avvicinò alla figlia, accarezzandole la fronte e le guance. La sua temperatura non era affatto normale: al tatto sembrava gelida.
«Sei sicura di star bene? Ti sei ricordata di fare le analisi di controllo?» le chiese, con un poco di preoccupazione nella voce. E questa volta non si trattava di preoccupazioni superflue di una madre troppo apprensiva. «Hai avuto altri episodi come questo?»
Sapeva che la figlia non si era mai curata più di tanto della propria salute e spesso ignorava i consigli del medico di sottoporsi ai normali controlli, ma da dopo il suo ferimento, subìto qualche anno prima, questi erano diventati ancora più necessari; fintanto che era rimasta a Philadelphia, era stata ligia ai suoi doveri, ma lontano da tutti…
Cora scrollò la testa.
«Sto bene, è solo un po’ di stanchezza. Sarà la primavera!» scherzò lei, ma non poteva darla a bere alla madre.
«Beh, un controllo non ti farà certo male! Domani andremo alla clinica, così saremo tutti più tranquilli!» stabilì Teresa.
«Ma perché perdere tempo? Sarà solo un po’ di mancanza di ferro! Niente che non si possa sistemare con qualche integratore, proprio come abbiamo sempre fatto.»
«Hai forse qualcosa da nascondere?» insistette Teresa, questa volta un po’ contrariata. «Questo mese le hai saltate, vero? C'è qualcosa che vuoi dirmi?» le disse; non c’era alcuna traccia di accusa o parvenza di rimprovero serio nella sua voce.
Cora arrossì senza volerlo; certi argomenti, anche se li affrontava fra donne, la mettevano in forte disagio e parlare con sua madre di “quella” cosa, così come della sua vita sessuale, era ancora più imbarazzante.
Posò la coppetta sul tavolo e sospirò. Sapeva di non aver fatto nulla di cui vergognarsi, anche se in effetti qualcosa della quale non poteva parlare c'era.
«Lo sai che negli ultimi anni sono stata molto irregolare», si giustificò. «Talvolta mi capita di saltarlo proprio, o di avere perdite quasi irrilevanti. E sai bene anche cos’hanno detto i dottori…» disse, con voce malinconia.
Abbassò lo sguardo per nascondere gli occhi che stavano diventando lucidi. Era strano ciò che provava in quel momento, forse senza senso. Eppure, nonostante stesse ripensando che a causa della sua imprudenza si era condannata lei stessa a un destino tanto triste, che non le avrebbe mai fatto provare la gioia della maternità, il suo pensiero andava a Saga e a quanto sarebbe stato bello formare una famiglia con lui.
«Ricordo che dissero che non è impossibile, che anche se ora le probabilità si sono ridotte a una percentuale esigua, non è detto che la situazione in futuro non possa migliorare e che tu non possa avere figli», la rassicurò la donna, accovacciandosi di fronte alla figlia e prendendole le mani nelle sue.
Era commovente vedere come la madre ci credesse più di lei, in quel miracolo che l’aveva sempre delusa. E questo la faceva sentire ancora più in colpa per l’accaduto, perché non solo aveva negato a se stessa la possibilità di avere dei bambini in futuro, ma anche dei nipoti alla madre.
Cora sospirò ancora una volta, senza replicare nulla o insistere sul fatto che era sicura al cento per cento che mai sarebbe diventata madre.
«Lo so che c’è qualcosa che non va, sono tua madre e ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa», insistette lei, accarezzandole la guancia. «Per favore, confidati con me.»
«Non c’è niente che non va, mamma. Anzi, è tutto il contrario, sto bene e sono felice», rispose Cora. Il suo sorriso era un poco forzato, ma solo perché si sentiva stanca. «Potrei… potrei averne ancora un po’ di dolce?» chiese, ritrovandosi d’un tratto stretta in un abbraccio che toglieva il fiato.
«No!» disse la donna, lasciandola libera e alzandosi. «In questi ultimi giorni hai messo su un po’ di peso, con tutte le schifezze che rubi dal frigorifero a orari indecenti. E poi, stasera si cena presto! Ora via, lasciami finire qui, così poi la preparo.»

*****

L’indirizzo che gli aveva fornito Saga – e che ora stava rileggendo sul foglietto su cui l’aveva appuntato – corrispondeva a una tranquilla palazzina dai mattoni rossi a vista e dalla cancellata scura. Prima di presentarsi, aveva fatto qualche ricerca per conto suo e aveva scoperto che lì era anche ubicata l’agenzia investigativa di Phillip Burton, nonostante non ci fosse alcuna targa a conferma di ciò.
Fece una smorfia.
Se non gli fosse importato almeno un poco, forse avrebbe tirato dritto anche lui; ma Aiolos, seppur di mala voglia, si era preso quell’impegno, soprattutto perché Saga glielo aveva chiesto in maniera così accorata che d’istinto aveva accettato, pentendosene neanche due minuti dopo. Possibile che da quando il loro rapporto si stava facendo più disteso lui non riuscisse più a rifiutare quello che l’altro gli chiedeva? Che Saga avesse una sorta di potere ammaliatore che rimbecillisse tutti quanti gli stavano attorno? Con lui stava funzionando alla grande e questo, col senno di poi, gli scocciava.
Pagò il taxi e tornò a studiare l’ingresso di quella palazzina – neanche quel portone fosse l’entrata degli Inferi – ruminando il chewing-gum in modo nervoso. Sbuffò, maledicendo la sua imbecillità, perché in quel momento si trovava di nuovo lì, a Philadelphia, con la concreta possibilità di ricevere lo stesso trattamento dell’ultima volta. Sputò a terra il chewing-gum e spinse il cancello di ferro battuto, percorrendo a passo deciso quei pochi metri che lo separavano dal portone. Diede una rapida occhiata ai vari nomi sul citofono: si sorprese nel non vedere il nome Miller su nessuna targhetta, in compenso però compariva quello di Burton. Premette il bottone e attese.

*****

«Tu, ragazzino!» lo apostrofò la madre, con tono di rimprovero. «Dove credi di andare?»
«Al campo di baseball!» non si fece attendere la risposta del figlio, pronunciata con voce rabbiosa.
Poco dopo, si sentì in modo distinto lo sbattere di una porta e una camminata pesante percorrere il corridoio fino a interrompersi bruscamente appena prima di passare davanti al salotto.
Senza attendere il permesso da parte della madre, Mike si mise a tracolla la borsa sportiva e si calò in testa il berretto dei Philadelphia Phillies, la sua squadra del cuore. Dal ripostiglio prese la mazza da baseball e il guantone.
«I miei compagni mi stanno aspettando per l’allenamento!» le gridò ancora incollerito, borbottando poi qualcosa fra sé e sé. Era solo poco più che una squadretta da oratorio, ma lui ne era orgoglioso come se fossero dei campioni della National League.
Fece qualche passo, poi si bloccò di nuovo, borbottando una seconda volta: forse imprecando. Quindi tornò di corsa nella sua stanza, dove Teresa stava terminando di piegare e ritirare la biancheria del figlio, per prendere il pacchetto di chewing-gum e i nastri di liquerizia che aveva dimenticato sulla scrivania.
«Non voglio che tu ci vada!» gli disse la donna, con tono secco. «Non oggi, almeno! Per favore…» concluse con maggiore indulgenza, vedendo che indugiava lì, scartando una di quelle sue gomme per poi mettendosela in bocca.
Cora scrollò la testa. Non ricordava una sola occasione in cui il suo fratellino si fosse mai rivolto in quel modo così maleducato alla madre, né aveva mai sentito lei essere tanto brusca con lui, eppure in quei giorni sembrava una triste consuetudine. Alzò la testa dal cuscino del divano e si tirò un poco su, fino a sbucare da sopra lo schienale, rivolgendo lo sguardo alla soglia del salotto. Ancora sentiva le voci alterate dei due che si rispondevano a vicenda, anche se non riusciva ad afferrare bene ciò che si stavano dicendo, ma non era sicura di volersi immischiare troppo. Si lasciò cadere di nuovo sul divano, sbuffando e portandosi un braccio a coprire gli occhi.
«Che c’è?» le chiese Chris, seduto sulla poltrona che di solito occupava Phillip, intento a smanettare con il tablet.
«Mi sembra che in questi giorni il mondo stia girando alla rovescia…» mugugnò Cora. «A te non sembra?» disse, girandosi sul fianco e tirandosi di nuovo su, puntellandosi con il gomito.
Chris abbozzò un sorriso, senza staccare gli occhi dal display.
«Ma cosa gli prende?» disse, basita per il comportamento del fratellino.
«Ti ha sentito che parlavi con Phillip: crede che tu voglia tornare a Boston con il volo di questa sera e che non ti importi di festeggiare il vostro compleanno tutti assieme», le rispose in tono tranquillo Chris, sempre concentrato sul tablet, picchiettando con l’unghia dell’indice sul bordo.
«Ma non è vero!» protestò lei.
«Non puoi negare però che con la testa tu ci sei già da parecchio. Anzi, credo che tu non te ne sia mai andata da lì.»
Cora sbuffò. Sapeva che in un certo senso era la verità. «Cosa stai guardando di tanto interessante?» Si girò verso l'ex con aria perplessa per l'indifferenza del ragazzo riguardo a ciò che stava accadendo in casa e intanto tendeva l'orecchio per sentire cosa stessero dicendo, anche se in quel momento tutto taceva, o quasi.
«Sto controllando gli annunci immobiliari. È vero che inizierò con mio nuovo incarico solo il prossimo semestre, ma vorrei evitare di dover alloggiare in qualche motel o pensioncina sgangherata, magari gestita da un vecchina sdentata e impicciona. Ecco! Guarda questo per esempio: trilocale composto da due camere da letto, cucina openspace e due bagni.»
«Interessante! E quanto ti costerebbe? O forse pagano i tuoi?» chiese lei, ironica.
Si mise seduta più composta e si appoggiò con la schiena ai cuscini del divano. Lasciò vagare il suo sguardo per la stanza, cercando di osservarne ogni minimo dettaglio. Solo in quel momento si stava rendendo conto che c’era qualcosa di diverso dall’ultima volta che vi aveva messo piede, prima della sua partenza per Boston, ma non riusciva a capire di cosa si trattava.
«Anche stasera scroccherai la cena?» chiese, spezzando il silenzio teso che in quel momento aleggiava per tutta la casa.
«Ti dà fastidio?»
«No», rispose lei, facendo spallucce. «Era tanto per chiedere.» In realtà le piaceva che lui frequentasse la casa, era un po' come tornare ai vecchi tempi.
«Ti aspetto alla macchina!» disse Mike, passando come un fulmine davanti al salotto e uscendo subito dopo da casa, sbattendo la porta.
I due giovani si guardarono per qualche secondo negli occhi, sbattendo le palpebre quasi all’unisono, davanti a quella scena assurda.
Cora sospirò e si alzò dal divano, passandosi le mani a massaggiare le cosce, fasciate in un paio di leggings sportivi grigio melange che sentiva un poco indolenzite. La spossatezza di quegli ultimi tempi quel giorno in particolare si faceva sentire più insistito. Poi, si risistemò un poco il bordo della maglietta sbracciata, forse un po’ troppo corta, che lasciava intravedere l’ombelico.
Chris si affrettò a riportare la sua attenzione al tablet, per non farsi accorgere che la stava osservando, ma gli era impossibile continuare a concentrarsi sulla sua ricerca, sapendo che la sua ex – che in quel momento si era messa a rassettare il divano – era lì vicino a lui e faceva dei movimenti così sensuali, anche se inconsapevolmente. Si sentiva strano. Era come se la vedesse per la prima volta e provasse una nuova e fortissima attrazione fisica nei suoi confronti.
Dov’era finita la ragazza semplice e vitale che aveva amato e con la quale aveva condiviso l’appartamento fino a pochi mese prima? Dov’era nascosta quella donna che ora stava osservando in modo non proprio casto?
Eppure era sempre lei, Caroline, la ragazza di cui si era innamorato alle superiori e con la quale aveva perso la verginità, colei che nei loro progetti sarebbe diventata un giorno sua moglie. Alzò di nuovo lo sguardo su di lei, sul suo corpo che ora gli sembrava più generoso e di una morbidezza più sensuale e matura. Era sempre lei, eppure era diversa. Ma forse i suoi occhi lo stavano ingannando. Senza rendersene conto si ritrovò vicino a lei, ancora impegnata a piegare il plaid e a risistemarlo sullo schienale del divano, e l'abbracciò, facendola sussultare.
Non rispose alle timide proteste di lei e affondò il viso nei suoi capelli castani che profumavano di shampoo alla vaniglia, respirando profondamente. La tenne nel suo abbraccio per diversi secondi, sentiva la voce di Caroline che si lamentava, ma non gliene importava. La girò verso di sé e la guardò con languore. Il suo viso era così bello, i suoi lineamenti erano più dolci, il calore del suo corpo, conturbante. Chissà se quelle labbra, un poco più carnose di come ricordava, baciavano ancora allo stesso modo.
La sua risposta la trovò in un bacio intenso, intimo, passionale, che stava risvegliando in lui un sentimento travolgente, ora più maturo; e anche il rimpianto di aver accettato con troppa facilità la loro separazione e lasciato che lei prendesse un'altra strada.
Cora lo fissò con occhi sgranati. Era scioccata. Certo, era stata poco collaborativa in quel bacio, ma al tempo stesso non aveva avuto la forza di opporsi e allontanarlo. «Non dovevi permetterti. Le cose sono cambiate, io ora...» ansimò, con gli occhi lucidi e le gote imporporate.
«Non mi importa se ora c’è un altro nella tua vita», ribatté lui, in tono secco; nella sua voce si poteva avvertire un fondo di gelosia. «A tua madre piaccio. A Phillip piaccio; e lo stesso a Mickey. Stavamo bene insieme, molto bene. Potrei rinunciare alla California per te, Caroline.»
Chris avvicinò ancora una volta le sue labbra a quelle di lei, in una sorta di inseguimento, provando a baciarla di nuovo, senza demordere nonostante i tentativi di lei di scostarlo.
«E quanto ci vorrà prima che si affievolisca di nuovo il sentimento e tornare a essere solo amici? E se la prossima volta ci dovessimo lasciare male?» sussurrò lei, evitando in tutti i modi il contatto con i suoi occhi.
«Non lo sapremo se non ci proviamo.»
«Io... non posso.»
«Chris, mi devi accompagnare.» Mickey si affacciò nel salotto tutto mogio e a testa bassa. Quando però alzò lo sguardo e li vide così vicini, abbracciati l'uno all'altra, per un attimo i suoi occhi si riempirono di speranza.
Chris si staccò da Cora, in evidente imbarazzo per essere stato sorpreso in un atteggiamento intimo con la sua ex. Provò a dissimulare ripredendo in mano il tablet. L’atmosfera che si era creata prima, con l’arrivo del terzo incomodo era svanita in un attimo e lui si sentì di nuovo declassato ad “amico di famiglia”.
«Sì, d'accordo, saluta tua sorella e andiamo», disse, schiarendosi la voce, intanto che spegneva il tablet e lo posava sul tavolino.
A quella richiesta il bambino mutò espressione e scappò via.
«Mickey!» chiamò la madre, ferma in corridoio con la cesta vuota della biancheria fra le mani.
«Non preoccuparti, Teresa», disse Chris, con una confidenza che gli era permessa dai tanti anni di conoscenza e frequentazione della famiglia, non appena la vide. «Ci penso io a lui. Non lo perderò di vista per tutto il tempo e lo riaccompagnerò a casa a un orario decente. Del resto, sono il vice allenatore della squadra!» aggiunse, per rassicurarla, facendo l'occhiolino.
«Sostituto vice allenatore!» urlò Mike, dalla porta d'ingresso, con un’espressione di nuovo torva sul viso.
«Sì, sì, sostituto. Ora prendi la giacca e andiamo, prima che decida di metterti in punizione per il ritardo con il quale arriverai all’allenamento!» lo rimproverò scherzosamente il ragazzo.
Infastidito da quei discorsi, Mike spalancò la porta d'ingresso e uscì senza guardare, andando a sbattere contro uno sconosciuto che in quel momento
«Pardon», disse l’uomo, con voce indulgente.
Il ragazzino rimase indifferente dopo quello scontro, pensando solo a risistemarsi il berretto e la tracolla della borsa; poi, quando alzò lo sguardo sull’uomo, rimase impietrito. Per un breve istante lo guardò con odio, stringendo con la mano l’impugnatura della mazza da baseball.
«Vai via! Vai via, bastardo! Non ti avvicinare a noi!» gridò a squarciagola, alzando la mazza e minacciando l’uomo.
Il suo giovane viso imberbe divenne paonazzo, gli occhi erano spalancati e colmi di furia e terrore; alzò la mazza oltre la spalla, le braccia tremavano di collera.
«Vattene!» gridò ancora il bambino, gettandosi sullo sconosciuto, colpendolo e facendolo cadere a terra.
Aiolos fece appena in tempo a rendersi conto delle intenzioni dell’altro e a girarsi un poco, proteggendosi come poteva con l’avambraccio, piegato per coprire il viso e la testa, ma fu costretto a offrirgli la spalla sinistra. Per diversi secondi rimase a terra, dopo un secondo attacco, con le orecchie che ronzavano per il rimbombo delle urla dell’aggressore e il braccio intorpidito. Lo sentiva ansimare ma non accennare a colpire di nuovo. Alzò la testa. Lo vide su di sé, con la mazza da baseball sopra la testa, impugnata a due mani.
Le grida del bambino erano risuonate anche in casa, mettendo in allarme gli altri, che subito erano accorsi.
«Mickey! Mickey! Fermati!» urlò Cora, cercando di trattenere il fratellino.
«Lasciami! Lo devo fermare, così non potrà più farci del male!» disse lui, dibattendosi per liberarsi dalla presa della sorella.
Anche Chris si precipitò fuori sul pianerottolo. Lo riconobbe subito e gli si fiondò addosso, strattonandolo e schiacciandolo a terra, pronto a sferrargli un pugno se necessario.
Teresa rimase sulla soglia di casa e lanciò un grido strozzato. «Deline…» balbetto a stento. «Non è possibile, non può essere lui…» I suoi occhi si riempirono di terrore nel vedere le fattezze della persona che in quel momento era bloccata a terra; poi spostò la sua attenzione sui suoi figli, senza trovare la forza per intervenire.
«No, Chris, non fargli del male! Non è lui, non è Deline. Lo conosco, è un amico!» lo scongiurò Cora, che faceva fatica a trattenere il fratello. Aveva solo undici anni, ma era forte e in quei giorni e in quella circostanza si stava dibattendo come un leone inferocito.
«Lasciami andare, Caroline!» urlò il ragazzino, pronunciando il suo nome con astio.
Sembrava che i due stessero lottando per il possesso di quella mazza; poi, con un movimento violento delle braccia, nel girarsi verso la sorella, Mickey la colpì involontariamente con troppa forza, facendola gemere di dolore e andare a sbattere contro il muro. Per pochi secondi ebbe su di sé i suoi occhi sbarrati per lo choc. La vide strisciare con la schiena contro la parete e accasciarsi a terra.
«È colpa tua!» le gridò contro, sovrastandola e agitandole addosso la mazza da baseball. «Tutto questo è colpa tua!» ripeté con foga, incalzandola con le lacrime agli occhi e le labbra tremanti di quella rabbia che per tanto tempo aveva tenuto dentro di sé. «Perché ti sei immischiata in quelle cose? Perché hai voluto mettere in mezzo anche noi e rovinarci la vita? Ed ora te ne vuoi tornare a Boston e lasciarci di nuovo! Perché non vuoi rimetterti insieme a Chris? Perché continui a fare di testa tua, a pensare solo a te stessa, a essere così egoista? La mamma ha pianto per due settimane, ogni notte, quando te ne sei andata! Chris e papà hanno pensato solo a te in tutto questo tempo! Ora vuoi farlo di nuovo, vuoi lasciarci soli! E allora vattene! Vattene via subito! Non ti voglio qui a rovinare di nuovo la nostra vita!»
Continuò a muovere quella mazza in modo minaccioso, sempre più vicino a lei, sordo alla disperazione della madre che singhiozzava lì vicino e ai richiami di Christopher. Fece un passo verso la sorella che, a terra e con le braccia strette allo stomaco, lo guardava senza dire niente.
Il ragazzino dolce e ubbidiente che Cora aveva lasciato a febbraio, si era trasformato in una bomba di violenza che non aspettava altro che deflagrare e liberare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione.
«Basta così, Mickey!» Chris lo bloccò da dietro e gli tolse la mazza da baseball dalle mani, spingendolo da parte.
«Anche tu stai dalla sua parte dopo quello che ti ha fatto?» lo accusò il ragazzino. Urlò un “vi odio tutti!” e scappò giù per le scale.
In tutto quel trambusto, Aiolos li osservò come se fosse di fronte a dei pazzi. Preferì rimanere a terra e non fare mosse sospette per non diventare di nuovo oggetto di attenzioni sgradevoli e dalle conseguenze piuttosto dolorose.
«Stai bene?» domandò Chris a Caroline.
Lei annuì e si rimise in piedi, anche col suo aiuto. «E tu, Aiolos?» chiese a sua volta lei, vedendo l’altro ancora a terra che si teneva il braccio.
«Scusa, amico. Niente di rotto, vero?» gli chiese Chris, aiutando anche lui ad alzarsi.
«Ho appena visto scendere di corsa Mickey e stava piangendo. Cos'è successo?» disse Phillip, salendo gli ultimi gradini. Vide i presenti con espressioni tese e sconvolte sul volto. Poi, puntò la sua attenzione su Aiolos, indurendo lo sguardo. Pensava di essere stato chiaro con il ragazzo, quando si era presentato nel suo ufficio per spiegare il motivo di quella sua visita, che se avesse creato problemi avrebbe passato dei guai; si rese subito conto però che ad avere la peggio era stato proprio lui.
«Vado a parlarci. Si sarà sicuramente rifugiato nell’ufficio», disse Chris che sapeva come prendere il piccolo ribelle.
«Se permettete, vorrei provarci io», si propose Aiolos, lasciando senza parole i presenti.
Era stanco di essere preso di mira dai membri di quella famiglia, che fossero bastonate, o la canna di una semiautomatica puntata alla testa, o ancora essere accusato di essere un molestatore. Voleva chiarire di persona e chiudere con quell’equivoco una volta per tutte.




note del capitolo:
Murder, she wrote: (ma che ve lo dico a fare...) è il titolo originale de "La signora in giallo". Alzi la mano chi non conosce questa serie poliziesca, che si prende una tirata d'orecchie coi fiocchi! :P

Lo so, lo so, a qualcuno sarà venuto un ictus a leggere di Saga come secondogenito (o Kanon primogenito). Mi piace talvolta scombinare i piani. A parte gli scherzi, non è facile stabilire chi sia il primo e chi il secondo. E non parlo tanto nella storia canonica (con i gemelli è sempre un po' un casino: si deve tener conto dell'ordine di nascita oppure dell'ordine di concepimento?), ma in questa mia storia. Se ricordate, Shion aveva fatto preparare dei nuovi certificati di nascita per i gemelli; è quindi possibile che fosse stato stabilito a priori che Kanon sarebbe stato primogenito e Saga invece il più giovane? A me piace pensare di sì! E comunque, in tutta la storia pare che Saga sia trattato un po' da cocchino della casa, ruolo che di solito è affibbiato ai fratelli più giovani.

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Capitolo 25
*** Capitolo XXIV ***





Prima di iniziare con la lettura del capitolo ci va di diritto un bel N.B. Quindi...

N.B.
I contenuti di questo capitolo non vogliono essere una guida per maneggiare le armi da fuoco, né incentivarne l'uso, sia esso sconsiderato, che cauto. Le ricerche che ho fatto per scrivere la scena in questione sono servite per cercare di rendere al meglio la storia ed evitare di scrivere vaccate (sì, avete letto bene, vaccate!). Nel mio piccolo, cerco di fare del mio meglio, un po' per me stessa (perché ho il mio amor proprio e non mi va di pubblicare schifezze) e un po' anche per farvi leggere una storia quantomeno scritta con criterio.

Detto questo...

...Buona lettura!





XXIV


Philadelphia
I locali dell’agenzia investigativa, al secondo piano della palazzina, erano deserti e avvolti nella penombra delle persiane chiuse. Aiolos aprì la porta e si guardò attorno; poi, con molta cautela, vi si addentrò. Quell'ambiente non aveva nulla di particolare, era scialbo e anonimo come la prima volta che vi aveva messo piede, pochi minuti prima, quando era stato a colloquio con Burton. Eppure adesso gli faceva uno strano effetto, era quasi spettrale.
Sentì i singhiozzi del bambino: a volte lievi, a volte invece più violenti, proprio nello sforzo di trattenersi. Non c’erano molti posti dove avrebbe potuto rifugiarsi, a parte naturalmente una delle altre stanze comunicanti, ma ciò che era arrivato alle sue orecchie non era stato filtrato da alcun tipo di barriera. Fece un paio di passi verso la scrivania, senza però avvicinarsi troppo.
«Mike?» disse con voce pacata, che però tradiva comunque poca serenità. «Mike, io mi chiamo Aiolos Foster. Possiamo parlare un momento?» chiese, anche se non si aspettava che il piccolo sbucasse fuori dal suo nascondiglio e gli desse subito retta. Come con qualsiasi bambino impaurito, prima doveva guadagnarsela quella fiducia.
Sentì provenire di fronte a lui un rumore e accennò un sorriso: il bambino era rintanato proprio dove pensava e gli era stato confermato dal movimento della sedia, che si era spostata un poco di lato, cigolando con le ruote.
«Non voglio farti del male, ma solo parlare», continuò, immaginando che il ragazzino si fosse rannicchiato il più possibile per non farsi notare; e di nuovo sentì un singhiozzo.
Si avvicinò ancora di qualche passo, fermandosi e rimanendo al di là della scrivania, per non correre altri rischi e non spaventarlo ulteriormente.
«Mi dai una possibilità di dimostrarti che non sono la persona che pensi io sia?»
L’altro continuava col suo ostinato silenzio. «Va bene», concesse Aiolos, senza demordere.
Fece qualche passo verso le sedie e le poltroncine nella parte della stanza, che era adibita a sala d’aspetto e, trascinandone rumorosamente una sul pavimento col braccio sinistro che gli doleva, la portò fino alla scrivania, accomodandovisi.
«Sai, non è la prima volta che qualcuno della tua famiglia mi scambia per quell’uomo», iniziò, con tono vagamente sarcastico; anche se non c’era poi tanto da scherzare. «Non posso negare che la somiglianza ci sia, ma posso garantirti che io non sono lui, altrimenti non sarei qui, tranquillo, a parlare con te.»
Si appoggiò allo schienale della sedia e fece un respiro profondo, accavallando le gambe e prendendo una posizione più comoda: prevedeva che sarebbe stata una cosa lunga.
«Bene, proviamo a partire dall’inizio», disse con un mezzo sospiro. «Vengo da Boston e ho ventisei anni. Negli ultimi anni ho vissuto per la maggior parte del tempo a New York e non ero mai stato qui a Philadelphia prima del febbraio scorso.»
«Bugiardo…» mormorò il bambino, tirando su col naso.
«È la verità», confermò lui, mantenendo la voce calma. «Puoi chiedere a tuo zio Phil. Lui sicuramente avrà fatto dei controlli su di me, dopo la nostra prima conoscenza.»
«Lui è mio padre!» replicò con stizza il bambino, accennando a voler uscire da sotto la scrivania, ma rinunciandovi subito.
Aiolos aggrottò un poco la fronte nel sentire quella risposta così scontrosa. Non che si fosse scandalizzato per un poco di maleducazione, ma era stato il timbro rabbioso, dietro la voce da fanciullo offeso, che lo aveva lasciato perplesso. Quel tipo di rabbia che prima aveva fatto agire in modo violento il bambino e che ora lo aveva fatto rispondere in quella maniera, sapeva di averla già vista, anche se non ricordava dove e quando.
«Per tua sorella è uno zio. Che strana dinamica familiare avete», mormorò.
«Davvero non sei lui?» chiese Mickey con un filo di voce, fra i singhiozzi trattenuti. Con le braccia teneva le gambe raccolte al petto e la fronte appoggiata alle ginocchia.
«Pensi che questa sia la faccia di una persona pericolosa?» disse Aiolos, ora accovacciato di fronte a lui; nella sua mano, che stava tendendo al bambino, teneva un fazzoletto bianco. «Ti va di raccontarmi cosa vi ha fatto?»
Il sorriso comprensivo che in quel momento gli stava mostrando, ebbe l'effetto di incrinare la cupola di diffidenza e paura dietro la quale Mike si ostinava a nascondersi.
«Io non so bene com’è andata», iniziò a raccontare il piccolo, stringendo i pugni e nascondendo ancora di più la testa fra le gambe. «Ma so che è cattivo! Ha fatto del male a tante ragazze. Ha fatto del male alla mia sorellona. Mamma e papà non ne parlavano mai davanti a me, ma qualche volta li ho sentiti. Quando Caroline era in ospedale che non si risvegliava più, loro litigavano sempre. Una volta la mamma lo ha mandato via da casa e poi ha pianto tanto, e ha pregato tanto perché il Signore non portasse la mia sorellona in cielo con sé come aveva fatto con il mio vero papà.»
La voce del bambino era rotta dal pianto che tratteneva a fatica, nonostante le guance fossero invece rigate da copiose lacrime. Eppure stava cercando con tutto se stesso di non sembrare un mocciosetto piagnucoloso. Era ancora arrabbiato con sua sorella, ma il raccontare quelle poche cose, che non aveva mai rivelato a voce alta a nessuno, lo stava facendo vergognare del suo comportamento e temere per una sicura punizione. Le aveva urlato addosso tutto il suo malessere, si era liberato di un peso gravoso, però non si sentiva affatto meglio. Nessuno lo avrebbe biasimato troppo se fosse esploso prima; persino per un adulto, ciò che aveva passato, sarebbe stato difficile da superare e lui… lui era ancora solo un bambino, ma già un piccolo eroe, perché era stato quello che all'inizio aveva reagito meglio di tutti.
«La mia sorellona…» singhiozzò di nuovo Mickey, tirando su col naso.
«Lei sta bene», disse Aiolos, con un sorriso fraterno disegnato sulle labbra, accarezzandogli piano la testa, cercando di rassicurarlo.
Vedere quel ragazzino così indifeso gli riportava alla memoria Aiolia, quando tornava a casa tutto abbattuto e nella tasca del cappotto il foglio di richiamo del preside dopo aver fatto a botte nel cortile della scuola.
Aiolos alzò un poco la testa sopra la scrivania, sentendo un rumore leggero provenire dall’ingresso, intravide Caroline che se ne stava appoggiata allo stipite della porta. Lei si era portata un dito alle labbra e gli aveva fatto segno di non parlare, di non svelare al fratellino che era lì. Nonostante la penombra che la nascondeva un poco alla sua vista, lui aveva notato – o forse intuito – che la ragazza aveva gli occhi lucidi per le parole pronunciate dal bambino. La conferma la ebbe pochi secondi dopo, quando lei si avvicinò piano, senza far rumore e gli mostrò un foglio stampato, sgualcito e con diverse pieghe marcate. Battendo piano sul volantino, gli indicò una data e poi fece un cenno con la testa, per incoraggiarlo a parlarne a Mickey, quindi puntò l’indice prima verso di lui, poi verso dov’era nascosto il bambino e infine su di lei, in un messaggio muto. Prima di lasciargli il volantino, puntò ancora una volta il dito sulla data riportata e la scritta che indicava che l’indomani, sabato 29 maggio, ci sarebbe stata l’inaugurazione del nuovo impianto del poligono di tiro, tutto dedicato al paintball e che avrebbe occupato l’intero secondo piano interrato.
Aiolos strabuzzò gli occhi e trattenne uno sbuffo, non proprio felice di dover essere messaggero di qualcosa che non gli competeva e per di più, come se non lo fosse già stato a sufficienza, essere anche coinvolto in qualcosa che non lo riguardava.
Cora sorrise supplichevole al ragazzo, sperando che accondiscendesse a quella richiesta tacita. Lei e Aiolos si sopportavano a mala pena, eppure sapeva di poter riporre la sua fiducia in lui. Rimase un po' in disparte, al di là della scrivania e abbastanza distante affinché il fratellino non potesse accorgersi di lei, ancora per qualche attimo. Le si stringeva il cuore a sentirlo singhiozzare senza requie.
Forse sarebbe dovuto essere compito suo consolarlo e non un perfetto estraneo che oltretutto era stato la fonte inconsapevole di tutto quel putiferio, ma cosa avrebbe potuto fare per far stare meglio il suo fratellino? Cosa avrebbe potuto dirgli, che lo perdonava per il gesto che aveva compiuto? Che le dispiaceva per le conseguenze che tutta la famiglia era stata costretta a subire per la sua arrogante sconsideratezza?
Ma quello era il suo rammarico più grande e le conseguenze delle sue azioni le avrebbe portate con sé – su di sé – per tutta la vita. L’unica cosa certa, nel suo cuore, in quel momento, era il desiderio di accertarsi che Mickey stesse bene; e la compagnia di Aiolos pareva essere la cosa migliore potesse servirgli.
Si girò giusto in tempo per non mostrare le lacrime che stavano riempiendo i suoi occhi; nelle sue orecchie sentiva in modo persistente il pianto trattenuto del fratellino. Una mano si spostò sul ventre: non sentiva più le fitte acute e lancinanti di poco prima, ma solo un dolore sordo, più leggero, che non destava troppa preoccupazione in lei, abituata ormai a ben altri fastidi. Eppure, appena faceva un respiro più profondo, le mancava l’aria all’improvviso.
Uno sbuffo, una veloce passata sugli occhi col dorso della mano e, così com’era arrivata, uscì.

*****

Teresa attendeva la figlia sulla soglia di casa: il cuore ansioso e gli occhi che non riuscivano a mascherare la preoccupazione di una madre.
«Sta bene. Aiolos lo sta facendo sfogare», disse Cora, con un sorriso forzato sulle labbra e la fronte imperlata di sudore. Ad affaticarla non erano certamente quelle due o tre rampe di scale, quanto invece i soliti crampi che erano tornati a farsi sentire; ora più forti e continui.
«E tu?» le chiese la donna; e non intendeva riferirsi solo alla sua salute fisica, che naturalmente le destava sempre qualche pensiero, ma piuttosto al contraccolpo psicologico di quanto era avvenuto.
«Ha colpito forte», scherzò Cora «Mi ha fatto male, ma non poi così tanto», confessò infine, cercando comunque di minimizzare la realtà dei fatti e intendendo le medesime cose che erano rimaste sottintese. Non era riuscita però a trattenere oltre le lacrime e, lasciandosi abbracciare dalla madre, si era sfogata un poco anche lei.
«Bambina mia…» le sussurrò piano la donna, tenendola stretta e accarezzandole la testa. «C’è voluto molto coraggio per fare quello che hai fatto e per affrontare poi le conseguenze. Non è colpa tua se la legge ha vanificato il tuo sacrificio.»
La madre la riaccompagnò in casa, fino in cucina, dove già si erano ritrovati Chris e Phil, che sembrava stessero ancora discutendo dell’accaduto. Non appena si affacciarono nella stanza, la discussione si chetò di colpo. Chris lasciò il suo posto alla ragazza, mentre Phil, in piedi accanto al frigorifero, beveva una birra dalla bottiglia, con un’espressione sul volto che rispecchiava la gravità della situazione.
«Quando tornerà in casa dovrò fargli un bel discorsetto», borbottò l’uomo, con un tono di rimprovero, prendendo un altro lungo sorso.
«Così rischi di peggiorare la situazione, proprio com’è successo l’altra volta», rispose distrattamente Teresa, passando accanto al compagno e aprendo il frigorifero. Con gesti automatici iniziò a prendere della verdura dal cassetto in basso, e appoggiandola nel lavello. Il tono che aveva usato era sembrato però piuttosto risentito.
«Non sto dicendo di punirlo severamente e togliergli ogni libertà, ma almeno di provare a parlargli di nuovo e spiegargli che ciò che ha fatto è stato molto grave. Se quel tizio dovesse sporgere una querela per aggressione, Mickey potrebbe finire in tribunale. E il giudice minorile non si limiterà a dargli un semplice scapaccione e a mandarlo a letto senza cena. Se dovesse andargli bene, potrebbe essere condannato alla libertà vigilata e all’obbligo di una lunga terapia con uno psichiatra. Ma un periodo in riformatorio sarebbe più plausibile», spiegò l’uomo, appoggiando la bottiglia lì vicino e avvicinandosi alla donna, posandole le mani sulle braccia per interrompere quello che stava facendo. «Mickey ha ormai un’età che gli permette di capire cos’è giusto e cos’è sbagliato, cosa può fare e cosa non deve fare. Non puoi chiudere gli occhi su ciò che ha fatto. Non puoi continuare a proteggerlo in questo modo», le disse con un tono molto serio, facendola girare e guardandola dritta negli occhi.
Dentro di sé sapeva che la donna comprendeva di dover correggere il temperamento del figlio che in quei mesi era diventato gradualmente meno gestibile, ma sapeva anche che per lei sarebbe stato difficile. Se doveva diventare padre anche legalmente, avrebbe dovuto iniziare a comportarsi come tale, persino nelle punizioni.
Cora corrugò la fronte nel sentire quei discorsi. Avrebbe voluto chiedere ulteriori spiegazioni, ma desistì nel sentire sulla sua spalla la pressione della mano di Chris. Era perplessa per quella situazione: non era così che aveva lasciato la sua famiglia. L’aveva sempre creduta unita e felice; ora invece, sembrava smembrata e divisa, con cicatrici insanabili che li teneva lontani gli uni dagli altri.
Teresa rimase indifferente alle parole del compagno, come se le ritenesse prive di senso, gli diede le spalle e riprese a mondare e tagliare a tocchetti le verdure, per poi buttare il tutto in una pentola bassa.
«Mamma?» disse Cora.
«Mamma! Mamma!»
Mickey invase la cucina con eccessivo entusiasmo: aveva il viso tutto arrossato e gli occhi ancora gonfi per le troppe lacrime, ma le sue labbra erano piegate in un sorriso pieno di speranza.
«Davvero posso andarci?» le chiese, abbracciandola forte alla vita.
La donna rimase spaesata per qualche secondo, travolta dall’euforia del suo bambino, senza sapere cosa rispondere.
«Al poligono di tiro, mamma! Al poligono!», insistette, con voce emozionata e un poco anche frustrata il figlio. «C’è il paintball! Ci saranno anche i miei compagni! Non è pericoloso, ci daranno le protezioni! Allora, posso andarci?» la supplicò.
Erano settimane che insisteva per quella novità, da quando aveva visto il volantino pubblicitario, ma la madre gli aveva sempre negato il permesso adducendo che era troppo piccolo e che non le piaceva l’idea che si avvicinasse a un luogo come quello e a uno sport di quel tipo.
La donna tentennò ancora qualche secondo, mentre con gli occhi cercava quelli del compagno che sicuramente avrebbe avuto qualcosa da ridire, soprattutto dopo ciò che le aveva detto. Phil invece, si limitò a sospirare rassegnato e a prendere l’ultimo sorso di birra dalla bottiglia, gettandola poi nella pattumiera.
«Va bene, Mickey», disse, sorridendo allo sguardo speranzoso del figlio; e dopo quella conferma, il bambino si strinse ancora di più alla sua vita, ripetendo mille volte un “grazie” che si perdeva nel sussurro attutito dal suo petto.
Con la mano ancora umida, Teresa accarezzò i riccioli neri e spettinati del bambino, rivolgendo lo sguardo alla figlia che la stava ricambiando con un sorriso e mimando con la bocca un “domani”, annuendo con la testa.
«È il tuo regalo di compleanno», aggiunse Teresa, dandogli un bacio sulla testa. «E con te verranno anche papà, Chris e Caroline», disse, trovando conferma nel cenno di assenso dei due giovani.
«Davvero?»
«Sì», disse Phil, rilassando il viso e scompigliando la testa del bambino: nonostante i propositi di severità, aveva ceduto anche lui, ma si riprometteva di punirlo più avanti!
Un toc toc discreto, sullo stipite di legno della porta della cucina, richiamò l’attenzione di tutti. «Scusate l’intrusione, ma la porta era aperta», si introdusse Aiolos.
«Sei ancora qui...» si lasciò sfuggire Phil.
Aiolos sogghignò. «Mr Burton, come le ho detto prima, sono venuto per Caroline, per riportarla a Boston», disse, lasciando stupefatta la diretta interessata.
«Ecco! Lo sapevo, sei una bugiarda!» urlò Mike alla sorella, rifugiandosi nella sua stanza e sbattendo la porta.

«È lui il tuo nuovo ragazzo, quello di Boston?» chiese Chris, seduto accanto a Caroline e tenendole stretta la mano sotto il tavolo.
«No, è solo un conoscente», rispose lei, a voce molto bassa, ricambiando lo sguardo diffidente di Aiolos che non la stava perdendo di vista un solo istante, in quella situazione di imbarazzante stallo dei presenti.
«E ti fa da guardia del corpo, autista e servitore?» chiese ancora il ragazzo, pronunciando quelle parole con evidente perplessità nella voce, continuando a fissare l'ospite.
Caroline fece spallucce senza dare una vera risposta, perché lei per prima non sapeva come mai l’altro si trovasse a casa di sua madre.
Erano seduti tutti e cinque attorno al tavolo da pranzo, davanti a una tazza di caffè appena fatto, che si scrutavano a vicenda con diffidenza, mentre dalla stanza del bambino arrivava la musica a tutto volume.
«Gli passerà presto», disse Phil, posando la mano su quella della compagna che continuava a tormentare la tovaglietta.
La donna sbuffò sconsolata, deviando per qualche secondo lo sguardo nella direzione della camera del figlio, per poi posarlo di nuovo sul suo ospite. Sentiva un certo disagio nel trovarselo di fronte, le sembrava così strano che potesse esistere al mondo la copia quasi esatta dell’uomo che aveva fatto del male alla sua bambina, ma dopo le rassicurazioni di Caroline e le presentazioni ufficiali, si era in qualche modo tranquillizzata.
«Dunque, Foster…» disse Phillip, invitando l’ospite a spiegare a tutti il motivo della sua presenza.
«Come le ho detto nel suo ufficio, sono venuto per conto di una persona», rispose con semplicità Aiolos. «Mr Hayes sarebbe voluto venire lui stesso, per presentarsi ufficialmente, ma ha avuto dei contrattempi e ha chiesto a me di riaccompagnare miss Miller a casa sua, a Boston.»
«Poteva almeno avvertirmi…» mormorò Cora, mettendo il broncio.
«È tipico di lui fare questo tipo di sorprese, dovresti ormai conoscerlo», disse Aiolos, con una leggera smorfia sulle labbra, fissandola con insistenza. Non gli era sfuggito come l’altro ragazzo le stesse vicino, per non dire appiccicato; e questo lo infastidiva ancora di più che saperla fidanzata con Saga.
«Beh, puoi ripresentarti da lui e riferirgli che non torno solo perché ha deciso che è arrivato il momento di tornare a casa, o perché ha mandato qualcuno a prendermi», ribatté Cora, sotto lo sguardo severo di Phillip e quello preoccupato della madre.
Cora si stava mostrando forse troppo risentita con quella risposta irritata, ma non riusciva a farne a meno. Si stava sentendo come un cucciolo che viene dato in affidamento a una pensione per animali perché il padrone vuole andarsene in vacanza risparmiandosi la scocciatura di doverselo portare appresso.
«E comunque», continuò, usando un tono più pacato, quasi mortificato, «adesso non posso partire. Domenica c’è la nostra festa di compleanno e non ho intenzione di perdermela!»
«Lui vuole infatti festeggiare con te il tuo compleanno.»
«Ti ha appena detto che non ha intenzione di muoversi, amico. Se ci teneva così tanto, questo lui, avrebbe dovuto presentarsi di persona e non mandare un tirapiedi», intervenne Chris.
L'eco di quelle parole, risuonate secche e con un timbro vagamente di disprezzo, nel silenzio della sala da pranzo, fu spezzato dal rumore provocato dalla sedia di Phillip Burton, quando egli si alzò di scatto, con un'espressione molto seria in volto. L'uomo poi uscì dalla stanza senza dire nulla. Si fermò per qualche istante nel corridoio, respirando piano, per calmarsi. Con la coda dell'occhio intravide Mike che si era messo a origliare.
«Non rimanere lì nascosto, Mike, raggiungi gli altri», disse l'uomo.
Entrò nel salotto e, da una scatolina posata sul tavolino, prese una sigaretta, accendendola subito e traendone una lunga boccata. Era da tanti anni che aveva smesso di fumare, ma qualche volta, quando la situazione lo rendeva necessario, se ne concedeva una. E quella era una di “quelle” volte; e se la sarebbe goduta tutta, lentamente, perché doveva riflettere. Quel nome, che non sentiva più da molti anni e che credeva di essersi lasciato alle spalle, era fonte di gravi preoccupazioni.
Mike entrò in punta di piedi nella sala da pranzo, rimanendo in disparte e con la testa bassa. Con lo sguardo cercò quello della sorella, ma non appena lei se ne accorse, ricambiando con un sorriso, lo distolse subito. «Davvero vuoi rimanere qui per festeggiare il nostro compleanno?»
«Certo! Non vorrai che lasci tutta a te la torta della mamma, vero?»
«E verrai anche tu a giocare a paintball?» le chiese di nuovo il bambino.
«Ovviamente!» Caroline sorrise più apertamente al fratellino, gli tese la mano e lo invitò per un abbraccio.
«Allora, cosa devo dire a Saga?» si intromise Aiolos, bevendo un sorso di caffè.
«Chi è Saga?» chiese Mickey.
«È un… “amico”», gli rispose la sorella, pronunciando però in modo incerto la parola “amico”.
«È per lui che hai scaricato Chris?»
«Mickey! Non si dicono queste cose!» lo rimproverò Teresa, notando l’improvviso imbarazzo calato sulla figlia e su Christopher.
«Ma… com’è? Perché non ne hai mai parlato?» Il bambino si rivolse ancora una volta alla sorella.
«Mickey!» lo riprese di nuovo, la madre.
«Ma voglio sapere se è all’altezza di Chris!» insistette il piccolo, sbuffando.
Aiolos trattenne a stento una risatina beffarda all’affermazione del bambino, attirandosi un’occhiataccia da parte di Cora. Poi, prese dalla tasca il cellulare e vi trafficò per qualche secondo. «Avvicinati, ti mostro una sua foto, così potrai giudicare tu stesso», si rivolse quindi al ragazzino. Lì dentro sembrava essere l’unico che non lo trattasse come un bambino, ma come un adulto.
Mike gli corse accanto senza farselo ripetere. Dopo il loro chiarimento sentiva di potergli dare fiducia. Sgranò gli occhi quando Aiolos gli passò il cellulare.
«Siete tanto amici?», chiese, dopo aver visto quel selfie che i due si erano fatti usciti dal ferramenta.
«Siamo cresciuti come fratelli, inseparabili, nella stessa casa», rispose Aiolos, con un sorriso disteso e sincero.
«Allora è il tuo best?» gli chiese ancora Mike.
«Beh, non proprio. Il mio migliore amico è suo fratello. Il suo gemello, Kanon.»
Mickey spalancò la bocca, quando Aiolos gli diede la conferma alle sue parole, mostrandogli i selfie che si era fatto a Capodanno con Kanon.
«Wow!» fu l’unica cosa che riuscì a esprimere il bambino, mentre Aiolos faceva scorrere davanti ai suoi occhi le fotografie: ce n'erano anche alcune di quando erano adolescenti. «Ma ha i capelli lunghi anche da piccolo! A scuola non lo prendevano in giro?» gli chiese il bambino, con innata genuinità, facendolo ridere di gusto e destando la curiosità di Teresa e di Chris, che inconsciamente aveva allungato il collo per tentare di vedere qualcosa.
«Sì, li ha sempre portati lunghi; e sì, qualche volta gli altri ragazzi lo prendevano in giro, ma non a scuola. Lui studiava a casa.»
«Che fortuna! Non era costretto a svegliarsi presto ogni mattina, né avere a che fare con compagni antipatici.»
«Non lo invidierei così tanto», replicò Aiolos, scompigliandogli i capelli. «Era sempre solo, con l’unica compagnia degli insegnanti privati; e poi, con mia nonna che faceva la guardia, non c’era molto da scherzare. Era piuttosto severa quando si trattava di studiare! Tu invece, a scuola avrai tanti amici, no?»
Accorgendosi dell’interesse anche della donna, Aiolos sussurrò qualche parola al bambino.
«Guarda, mamma!» esclamò felice Mike, porgendole il cellulare.
La donna arrossì un poco nel vedere quelle foto, perché la curiosità era stata tanta in lei; e più che lecita, si poteva dire! Del resto si stava parlando del nuovo e “misterioso” fidanzato della figlia, del quale Caroline non aveva detto nemmeno una parola in quei giorni.
«È un bel ragazzo», mormorò, sorridendo e restituendo il cellulare al suo proprietario.
In tutto quel tempo, l’unica rimasta in disparte e che sembrava estranea a quell’interesse generale, era proprio Cora, troppo presa a sentirsi a disagio, imbarazzata e preoccupata per i giudizi dei suoi familiari.
«Bene, credo di aver disturbato anche troppo», affermò Aiolos, alzandosi in piedi e prendendo dallo schienale della sedia la giacca.
«Perché non resti a cena?» lo invitò la donna. «È il minimo che possiamo fare per ripagarti dell’equivoco di prima.»
«Accetto molto volentieri», rispose il ragazzo, scambiando uno sguardo con Cora e sogghignando agli occhi sgranati di lei.
La donna fece un bel sorriso e iniziò a ritirare sul vassoio le tazze sporche. «Chris, naturalmente rimani anche tu, vero?» disse all’altro ragazzo che non indugiò un solo secondo a confermare con entusiasmo.
Cora lanciò un'occhiata al suo ex. Non doveva spremersi le meningi per capire che Chris aveva accettato l’invito solo per gelosia; e lei lo poteva vedere bene dai suoi occhi sempre fissi su Aiolos. Sperava solo che la serata si concludesse senza altri incidenti e di evitare un eventuale terzo grado su Saga, ora che la madre era venuta a conoscenza della sua esistenza. E lo zio Phil, come avrebbe reagito? Tempo addietro l’aveva presa male nel sapere della convivenza, ma c’era stata l’aggravante della poca conoscenza; ora erano passati mesi, ma di aggravanti se ne erano create altre e piuttosto pesanti.
Sbuffò, accasciandosi sfinita sulla sedia, presagendo già una cena difficile.
«Mickey, tesoro, perché non mostri quelle foto anche a tuo padre?» gli propose Teresa, guardando poi Aiolos e chiedendogli il permesso.

*****

Aiolos era lì in fila assieme agli altri; fermo nello stesso punto da almeno venti minuti e circondato da una massa di ragazzini con ancora gli zaini di scuola sulle spalle, mentre di ragazzi più grandi, quelli che fumavano e già avevano la patente, non pareva esserci neanche l’ombra. Si guardò in giro, facendo quasi una piroetta su se stesso: spiccava solitario in mezzo a tanti nanetti. E in quel momento, nella chiassosa desolazione di quel piccolo mare vociante che sembrava raddoppiare – triplicare – di dimensione, con tutti quegli zainetti colorati, che si spintonavano e si rincorrevano, si stava pentendo amaramente di aver accettato di unirsi a Caroline e alla sua famiglia per quella giornata; così come si stava anche pentendo di essere voluto venire lui stesso a Philadelphia. Aveva pensato che accettando quell’incarico sarebbe riuscito a scoprire un po’ di più sul conto di lei e della sua famiglia. Certo, era stato Saga a servigli su un piatto d’argento quell’occasione, ma ora si stava chiedendo se ne fosse valsa la pena.
«Cerchi qualcuno?» gli chiese Cora, raggiungendolo in quel momento e sorbendo la Coca-Cola con la cannuccia dal bicchierone e porgendogli un caffè, che aveva preso al fast food dietro l'angolo.
Aiolos continuò a fissare un punto preciso per diversi secondi, prima di rilassarsi, posare nuovamente lo sguardo sull’entrata dello stabile del poligono di tiro e sbuffare come suo solito. La distanza dalla meta era immutata.
«Non mi aspettavo che fosse un’attrazione per i bambini delle elementari», le disse, con tono un poco irritato, bevendo il caffè.
«Non hai letto il volantino?» chiese lei. Pareva sorpresa. «L’ingresso e il noleggio dell’attrezzatura sono gratuiti solo per questo weekend, per i bambini fino ai dodici anni. E poi, il campo da gioco è stato allestito a tema, proprio per attirare i ragazzini!»
Il giovane scrollò la testa. La spiegazione che gli aveva fornito lei non lo convinceva per niente; anzi, iniziava a credere di essere stato incastrato, perché il volantino che lei gli aveva dato il giorno prima non menzionava affatto quelle cose.
«Eccovi, finalmente!» ansimò Chris, raggiungendo a fatica i due giovani.
«Dov’è Mickey?»
«L’ho lasciato assieme ad alcuni compagni di scuola, e al padre di uno di loro. Erano impegnati in un'accesa discussione su quale videogame fosse il migliore in assoluto: se la serie di Final Fantasy, oppure GTA», disse Chris, approfittando della bibita della sua ex per placare la sete improvvisa. Aveva posato la mano su quella di Cora e avvicinato il bicchierone alla bocca. «Quel ragazzino è troppo tenero. A dire la verità non gli importa nulla di quei giochi, ma si mostra tanto interessato solo per poter stare vicino a una bambina che invece è una fan accanita, un vero maschiaccio!» spiegò, sorridendo e passandole il braccio sulle spalle.
«La sua prima cotta.» Gli occhi di Cora si illuminarono di tenerezza nel cercare con lo sguardo il suo fratellino in mezzo a quella piccola folla.
Aiolos si lasciò andare a uno sbuffo silenzioso, girando la testa dall’altra parte, infastidito dall’atteggiamento di entrambi, che mostravano troppa confidenza l’uno con l’altra. Ma se da una parte non poteva giudicare lui, dall’altra gli dava fastidio il comportamento di lei che reputava inappropriato, considerato che era legata sentimentalmente a qualcun altro. E fastidio maggiore lo provava perché lei dava l’impressione di incoraggiare in maniera eccessiva quel ragazzo; poco importava che fosse il suo ex fidanzato. Contrasse la mascella continuando a sondare la piccola folla di ragazzini: cosa ne avrebbe pensato Saga se l’avesse vista in quel momento? Sentiva vagamente ciò che quei due si stavano dicendo e quel tono di voce così dolce, che stava usando lei, lo irritava.
«Caroline! Caroline!» chiamò a gran voce qualcuno, sbracciando come un matto.
Era uscito da pochi secondi dalla porta d’ingresso dello stabile per fumarsi una sigaretta e l’aveva vista.
La ragazza si guardò attorno per vedere chi l’avesse chiamata, poi sorrise e rispose al saluto con un cenno della mano. «Jimmy!»
«Che fortuna trovarti qui», disse il ragazzo. James Sandoval, portoricano di origine ma nato in America, era il co-titolare del poligono di tiro ed era anche quello che si occupava della parte amministrativa dell’attività, al contrario di suo fratello maggiore Jorge che invece preferiva il contatto col pubblico. «Mi risparmi una telefonata all’agenzia», continuò, dopo aver salutato anche gli altri due con una vigorosa stretta di mano e un sorriso contagioso. «È venuto anche mr Burton?»
«Sarebbe dovuto venire, infatti. Ma gli è sopraggiunto un impegno improvviso alla centrale di polizia, forse legato a un caso che sta seguendo. Penso però che verrà più tardi. Lo ha promesso a mio fratello. Avevi bisogno di lui?»
«Mmmh…» L’uomo osservò distrattamente l’ora segnata sul quadrante del suo vecchio orologio da polso, una pessima imitazione di un Rolex, e fece un respiro profondo. «Fra poco devo andare via e non riesco a fare una deviazione per lasciarglieli all’agenzia», mormorò. «Ho dei documenti che tuo zio mi ha chiesto di procurargli con urgenza, posso approfittare di te, vero?»
«Certo, non c’è problema», rispose Cora, un po’ sorpresa per essere stata presa a braccetto dal nuovo arrivato. «Ma li puoi dare anche a Chris: ora è lui l’assistente di zio Phil.»
«Dai, venite dentro, vi faccio passare davanti alla fila!» disse con enfasi James, sospingendola verso l’entrata, senza lasciarle il tempo di pensare.
«Aspetta un attimo», tentò di protestare un poco la ragazza. «Aiolos, per favore vai a recuperare mio fratello!»

Quel posto non era proprio come loro se lo erano immaginato, soprattutto il piccolo Mike. Assomigliava a un parcheggio sotterraneo, ma essendo un piano interrato forse lo era stato fino a quando non era stato riconvertito. L'area adibita al paintball era così grande che erano stati ricavati diversi recinti, diversi per dimensioni e conformità del terreno di gioco a seconda della difficoltà. Le colonne squadrate di cemento armato erano sia degli ostacoli naturali, sia dei ripari altrettanto efficaci che si integravano perfettamente con quelli gonfiabili, creando dei percorsi obbligati.
Al momento di vestire le protezioni, Cora decise di passare la mano, asserendo che preferiva fare da spettatrice e vedere “i suoi uomini” in azione. Quell’affermazione imbarazzò un poco il bambino, ma al tempo stesso lo lusingò perché la sorella gli aveva assicurato che avrebbe fatto il tifo solo per lui.
La ragazza li osservò entrare tutti e tre nel campo di gioco da uno dei sedili della prima fila della piccola tribuna costruita sul lato più lungo, protetta da un’enorme parete di plexiglass. Li vedeva accucciarsi e strisciare dietro i gonfiabili, aggirare gli avversari, alzarsi di scatto e sparare a raffica le pallottole di vernice fluo in una battaglia serrata. Durò quasi mezz’ora, ma alla fine la squadra di Mickey capitolò, dopo la conquista della bandiera da parte degli avversari.
«Grazie per esserti sottoposto a tutto questo», disse Cora, accogliendo Aiolos nella piccola tribuna, lasciando libero il posto che aveva tenuto occupato con la borsa a tracolla, mentre lo zainetto di scuola del fratellino lo teneva vicino a sé, fra le gambe.
«È stato divertente», ammise lui, massaggiandosi la spalla che sentiva di nuovo dolorante dopo quegli sforzi.
Cora si sorprese positivamente della strana accondiscendenza del ragazzo. Non sapeva come giudicarlo, non lo conosceva bene, ma il suo sguardo e la sua voce in quel momento esprimevano sincerità. Gli porse una bottiglietta d’acqua e tornò a seguire la nuova gara che si stava svolgendo.
«Davvero sei venuto solo per riaccompagnarmi a Boston? Non c’è nient’altro dietro?» gli chiese, senza distogliere l’attenzione dai giocatori.
Mickey e Chris erano ancora nel piccolo spazio adiacente al campo di gara che si stavano ripulendo e cambiando la pettorina, per poi tornare dentro per un’altra manche, assieme agli amichetti del bambino: questa volta avevano formato una squadra di sette.
«Mi pareva di avertelo detto ieri. Non c’è alcun secondo fine: sto solo facendo un favore a Saga.»
Cora mantenne lo sguardo fisso davanti a sé, respirando piano e silenziosamente; sembrava concentrata su altro più che ascoltare la risposta di Aiolos. Si alzò senza alcun preavviso e prese le sue cose; poi si avvicinò a Chris che era tutto intento a spiegare la strategia di battaglia ai bambini. Gli disse alcune parole all’orecchio e gli consegnò lo zainetto del fratellino. Infine, prima di tornare da Aiolos, diede un bacio sulla guancia a Mickey, incoraggiandolo per la vittoria.
«Vieni con me.»
Presero le scale che portavano al piano terra, dove c’era l’accettazione e il bancone dell’armeria. Dietro il bancone, Jorge era impegnato in una conversazione con alcuni ragazzi che nulla avevano a che fare con i giovani arrivati per il paintball. Nonostante stessero parlando di cose innocue, chi lo conosceva bene poteva giurare che invece lui stesse flirtando in modo fin troppo sfacciato.
Aiolos fissò l'uomo con insistenza, piegando le labbra in una smorfia di disgusto, alleggerendo l’espressione solo quando l’altro ricambiò quello sguardo con un mezzo sorriso. Jorge aveva tutto il fascino esotico dei giovani caraibici e sapeva ben sfruttarlo per le sue conquiste, soprattutto per quelle occasionali.
«Cora, mi niña hermosa. È da un pezzo che non ti fai vedere da queste parti», la salutò, con un abbraccio e baciandola su entrambe le guance. «Che posso fare per te?»
«Vorrei esercitarmi un po’», rispose lei, mostrandogli la tessera d’iscrizione.
«Da sola? Non c’è il grande capo?»
«Ho portato lui», disse, indicando Aiolos. «Ti va di sparare qualche colpo?» gli chiese.
Il ragazzo rimase per qualche secondo sorpreso e perplesso. Davvero lei voleva sparare con armi vere? Non le sembrava affatto il tipo. Forse, sentendosi a casa, si credeva una dura; forse lo voleva impressionare in qualche modo. Eppure lo sguardo di Cora era sicuro e determinato, come non gliene aveva mai visto prima, ma era anche sereno e luminoso.
«Sei già stato al poligono prima d'ora? Non hai paura delle armi da fuoco, vero? Non ci sarebbe alcuna vergogna», gli disse lei, quasi sollecitandolo a prendere una decisione.
Aiolos sbuffò, borbottando poi un “non quando te ne puntano una alla testa” e riprendendo quella sua solita aria di superiorità che tanto era diventata una difesa contro gli altri e che gli permetteva di mantenere le distanze con chi non gli piaceva; e Caroline Miller non gli piaceva affatto.
«Mi prepari la solita, per favore?» chiese lei, rivolgendosi di nuovo Jorge. «E tre caricatori da quindici!»
Dal portafoglio tirò fuori la carta di credito e l'appoggiò sul bancone.
«Oggi offre la casa.»
Con un gesto della mano, mostrando la grossa pietra incastonata nell’anello massiccio, Jorge gliela restituì, rifiutandola. Sul computer inserì solamente i dati della tessera e registrò il noleggio dell'arma e della cabina numero cinque. Infine, espletate tutte le formalità amministrative e di legge, solo perché era lei, le consegnò l’equipaggiamento, anziché farlo portare da un addetto del poligono di tiro, augurandole buon divertimento.

Il luogo adibito al poligono di tiro vero e proprio, quello almeno per le armi corte, era un lungo e buio stanzone dalle pareti di cemento armato, ricoperte da una speciale membrana per attutire la detonazione degli spari, e con una zona di tiro di circa cinquanta metri. Nella parte più vicina, quella accessibile al pubblico, erano state montate una decina di cabine larghe un metro e mezzo e separate le une dalle altre da semplici divisori di compensato spesso tre centimetri. Ogni postazione aveva una piccola pulsantiera che azionava il braccio meccanico per spostare il bersaglio e un monitor dal quale si potevano controllare i risultati dei tiri, molto simile a quello che veniva usato nelle gare olimpiche.
Cora posò la 22 semi-automatica, assieme ai caricatori, sulla mensola davanti a sé. Con le mani si acconciò i capelli in una semplice coda di cavallo, fermandola con l’elastico colorato che teneva al polso e si sgranchì collo e spalle; infine si liberò della giacchetta leggera di jeans, appoggiandola sopra la sua tracolla che aveva collocato a terra, appena sotto i ripiani della cabina. Per un breve momento, il suo corpo venne pervaso da un brivido di freddo. Eppure la temperatura era piacevole; anzi, forse l’aria risultava un poco afosa e viziata.
Si concentrò su ciò che aveva davanti a sé. Impugnò la pistola, la puntò verso il basso e verificò che fosse completamente scarica e con la sicura fosse inserita. Nonostante quei controlli fossero già stati fatti in precedenza da Jorge, lo zio Phil le aveva insegnato che quando si maneggia un’arma, ci si deve affidare solo a ciò che si fa in prima persona e soprattutto: controllare, ricontrollare e ricontrollare ancora!
Provò l’impugnatura e simulò la posizione di mira e di sparo, distendendo le braccia e facendo aderire per bene le mani nella posizione giusta. Sentiva le braccia e le spalle un po’ rigide; era da diverso tempo che non si esercitava, ma tutto sommato era abbastanza soddisfatta della reazione dei suoi muscoli.
Aiolos la osservò per tutto il tempo con sguardo scettico. Non sapeva che pensare di quella specie di dimostrazione, se non che lei lo volesse solo impressionare.
La vide posare di nuovo l’arma sulla mensola e chinarsi per prendere un grosso foglio, grande quanto un poster, dal ripiano inferiore, che subito agganciò al braccio meccanico; poi prese delle cuffie imbottite e un paio di occhiali protettivi.
«Indossale!» gli disse, passandogli le cuffie.
Dalla tasca dei jeans prese una scatolina che conteneva dei tappi per le orecchie e subito se li infilò: avrebbero attutito il rumore della detonazione del colpo. Come ultimo passo, indossò gli occhiali protettivi.
«Ma stai facendo sul serio?» le disse Aiolos, con ancora le cuffie in mano, mentre il bersaglio si allontanava.
«Iniziamo con venticinque metri?» disse lei, con un sorrisetto e il tono vagamente arrogante di chi è consapevole delle proprie capacità e della propria bravura, voltandosi verso di lui.
Soddisfatta della distanza afferrò l’arma con la destra, mentre con l’altra mano prese uno dei caricatori. Un colpo deciso e lo inserì. Caricò il colpo in canna e di nuovo si mise in posizione. L’indice destro era ben appoggiato sul lato della pistola, sul guardamano del grilletto. Fece qualche respiro profondo per aumentare la concentrazione. Il suo sguardo divenne ancora più determinato e serio, nulla l’avrebbe potuta distogliere; il suo corpo era rilassato ma al tempo stesso in tensione. Le braccia erano tese davanti a sé, la mano destra teneva saldamente l'arma, mentre la sinistra faceva da sostegno.
Era pronta.
Aiolos si mise in fretta le cuffie alle orecchie, con gli occhi sgranati si spostò un poco dietro di lei per osservare meglio, ma senza darle intralcio.
Bang! Bang! Bang!
Tre spari in rapida successione.
Bang! Bang! Bang!
Un’altra serie di tre spari. Proprio come le aveva insegnato l’ex capitano Phillip Burton; proprio come insegnavano all’accademia di Polizia.
Le braccia di Cora tremarono un poco per lo sforzo di reggere il rinculo dell’arma. Di nuovo si concentrò prendendo un bel respiro; di nuovo altri tre colpi in rapida successione, come una breve scarica. E così per altre due volte, fino a vuotare il caricatore.
La giovane rilasciò l’aria in uno sbuffo, come a volersi liberare di un peso, nascondendo però un piccolo gemito: un lieve ma improvviso crampo al ventre le provocò un movimento incerto nella procedura che stava eseguendo. Con le mani tremanti rimise la sicura, estrasse il caricatore vuoto e tirò l’otturatore per controllare che l’arma fosse completamente scarica. Poi, la posò sulla mensola. Tornò a respirare in modo normale, come se nulla fosse successo. Si tolse gli occhiali protettivi, posandoli accanto alla pistola e riprese il bersaglio.
«Poteva andare meglio», commentò, esaminandolo e mettendolo da una parte, sostituendolo subito con uno nuovo. «Tocca a te», esortò l’altro.
Aiolos continuò a fissare quel bersaglio anche dopo che era stato accantonato. Il risultato che aveva ottenuto Cora era stato di nove centri nei punti vitali, di cui tre alla testa e sei al cuore, e gli altri sei colpi andati a segno in pieno stomaco.
Deglutì, incredulo. Ora era veramente impressionato. Eppure, a prima vista la ragazza non sembrava affatto avvezza alle armi da fuoco, invece aveva dimostrato molto bene che ci sapeva fare.
«Se è la prima volta per te, non aver timore, ti spiego tutto io.»
Cora non aveva l’abilitazione per insegnare a sparare, ma non c’era nessuno a darle una bacchettata sulle mani per quell’infrazione ed era più che sicura che non ci sarebbero stati problemi. Si scostò di un passo e gli lasciò spazio.
In quel breve momento, Aiolos si sentì letteralmente sotto esame. Se avesse rifiutato l’invito si sarebbe dimostrato un vigliacco, ma se invece avesse accettato?
Come un flash stordente riaffiorarono in lui quegli attimi di terrore che aveva assaggiato mesi prima, in quella stazione della metropolitana deserta, mentre il freddo metallo della canna della pistola aveva accarezzato la sua testa. Lì, in quel luogo, ugualmente deserto, gli si presentava l’occasione per scacciare quell’ombra ingombrante. Anche se con riluttanza, era pronto a coglierla, ma i suoi piedi non ne volevano saperne di muoversi da dove si erano piantati. Fece quasi violenza a se stesso quando si avvicinò a lei e sfiorò con la punta delle dita l’arma posata sulla mensola.
«Prendi la pistola e prova l’impugnatura; vedi come te la senti in mano», disse lei. «Stringi forte con l’anulare e il medio, quindi rilassa un poco le dita. L’altro dito, il mignolo, deve solo appoggiare, fare da sostegno. L’indice mantienilo lontano dal grilletto.»
Con entrambe le mani, Cora lo stava aiutando a prendere la posizione corretta, spiegandogli passo per passo, sfiorando la sua mano, spostandogli un poco le dita per migliorare la sua presa.
«Ricordati di puntare l’arma sempre verso il basso e mai nella direzione delle altre persone. Stringi saldamente. Aiutati con l’altra mano per rendere più stabile la presa. Quando sei in fase di preparazione, non tenere mai il dito sul grilletto: se l’arma è carica potrebbe partire un colpo accidentale.»
Mentre ascoltava le sue parole, ad Aiolos sembrava di essere tornato adolescente, a quando in uno strano momento di condivisione familiare il padre aveva portato lui e Aiolia al poligono di tiro, appena fuori Boston, e aveva mostrato loro come sparare.
«Mi stai ascoltando?»
«Certo», rispose lui, con un certo imbarazzo nella voce.
«Ora, prova a distendere le braccia e a prendere la mira. Ricorda, l’altra mano serve solo come supporto e per rendere più stabile e sicura la presa. Tutto il lavoro lo fa la mano dominante. Sei destrorso come me, vero?»
Aiolos fece un cenno di assenso con il capo.
«Bene. Sovrapponi la sinistra alla destra e allinea i pollici, non troppo in alto, altrimenti il movimento del cane potrebbe ferirti; mantieni ancora l’indice destro appoggiato lungo la canna.»
Cora fece una pausa, lasciando il tempo all’altro di assorbire tutte quelle nozioni e provare la presa corretta. Annì nell’osservarlo prendere una cauta confidenza.
«Passiamo alla postura delle spalle e della gambe.» Di nuovo gli si fece vicino, mentre con le mani gli toccava gli arti. «Il braccio destro deve essere ben teso, il sinistro invece leggermente col gomito piegato. Ricorda: il sinistro serve solo per sorreggere e stabilizzare», gli ripeté, posizionandosi dietro di lui e aggiustandogli l’altezza delle braccia.
Non era facile per lei correggerlo, perché la corporatura di Aiolos era troppo massiccia, almeno rispetto a lei.
«Le gambe vanno divaricate leggermente, devono essere alla stessa altezza delle spalle. Col piede destro fai un piccolo passo indietro, mentre le ginocchia devono flettere un poco...» Per un attimo le mancò il fiato e fu costretta a fare una breve pausa. «per mantenere meglio l’equilibrio», terminò, cercando di fare come niente fosse. «Ora, per prendere correttamente la mira dei allineare il mirino anteriore con quello posteriore. Non ti preoccupare se ne vedi uno sfocato, o se vedi il bersaglio sfocato; non possono essere tutti messi a fuoco. Concentra lo sguardo su quello anteriore. Una volta che i mirini saranno allineati, avrai la certezza che la pistola è ben dritta. Questa è una tecnica base; poi, col tempo e con l’esperienza, potrai trovarne una più adatta a te.»
Si portò di nuovo a fianco del ragazzo per avere una visione globale della sua posizione.
Aiolos seguì tutte le indicazioni senza lamentarsi. Era strano come l’insofferenza che di solito provava per lei, fosse come scomparsa. Ancora più strano era che si lasciasse guidare in quel modo, quando con il padre invece aveva fatto maggiore resistenza. E tutto quello che non aveva voluto apprendere da Thomas, con lei era invece interessato a imparare; anche se, teoricamente, le conosceva già tutte le basi che lei gli stava spiegando. Sapeva persino smontare, pulire e rimontare diversi tipi di armi, praticamente a occhi chiusi.
Cora si appoggiò con una mano alla mensola della cabina di tiro e fece un paio di respiri profondi; le sue labbra tremolarono un poco e all’improvviso sentì caldo. Si sfiorò il ventre con l’altra mano, ancora una volta i crampi le stavano dando una strana sensazione.
«Tutto bene?» chiese Aiolos, osservandola con la coda dell’occhio; era rimasto in posizione, ma ormai la concentrazione era tutta per la ragazza che stava avendo delle reazioni poco normali. Abbandonò la postura di mira, tenendo mollemente la pistola con la destra e si girò verso di lei.
Cora si dovette appoggiare anche con l’altra mano, ansimando. Il viso era completamente imperlato di sudore, sentiva un gran caldo, eppure era pallida come un cencio.
«Sei sicura di stare bene?»
«Sì, sì. Scusami, ora è passato», lo rassicurò lei, seppur in modo poco convincente. «Riprendi la posizione», lo esortò, ma Aiolos questa volta non le diede retta, rimanendo a fissarla con strana preoccupazione.
Il ragazzo fece appena in tempo a posare la pistola, tralasciando tutte le norme di sicurezza di quando si maneggiano le armi, che lei si era piegata in due dal dolore, trattenendo un forte gemito, accasciandosi infine a terra, fra i bossoli dei colpi che aveva sparato poco prima.

*****

Cora era stufa di aspettare. Seduta sul lettino delle visite, col camice ospedaliero in dosso – corto e scomodo che le lasciava la schiena nuda – e le gambe a penzoloni, continuava a farle dondolare avanti e indietro, sbuffando annoiata.
«Basta, io me ne vado!» disse, saltando giù dal lettino. Aveva atteso quasi un’eternità lì seduta e ora non era disposta a spendere un minuto di più in quel posto.
Aiolos la guardò alzando un sopracciglio, seduto sullo sgabello di metallo, poco più in là. Strano ma vero, lui che l’aveva portata di corsa al pronto soccorso, si era ritrovato alla fine con una visibile fasciatura alla spalla e il braccio appeso al collo, mentre lei, che fino a poco prima si era lamentata di dolori lancinanti al ventre, ora sembrava essere in perfetta forma, se non si teneva in considerazione qualche linea di febbre.
La giovane si grattò il braccio sinistro, nel punto dove l’infermiera le aveva fatto il prelievo del sangue e dove ora c’era una garzina sterile fermata con lo scotch di carta.
«Come vuoi», disse Aiolos, senza fare alcuna obiezione, né cercare di dissuaderla. Anzi, ironia della sorte, era d’accordo con lei e non vedeva l’ora di lasciare anche lui il pronto soccorso.
Con un gesto forzato e poco naturale, si liberò il braccio dal sostegno e si rimise la camicia che l’infermiera gli aveva lasciato lì vicino. Poi, sempre un poco a fatica, se la riabbottonò. L’antidolorifico che gli avevano somministrato prima della fasciatura stava ormai passando, ma ancora gli provocava un certo intorpidimento ai muscoli.
Cora si guardò attorno, cercando un posto dove potersi rivestire: quando l’avevano obbligata a spogliarsi, perché le avevano detto che le avrebbero fatto un’ecografia all’addome, per accertare la causa di quei dolori, Aiolos era già stato preso in consegna da un’altra infermiera; vista la situazione non poteva certo rimettersi i vestiti davanti a lui. Sbuffò di nuovo, guardandolo di sottecchi. Il tacito messaggio di lasciarle un momento di privacy non gli era arrivato.
Si dovette quindi arrangiare, nascondendosi come poteva dietro il lettino. Piegandosi un poco iniziò a infilare i jeans un piede alla volta, ma non era una buona equilibrista e, per non spostare troppo il camice, per poco non si ritrovò con il sedere per terra. Aveva ancora i pantaloni a metà gamba quando la tenda – che faceva da séparé – venne tirata con un colpo secco e da dietro si materializzò un medico.
«Caroline Miller, la nostra miracolata!» la salutò l’uomo, con un grande sorriso sulle labbra. «Mi era arrivata voce che tu fossi in ospedale ed eccoti qui!»
Si avvicinò al lettino e le strinse la mano con cordialità.
«Salve, Dr. Ferretti», ricambiò lei, in forte imbarazzo.
«Te la stavi svignando prima della visita?» la rimproverò bonariamente lui.
L’uomo era un medico di mezza età, brizzolato e costantemente abbronzato; occhi azzurri, denti bianchissimi che amava mettere in mostra in ogni occasione e dava sempre del “tu” alle pazienti donne, soprattutto se giovani e carine. Al “George Clooney” del reparto chirurgia, l’uomo che le aveva salvato la vita, si poteva perdonare questo e altro.
In mano reggeva la cartella clinica che l’infermiera aveva compilato al momento dell’accettazione e della visita preliminare. Sul primo di quei fogli erano stati riportati tutti una serie di dati e gli esami richiesti.
«Allora, rimettiti sdraiata qui sopra», le disse, battendo la mano sul materassino, per sottolineare l’ordine appena impartito, seppur gentilmente, «e scopri la pancia. Lei, signore, è un parente?» chiese, rivolgendosi ad Aiolos.
«Solo un conoscente.»
«Allora può aspettare in fondo alla sala, per cortesia?» Il medico era tanto cordiale con le pazienti donne, quanto invece formale e serio con gli accompagnatori, soprattutto se non erano dei parenti.
«No, no, dottore. Vorrei che rimanesse», intervenne Cora. Non che non si fidasse del dottore, o che avesse paura di qualcosa, ma la presenza di Aiolos la faceva sentire più sicura.
«In questo caso faremo uno strappo alle regole», concesse l’uomo, rivolgendosi di nuovo alla sua paziente.
Ferretti diede un secondo sguardo a quei fogli, mugugnando qualcosa.
«Mancano ancora i risultati degli esami del sangue e delle urine. Non fa niente, vorrà dire che inizieremo con l’ecografia. Hai dichiarato di aver subito un colpo molto forte, vero? Senti ancora dolore?» le chiese, mentre le faceva la palpazione sulla zona interessata.
Cora scrollò la testa, posizionandosi più comoda sul lettino, mentre il medico, intento ad avvicinare il carrello col monitor e l’ecografo portatile, pareva non aver badato alla sua risposta.
«Magari non è niente, ma noi daremo lo stesso un’occhiata», disse, concedendole un altro un sorriso. «Adesso sentirai un po’ freddo.»
Aveva appena preso in mano il flacone del gel, quando arrivò quasi di corsa l’infermiera che aveva visitato per prima Cora. La donna, senza dire nulla, consegnò il foglio coi risultati al Dr. Ferretti e attese nuove istruzioni.
«Mmmmh…» mugugnò l’uomo.
«Dottore?»
Il medico continuava a controllare e ricontrollare quei risultati, con una smorfia sulle labbra, come se qualcosa non lo convincesse, lasciando i presenti col fiato sospeso.
«Ebbene, secondo questi risultati...» iniziò, facendo una pausa. «Congratulazioni, Caroline, sei incinta», disse, sciogliendosi in un sorriso accattivante. «Vuoi vedere il tuo bambino?» le chiese, apprestandosi ancora una volta a sistemare l’apparecchio e prendendo il gel.
«È sicuro, dottore?» chiese con voce flebile Cora, attonita a quella notizia.
Fissò il vuoto per diversi secondi, boccheggiando e tremando un poco. Non era certa di aver inteso bene. Sarebbe stato troppo bello per essere vero e lei non voleva farsi troppe illusioni. Continuava a pensare che non poteva essere possibile, che da dopo il suo ferimento lei non avrebbe più potuto averne; e ora le stavano dicendo che tutto ciò in cui aveva creduto in quegli ultimi due anni era errato.
«Le analisi del sangue e delle urine non mentono. Sarai presto mamma», confermò il chirurgo. Accese il monitor e, dopo aver usato una generosa quantità di gel, iniziò a muovere la sonda sul ventre della ragazza.
Quelle strane immagini sgranate che si susseguivano sul monitor a un occhio profano erano di difficile comprensione. Erano masse chiare indistinte e ombre che cambiavano forma a ogni movimento della sonda.
Con gli occhi pieni di speranza, Cora provò a dare una sbirciata a quel monitor, emozionata e impaurita al tempo stesso. Le sue labbra erano costantemente piegate in un sorriso e tremavano. Tratteneva il respiro, le sue mani erano nervose e iniziarono a tormentare il bordo del camice.
Contrasse involontariamente il ventre, nel sentire una pressione un po’ più forte.
«Un attimo di pazienza che abbiamo quasi finito», la rassicurò Ferretti.
La voce dell'uomo questa volta risuonò fin troppo professionale, quasi avesse cercato di mascherare una crescente preoccupazione. Di questo se n'era accorta sia l'infermiera che Aiolos, rimasto sempre in disparte e che seguiva con malcelato disappunto.
Ferretti continuò a fissare il monitor, mentre con la mano spostava la sonda dell’ecografo. In quegli ultimi minuti stava insistendo molto su un determinato punto, come se avesse anche lui difficoltà a capire.
«Eccolo», disse, senza alcuna enfasi. «Dovrebbe essere di… quattro, forse cinque settimane», stabilì. La sua giovialità era ormai sparita.
Fece un cenno all’infermiera e, parlando a bassa voce, le ordinò di chiamare su in reparto e far scendere una delle ostetriche di turno per un consulto; poi aggiunse di riferire che era un’emergenza.
La ragazza era ancora così frastornata dall’emozione che non aveva notato lo sguardo serio del medico, né si chiese come mai l’uomo non le avesse indicato sul monitor il suo bambino, né ancora il perché, dopo essersi soffermato così a lungo, avesse riposto la strumentazione tanto in fretta, mutando il suo solito atteggiamento.
«C’è qualche problema?» domandò Aiolos, che invece non si era lasciato sfuggire alcun dettaglio di quella visita. La domanda pareva essere caduta nel vuoto.
«Rimani qui ancora qualche minuto», disse il Dr. Ferretti a Cora, che si stava risistemando il camice, alzandosi dallo sgabello e allontanandosi di qualche passo, non appena scorse arrivare la sua collega.
Aiolos avvertì all'improvviso una strana tensione, si avvicinò alla ragazza che fissava un punto imprecisato con sguardo languido, mentre si accarezzava il ventre e la squadrò severamente.
«Ora cos'hai intenzione di fare?» le chiese sottovoce. Il suo tono non era stato certo amichevole, né partecipe del momento lieto.
Cora strinse la stoffa del camice e sospirò un “non lo so” che testimoniava quanto, in quel momento, si stesse finalmente rendendo conto dell’accaduto. Era un bel dilemma: Saga e lei avevano faticato a convivere, perché in un modo o nell’altro qualcosa era sempre andato storto; non erano ancora riuscire a trovare una certa stabilità e ora c'era in arrivo un bambino.
«Secondo te, come prenderà la notizia? E la sua famiglia?» chiese, con giustificata preoccupazione.
«E la tua invece?» ribatté Aiolos. «Pensi che tuo zio verrà a Boston, pistola in mano, a chiedere la testa del colpevole?»
A quelle parole Cora ridacchiò, immaginandosi la scena. Ma sapeva che non ci sarebbe stato motivo per una cosa del genere. Lo zio Phil avrebbe sicuramente approvato, dopo qualche giorno passato a rimuginare sulla situazione e dopo una colossale opera di convincimento da parte di sua madre, naturalmente; e lei, sua madre… beh, in passato aveva fatto altrettanto, più o meno; e poi, era uno spirito romantico. E una volta che lo avesse conosciuto anche di persona, se ne sarebbe innamorata anche lei, ne era più che certa.
«Credo che saranno un po’ sorpresi», rispose, pronunciando quelle parole con dolcezza e con un sorriso innamorato.
«Caroline», la chiamò il dottore, ritornato dopo qualche minuto e ridestandola dai suoi sogni a occhi aperti. «Dobbiamo portarti in sala operatoria.»
La voce dell'uomo risuonò tetra e greve. Aiolos lo fissò a occhi sgranati, stringendo il pugno. Su tutti i presenti calò una tensione nervosa. Solo da parte della giovane non arrivava alcuna reazione; anzi, sembrava persa nelle sue fantasticherie.
«Caroline, hai capito quello che ti ho appena detto?» disse Ferretti, scuotendola leggermente per la spalla.
Gli occhi di Cora incrociarono quelli del chirurgo. «Che mi dovete portare in sala operatoria, dottore», disse lei, ma ai presenti era chiaro che lei non ne fosse del tutto cosciente. «Non ne vedo però il motivo. Io sto bene.»
«No, Caroline, non stai bene. E anche la gravidanza non va bene. Dobbiamo  interromperla.»
«Ma io sto bene!» insistette la giovane; e questa volta la sua voce aveva in sé un tono decisamente allarmato.
«Miss Miller, purtroppo è una gravidanza extrauterina. Dobbiamo intervenire con urgenza, prima che possano esserci delle complicazioni molto più gravi, per la sua salute», intervenne la collega che era stata chiamata da Ferretti.
«No! No! Io sto bene!» urlò Cora, quasi isterica, saltando giù dal lettino. «E starà bene anche lui! Perché... perché mi state facendo questo...» mormorò, con le guance rigate di lacrime. Quando aveva scostato il lenzuolo aveva svelato sul materassino delle tracce di sangue.
All'improvviso avvertì un forte crampo irrigidirle il ventre e lo stomaco. Era diverso dai soliti con i quali era abituata a convivere. Poi, un dolore più acuto la fece gemere e piegare in due, esattamente com’era successo al poligono di tiro. Si portò entrambe le braccia a stringersi dove sentiva quelle fitte.
«Caroline, non fare pazzie. Segui quello che ti dicono i dottori», disse Aiolos, con particolare preoccupazione, sorreggendola e aiutandola a tornare sul lettino.
Le gambe della giovane si afflosciarono senza forza e Aiolos, con grande reattività, nonostante la spalla dolente, la prese in braccio, posandola sul lettino. Per terra, ai suoi piedi vi era una grande pozza di sangue scuro che era colato fra le cosce di lei.

*****

La giovane si risvegliò in quella stanzetta d’ospedale, su in reparto chirurgia, ancora tutta frastornata dall'anestesia totale che erano stati costretti a farle. Era una singola, essenziale ma dall’aria comunque confortevole. Le luci al neon erano accese e le davano fastidio alla vista. Aggrottò la fronte e strizzato gli occhi. Sentiva i suoni attorno a sé un poco ovattati e le palpebre decisamente pesanti. Il tubicino dell’ossigeno le prudeva al naso ed era troppo tirato dietro le orecchie.
«Mamma», mormorò.
«Caroline! Come ti senti?» chiese la donna che subito si era chinata su di lei, accarezzandole la guancia esangue e dandole un bacio sulla fronte.
«Cosa ci fai qui?» disse la ragazza, con voce impastata.
«L’ho chiamata io, dal tuo cellulare», intervenne Aiolos, appoggiato con la schiena alle veneziane abbassate dell’unica finestra presente. «Doveva saperlo.»
«Bambina mia…» le disse dolcemente Teresa, gli occhi tristi e arrossati. Di sicuro aveva pianto per tutto il tempo che era rimasta accanto al letto di sua figlia, in attesa che lei si svegliasse.
Cora fissò la madre negli occhi, per quanto le sue condizioni le permettessero, senza dire nulla. Non si capacitava di quel che era successo così all'improvviso. Aveva toccato il cielo con un dito e ora si sentiva vuota dentro. Non solo metaforicamente parlando. Le avevano tolto qualcosa che lei anelava e che si era già rassegnata a non avere mai. Le sembrava di vivere un incubo.
«Ci sono anche gli altri?» chiese, con voce flebile.
«No, sono venuta solo io. Phil è a casa con Mickey; gliene ho parlato, ho dovuto farlo, perché la telefonata è arrivata quando lui era presente, ma tuo fratello ancora non lo sa.»
«Non glielo dire. Non voglio che pensi di essere responsabile di quello che mi è successo», disse Cora, con la voce che andava via via facendosi più agitata e il respiro che diventava affannoso. Sul monitor, il battito del suo cuore era accelerato.
«Sssh… sssh… tesoro, stai tranquilla», provò a calmarla la madre.
Cora girò la testa dall’altra parte e incrociò lo sguardo di Aiolos. Temeva del biasimo da parte del ragazzo, ma lui sembrava imperturbabile e i suoi occhi erano altrettanto indecifrabili. Aveva la testa ancora confusa, ma una cosa ricordava bene, nonostante tutto lui le era rimasto accanto e l’aveva aiutata. No, la verità era che le aveva salvato la vita, perché se fosse stata sola in quella cabina del poligono sarebbe morta dissanguata. Le sue labbra si mossero impercettibilmente a prononciare un “grazie”, ma la sua voce era come se fosse scomparsa di colpo, esaurita; allora si limitò a indugiare con lo sguardo su di lui, che la stava ricambiando, senza mutare espressione. Dopo qualche secondo lo vide prendere dalla tasca il cellulare e allontanarsi dalla finestra, per dirigersi alla porta della camera.
«A lui, cosa devo dire?» le chiese Aiolos, facendo un breve gesto con la mano che teneva il cellulare.
Cora strinse le labbra e chiuse gli occhi già velati di lacrime, lasciando che queste scendessero libere fino a bagnare la federa del cuscino. «Niente. Non c’è niente da dire.»
Teresa rimase in silenzio ad assistere a quel dialogo, continuando a starle vicina; percepiva che c’erano diverse cose che andavano chiarite, ma non le pareva giusto dover intervenire in ciò che non la riguardava. Era però pronta a raccogliere i pezzi, nel caso sua figlia glielo avesse permesso. Un’esperienza del genere era traumatica di per sé; per Caroline poi, che già aveva sofferto molto, lo era ancora di più.
«Mamma… voglio andare a casa.»
«Sì, bambina mia. Fra poco arriverà il Dr. Ferretti per controllare se tutto è andato bene e poi, se ci darà il permesso, chiederemo il foglio di dimissioni.»


note del capitolo:
Paintball e Speedball: (per carità non confondete quest'ultimo con le droghe) è un tipo di sport (e relativa specialità) abbastanza recente, nato negli Stati Uniti e diffusosi poi in Europa e nel resto del mondo. Ma bando alle ciance, qui trovate tutte le spiegazione necessarie.


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Capitolo 26
*** Capitolo XXV ***





XXV


Winchester, Boston
Un colpo secco risuonò nella fresca brezza di quel pomeriggio di fine maggio dal cielo terso. Era stato come uno schioppo che sanciva la fine definitiva delle ostilità. Un lieve nugolo di polvere rossiccia si levò da terra di qualche centimetro, proprio fra i piedi del ragazzo che ancora stava battagliando per non ruzzolare al suolo, perdendo anche quella sfida.
«E con questo… è gioco, partita e incontro!» decretò con voce decisa Saga. Sul suo viso, un poco arrossato e imperlato di sudore, era stampato un sorriso smagliante che mostrava tutta la – scontata – soddisfazione di chi aveva predetto il risultato dell’incontro con largo anticipo.
Con un gesto fluido si portò la racchetta sulla spalla e, con calma olimpica, si avvicinò alla rete, osservando il gemello seduto a terra con i capelli scompigliati e appiccicati al viso stravolto, che imprecava verso tutto e tutti. Sputava parole fra i denti contro il laccio della scarpa destra che era finito sotto il suo piede facendolo inciampare; contro la sua racchetta, a sua detta non perfettamente bilanciata, e con l’impugnatura, rea di essere così fradicia di sudore che era divenuta scivolosa; e anche contro Saga, perché quell’ultima palla gliel’aveva tirata in un punto impossibile da ribattere.
«Non è valido! Me l’hai tirata in mezzo ai piedi!» sbraitò, agitandogli la racchetta contro. Il suo spirito di competizione ribolliva al massimo.
«Certo che è valido! Fa parte del gioco!» ribatté il gemello, ridendo ai goffi tentativi dell’altro di ripulirsi dalla terra rossa. Ma più Kanon si impegnava a farlo, più si sporcava per via del sudore che impregnava sia la maglietta che il viso, le gambe e le braccia. «E comunque non è colpa mia se non sei riuscito a respingere il mio colpo», aggiunse, alzando le spalle a schernirlo di più. Eppure, quelle parole erano state pronunciate col sorriso sulle labbra, di quelli dolci e gentili com’era solito fare quando era davvero sereno.
Forse lo aveva fatto con calcolata malizia, perché qualcosa dal gemello aveva imparato dell’arte dello sfottò, o forse con naturale ingenuità; ma il risultato era stato comunque quello di alimentare ancora di più la rabbia adrenalinica dell’altro. Gli tese la mano da sopra la rete, per aiutarlo a rialzarsi, ma Kanon la rifiutò con sdegno; e Saga si lasciò andare a una risata forte e divertita.
Il giovane si incamminò lungo la rete fino ad arrivare alle sedie a bordo campo – ai lati del seggiolone dell’arbitro – dove erano sistemate le borse e gli asciugamani. Dopo aver posato la racchetta, dalla borsa prese una bottiglietta di integratore, vuotandola in pochi sorsi.
«Imbroglione! Lo hai fatto di proposito solo per vincere di nuovo!» continuò nelle sue lamentele Kanon, raggiungendolo e, con gesti ancora più nervosi, ficcando malamente la sua racchetta nella borsa.
La sconfitta gli bruciava, eccome se gli bruciava! Soprattutto perché era lo spareggio ed era arrivato a un soffio dalla storica impresa di battere il gemello nel suo sport preferito. Ma forse, quello che ora gli dava maggior fastidio era la consapevolezza che la prima partita, quella cioè che aveva vinto… beh, era stata una vittoria troppo facile!
Saga gli tirò addosso l’asciugamano e si buttò a sedere su una delle sedie libere, sfinito, portando indietro la testa e chiudendo gli occhi, per godersi un leggero refolo d’aria che gli accarezzava il viso umido di sudore. Sorrise sornione allo sbuffo scocciato dell’altro.
L’aria portava con sé il profumo dei fiori che crescevano nelle curatissime e sempre perfette aiuole, disseminate fra i sentieri ordinati che si snodavano negli spazi del Country Club, come un intrico di vie e strade di un piccolo villaggio.
«Ti ho lasciato recuperare diversi punti che altrimenti non avresti fatto, se non sei stato capace di approfittarne devi biasimare solo te stesso.»
Kanon gli elargì un poco elegante gestaccio, corredato anche da una smorfia. Scaraventò a terra la sacca e si sedette accanto al gemello, coprendosi il viso con l’asciugamano.
«E questa volta cosa vuoi?» chiese, in uno sbuffo risentito. Naturalmente si stava riferendo alla posta della scommessa legata alla sua ennesima sconfitta.
«I biglietti per il Madison Square Garden.»
«Cosa?» disse, sgranando gli occhi e scattando in piedi come una molla. «Ma sei matto? Quei biglietti sono praticamente introvabili da settimane!»
«Usa i soliti canali, gli stessi di quando vuoi ottenere qualcosa per te», gli suggerì Saga, raddrizzandosi e sorridendogli. Si alzò dalla sedia, riordinò la propria borsa e se la mise in spalla, avviandosi poi fuori dal campo.
Kanon rimase basito. Non pensava certo che “quei” suoi metodi fossero sconosciuti al gemello, del resto lui stesso era stato così sciocco da vantarsene in più di un’occasione in passato, ma che addirittura ora Saga lo spingesse a usarli, gli sembrava una cosa fuori dal mondo.
«Ma tu lo sai cosa mi stai chiedendo di fare?» gli disse, ancora sconvolto, prendendo in fretta e furia le sue cose e raggiungendolo di corsa, mentre Saga invece passeggiava con tranquillità.
«Ti sto chiedendo di pagare il tuo debito. Sei tu che non hai voluto sapere quale fosse la posta in palio, troppo sicuro che avresti vinto, perché a differenza tua io non mi ero allenato negli ultimi tempi...» gli ricordò Saga, senza il bisogno poi di completare la frase.
Kanon si bloccò in mezzo al vialetto che portava agli spogliatoi privati, come raggelato. No, era evidente che il suo amato fratellino non si rendesse conto di quanto gli sarebbe costato, altrimenti non gli avrebbe fatto una richiesta impossibile. Era però vero che lui gli aveva detto, con tono eccessivamente sicuro, che non gli importava conoscere il premio per il vincitore; troppo convinto che si trattasse della solita cena in uno dei ristoranti più rinomati della Grande Mela che tanto Saga non avrebbe mai riscattato, visto che già ne vantava altre dieci.
Lo osservò guadagnare qualche altro metro, mentre le sue mani inconsciamente si portavano indietro a ripararsi i glutei e un gemito gli sgorgava mortifero dalla gola. La sola idea di doversi svendere alle lussuriose e troppo stravaganti voglie della presidentessa Abbigail Peterson – conosciuta a Wall Street come la regina degli snack dietetici –, che anche quell’anno sarebbe stata fra gli sponsor del match evento al Madison Square Garden, gli faceva rimpiangere di essersi sempre compiaciuto dell’interesse che la donna nutriva per lui. In quel momento avvertì di nuovo, con vivida chiarezza, le unghiate e i pizzicotti che lei gli aveva lasciato l’ultima volta che si erano incontrati a uno dei soliti party di raccolta fondi per… beh, di solito a quegli eventi vi partecipava solo per portarsi a letto qualcuna. Certo, la donna era bella e affascinante, una conquista che avrebbe dato prestigio a molti, ma forse sarebbe stata più adatta al padre piuttosto che a lui, se solo Shion avesse mostrato un qualche minimo interesse.
A rifletterci, non ricordava di aver mai visto il padre sessualmente attratto da alcuna donna. Se un tempo, quando era piccolo, poteva immaginare che l’uomo tenesse la sua vita privata fuori dalla portata dei suoi figli, per “non traumatizzarli”, ora che erano adulti – e lui era fin troppo attivo in quel campo – ancora non sapevano praticamente nulla delle avventure del padre. Ma forse, pensava, non sarebbe stato poi così strano se alla sua età avesse deciso di mandare in prepensionamento “l’amichetto”.
Si massaggiò con vigore la parte “offesa”: se proprio doveva sacrificarsi, non sarebbe stato il solo a pagarne il prezzo. I suoi occhi erano ancora fissi sul gemello che si stava allontanando, inconsapevole di quanto stava per succedere, e un ghigno diabolico si disegnò sulle sue labbra.
«Chissà…» mormorò Saga, sovrappensiero, «forse è arrivato il tempo di esigere anche gli altri, di pagamenti. Tu che ne pensi, Kanon?» si rivolse al fratello, girandosi un poco indietro.
Boom!
Saga avvertì un forte dolore alla schiena e dietro la testa e per qualche secondo tutto si fece buio. Si ritrovò a terra, immobile, schiacciato da un grosso peso che gli bloccava la cassa toracica e gli impediva quasi del tutto di respirare. Ancora scombussolato, sentiva una strana umidità inzuppargli tutto il corpo. Con le mani tastò incerto vicino a sé, mentre riapriva gli occhi con innaturale lentezza. Sotto i suoi palmi l’erba era umida, probabilmente annaffiata di fresco; e il sole emanava una luce dolce, poco fastidiosa: aveva già iniziato il lento percorso verso ovest.
Con un gemito girò il capo, prima a destra, poi a sinistra. La sua borsa era volata a un paio di metri da lì, sulla sinistra. Provò ad afferrarne la tracolla che protendeva verso di lui, ma c’erano ancora diversi centimetri di distanza da colmare per raggiungerla. Con la mano riuscì a strappare solamente qualche ciuffo d’erba, nei suoi vani tentativi. Avvertì un secondo battito tambureggiare contro il suo petto, inseguendo e superando il ritmo di quello che invece gli batteva dentro. Deglutì a fatica. Poi, un altro gemito e un ansimo strozzato. La difficoltà nel respirare si faceva via via più opprimente.
«Come stai?» gli chiese Kanon, con voce ovattata: la sua bocca premuta contro il petto del gemello, il volto a contatto con la stoffa di cotone della polo dell'altro.
«Come vuoi che stia?» ansimò Saga, cercando di prendere più aria possibile. «Come uno che è appena stato travolto da un… un TIR», disse, ormai senza fiato.
Kanon sogghignò. In effetti la cosa era piuttosto verosimile, anche se si trattava di un semplice, quanto “innocente”, placcaggio. Forse un po’ troppo alto, ma del tutto lecito e regolare!
Rimasero in quella posizione per interminabili secondi, nella completa immobilità di quella strana situazione. Tutto era diventato silenzio attorno a loro; solo il melodico canto della natura faceva da contraltare ai loro respiri: quello affannato e sovreccitato di Kanon e quello quasi impercettibile di Saga, sempre che riuscisse ancora a respirare.
«Dai… togliti di dosso… bisonte…» sbuffò il giovane, steso sul terreno. «Se mi hai sporcato, ti metto in conto anche la lavanderia…» disse con tono minaccioso.
Il suo sguardo e le sue labbra però non erano in accordo con le sue intenzioni: troppo dolci e sereni i suoi occhi verdi che splendevano di una gioia contagiosa; e le sue labbra che non riuscivano a nascondere il sorriso tipico di chi è innamorato.
Saga gli disse di alzarsi e lui, da bravo fratello sempre prodigo nel prendersi cura del proprio gemello, si tirò su un poco, puntellandosi con le mani sul soffice manto erboso, sfiorandogli i fianchi. E Saga, in quell’esiguo spazio che l’altro gli stava concedendo, riuscì finalmente a riempire d’aria i polmoni, sbuffandola poi fuori con sollievo.
Kanon lo fissò negli occhi. Rosso in viso e sudato, sorrise malizioso, voglioso di rivincita; e nei suoi propositi sarebbe stata molto, ma molto, soddisfacente. Poco propenso a dargli davvero pace, si mise a cavalcioni su di lui.
«Ma che fai?» disse in tono allarmato Saga, sgranando gli occhi per la sorpresa.
Si ritrovava un energumeno di quasi novanta chili che gli stava pesando sul bacino e lo teneva bloccato a terra. Vide il gemello chinarsi di nuovo verso di lui, sempre con quel sorrisetto ambiguo che ora sembrava addirittura pericoloso e, ancora una volta, si coricò su di lui, appoggiando i gomiti a terra, ai lati del suo viso. I loro nasi erano quasi a contatto fra loro e le loro fronti si sfioravano. Saga trattenne il respiro: in quella posizione, col cuore che gli martellava nel petto, si stava sentendo indifeso.
«Kanon?» disse, con voce incerta.
Sul viso sentiva il respiro del gemello e un leggero solletico provocato dallo sbatter di ciglia che l’altro, era più che sicuro, stava facendo apposta.

*****

«Sei sicura che stiamo andando nella direzione giusta?»
«Quel ragazzo ha detto che era da questa parte», disse Saori, ma anche lei non era poi così certa della direzione presa: forse aveva capito male le indicazioni.
Camminava a passo svelto e al tempo stesso indeciso, scrutando con gli occhi ogni minima cosa per individuare i punti di riferimento che le erano stati dati, neanche la proprietà del Country Club fosse stata un astruso labirinto magico che, distolto un momento lo sguardo, mutasse di forma per confondere gli ignari avventurieri.
«Ma perché stiamo andando a cercarli?» chiese di nuovo Seiya; la svogliatezza che mostrava contrastava e stonava con l’ambiente circostante e con la curiosità della ragazza.
Saori non gli diede una risposta. In effetti nessuno aveva chiesto loro di fare una cosa del genere: aveva deciso lei stessa, di sua iniziativa, di andare a cercare i gemelli, quando aveva sentito Shion Hayes chiedere a uno dei valletti del club di far chiamare i suoi figli. In quel momento, con ancora indosso la tenuta da cavallerizza, aveva appena raggiunto l'uomo al suo tavolo, dopo la passeggiata a cavallo che aveva fatto, accompagnata da uno degli istruttori del maneggio. Con la scusa che desiderava andare a rinfrescarsi, si era congedata, ma aveva preso tutt’altra direzione; e Seiya l’aveva seguita a ruota, com’era sua abitudine fare e come la sua famiglia adottiva, i Kido, gli aveva ordinato di fare.
Quasi dispersa fra i vialetti curati, i mille cartelli che indicavano altrettante direzione e tante altre distrazioni – e più di dieci minuti di vagabondaggio a vuoto –, si stava domandando anche lei il perché si fosse imbarcata in quella “missione”. Eppure, una voglia misteriosa l’aveva spinta a voler scoprire un diverso lato della personalità del suo promesso; a sbirciare anche solo un piccolo attimo di normalità e di vera intimità di quella persona che dei cinici accordi economici le avevano affiancato.
Come se non fosse bastato, in quei giorni aveva sentito tanto decantare le qualità dei gemelli Hayes, non soltanto come persone, ma anche come eccellenti sportivi. Erano state per lo più chiacchiere da parte del personale del Country Club, dipendenti che ammirano il padrone, e parole frammentate captate dai discorsi degli altri ospiti. Loro senz’altro conoscevano meglio di lei Kanon e, se ne parlavano così bene, allora doveva esserci del vero. Le più insistite asserivano che i due erano così bravi, naturalmente ognuno con uno sport preferito, che avrebbero potuto competere anche con dei professionisti; non degli sportivi qualunque, ma con dei veri campioni!
L’impresa che veniva raccontata più spesso era una gara nella piscina olimpionica, ovviamente del Country Club, avvenuta quasi cinque anni prima e nella quale i due fratelli erano stati alla pari fin quasi all’ultima bracciata dell’ultima delle sedici vasche degli 800mt stile libero. Ci fu chi, a suo tempo, assistendo alla sfida – che si era svolta proprio nei giorni di gare dei mondiali di nuoto di Montreal – disse che i due erano finiti alla pari e riuscirono persino a battere il record mondiale. Naturalmente, la parola di un semplice addetto alla piscina non era poi così attendibile. Ma quel giovane per diverso tempo si vantò di essere stato testimone di un’impresa eccezionale.
Lei era stata educata a tenere molto in considerazione l’onore e la reputazione delle persone, a guardarne i meriti reali e non quelli presunti; da quando era in America, dove tutto era così diverso dal suo paese e dalla sua cultura, dove era prassi ingigantire ogni cosa, non sapeva più cosa pensare: era difficile riuscire a capire dove terminava la verità e dove invece iniziavano le esagerazioni.
Le avevano detto che quel pomeriggio i gemelli si erano tenuti liberi per un incontro di tennis ed era curiosa di vederli all’opera. Un piccolo esempio lo aveva avuto proprio la settimana prima; ma in quell’occasione, la partita giocata da Kanon le era sembrata essere più che altro una dimostrazione e non un match guidato dallo spirito sportivo. L’aveva visto ridere – talvolta irridere – e scherzare, limitandosi contro i suoi avversari. Seiya, che difendeva il vessillo nipponico, nonostante la sua volenterosa caparbietà, era stato liquidato in fretta. Aveva fatto quel che aveva potuto, tutto considerato. Mentre Aiolia, amico del ragazzo, aveva subito sorte ben peggiore, venendo addirittura umiliato; e solo perché si era lasciato sfuggire una parola di sfida di troppo; ma dai discorsi che i due avevano fatto, non doveva essere stata la prima volta.
Per giorni e giorni, quel magnificare ogni cosa riguardasse i gemelli, era ronzato nella giovane testa di Saori, portandola a pensare spesso, molto spesso, al suo promesso sposo. Doveva però confessare a se stessa che anche l’altro, il fratello più tranquillo, quello che in qualche modo la turbava con il suo carattere troppo introverso e lo sguardo limpido, che a tratti le ricordava suo cugino Shun, le faceva un certo effetto. Forse era per il fatto che avevano iniziato a passare molto tempo assieme, mentre con Kanon si erano create delle distanze dovute al lavoro di lui. Spesso infatti, in quell’ultimo periodo, Kanon faceva il pendolare fra Boston e New York. Tragitto pesante se percorso ogni giorno, anche per chi aveva mezzi superiori, come autisti e aerei privati; ma alle volte, era capitato una o due in realtà, era stato costretto anche a fermarsi a dormire nell’attico di Central Park.
Saga invece, che sempre di più faceva gli onori di casa nella villa di Mystic Lake, era disponibile per ogni cosa lei avesse bisogno. Quella vicinanza così stretta, che derivava anche dal ruolo di tutor che gli era stato chiesto di svolgere per aiutarla negli studi e prepararsi per il difficile test d’ingresso – che le avrebbe permesso di frequentare l’ultimo anno come una studentessa normale –, aveva iniziato a farla dubitare di se stessa. Era stato grazie all’intercessione del capofamiglia Hayes se da qualche settimana stava frequentando – solo come osservatrice – una scuola privata di Boston, la stessa che a suo tempo aveva frequentato anche Kanon, per familiarizzare con i metodi americani. Era stato così che aveva quindi iniziato a passare tutti i pomeriggi alla villa, a stretto contatto con Saga: ufficialmente a ripassare le lezioni, ma in verità a distrarsi nell’osservare i suoi sorrisi dolci, ad ascoltare la sua voce gentile, a sentire sulla pelle gli involontari tocchi delle sue mani e… a odorare il suo profumo delicato e virile al tempo stesso, quando si chinava un poco su di lei per spiegarle un paragrafo del libro di testo. A quei ricordi recenti sovrappose, come in un passaggio naturale, la figura di Kanon, con quel suo carattere spontaneo e un po’ sbruffone, e il suo cuore prese a battere più forte. All’improvviso, come se già quella confusione di sentimenti che si agitavano in lei non fossero stati sufficienti, avvertì un'improvvisa vampata sul viso.
D’istinto cercò di nascondersi a Seiya, per non fargli notare l’imbarazzo che stava provando nel perdersi in certe fantasticherie. Si sentiva un poco sciocca in quel frangente. Osservò il ragazzo di sottecchi: Seiya era sempre stato al suo fianco e l’accompagnava dappertutto senza mai lamentarsi, forse borbottando qualche volta, ma mostrandole sempre tutto il suo appoggio. Presenziava anche lui a quelle ripetizioni, anche se di malavoglia; benché, poverino, fosse lui quello che ne avesse maggiormente bisogno.
Si coprì la bocca con la mano inguantata, mentre nell’altra ancora stringeva il frustino, per mascherare la civettuola risata che le nacque spontanea. Saga era sempre molto paziente con Seiya, in quelle occasioni, ma se ci fosse stato Kanon al suo posto? Forse lo avrebbe scaraventato giù dalla finestra dopo la seconda volta che lui gli avesse chiesto di ripetere qualcosa. A quel pensiero rise di nuovo.
Camminarono ancora per qualche decina di metri, passeggiando tranquilli, serenamente, senza più fretta; poi, Saori si fermò davanti a un piccolo e malconcio cartello di legno, dall’aria molto country, e vide una scritta che recava l’indicazione: “Proprietà esclusiva dei fratelli Hayes, dal 1995”. E, aggiunto a mano, con una scrittura infantile e irregolare, un “fuori dai piedi!” Più sotto ancora, inciso con un temperino sul palo di sostegno, c’era anche l’avviso “il prossimo che toglie questo cartello è licenziato!”.
Saori sorrise intenerita: non pensava di vedere una cosa del genere in un posto così d’élite come quello; sembrava una cosa fatta da bambini delle elementari. E forse lo era davvero.
«Ma quanto è grande questo posto?» commentò Seiya, ormai annoiato a morte, continuando a guardarsi attorno e pensando che gli sarebbe piaciuto provare a guidare una di quelle piccole macchine elettriche che avevano incrociato lungo i vari vialetti.
«Dovremmo essere arrivati», dichiarò Saori, risvegliando l’attenzione dell’altro.
Fecero ancora qualche metro e, alla fine, poco più in là, sentirono delle voci. La ragazza si fermò dietro un grosso cespuglio di bosso, non appena riconobbe le voci. Con titubanza allungò il collo per vedere e subito si ritrasse, rossa in viso.
«Torniamo indietro!» esclamò con troppa decisione, incamminandosi in tutta fretta, senza dare ulteriori spiegazioni e lasciando l’altro attonito e spaesato a sbirciare coi propri occhi.

*****

Saga tenne Kanon stretto in quell’abbraccio per lunghi secondi: petto contro petto, il viso nascosto fra i suoi capelli umidi di sudore – che l’altro stava lasciando crescere un poco più del solito, forse per assomigliare di più a lui – e il collo; e una mano che gli accarezzava la testa bionda, scompigliata. Il suo gemello ancora gli stava seduto sopra, bloccandogli le gambe, ma in quel momento non sembrava più subire quel peso.
«Riconosco questa sensazione», mormorò Saga, con voce dolce e malinconica.
L’altro fece un lieve movimento, come risvegliato da quella sensazione di pace che stava sentendo: la stanchezza della partita a tennis ormai riassorbita e l’umore di nuovo sereno. Era sempre così quando c’erano quei momenti di vicinanza con il suo amato fratello. «Hai detto qualcosa?» gli chiese, tentando di slacciarsi un poco dall'abbraccio, ma Saga non accennava a lasciarlo.
«Noi due, i battiti dei nostri cuori uniti in uno solo… noi che torniamo a essere una cosa sola, come se fossimo ancora nel ventre di nostra madre, cullati nel suo amore. Noi due e nient’altro. Una dolce nostalgia», disse in un sussurro Saga, stringendosi di più a lui.
Le sue parole però a Kanon sembravano strane ed enigmatiche. Gli suonò un campanello d'allarme quando udì accennare alla madre. Non che fosse un argomento tabù, ma non ne avevano mai sentito la necessità di ricordarla o solamente di chiedere di lei. E ora, d’un tratto, ecco che spuntavano fuori discorsi su una donna che neanche avevano mai conosciuto e della quale sapevano solo che era morta.
«Ti senti bene?» chiese Kanon, con tono inquieto.
«Ne sono certo, lo ricordo… sempre insieme», sospirò Saga. «E due braccia pietose che ci avvolgevano e ci tenevano al sicuro. Le braccia di un padre amorevole.»
Kanon spalancò gli occhi, colto da un’improvvisa preoccupazione, questa volta più concreta delle altre. Si staccò con vigore dal gemello e lo scrollò per le spalle. Lo sguardo di Saga era languido e gentile, le labbra incurvate in un sorriso delicato e struggente e le gote di una leggera sfumatura rossa che spiccava sulla sua pelle chiara.
«La memoria ti sta giocando di nuovo brutti scherzi? Il colpo alla testa che hai appena preso ti ha rintronato del tutto, oppure sei ancora una volta sotto l’influsso della febbre?» gli disse, mentre con una mano gli toglieva un filo d’erba dai capelli, scrutandolo attentamente. Non poteva certo credere che l’altro stesse parlando della medesima persona che li aveva cresciuti: Shion Hayes era un buon padre; amorevole, certo, forse propenso a qualche smanceria… ma solo con Saga e sempre e comunque contenute. Ma la descrizione che il gemello ne aveva appena fatto, che lui stesso aveva inteso, era un po’ troppo lontana dalla realtà che lui conosceva. E Kanon… lui sì che aveva una buona memoria!
Il tono con cui gli aveva parlato era vagamente canzonatorio – e il suo sesto senso era in allerta, perché sentiva che c’era qualcosa di strano in quel comportamento – ma il gesto appena compiuto invece mostrava tutta la cura e l’affetto che provava per lui; che dedicava solo a lui. Perché era vero, nonostante vite separate, nonostante fossero adulti, nonostante tutto quello che si poteva dire, la questione era semplice: erano loro due, sempre insieme.
Saga gli sorrise ancora più dolcemente; non si aspettava certo che l’altro condividesse quei ricordi, neanche lui era davvero sicuro di ciò che aveva appena detto e provato, forse quelle sensazioni erano solo immaginate – o costruite dal suo subconscio dopo quanto aveva appreso – ma un poco gli dispiaceva che Kanon non riuscisse ad avvertire le sue stesse emozioni. Forse però, in qualcosa il fratello aveva ragione: si sentiva un po' caldo. Che quella febbriciattola, seppur passeggera, gli avesse fatto immaginare tutto?
Si bagnò la punta del pollice e, scostandogli i capelli ancora umidi dalla fronte, gli pulì uno sbaffo di terra rossa appena sopra il sopracciglio sinistro. Poi, gli diede un bacio sulla guancia e gli accarezzò il viso, rimandendo per diversi secondi a rimirare il suo bel fratello. Anche Kanon era caldo, forse addirittura più di lui. Del resto, erano seduti sul prato bagnato, con ancora i vestiti intrisi di sudore dopo la partita a tennis e soffiava un lieve venticello fresco.
«Ci pensi mai a quanto è successo e a cosa è cambiato?» disse Saga, in un soffio leggero di malinconia, toccandosi inconsciamente la tempia destra e quel piccolo segno rimasto inciso sulla sua pelle. Sospirò e alzò di nuovo lo sguardo sul gemello che invece lo stava fissando scuro in volto.
Poi, con movimenti lenti, Kanon si scostò dal gemello, lasciandolo finalmente libero di muoversi, sdraiandosi al suo fianco sull'erba e sbuffando stanco.
«Scusami, non volevo contrariarti», disse Saga, spolverandosi la polo.
«Stavo riflettendo… È da un po’ che non c’è più la stessa sintonia di un tempo: come se ci fosse qualcosa di diverso fra noi», disse Kanon, osservando una nuvola bianca che si muoveva lenta nel cielo.
«Non siamo più bambini, Kanon, né adolescenti. Siamo cresciuti, abbiamo preso strade diverse e acquisito delle responsabilità che hanno portato inevitabilmente a dei cambiamenti e ci hanno resi così come siamo ora», rispose Saga, con un sorriso pacifico sul viso.
«No, è differente!» ribatté in tono secco Kanon.
Qualcosa lo aveva irritato. Non era tanto l’argomento “adolescenti”, che in quell’ultimo periodo era diventato un nervo scoperto ancora più sensibile, ma sentiva che qualcosa, un qualche fattore sconosciuto, stava cambiando il loro rapporto.
«Voglio mostrarti una cosa!» disse Saga con enfasi, ignorando la tensione che irrigidiva l’umore del gemello.
Trascinò la borsa vicino a sé e, frugando in una delle tasche laterali, prese una scatolina color turchese, legata con un raffinato nastrino bianco perla.
Kanon alzò un sopracciglio quando il fratello gliela mise sotto il naso. La scritta Tiffany&Co impressa in argento sul coperchio era ben visibile.
«Oh, mio Dio! È per me?» disse Kanon, imitando la vocetta stridula delle ragazze, guardando negli occhi il gemello e sbattendo ripetutamente le lunghe ciglia bionde dei suoi begli occhi verdi. «Tesoro non dovevi!»
Saga gli diede una spallata, mormorando uno “scemo” e rise di gusto.
Kanon si fece più serio, con lo sguardo fisso sulla scatolina. «È quello che penso? Un anello di fidanzamento?» chiese.
Il gemello abbassò lo sguardo, imbarazzato. Sospirò, raccogliendo le ginocchia al petto e scrollò lentamente la testa. «È un regalo.»
«Posso vedere?»
«Solo se mi assicuri di riuscire a richiudere il pacchettino alla perfezione.»
«Lascia che ti dia un consiglio: se vuoi fare veramente colpo, non presentarglielo qui dentro, perderesti tutto l'effetto sorpresa», gli disse, passandogli un braccio sulle spalle e stringendolo a sé.

*****

Da qualche tempo Aiolos aveva smesso di leggere quelle che considerava le memorie di Gregory Miller. Termine sicuramente improprio, ma quantomeno efficace per definire quel quadernetto nero che mesi prima gli era capitato fra le mani per caso. Ora tutto quell'interesse sembrava essere svanito di nuovo. Aveva creduto di poter trovare "qualcosa" su Caroline e la sua famiglia e forse, se ne avesse avuti a disposizione altri, le sue aspettative sarebbero state anche esaudite. Invece, inaspettatamente, ciò che aveva trovato erano state le origini di Saga e Kanon. O così almeno poteva sembrare, a meno che non fosse una clamorosa coincidenza.
Diede un'occhiata alla sua compagna di viaggio che dopo numerosi viavai alla toilette si era finalmente addormentata. Aveva tanto bisogno di riposo, peccato che ormai mancassero solamente una quindicina di minuti all'atterraggio. Con lo sguardo indugiò ancora un poco sul volto di lei: era quasi impressionante l'estremo pallore.
«Che sconsiderata…» mormorò, scrollando la testa.
Passò le mani fra i capelli, cercando di riordinare le ciocche più ribelli. Poi, ingurgitò tutto d'un fiato la vodka che gli aveva servito Kimberly e rimase a fissare il bicchiere vuoto. Non era solito bere super alcolici quando viaggiava, ma questa volta ne sentiva la necessità. Quegli ultimi giorni trascorsi a Philadelphia erano stati pesanti anche per lui.
Sul sedile accanto aveva sistemato la sua borsa ventiquattrore. Più volte era stato tentato di prendere dalla tasca anteriore quel famoso quadernetto che si era portato dietro. Con la mano sfiorò la zip della tasca anteriore, giocherellandovi un poco, aprendola di qualche centimetro e richiudendola subito dopo, continuando in quel modo per diverse volte. Poi, con un gesto secco la aprì del tutto e prese il quadernetto. Dov'era rimasto nella lettura?
Sfogliò velocemente le pagine e una delle ultime si staccò un poco. Solo in quel momento si accorse che dal quadernetto mancavano delle pagine. C'era un piccolo solco vicino la costina interna e si vedeva il taglio, nonostante fosse stato fatto perfettamente a filo. Trovò alcune pagine bianche e le note riprendevano poco più oltre con un'ultima che non c’entrava nulla con quanto scritto in precedenza.
Aiolos si soffermò un momento proprio su quelle poche righe che chiudevano quel quadernetto e che recitavano:

“Oggi per la prima volta in vita mia ho abusato del mio ruolo di poliziotto. Me ne vergogno molto. Ero entrato nella tavola calda solo per prendere caffè e hamburger per il mio compagno e per me e, mentre aspettavo, l’ho vista. Era seduta a un tavolino appartato e si stava guardando in giro in modo nervoso. Sembrava stesse cercando qualcuno. Aveva un qualcosa di sospetto. Mi sono avvicinato a lei e, mostrandomi forse un po’ troppo arrogante, nella mia divisa blu, ho chiesto di vedere i suoi documenti, facendo poi finta di fare dei controlli. Alla fine era timorosa perché non conosceva la zona e perché le persone che stava aspettando erano in ritardo.
Per fortuna ho una buona memoria, appena sono uscito dal locale con la mia ordinazione, mi sono appuntato nome e indirizzo. Se non fossi stato in servizio sarei rientrato e le avrei offerto un caffè. Quando ho guardato di nuovo dentro, attraverso la vetrata, era stata raggiunta da altre quattro ragazze.

Teresa Costantini, di Philadelphia…”

«E bravo il nostro poliziotto irreprensibile», mormorò, sogghignando nello scoprire il primo incontro dei genitori di Caroline.
Alzò per un attimo lo sguardo sulla ragazza, per accertarsi che stesse ancora dormendo. Poi, tornò a concentrare la sua attenzione su quelle pagine bianche. Era un fatto curioso. Vi passò sopra i polpastrelli, sentendo i segni incisi sulla carta sottostante. Evidentemente, quando aveva scritto quelle pagine, Gregory Miller doveva essere stato nervoso, perché fino a quel momento la sua scrittura era stata sempre normale. Fitta, ben tratteggiata e leggera. Sì, la si poteva anche definire leggera, per un uomo.
Cos'aveva scritto in quelle pagine strappate che poi aveva voluto tenere nascoste? O forse qualcun altro le aveva tolte affinché nessuno venisse mai a conoscenza del contenuto...

“28 agosto 1984
Sto ancora cercando una spiegazione per quanto ho appreso, ma ora devo sciogliere un altro dubbio: la sua scheda, quella relativa alla sua vita da adulto, pare immacolata: nessuna multa, niente denunce o verbali a suo carico. Del resto, se non fosse coinvolto in questa faccenda, sembrerebbe una persona molto mite e rispettosa della legge. Eppure ci sono delle incongruenze. È come se avessero voluto coprire alcune cose. Cosa c'è che deve rimanere nascosto della vita di quest'uomo? Non mi voglio arrendere, proverò a cercare ancora. Ho la sensazione che ci sia qualcosa fuori posto in tutto questo. Forse dovrei provare a chiedere un colloquio in carcere.

... Ieri ho incontrato il professor Taylor. A dire la verità l'ho visto solo di sfuggita mentre scendeva la scalinata del tribunale. Era accompagnato dalla figlia avvocato. Stavano discutendo animatamente, ma non sono riuscito a sentire di cosa stessero parlando. La donna aveva un'espressione molto dura e i suoi occhi sembravano quelli di un rapace. Deve fare davvero paura quando è in aula. Il professore invece, sembrava molto intimidito da lei: passivo, stanco. Che sia ancora angosciato dalla tragedia che ha colpito la sua famiglia?
Stavo quasi per passare il colonnato del tribunale, sommerso di fascicoli che dovevo consegnare a uno degli assistenti del procuratore (strano che per un semplice caso di malversazione, che neanche è di competenza della mia sezione, occorrano così tante carte) quando mi sono girato un'ultima volta verso il professor Taylor. Ero curioso di vedere che direzione avrebbe preso. È stato allora che ho visto una donna avvicinarsi al professore con aria disperata e cercare di parlargli. Quella donna era fin troppo agitata e stava attirando l'attenzione di altre persone, oltre alla mia. La reazione di Anne Taylor non si è fatta attendere e, come c'era da aspettarselo, ha preso la situazione in pugno. Ha tenuto la donna a distanza dal padre, forse per impedirle di parlargli. Ha cercato di farla ragionare, così almeno mi è sembrato di capire dalla mia posizione. Le sue parole devono averla convinta in qualche modo, perché si è subito calmata. Poi, l'avvocato Taylor ha fatto cenno a qualcuno e l'ha fatta scortare via.
Non ho visto bene in viso quella donna, anche se sembrava molto giovane, ma ho avuto la netta impressione di conoscerla, o quantomeno di averla già incontrata e di averci parlato. Forse era qualcosa nella sua postura, forse qualcos’altro… non capisco…”

Senza rendersene conto, Aiolos fece una smorfia con le labbra.
«Pessima lettura?» chiese Cora, di nuovo di ritorno per l'ennesima volta dalla toilette; in mano teneva un bicchiere con acqua tiepida e limone che Kimberly le aveva preparato, visti i suoi continui attacchi di nausea.
Il ragazzo alzò la testa di scatto, sgranando gli occhi nel vederla che si stava accomodando proprio di fronte a lui. L'aveva lasciata che riposava, così credeva... quando si era svegliata?
«Va meglio?» le chiese, chiudendo in fretta il quadernetto.
Lei si limitò a posare il bicchiere ancora intonso sul tavolino e, con la mano che stringeva un fazzoletto, a spolverare la gonna dell’abito da cocktail che sua madre le aveva regalato, da alcune macchioline d’acqua.
«Dovresti berla», le fece notare lui.
«Mi fa venire mal di stomaco.»
«Ma ti darà sollievo per il mal d’aria», insistette Aiolos, anche se sapeva bene che quel suo malessere non era dovuto al viaggio.
La osservò per alcuni secondi: non poteva dire di conoscerla così bene da poter notare delle differenze con prima, ma gli sembrava fin troppo taciturna e, era comprensibile, aveva lo sguardo triste.
«Saresti dovuta restare a casa con la tua famiglia. Avrei spiegato io a Saga la situazione», le disse, riponendo il quadernetto nero nella tasca della sua borsa, usando tutta la disinvoltura di cui era provvisto per non destare sospetti in lei.
«Anch’io ne ho di uguali. Erano di mio padre, li usava quando era in polizia, così come lo zio Phil.»
Aiolos si irrigidì.
«Immagino siano però comuni», aggiunse, con voce via via meno vitale, voltando lo sguardo per osservare fuori dal finestrino, prima di chiudere ancora una volta gli occhi appesantiti dalle medicine che aveva preso e spossata dal suo malessere.
L’hostess si avvicinò ad Aiolos e avvertì che il pilota si stava preparando per la fase di atterraggio e che quindi avrebbe dovuto allacciarsi le cinture di sicurezza; poi fece la medesima cosa con Caroline, scuotendola dolcemente e chiedendole anche se avesse bisogno di qualcosa. Prima di prendere il suo posto, la donna aggiunse che la limousine della società era già arrivata e attendeva nell’hangar.

*****

Seduto al tavolo in compagnia dei suoi ospiti, di Shura e del padre, Saga sorrideva e partecipava con entusiasmo alle conversazioni. Lui era di casa lì, forse molto più che alla villa, si poteva dire. Non perché potesse contare su una discreta quota personale di azioni del Country Club, benché questo gli desse un certo peso, né perché – agendo per conto del padre – avesse poi acquisito col tempo la quota maggioritaria, ma perché fin da piccolo aveva frequentato con assiduità quel luogo, fino a sentirlo come un luogo dove poteva essere se stesso. E infatti era così. Nonostante il Club fosse comunque un luogo molto formale, frequentato dall’alta borghesia di Boston e da personaggi di spicco della società, gli dava quelle libertà che da nessun’altra parte riusciva a trovare, in veste di rampollo degli Hayes.
Nei momenti morti di quella piacevole compagnia però, tendeva ad abbassare lo sguardo e giocherellare col quadrante del suo orologio, con la vana speranza forse che arrivasse presto “quel” momento, ma anche con il segreto timore che tutto sfumasse all'ultimo minuto; oppure si dedicava a martoriare il contenuto del suo piatto, senza alcuna voglia di mangiare davvero; oppure ancora a sorseggiare il drink, senza gustarlo, intristendosi e lasciandosi andare, ogni volta, a un sospiro penoso.
«C’è qualcosa che non va, Saga?» gli domandò Shura, alzando lo sguardo dal libro che stava leggendo, dopo l’ennesimo sospiro del ragazzo. Tutti ormai a quel tavolo si erano accorti che il giovane avesse qualche preoccupazione che gli occupava la testa.
«Va tutto bene», rispose lui, muovendosi incomodo sulla sedia metallica.
Si passò le mani sulle cosce, sulla stoffa dei pantaloni color panna della divisa ufficiale del Country Club – quella che ogni membro regolarmente iscritto doveva indossare all’interno del perimetro della proprietà – come per togliersi con quel gesto la patina di tristezza che si sentiva addosso; e subito dopo accavallò le gambe, sforzandosi in un sorriso per mostrare agli altri che era sereno. Si accostò un poco a Saori che sedeva al suo fianco e riprese a descriverle i dintorni.
Anche Shion Hayes, che in quel momento stava terminando di esaminare dei documenti, distolse la sua attenzione per concentrarsi sul figlio. Lo conosceva abbastanza bene da capire che quell’innocua bugia non era servita a molto e che, anche se sembrava comportarsi come di consueto, aveva un carattere troppo cristallino per riuscire a nascondergli i propri sentimenti.
«Proprio come lui…» mormorò, sospirando sovrappensiero.
Ma forse non era proprio esatto. Anthony aveva saputo nascondergli bene le cose più importanti che riguardavano la sua vita: i suoi sentimenti per Emma, che chissà da quanto tempo aveva covato; il suo passato e… Shion si stava chiedendo cos’altro c’era ancora che non sapeva.
Aggrottò la fronte e con un movimento secco girò la pagina, riprendendo a leggere, prendendo poi anche un sorso del suo whisky. La sua mente però non era più sintonizzata sul lavoro. Ora che il figlio aveva scoperto parte della verità, attendeva solo il momento in cui sarebbe tornato da lui a chiedere di conoscere il resto della storia e probabilmente gli avrebbe rivolto domande alle quali lui stesso non aveva risposta. C’era qualcuno che avrebbe potuto colmare almeno una parte di quelle lacune, ma quanto gli sarebbe costato interpellarlo?
E poi c’era anche chi conosceva l’intera storia, ma mai e poi mai avrebbe permesso a quelle persone di avvicinarsi e inquinare il cuore dei suoi ragazzi.
Seiya, seduto all’altro fianco di Saori, continuava a fissare Saga con insistenza, come un mastino. Erano ancora vivide nella sua mente le immagini di lui e del gemello e un brivido gli corse lungo la schiena, ripercuotendosi anche alle braccia. “Povera Saori” continuava a pensare, scrollando impercettibilmente quell'ammasso di capelli disordinati che andavano tanto di moda in Giappone. L’aveva vista fuggire via, sconvolta e mortificata. L’aveva dovuta rincorrere fino all’albergo, fin nell’appartamento che era stato loro messo a disposizione, pregando che si riprendesse dallo choc. Infine, era stato testimone di quanto il suo orgoglio di “principessina” Kido l’avesse aiutata a fare buon viso a cattiva sorte per affrontare quella giornata in compagnia degli Hayes.
Mentre Saga invece… lui era lì che si mostrava disinvolto, che le si avvicinava come niente fosse, senza il minimo pudore; e lei che, nonostante l’imbarazzo e il disagio, pendeva ancora dalle sue labbra. Fin dalla prima volta che lo aveva visto, che gli aveva stretto la mano, aveva avvertito qualcosa di strano in quel Saga. Del resto, aveva convissuto a stretto contatto con Shun che la sua omosessualità l’aveva palesata già in adolescenza, senza vergognarsene. Si riteneva quindi in grado di capire e riconoscere quel tipo di persone.
“Povera Saori”, si ripeteva, pensando anche all’altro Hayes, “provare tutto quell’interesse per delle persone che non potrebbero mai ricambiare i suoi sentimenti, perché di tutt’altra natura; e che anzi, la stanno solo prendendo in giro!”. Anche in Kanon aveva percepito qualcosa di ambiguo. Lo aveva visto troppo sfacciato nei suoi atteggiamenti, come se in realtà fossero stati solo una copertura.
«Ho sentito dire che sei un discreto calciatore, Seiya. La scuola che frequenterai a Boston ha una squadra di calcio. Pensi di provare a fare le selezioni il prossimo anno?» gli chiese Saga.
Il giovane nipponico era ancora tutto concentrato sui suoi pensieri da non accorgersi dell’espressione irritata di Saori e dei suoi occhi che silenziosamente lo stavano rimproverando per non aver risposto prontamente alla domanda. Fissò Saga per qualche secondo con un'espressione inebetita: in effetti il suo inglese era ben lontano dalla perfezione e gran parte di quello che Saga gli aveva detto non lo aveva afferrato.
La giovane gli ripeté la domanda sussurrandogliela all'orecchio.
«Saori, non è giusto che tu gli traduca ogni cosa, altrimenti non imparerà mai a cavarsela da solo», la riprese lui, con un dolce e luminoso sorriso sulle labbra, che faceva sbiadire per qualche istante la tristezza ancora presente nei suoi occhi. «Perdonami, Seiya, proverò a parlare più lentamente da ora in poi», fece mea culpa Saga, rivolgendosi di nuovo a lui e mantenendo fin da subito la parola data.
Il ragazzo arrossì per la vergogna di essere stato trattato come un bambino e perché era consapevole che la sua poca conoscenza della lingua aveva messo in difficoltà anche Saori. Provò a protestare, alzando lo sguardo verso Saga, ma in quello stesso istante vide avvicinarsi Aiolos a passo svelto – urgente – e con un’espressione tanto seria che le parole e ogni altra velleità svanirono.

Aiolos si avvicinò al tavolo – e a Saga – senza salutare nessuno, posando una mano sulla spalla dell'amico e comunicandogli qualcosa all’orecchio, distogliendolo così dalla conversazione.
«C’è anche lei?» chiese Saga, illuminandosi all’improvviso.
Si girò un poco per cercare di scrutare all’interno del locale, ma la posizione del tavolo dove erano loro non permetteva una buona visuale; soprattutto poi con le tende tirate che schermavano le grandi finestre scorrevoli della terrazza che quel pomeriggio erano quasi tutte chiuse. La brezza di quel pomeriggio le stava facendo ondeggiare delicatamente, mostrando piccoli e brevi scorci dell’interno.
«Le ho detto di attenderti dentro, al bar», spiegò Aiolos, mantenendo la medesima discrezione di prima.
Saga si alzò di scatto dalla sedia, catalizzando di nuovo l’attenzione dei presenti tutta su di sé. Il suo cuore prese a battere emozionato e lui non chiedeva altro che assecondare la sua voglia di correre dentro da lei.
«Aspetta, prima c’è una cosa importante di cui ti devo parlare!» cercò di fermarlo Aiolos, afferrandolo per un braccio. E questa volta la sua voce assunse un tono allarmato e preoccupato, attirando ancora di più l’attenzione dei presenti.
«Dopo, amico mio. Dopo», ribatté Saga, posando la sua mano su quella di Aiolos e sorridendogli felice più che mai.
«No, adesso! Lo devi sapere, ora!» ringhiò Aiolos, stringendo di più la presa.
Saga diede uno strattone e si liberò. Non reagì oltre, non voleva rovinare tutto con una discussione. Indugiò qualche altro secondo, facendo un paio di respiri profondi, come se dovesse farsi coraggio; poi, si incamminò dentro per raggiungerla.
Quasi nello stesso momento, dalla parte opposta della terrazza dove c’era la scalinata che portava direttamente ai giardini, stava arrivando Kanon. Era vestito in giacca e cravatta e sembrava parlottare da solo. Il suo viso rifletteva la serenità che stava vivendo.
«Aiolos! Sei tornato dalla tua missione top secret! Ci fai l’onore di unirti a noi poveri comuni mortali?» scherzò, dandogli una pacca sulla spalla e subito dopo abbracciarlo forte con un braccio. Forse lo fece in modo troppo espansivo, da guadagnarsi occhiate non proprio di assenso da parte di qualcuno dei presenti al tavolo, ma non ci fece caso più di tanto.
Si portò una mano all’orecchio e si tolse l’auricolare del cellulare, sedendosi accanto alla “fidanzata”, sulla sedia appena lasciata libera dal gemello.
Aiolos grugnì qualcosa di incomprensibile e si accomodò su una delle sedie libere, visibilmente di cattivo umore. Certe volte c’era da chiedersi quando non lo fosse. Studiò per qualche secondo ciò che era presente sul tavolo – diversi aperitivi, una brocca di tè freddo al limone con alcuni bicchieri puliti e un paio di vassoi che contenevano tartine dolci e salate – poi avvicinò a sé il piattino di Saga e prese una forchettata della mini tortina di granchio.
Quel comportamento così nervoso non era passato inosservato; soprattutto a Shura che, stizzito, aveva bevuto tutto d’un fiato la birra nel suo bicchiere.
«Come mai così formale?» chiese Shion, alzando lo sguardo sul figlio, terminando il suo whisky e facendo cenno a uno dei camerieri di portargliene un altro.
«Mi hanno chiamato dall’ufficio, pare ci sia qualche intoppo nell’offerta che abbiamo presentato la scorsa settimana e mi hanno chiesto di passare per approvare le proposte di cambiamenti da apportare, per poterla ripresentare domani.»
«E sei ancora qui?» mormorò Aiolos, sempre più cupo, masticando un altro pezzo di tortina.
Kanon lo udì alla perfezione; lo arpionò al collo e lo avvicinò a sé, parlandogli con tono suadente all’orecchio e mettendolo a disagio, tanto che il giovane strabuzzò gli occhi, deglutendo rumorosamente. Con quel suo solito ghigno sardonico, il rampollo Hayes mostrò la sua personale soddisfazione nella reazione dell’altro. Sapeva dannatamente bene come mettere in difficoltà Aiolos, facendo talvolta leva su qualche suo piccolo segretuccio.
«Farai in tempo per la cena?» chiese Shura, con una punta di fastidio nella voce. Non aveva gradito affatto ciò che aveva appena visto.
Kanon diede uno sguardo all'orologio e annuì convinto. «Sì, dovrebbe essere questione di un’oretta, forse due al massimo.»
Si guardò un attimo attorno, vedendo gli occhi di Seiya puntati ferocemente su di sé e gli rispose con un sorriso malizioso. Lì accanto, Saori, timida e riservata, si stava tormentando le mani appoggiate in grembo. Si ricompose e le posò una mano sulle sue, rassicurandola che non l’avrebbe lasciata senza accompagnatore per la serata.
«Ma… Saga che fine ha fatto?» chiese ai presenti, ricordando che lo aveva intravisto alzarsi e rientrare nella sala interna del ristorante; ora però sembrava essere assente da troppo tempo.
Guardò di nuovo Aiolos; la tentazione di dargli un’altra pacca sulla spalla come segno di complicità gli faceva prudere le mani. Si girò indetro, verso la finestra scorrevole aperta dalla quale spuntavano di tanto in tanto le lievi onde candide delle tende di fine lino. Poteva immaginare cosa stesse trattenendo il gemello, ma chissà se sarebbe tornato da loro oppure se non l’avrebbero più visto fino all’indomani.
Si protese verso uno dei vassoi e allungò la mano a pescare una tartina dolce, tornando poi ad appoggiarsi comodamente alla sedia. La curiosità di vederla era tanta. Saga gli aveva accennato qualcosa quando gli aveva mostrato il gioiello, ma non era entrato nei dettagli. Conosceva la volubilità del gemello, l’entusiasmo e la passione che metteva nelle sue storie e come finiva ogni volta. E ora si stava chiedendo chi fosse la fortunata che gli aveva fatto perdere la testa in quel modo.
Allungò il collo, tentando invano di sbirciare un poco di più, approfittando di uno svolazzo più ampio della tenda che aveva permesso di vedere all’interno per qualche attimo, ma era stato tutto inutile.
«Scommetto che glielo sta dando proprio in questo momento», commentò a mezza voce, pulendosi la punta del pollice con la lingua, inclinandosi all’indietro con la sedia e rimanendo in equilibrio con le sole gambe posteriori.
«Di cosa stai parlando?»
Shion, ormai stanco di visionare il lavoro che si era portato, aveva deciso finalmente di rilassarsi un poco e di godersi quella magnifica giornata e la compagnia.
«Di uno splendido solitario, un diamante da un carato e mezzo e dalla purezza quasi perfetta, incastonato in oro bianco!» rispose Kanon, parlandone come un vero intenditore. «Un ciondolo un po’ semplice per i miei gusti, ma molto raffinato.»

*****

Oltrepassare quelle delicate e candide tende era stato per Saga come entrare in un’altra realtà. Aveva abbandonato l’aria frizzante, l’odore dell’erba umida e dei fiori che abbellivano il terrazzo e le fontane di marmo coi giochi d’acqua, per uno sfarzo diverso, fatto di lampadari di cristallo, tovaglie di raso, argenteria sempre lucida e menù da tre stelle Michelin. Era un’opulenza pesante, quasi barocca, che poco si addiceva a un ambiente campestre ma che al tempo stesso era uno dei vanti del Country Club che lo rendeva rinomato in tutto il Massachusetts.
Provava strane sensazioni mentre passava accanto ad alcuni tavoli che i camerieri stavano preparando per la cena. Il bar era nella sala accanto e lui, più si avvicinava, più avvertiva un certo nervosismo, un’emozione palpitante che gli impediva quasi di respirare. A ogni passo che faceva, avvicinandosi alla sua meta, prendeva coscienza che stava diventando una persona diversa, che stava acquisendo un ruolo diverso.
Gli era bastato mettere un piede nella zona bar, affacciarsi in quel locale caotico, pieno di gente e di odori avvolgenti, per vedere solo lei: se ne stava lì, seduta sullo sgabello del bancone del bar e girata di tre quarti, lo sguardo basso e riservato, mentre con la mano continuava a tirarsi giù l’orlo del vestito con movimenti timorosi. Era così bella, più adulta ed elegante di quando l’aveva lasciata. Questo era l’unico pensiero di Saga, in quel momento. Sarebbe stato a osservarla più a lungo, se avesse potuto, ma voleva risparmiarle l’evidente tormento che stava passando.
Un passo, soverchiato dal chiacchiericcio degli avventori del bar. Un altro passo, mordendosi il labbro, come a rimuginare sul da farsi; e intanto il suo cuore batteva più forte.
Il barman si avvicinò a Cora, una seconda volta in pochi minuti, chiedendole cosa potesse portarle da bere; lei scrollò la testa come la prima volta, declinando l’offerta.
«Dello champagne… sarebbe più che adeguato alla situazione», disse Saga.
Non le lasciò neppure il tempo di rimanere sorpresa nel sentire la sua voce che le diede un bacio discreto sulle labbra dischiuse e le sorrise.
Gli occhi di Cora, dopo il primo stupore, si velarono di lacrime, leggere e timide, che non osavano rovinarle il trucco delicato che Kimberly le aveva risistemato dopo l'atterraggio.
«Saga…» sussurrò lei, commossa.
Balzò giù dallo sgabello e gli buttò le braccia al collo, dimenticandosi dov’era e che fino a quel momento i suoi unici pensieri erano stati che voleva andarsene da lì al più presto; anzi, che non ci sarebbe proprio dovuta venire in quel posto.
Il ragazzo si stupì un poco di quell’abbraccio, percependovi non solo amore, ma anche disperazione; poi, lo ricambiò infondendovi tutto il sentimento che provava per lei. Le accarezzò la schiena con una mano, mentre l’altra affondava nei suoi capelli. La tenne così, fra le sue braccia, beandosi del profumo che indossava e del calore del suo corpo. Gli sembrava un secolo che non provava quella sensazione, eppure era passato appena un mese.
D’un tratto la sentì singhiozzare e stringersi di più a lui.
«Cosa c’è che non va?» le chiese, slacciandosi da lei e scrutandola per qualche secondo in viso: nonostante tutto non riusciva a smettere di sorriderle.
Cora scrollò la testa, piegando le labbra – di un delicato rosa perlato – in un sorriso un po’ tirato.
«Mi sei mancato. Mi sei mancato tanto, ma ora va tutto bene.»
Saga annuì e l'accarezzò con la punta del pollice appena sotto l’occhio, a fermare una piccola gocciolina che stava scappando dalle ciglia.
«Mi sembri un po’ stanca. Il viaggio è stato pesante?» chiese, questa volta però con un pizzico di preoccupazione nella voce. Eppure pensava che con l’aereo privato sarebbe stata più comoda.
«Tutto bene», disse lei. «Ho solo bisogno di rinfrescarmi un po’.»
Lui le sorrise, le prese la mano e, senza darle spiegazioni, l'accompagnò in una delle camere dell’albergo del Country Club, che aveva riservato per loro due. Era bella ed elegante da mozzare il fiato, neanche fosse stato l’Hilton. Forse era persino troppo per quel tipo di struttura.
«Prego», le disse, col suo solito sorriso tanto dolce, aprendole addirittura la porta del bagno. Poi si sedette sul letto ad attenderla.
Iniziò a tamburellare ritmicamente sul copriletto di broccato color senape e rosso granato seguendo un vecchio motivetto che in quei giorni gli era entrato in testa e che neanche sapeva come si chiamasse. Chiuse gli occhi; quella melodia si era fatta un poco più nitida, più facile da “eseguire”. Con un sospiro si appoggiò meglio al materasso, portando entrambe le mani dietro la linea delle spalle, spostando la testa di lato in una posizione più rilassata.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Aggrottò la fronte in un'espressione di perplessità: non avvertiva alcun rumore provenire dal bagno. Ma non appena decise di alzarsi per controllare, ecco che sentì scorrere l’acqua del rubinetto. Per quanto una camera d’albergo potesse essere di gran lusso, le pareti interne erano comunque fatte nello stesso modo di quelle di un motel, forse solo più belle. Sorrise di nuovo rilassato, ma ormai non era più disposto ad attendere lì buono.
Senza fare rumore aprì la porta del bagno, spazioso e luminoso, e le si mise dietro, abbracciandola alla vita e sorridendole attraverso lo specchio.
«Ci sto mettendo troppo. Mi dispiace», mormorò lei, con le mani umide d’acqua, prendendo la salvietta dal piccolo cestino di vimini sul piano di marmo e tamponandosi il viso con delicatezza, per non sciupare troppo il trucco.
Saga le diede un bacio sulla tempia. Dalla tasca dei pantaloni estrasse la mano a pugno e, come il più classico dei colpi di scena che si vedono nei film passionali, così come gli aveva suggerito Kanon, le fece dondolare davanti agli occhi il gioiello.
«Buon compleanno.»
«Io… io…» Gli occhi di Cora si illuminarono di meraviglia, mentre il ragazzo sganciava la chiusura della catenina e gliela metteva al collo.
«Il primo regalo di compleanno… il primo di tanti che verranno», le sussurrò, con un pizzico di emozione nella voce. «Direttamente dallo storico negozio Tiffany della Fifth Avenue, a New York», aggiunse, anche con un certo orgoglio. Poi, come se in quel preciso istante si fosse reso conto di aver sbagliato qualcosa, sospirò avvilito, abbassando lo sguardo. «Avrei voluto presentarmi alla tua porta, conoscere la tua famiglia, fare le cose per bene, come da tradizione…» Di nuovo fece un sospiro, accarezzando il collo della ragazza col suo respiro caldo.
Cora sfiorò con la punta delle dita quel diamante che brillava abbagliante alla luce delle lampadine della specchiera. Risaltava ancora più bello sul suo petto, sul pizzo color corallo del tubino che indossava quel giorno.
«È... meraviglioso.»
La girò verso di sé, la guardò teneramente negli occhi e la baciò con trasporto, come il soldato che dà l’ultimo saluto alla sua fidanzata prima di partire per il fronte. Era sciocco ed esagerato paragonare le due situazioni, ma l’intensità dei sentimenti che in quel momento provava Saga era senza dubbio la medesima.

*****

Tutti, a quel tavolo, sembravano essere in attesa di qualcosa di importante. Lo si poteva sentire nell’aria, in come i discorsi si erano diradati e negli sguardi che si scambiavano e che esprimevano incertezza e nervosismo.
Shion continuava a fissare il figlio maggiore che aveva l’espressione di uno che sapeva ma non voleva rivelare; e lui conosceva fin troppo bene quello scapestrato per evitare di cadere in una gag grottesca nel tentativo di farlo cadere in fallo. Forse Kanon non riusciva a reggere a lungo le balle che si inventava per coprire “certe” cazzate sul lavoro, ma quando si trattava della vita privata era impossibile cavargli qualcosa. Si limitò ad aspettare e continuare a studiare il suo comportamento. Tanto prima o poi avrebbe saputo anche lui e, considerando che si trattava dell’altro figlio, quello tranquillo, non avrebbe avuto brutte sorprese. Incrociò lo sguardo di Kanon per un attimo e gli fece un sorriso. Di quelli furbi però, che solitamente gli facevano accapponare la pelle, perché presagio di qualcosa di catastrofico; e preferì berci su.
Shura invece sembrava essersi estraniato dalla compagnia, intento com’era a mascherare il fastidio che provava per il comportamento di Aiolos, neanche fosse stato una moglie iper gelosa. Non aveva distolto gli occhi dal ragazzo per un solo istante da quando era arrivato; e percepire da lui quel palese nervosismo acuiva ciò che provava lui stesso.
«Deve essere una persona davvero speciale se è andato personalmente a New York per sceglierlo», commentò Kanon, rivolgendosi apparentemente a nessuno in particolare. Eppure, senza volerlo, aveva attirato l’attenzione degli altri membri della famiglia, che ben erano a conoscenza dell’allergia di Saga per i viaggi e le città troppo affollate.
Si sporse di nuovo verso il vassoio e questa volta scelse la tortina al granchio, l’ultima, iniziando a mangiarla con le mani come nulla fosse. Poi guardò l’orologio, brontolando che se l’altro avesse tardato ancora non sarebbe riuscito a conoscere l’ospite a sorpresa. Ma forse quello che intendeva era ben altro: ciò che gli premeva di più era vedere la reazione degli altri.
Una lieve corrente d’aria spostò le tende abbastanza da permettergli di osservare meglio all'interno dei locali, anche se solo per una frazione di secondo. Poi, un cameriere volenteroso le aprì completamente, favorendogli così la visuale. Peccato solo per quelle piante di ficus che con il loro fogliame schermavano ancora di più.
«Ah! Belle gambe», commentò Kanon, allungandosi un poco di più all’indietro, intravedendo due paia di gambe, delle quali era sicuro un paio fossero del gemello. Sembrava che finalmente i due si fossero decisi a raggiungerli. «E bel sedere…» sogghignò incauto, aguzzando di più la vista per interpretare al meglio ciò che vedeva tra il fitto fogliame, facendo arrossire Saori che gli sedeva accanto.
«Sì, certo…» sbuffò invece Aiolos, bevendo tutto d’un sorso il cocktail che aveva davanti.
«Che ne vuoi sapere tu, che sei dell’altra sponda!» ribatté Kanon, volutamente malevolo.
Quella rivelazione – che ormai era il segreto di Pulcinella, in casa Hayes – scioccò gli ospiti giapponesi che tutto avevano pensato tranne che Aiolos, così serio, così virile e così poco propenso a esternare i propri sentimenti, potesse invece…
Seiya si grattà dietro la nuca, nervoso e imbarazzato, parlottando poi per qualche secondo con Saori. Se avevano frainteso uno come Aiolos, benché avessero avuto poche occasioni per “studiarlo”, cos’altro non avevano capito? Kanon, che tanto aveva la fama di dongiovanni? Saga, così pacato e sempre ben curato?
No, ciò che i loro occhi avevano visto non lasciava alcun dubbio.
Il primo a uscire sulla terrazza fu Saga che si stava rivolgendo a qualcuno. Il suo sorriso dolce e disteso era meraviglioso. Stava dicendo che non c’era da aver timore, che non mordevano e poteva stare tranquilla. Poi, comparve anche lei, Cora, fasciata in quel bel tubino di pizzo color corallo, con un’acconciatura – uno chignon basso, morbido e spettinato – che la faceva assomigliare alle star del cinema. Teneva lo sguardo basso; si vedeva che era nervosa, ma si faceva guidare dall’altro.
«Sorpreso? Deluso?» bofonchiò Aiolos, rivolgendosi a Kanon.
Era l’unico a non essere interessato ad assistere a quell’entrata in scena, più preoccupato in verità di scoprire se fosse possibile ubriacarsi con del tè freddo. Non si aspettava invece il fischio di approvazione da parte dell'altro e il seguente commento su quanto lei fosse attraente.

Saga la stava conducendo per mano, infondendole fiducia. Eppure Cora si sentiva come se stesse andando alla sbarra di un’aula di tribunale e fosse osservata, studiata, scrutata, esaminata dall’implacabile giuria, pronta a scrollare la testa in dissenso al minimo errore, o inciampo. I crampi allo stomaco si stavano facendo sentire di nuovo. Per un attimo ebbe la tentazione di opporre resistenza a quel flusso che la stava trascinando in avanti, di tornare indietro, di nascondersi e rinunciare; ma lo sguardo e la voce di Saga fecero scomparire ogni indugio e paura, anche se non quel dolore sommesso. E ora era lì, davanti al suo giudice più severo che la stava guardando.
Un poco frastornata, sotto esame di tutti i presenti, sentiva nelle orecchie le voci ovattate degli altri; persino quella di Saga le era sembrata irreale, almeno fino a quando non sentì le sue mani che le stringevano un poco le spalle, risvegliandola e liberandola dal velo nebbioso nel quale si sentiva legata, giusto in tempo per udire quelle parole.
«Papà, Shura, Kanon», esordì Saga, col cuore che stava accelerando i suoi battiti, perché anche lui non era esente dal sentirsi nervoso, in quel momento. «Voglio presentarvi una persona.»
Fece una breve pausa, posando lo sguardo innamorato sulla ragazza che aveva vicino a sé. Il suo viso assunse un lieve rossore e le sue labbra si piegarono in un timido sorriso.
«Lei è Caroline Miller Hayes. Mia moglie.»





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Capitolo 27
*** Capitolo XXVI ***





Eccomi qui, tornata dopo un tempo fin troppo lungo rispetto a quello che avevo programmato, per terminare la pubblicazione di Legacy! Probabilmente i più che la seguivano, recensendo con regolarità o anche solo leggendo in silenzio, se ne saranno dimenticati. Spero di incuriosire nuovi lettori con le avventure di Saga e Kanon Hayes! Troverete un po' di cambiamenti, come una maggiore maturazione stilistica e un radicale cambiamento nella narrazione. Il mio consiglio quindi è quello di riprendere la lettura da capo, per non restare spaesati con i nuovi capitoli.
In questi anni di assenza vorrei segnalare la pubblicazione in digitale, per la casa editrice Astro Edizioni, del mio primo romanzo "Ricominciare" (trovate le informazioni più dettagliate nella pagina del mio profilo), che altri non è che la versione originale della mia vecchia fanfiction "Ricominciare da capo". Chi a suo tempo l'ha letta e apprezzata, non potrà perdere l'occasione di leggere questa versione più professionale e approfondita. Ci conto, eh! XD

Che altro aggiungere...

Buona lettura!






XXVI




«Dire che siamo rimasti tutti di sasso è un eufemismo», aveva dichiarato Kanon, simulando un tono conciliante, alzandosi dalla sedia e provando a esprimere il pensiero dei presenti rimasti attoniti.
Si era avvicinato alla coppia e, accompagnando il gesto con un bel sorriso, aveva preso la mano di Cora.
«Tu sei la stessa ragazza della tavola calda, vero? Caroline… un nome bellissimo per una ragazza bellissima», le aveva sussurrato, con una galanteria forse un poco eccessiva da sfoggiare davanti al gemello e sopratutto di fronte a Saori, la propria fidanzata, guardando Caroline intensamente negli occhi e facendola arrossire. «Se non mi sbaglio è tradizione baciare la sposa.»
Si era avvicinato ancora di più e aveva posato le sue labbra sulla guancia della giovane, sotto lo sguardo sereno e rilassato di Saga. Poi si era rivolto proprio al gemello e lo aveva attirato a sé, passandogli un braccio attorno alle spalle.
«Se avessi annunciato la tua intenzione di cambiare sesso avresti avuto meno vittime sulla coscienza», gli aveva detto, ammiccando. «Guardali, tutti ammutoliti, straniti: non sanno cosa dire.» Gli aveva dato una sonora pacca sulla spalla e aveva ghignato. «E tanto per la cronaca, saresti stato un gran bel pezzo di donna!» aveva aggiunto, dandogli un’altra pacca. Poi aveva aggiunto che sarebbe stato più che volentieri a chiacchierare e a festeggiare, ma era atteso negli uffici della società e se n’era andato.
Saga aveva sorriso, sollevato per il comportamento solito del fratello, che stava a significare come avesse preso bene la sorpresa, ma non aveva invece visto lo sguardo di lui che pian piano si induriva, così come i tratti del volto stavano diventando di pietra.

*****

Il lupo perde il pelo ma non il vizio, recita un vecchio adagio.
Era un’affermazione quanto mai azzeccata per Shion Hayes, soprattutto dopo quanto avvenuto quel giorno. Si era rintanato in biblioteca coi suoi pensieri, dopo una cena che definirla un mezzo disastro non rendeva affatto l’idea e che aveva concluso una giornata che avrebbe voluto dimenticare. La tensione era stata un'invitata inattesa e scomoda a quella tavola, nonostante Saga avesse organizzato affinché i convitati si sentissero a proprio agio. Eppure, tutto aveva iniziato ad andare storto quando la giovane ospite era letteralmente scappata dalla tavola a causa di un malessere, seguita da Saga stesso, che poi era rimasto lontano fin oltre il termine della cena, facendo piombare gli altri nell’imbarazzo più totale.
C’era chi, come i due giapponesi, si era sentito fuori posto e chi invece avrebbe voluto scappare il più lontano possibile, ma era rimasto – con lo sguardo pieno di disprezzo – solo per vedere come sarebbe andata a finire.
In mano stringeva il solito bicchiere di whisky, mentre sul tavolino lì accanto c'era la bottiglia, ormai quasi vuota. Il suo sguardo era fisso sul bicchiere: le piccole sfaccettature del cristallo brillavano iridescenti alla luce artificiale delle plafoniere alle pareti. Aveva il respiro pesante e i suoi occhi erano lucidi: arrossati e annebbiati dai fumi dell’alcol. Non riusciva a togliersi dalla testa quello sguardo e quel sorriso così dolci che accentuavano ancora di più i tratti gentili del viso di Saga e che per un interminabile attimo lo avevano fatto vacillare davanti a tutti.
Proprio com’era accaduto quasi trent’anni prima, ora si era ripresentata la medesima situazione, anche se gli attori erano diversi. Non c’era stato lo sguardo tagliente e pieno di rabbia di Emma che con il suo carattere forte riusciva tenergli a testa, ma al suo posto c'era una giovane donna dagli occhi intimoriti e all’apparenza molto riservata. Dietro di lei invece, a Shion era sembrato di rivedere il fantasma di Anthony, con quei capelli biondi un poco scompigliati e l’aspetto da bravo ragazzo. E gli aveva fatto male esattamente come allora.
«Te la vuoi bere tutta da solo?»
Shura si avvicinò cauto all'amico, prendendo la bottiglia ed esaminandone il contenuto ormai scarso.
«Era già mezza vuota. Qualcuno non ha pensato a rifornire il bar», rispose distrattamente Shion, con la mente ancora nella rete dei suoi ricordi.
«Aggiungerò anche questo alla lista dei miei doveri», ribatté Shura, facendo una mezza smorfia, posando la bottiglia sul piano del mobile bar e studiando con attenzione il resto della selezione di alcolici presenti. «Per terminare nel modo adeguato una cena italiana, non c’è niente di meglio di un liquore tipico italiano. Non sei d’accordo con me, Shion?» propose, prendendo una bottiglia sottile e dalla forma singolare.
«Li hai riaccompagnati all’albergo?» chiese l’uomo, con voce stanca.
«Sì. Domani hanno scuola», rispose con un mezzo sorriso Shura, prendendo due tulipe e la bottiglia di pregiata Grappa. «Un po’ mi manca il dover accompagnare i ragazzi a scuola.»
«Credo sia meglio che vengano ad abitare direttamente qui, gli altri ragazzi ora sono in California per visitare le varie Università, ma non appena terminato il tour d’orientamento se ne torneranno in Giappone. Non ha senso che quei due restino ancora al Country Club da soli», sbuffò Shion, portandosi il bicchiere alle labbra, ma se lo era visto all'improvviso portare via dalle mani e subito sostituito da un altro, dalla forma più piccola e sinuosa.
«Hai una faccia da funerale», lo schernì Shura. «Dovresti essere felice per il tuo ragazzo.»
Shion lo fulminò con lo sguardo, come se l’altro avesse appena detto una bestemmia, ma in fin dei conti sapeva che aveva ragione: per troppo tempo aveva tenuto il figlio al riparo, pensando forse inconsciamente che in quel modo gli sarebbe sempre stato vicino, come a suo tempo non aveva fatto Anthony. Ma Saga, proprio come Anthony, alla prima occasione si era “inguaiato”.
«Alla salute del nostro Saga!»
Shura fece tintinnare i due bicchierini e assaggiò quell’aromatico liquido dal colore cristallino, assaporandolo sapientemente.
«E a tutti i problemi che ci pioveranno addosso da ora in avanti!» si aggiunse al brindisi Aiolos, presentandosi trasandato e barcollante nella biblioteca.
Nonostante la voce fosse stata biascicante, si era avvertito chiaramente un tono sprezzante e molto confidenziale, come se non gli importasse verso chi si stava rivolgendo. In mano teneva una bottiglia di Champagne e nell'altra una lattina di birra.
Shura lo guardò disgustato, scrollando la testa. «Sei ubriaco», disse, con tono di rimprovero.
«Mi sono solo rinfrescato la gola», rispose il giovane, rosso in viso, gli occhi annebbiati e le labbra piegate in una smorfia.
Shion, che non era in condizioni tanto diverse dal figlioccio, si alzò dalla poltrona, voltandosi verso il ragazzo.
«Che genere di problemi?» chiese, soprassedendo alla maleducazione del giovane.
Aiolos si prese un lungo sorso di birra, lasciando che gli colasse anche da un angolo della bocca. Poi, fece qualche passo maldestro fino ad arrivare al mobile bar. Agitò la lattina, bofonchiò contrariato nel constatare che era finita e la lasciò cadere a terra. Si portò allora la bottiglia alla bocca, ma ne scesero poche gocce. «Anche questo...» sbuffò. L'appoggiò di malagrazia sul mobile bar e ne prese un'altra fra quelle presenti. «Quella... è problematica», biascicò, agitando la bottiglia in aria.
«Basta così!» disse Shura, strappandogliela di mano. «Hai bevuto a sufficienza per questa sera. Vattene a letto», gli intimò.
Nella sua mente stavano passando le immagini di quando, durante la cena, lo aveva visto bere diversi bicchieri di vino, uno dietro l’altro; ma già nel pomeriggio non gli era sembrato affatto lucido e nel pieno possesso del suo solito controllo. La mezza scenata con Saga, quell'insistenza così sospetta, ne erano state una dimostrazione.
«No, aspetta!» lo bloccò Shion Hayes che, a quelle parole, voleva saperne di più. «Sei tu che hai portato qui la ragazza. La conosci, non è vero?»
L’uomo fece un passo verso quel giovane che aveva cresciuto come uno di famiglia e sbatté la gamba contro la poltrona, senza praticamente accorgersene. Nei suoi gesti e nel suo tono impaziente si scoprì ancora più turbato di quanto lui stesso credesse di essere.
«La conosco abbastanza da sapere che non porterà a nulla di buono», rispose Aiolos, con un ghigno deformato sulle labbra. «Tu pensavi di avere un figlio perfetto, mansueto, ma ti sbagli di grosso. Te la sta facendo sotto il naso da mesi, ormai! E chissà, forse addirittura da anni. Sei stato così cieco da neanche accorgerti che lui si è allontanato da te», disse in tono arrogante, puntandogli il dito contro. Fece una pausa, barcollando in avanti. «Si è costruito una vita tutta sua e va dritto per la sua strada...» mormorò, abbassando lo sguardo. «Vuoi un consiglio, Shion Hayes? Chiama i tuoi avvocati e fai annullare quel… quel…» Dalla sua bocca sfuggì una specie di sospiro che puzzava di alcol. «E se hai bisogno di un motivo valido… beh, lo sappiamo tutti che lui non è a posto con la testa!» disse, gesticolando e toccandosi la tempia destra, ridendo in modo scomposto.
«Ora smettila, ti stai rendendo ridicolo», lo redarguì Shura, con tono minaccioso, provando a trattenerlo.
Nella breve lotta che seguì per liberarsi, Aiolos si sbilanciò all'indietro andando a sbattere contro il mobile bar, trascinando a terra con sé il vassoio d'argento con tutto quel che c'era sopra e facendo un gran baccano. Cocci di cristallo e larghe pozze di liquore di sparsero tutt'attorno.
«Paparino Shura… me la sono fatta addosso. Mi aiuti a cambiarmi?» sghignazzò, osservando una grande chiazza scura sui suoi pantaloni. Poi, dalla sua bocca uscì uno strano verso, a metà fra uno sbuffo e un rutto.
Afferrò la bottiglia vicino a lui e se la portò alla bocca per bere. L'agitò verso il basso e fece una smorfia, perché anche quella era vuota.
«Sbornia triste...» mormorò Shura, disgustato di fronte allo spettacolo offerto da Aiolos che continuava a borbottare frasi sconnesse e a singhiozzare.
Non c'era nulla che odiasse di più degli ubriachi con la sbornia triste, perché risvegliavano in lui la voglia di fare a botte. Strinse i pugni fin quasi a conficcarsi le unghie nei palmi. Dentro di sé si stava dando dell'idiota perché avrebbe dovuto capirlo subito che qualcosa non quadrava, non appena aveva visto Aiolos al Country Club; avrebbe dovuto riconoscere i segnali di quelle ultime settimane, di quel suo strano comportamento. Però, ciò che gli faceva più rabbia era scoprire che l'oggetto del desiderio di quel giovane testardo che lui amava era Saga. Non potevano più esserci dubbi ormai. Per nessun altro Aiolos si sarebbe ridotto in quello stato.
Fece un respiro pesante. Poi, si girò a guardare Shion e subito il pensiero andò a lui, a com'era stato in passato, alla disperazione che aveva provato e alla ferita del cuore che forse non si era mai risanata del tutto. Questa volta non era disposto a rivivere il passato. Non avrebbe più indossato i panni del buon samaritano, non sarebbe stato un rimpiazzo. Strinse le labbra in una linea sottile.
«Dovrei lasciarti qui», sibilò velenoso all'indirizzo di Aiolos.
Non gli stava facendo affatto pena quel ragazzo seduto malamente a terra, con i vestiti tutti in disordine e che puzzavano di alcol. Eppure, si chinò su di lui e lo aiutò a rimettersi in piedi, accompagnandolo giù, nel bagno del seminterrato. Non voleva che sua nonna lo vedesse in quelle condizioni.

*****

L’aria frizzantina del mattino le pizzicava la pelle del viso, lasciandole un leggero formicolio che si insinuava, pian piano, sempre più in profondità, contribuendo a tenerla sveglia. Non che ne avesse bisogno: da quando aveva riaperto gli occhi, poco dopo la mezzanotte, ancora con un forte senso di stordimento addosso, non era più riuscita a prendere sonno.
Era scesa al piano terra quando ancora faceva buio e le stelle splendevano in cielo, aveva attraversato quella grande casa avvolta nel silenzio, con l’unica certezza che non sarebbe riuscita a sopportare di rimanere un solo istante in più in quella camera e condividere – almeno per quella notte – il letto con Saga. Non perché non lo amasse, tutt’altro, lo amava talmente tanto che soffriva troppo a stargli accanto. Prima di lasciarlo, gli aveva rivolto un ultimo sguardo: dormiva sereno in mezzo al letto, sdraiato sul fianco. Nella sua testa martellavano in continuazione le parole di Aiolos: “Devi dirglielo!”, “Devi dirglielo!”; e i suoi occhi severi che la giudicavano colpevole.
Da dopo quel pomeriggio in ospedale, lei aveva percepito il cambiamento di Aiolos nei suoi confronti. Era stato graduale, ma ben visibile, nonostante lui si mostrasse distaccato come sempre. E poi c’era stato un picco improvviso quando Saga l’aveva presentata come sua moglie; e lei, emozionata e sotto esame, era riuscita lo stesso a cogliere lo sguardo d’odio di Aiolos che la trafiggeva come una lama.
Aveva trattenuto a stento le lacrime, appoggiandosi alla porta chiusa della camera da letto, scalza e con il pigiama e la vestaglia che le aveva dato Saga – pescandoli dall’immenso guardaroba che divideva con il gemello – mentre cercava qualcosa da farle indossare per dormire più comodamente, visto che il suo bagaglio era rimasto chissà dove e lei aveva a disposizione solo l'abito da cocktail che indossava. Glieli aveva mostrati con un sorriso dolcissimo e al tempo stesso imbarazzato, spiegandole che li aveva usati da adolescente.
Chiuse gli occhi nel ripensare a quel momento, alla serenità di Saga. Era conscia che avrebbe dovuto parlargli di quanto era successo; sarebbe stato un segreto troppo grande da portare con sé, ma non sapeva come affrontare quell’argomento, né quando. Non le sembrava giusto rattristare il suo amore con una decisione che comunque non sarebbe dipesa da lui, né da lei stessa. Ed era proprio quello ciò che più le straziava il cuore: lei non aveva potuto opporsi.
Se ne stava lì, immersa nei suoi pensieri e nel silenzio di quelle prime ore del mattino, a osservare il lieve chiarore che lentamente sorgeva all’orizzonte. L’alba era uno spettacolo che raramente si era concessa di vedere. Quel mattino del 31 maggio invece, era lì in prima fila ad attenderla, seduta un poco rannicchiata su una delle poltrone scure del salottino da giardino, sotto il portico posteriore di quella grande villa. Per qualche momento, quel meraviglioso panorama da cartolina d’altri tempi, che incantava al primo sguardo, le fece dimenticare i dispiaceri che l’avevano tenuta sveglia. Sospirò, stringendosi nella vestaglia di flanella leggera e portandosi il piede sotto al sedere, affondando sul cuscino bianco a righe larghe color sabbia della poltrona. Vi riuscì a fatica. Da diverse ore avvertiva un dolore sordo al ventre, già rigido e tirato. Non se ne stupì di quei fastidi, considerato che era passato poco più di un giorno dall’intervento, ma non aveva voglia di prendere un altro antidolorifico: ricordava com’era stato qualche anno prima, quando i dolori post operatori tormentavano le sue giornate anche dopo che fisicamente era tornato tutto a posto. E poi, rendevano la sua mente poco lucida. O quelli erano gli antibiotici? Forse tutti e due.
Gli occhi le si velarono di lacrime, sentiva le gote calde. Forse le stava tornando la febbre. Non sarebbe stato affatto strano. Se sua madre fosse stata lì con lei le avrebbe ordinato di tornare a letto e poi le avrebbe preparato una salutare tazza di latte caldo col miele: “una cura buona per tutti i mali”, diceva. Ma Cora aveva sempre odiato il latte addolcito e in quel momento, sua madre non era lì con lei. Una lacrima le rigò la guancia, facendole un antipatico solletico.
Tornò con la mente al giorno prima. Il dr Ferretti l’aveva dimessa dall’ospedale solo dopo la promessa che sarebbe stata a riposo assoluto. Le aveva ribadito, con quel suo sguardo profondo, la voce calda e quel suo modo di fare ammiccante e convincente da dongiovanni – ma ugualmente pregna di fermezza – che doveva riguardarsi; che, nonostante tutto fosse andato nel migliore dei modi e che l’operazione non avesse avuto alcuna complicazione, se non una lieve emorragia subito arginata, doveva evitare qualsiasi sforzo, stress o affaticamento e poi avrebbe potuto riprendere con la sua vita di sempre.
Glielo aveva ripetuto anche quando, lei seduta sulla sedia a rotelle, la stava accompagnando all’uscita dell’ospedale, spingendola personalmente e salutandola con un abbraccio di incoraggiamento, chiamandola di nuovo “la sua miracolata”. Perché era vero, lei era stata miracolata: era sopravvissuta a quel colpo di rimbalzo, una pallottola calibro 38 che per altri sarebbe stata fatale. Aveva resistito e stretto i denti quando i paramedici avevano faticato a tamponare l’emorragia durante il trasporto in ambulanza, li aveva sentiti – in quelle fasi concitate – che non le davano alcuna chance; era tornata in vita dopo che il suo cuore si era fermato per due volte mentre era sotto i ferri. Aveva persino battuto l’infezione post operatoria che non era poi così rara in casi del genere.
“Prenditi un po’ di tempo solo per te stessa”, le aveva consigliato il dr Ferretti. “Da quel punto di vista tu sei sana come tutte le altre donne”, l’aveva rassicurata ancora; e glielo aveva ripetuto di nuovo, prima di lasciarla salire sul taxi assieme alla madre. “Quando ti sentirai pronta, vedrai che andrà tutto bene.”
Ma lei ancora ci pensava.
“Potrò avere dei figli?”
Glielo aveva domandato fin quasi allo sfinimento, si poteva dire; perché non ci credeva. Non riusciva a crederci.
Nascose il viso fra le mani, cercando di trattenere altre lacrime. Che fine aveva fatto la sua vita spensierata di un tempo? Quando tutto aveva iniziato ad andare a rotoli?
«Da quando sei morto tu, papà», mormorò senza rendersene conto, piangendo in silenzio, desiderando in quel momento di essere circondata dalle braccia rassicuranti del padre. Si sentiva allo stremo. Aveva dovuto affrontare troppe prove. Le era venuto automatico scrollare la testa: niente sarebbe stato come prima.

Con la mente ritornò a quando – ancora nella casa della madre – la donna le aveva sussurrato che tutto sarebbe andato per il meglio. Eppure, davanti ai suoi occhi la natura stava dando il via al suo spettacolo, iniziando a risvegliarsi e il chiarore dell’aurora si trasformava, secondo dopo secondo, in giorno.
Il suo compleanno… che giornata surreale che era stata, quella. Divisa a metà, trascorsa in due luoghi differenti, due città diverse, con due famiglie diverse. Non era certo iniziata nel migliore dei modi, con i postumi dell’operazione che l’avevano costretta a letto fino a tarda mattina, riuscendo a salvarsi dall'irruzione del fratellino, che voleva essere il primo a farle gli auguri, solo con la complicità della madre.
E poi… non era molto sicura, però immaginava che, per altri versi, quella giornata fosse finita anche peggio. Ma non era stato il compleanno peggiore che lei ricordasse; forse il più triste, ma non il peggiore. Il lato positivo era stato che almeno Mickey l’aveva trascorso serenamente, dimenticandosi di tutti i guai del giorno prima, persino della strigliata che incombeva su di lui e che avrebbe subìto più avanti dallo zio Phil, perché lui era un uomo di parola.
Sospirò, tirando su col naso. Un leggero brivido la scosse in tutto il corpo, ma era stata solo una cosa passeggera.
In casa c’era stata un po’ di tensione, perché sua madre non era stata abbastanza brava a nascondere la preoccupazione per lei e zio Phil se n’era accorto; e lei stessa non era riuscita a sorridere e divertirsi come avrebbe dovuto. Sì, si era sentita in dovere di mostrarsi felice in quel giorno, almeno per gli altri. Alla fine però, quella tensione si era finalmente sciolta quando Mickey e Chris erano usciti di casa per andare al parco, dove i ragazzi della squadra di baseball avevano organizzato una festa per lui; e lei aveva potuto lasciar cadere quella maschera e tornare a piangere in silenzio.
Tutto le era sembrato scorrere con lentezza; forse, pian piano, anche il dolore che stava provando sarebbe passato, come l’acqua placida di un ruscello. La casa materna si era di nuovo immersa nella normale tranquillità di tutti i giorni, con Teresa che si divideva fra l’essere una brava casalinga e la scrittrice famosa. L’aveva vista entrare nel suo studio e uscirne con un pacchettino, porgendoglielo con un sorriso. Al suo interno c’era il suo nuovo libro; non uno di quelli della collana per ragazzi che le avevano spalancato le porte al successo, ma un romanzo vero, con una storia vera, corposa e piena di sentimento. Non gliene aveva mai parlato, di quella nuova storia. Forse l’aveva iniziata quando lei era partita per Boston, o forse, per scaramanzia, la donna aveva preferito tenere tutto segreto. Si era rigirata quel libro fra le mani: non era la solita edizione, bensì era quella italiana. Era stato allora che negli occhi della madre aveva notato un orgoglio diverso e una certa emozione, soprattutto quando le aveva annunciato i suoi prossimi programmi, ovvero che sarebbe tornata in Italia per qualche settimana, non appena fossero iniziate le vacanze estive per Mickey, perché era stata invitata per una presentazione ufficiale. Era stata una notizia così bella che per un attimo le aveva fatto dimenticare la sua sofferenza.
E poi, tutto d’un tratto, mentre la madre era tornata a occuparsi della cucina, quelle parole erano risuonate nella tranquillità della stanza come un fulmine a ciel sereno.
Cora ricordava che erano passate da poco le tre e mezza del pomeriggio e loro due avevano tutta la casa per loro: Mickey e Chris erano fuori e zio Phil si era rintanato giù, negli uffici dell’agenzia investigativa, teso e concentrato come ogni volta che era in procinto di chiudere un caso importante. Lei era seduta su uno degli sgabelli del bancone per la colazione che sfogliava quel libro, provando a leggere qualche frase nel suo italiano quasi del tutto dimenticato, mentre Teresa finiva di pulire il piano di lavoro per passare poi il panno umido sullo sportello del microonde e sulle antine dei pensili. E all’improvviso lei le aveva detto di preparare la borsa per tornare a Boston quel giorno stesso, perché Aiolos sarebbe passato a prenderla di lì a poco. Gliel’aveva detto così, come se le avesse chiesto di aggiungere il detersivo per i piatti alla lista della spesa.
Ricordava di essere rimasta con la pagina sollevata e lo sguardo inebetito che fissava la schiena della madre. Ci aveva messo un po’ a capire cosa avesse voluto dire con quelle parole e ancora di più a capire il perché la madre avesse preso quella decisione. Ma le era bastato osservare il suo sguardo malinconico, quando poi si era girata verso di lei, per comprendere che lo faceva per il suo bene. Perché lei, anche se come madre avrebbe voluto tenerla accanto a sé e aiutarla ad affrontare quel grande dolore, come donna sapeva che la sua bambina aveva bisogno che fosse qualcun altro a starle vicina, ora più che mai. Soprattutto dopo che lei le aveva rivelato, fra le lacrime, che il ragazzo che la donna aveva visto nelle fotografie al cellulare di Aiolos era in realtà suo marito, che si erano sposati su due piedi perché… perché quel “sì, lo voglio” era stata la cosa più facile e desiderata da dire, di tutta la sua vita; e perché loro si amavano e non serviva aspettare un solo giorno di più.
E poi… poi si era ritrovata, più o meno un paio di ore dopo, a Boston, con Saga che la stringeva fra le braccia e la baciava in quella camera del Country Club, solo loro due; e l’aveva fatta sentire al sicuro.
Sorrise. Le erano mancati i suoi baci. Le erano mancati i suoi abbracci. Le era mancato lui, davvero tanto.
Saga l’aveva rassicurata, mentre la trascinava fino al tavolo dove era riunita la sua famiglia. Le aveva assicurato che l’avrebbero accolta a braccia aperte, ma non era andata proprio come lui aveva detto. L’avevano trattata con cortesia; prima con un certo stupore, naturalmente, poi… aveva sentito su di sé tutti quegli sguardi diffidenti e la tensione e l’imbarazzo che ne erano seguiti. Non poteva certo biasimarli. Che pazzia era stata quella che avevano fatto lei e Saga; e ancora più era stata una pazzia credere che gli altri avrebbero reagito bene una volta svelato quel segreto.
Fissò il suo sguardo sulla sua mano sinistra, indugiando sull’anulare che non era ancora impreziosito da alcun anello. Non c’era, ma sapeva che presto quel cerchietto d’oro, simbolo delle loro promesse, avrebbe adornato il suo dito. In tutti quei giorni era stato come se lei ne avesse sempre sentito la presenza; fin da quando aveva detto quel “lo voglio” – benché ancora le sembrasse un sogno – sotto lo sguardo solenne dell’uomo che li stava unendo in matrimonio e di quelli commossi dei due testimoni, che altri non erano che la segretaria del giudice di pace e un semplice custode.
Era stato un giovedì mattina. Sì, giovedì 29 aprile, che lei avrebbe ricordato come il giorno più bello della sua vita. Saga l’aveva trascinata fuori di casa poco dopo le dieci con la scusa di farsi accompagnare per portare gli ultimi documenti in comune per le autorizzazioni degli imminenti lavori per l’appartamento. Invece, prima l’aveva portata in una boutique del centro e le aveva fatto scegliere un abito corto, con la gonna ampia, color pastello e delle scarpe coordinate, delle splendide décolleté che l'avevano fatta sentire una principessa e poi...
Forse, già in quel momento avrebbe dovuto porsi qualche domanda, ma Saga, con quel suo sorriso dolce e rassicurante che le faceva dimenticare tutto ciò che aveva attorno, l’aveva persuasa che fossero solo un regalo.
Invece di presentarsi all’ufficio preposto per le autorizzazioni edilizie, lui l’aveva portata davanti al giudice di pace; e nella cartelletta, al posto dei documenti della casa, c’era la licenza di matrimonio. Da quel giorno si era ripromessa di non dubitare più della verosimiglianza delle commedie romantiche che si vedevano in televisione.
Si passò una mano sul viso, dopo un sospiro trasognato, e cambiò posizione sulla poltrona, girandosi un poco di lato: il fastidio al ventre si stava facendo sentire più insistente e prolungato. I suoi occhi vagavano per quella piccola porzione di giardino che vedeva di fronte a sé, sempre che si fosse potuto definire “giardino” una distesa verdeggiante che neanche si riusciva a scorgere dove finiva.
Non si sarebbe meravigliata se anche l’intero lago, non solo la sponda sulla quale si affacciava la casa, facesse parte delle vaste proprietà della famiglia. Poco più in là iniziava a comparire qualche piccolo scintillio sull’acqua che rifletteva il chiarore del giorno sempre più presente.
Di nuovo fece un sospiro; di nuovo si guardò la mano sinistra. Il suo Saga, così pieno di sorprese e di risorse… eppure si era dimenticato di quel piccolo particolare. Ma lei non se l’era presa. Come poteva? Con quel sorriso tanto dolce gli si perdonava tutto. E comunque non le era poi così indispensabile. Nonostante lui gliene avesse promesso uno da lasciarla senza fiato, si sarebbe accontentata di una vera semplice e sobria come quella di sua madre.

Dalla casa sembrava non arrivare alcun rumore: forse era ancora troppo presto. Lei invece era sveglia da un pezzo e iniziava a sentire i primi brontolii dello stomaco. Rimpiangeva un poco di non essere riuscita a mangiare praticamente nulla a cena. Un po’ perché non stando bene il suo stomaco si era rifiutato di dare il proprio consenso; e un po’, doveva ammettere, anche per il menù che era stato elaborato per quella serata.
«Povero caro», mormorò, accennando un altro sorriso. «Era così entusiasta di come aveva organizzato quella cena.»
Ricordava bene come, mentre si stavano incamminando verso la villa, prima di essere entrambi “sequestrati” da Shion che aveva chiesto loro di salire in macchina, aveva appena fatto in tempo a dirle che aveva fatto preparare una cena speciale in suo onore, con alcuni piatti tipici della sua terra. Poi, con non poco imbarazzo, aveva rimediato alla gaffe specificando che intendeva dire della terra d’origine di sua madre, ma sperava fossero graditi anche a lei. Gli aveva sorriso, lusingata per quella dimostrazione di affetto, rassicurandolo che lei adorava la cucina italiana e che in famiglia non si era mai persa quella tradizione, anche grazie ai suoi nonni.
Peccato però che la sorpresa non si era rivelata tanto piacevole: il bollito freddo di lingua di vitello in salsa verde non era mai stato fra i suoi piatti preferiti. Quando era bambina sua madre aveva provato a farglielo assaggiare, ma ne era rimasta traumatizzata, soprattutto dopo che ne aveva visto un pezzo ancora sul tagliere. Forse, se non avesse azzardato a domandare che tipo di carne fosse – benché molto invitante e presentata in modo tanto elegante e professionale, sul piatto di portata – le cose sarebbero potute andare in maniera diversa… forse. Invece, dopo quella rivelazione, si era ripresentato il trauma dell’infanzia, bloccandola e provocandole ancora più nausea di quella che già l’aveva tormentata tutto il giorno. Alla fine, prima di alzare bandiera bianca, era riuscita a mandar giù solo un paio di bocconi di un tortino di polenta che faceva da contorno.
Per un attimo le tornò la nausea.
Nonostante il ricordo non proprio piacevole, trovò anche un aspetto divertente della faccenda. Rammentava di aver notato come Kanon e Aiolos sulle prime non avessero avuto una reazione molto positiva, ma dopo qualche attimo di titubanza e scambi vicendevoli di sguardi – che avevano alternato ai rispettivi bocconi sulle proprie forchette – avevano ripreso a mangiare addirittura con maggiore gusto, arrivando poi a chiedere una seconda porzione. Saga invece, che le era seduto accanto, le era sembrato avere – ma di sicuro la sua impressione era stata condizionata dalla nausea che poi l’aveva fatta correre via dalla tavola per rifugiarsi in uno dei bagni del pian terreno – un’espressione un po’ infantile e imbronciata, come di chi rimane deluso da ciò che aveva davanti.
Un paio di colpi di tosse le squassarono il petto, ripercuotendosi fino al ventre, acuendole i crampi. Dopo un gemito sommesso si convinse a cambiare ancora una volta posizione, cercandone una più composta.
Il suo sguardo si intristì di colpo: sapeva di non aver fatto una buona impressione durante quella cena, ma fin da subito aveva sentito su di sé il giudizio severo dei membri della famiglia Hayes. E non erano state di grande aiuto le risposte balbettate che aveva dato al capofamiglia. E dopo? Dopo cos’era successo?
Da quel momento la sua mente era un po’ confusa. Ricordava solo una pezza bagnata sulla fronte e Saga che le parlava con affetto e preoccupazione, chiedendole come stesse. E alla fine, portandola fra le braccia, l’aveva accompagnata al piano superiore, depositandola con delicatezza sul letto, rimanendo con lei finché non si era addormentata.
Quando aveva riaperto gli occhi, ancora più stanca di prima e dolorante alla gola e al petto, per quanto aveva vomitato in precedenza, la sveglia segnava poco dopo la mezzanotte. Saga aveva aperto la porta proprio in quel momento, portando un piatto con un sandwich. Con un sorriso le aveva detto che era per lei, perché non aveva mangiato nulla a cena, ma il suo viso era tirato e lo sguardo cupo.
Inconsciamente raccolse il ginocchio al petto e vi si appoggiò con la guancia. Sentì una fitta dolorosa al primo respiro; questa volta però non le importava. I suoi occhi si inumidirono di nuove lacrime. L’immagine del sorriso di Saga, il ricordare quanto impegno ci avesse messo per lei, per farla stare bene, la commuoveva e la faceva stare ancor più male, rendendole difficile prendere quella decisione. Un sussulto, un singhiozzo strozzato, le scosse il corpo. Sarebbe scomparso quel suo bel sorriso nel momento in cui lei gli avrebbe detto la verità sul suo stato di salute? L’avrebbe odiata per quanto era accaduto?
Si strinse nella vestaglia e fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi che minacciavano seriamente di liberare lacrime che lei non sarebbe stata poi in grado di arrestare.
Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic.
Dei rumori, suoni ritmici e continui, creavano un sottofondo quasi ipnotico. Cora iniziò a dondolarsi un poco.
Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic.
Quel lieve rumore continuava imperterrito. Era sicura di immaginarselo, eppure aveva una sorta di effetto che la confortava. Le faceva sentire nostalgia di casa e della famiglia; le riportava alla mente ricordi lontani di quando, bambina, con i genitori aveva trascorso le vacanze estive in Italia, a casa dei nonni materni. Era stato l’unico viaggio all’estero che avesse mai fatto. In quell’occasione, a causa della sua scarsa conoscenza della lingua, restava molto tempo a casa e passava le ore a far compagnia alla nonna che, a sua volta, passava ore e ore a sferruzzare a maglia. Quello di allora però era un po’ diverso, più forte e incisivo, più veloce e allegro, pieno d’amore. Quello che invece sentiva ora era più ovattato, discreto; ma, ne era certa, ugualmente amorevole.
Alzò la testa e si guardò attorno. Dall’altro lato della veranda, su una vecchia sedia a dondolo chiara, una donna anziana stava lavorando a maglia, osservando in silenzio l’orizzonte. Poi, come se avesse sentito uno sguardo su di sé, voltò lo sguardo su di lei e le sorrise, in quel modo che solo le nonne sono capaci di fare.
«Buongiorno, cara. Sei mattiniera anche tu, vedo», la salutò, continuando a sferruzzare.
«Buongiorno, mrs Foster», ricambiò Cora, affrettandosi a passarsi la mano sul viso per asciugare una lacrima e poi a sorriderle cordialmente.
Si alzò, un poco dolorante, e si avvicinò alla donna che l’aveva invitata a sedersi vicino a lei. Per qualche minuto la osservò lavorare con velocità e precisione, senza neanche guardare la punta dei ferri.
«Sei riuscita a riposare un poco?» le chiese Nanny, lavorando e dondolandosi.
«Sì, mrs Foster», rispose rispettosamente la giovane.
«Chiamami Nanny, come fanno gli altri. Fai parte della famiglia, ora.»
«Nanny…» mormorò Cora, in un balbettio timido.
L’anziana governante di casa Hayes continuava a osservarla, a studiarla. Durante la cena non ne aveva avuto la possibilità; ma in quel momento, loro due da sole in veranda, con la casa tranquilla, poteva fare la sua conoscenza.
«Posso… posso chiederle a cosa sta lavorando?» disse Cora, seduta sul pouf di fronte alla donna.
Cora fissava, quasi ipnotizzata, le mani di Nanny che si muovevano in maniera straordinaria. Per terra, accanto ai piedi della donna, vi era un cestino pieno di gomitoli di lana e alcuni capi già terminati, ben piegati. Non riusciva a staccare lo sguardo da quel lavoro a maglia: era appena all’inizio e non si poteva ancora intuire cosa sarebbe venuto fuori; il filo era molto bello, dai colori delicati e con lievi sfumature a contrasto.
Nanny sorrise, continuando a lavorare. «Sto facendo una tutina per neonati.»
Cora arrossì un poco. «Posso?»
Con molta attenzione prese uno dei capi nel cestino e lo distese davanti a sé, meravigliandosi di quanto fosse piccolo. Era di un bel colore verde pastello, morbido al tatto e leggero.
«È per una ragazza che ha lavorato qui da noi come cameriera fino a qualche mese fa. Abita ancora con la madre in paese.»
«È veramente bella», disse Cora, con tono trasognato; gli occhi si stavano inumidendo di lacrime, eppure lei sorrideva intenerita. Poi, prese un’altra tutina, questa volta bianca con sfumature celesti. «È per un maschietto?» chiese, presupponendolo comunque dai colori utilizzati per i vari lavori.
«Sì. Dovrebbe nascere in settembre.»
«Lei è davvero molto brava», disse la giovane, ammirando sinceramente quei lavori. Erano forse semplici nella realizzazione, ma ben fatti.
«Dammi pure del “tu”, cara», concesse la donna, interrompendosi per un momento e chinandosi verso Cora, accarezzandole una guancia.

«Ecco dov’eri finita! Quando mi sono svegliato e ho trovato il letto vuoto, mi sono preoccupato», disse Saga.
«Non è più buona educazione salutare?» lo riprese Nanny, con tono un poco risentito.
«Buongiorno, Nanny», rimediò il ragazzo, con un leggero imbarazzo su quel bel sorriso che esprimeva serenità e anche un pizzico di inconsapevolezza, dando un bacio sulla guancia alla donna, premiato da una carezza.
«Buongiorno anche a te, signora Hayes», si rivolse poi alla giovane moglie.
Sussurrò il suo nome sfiorandole le labbra, prima di darle un bacio leggero e dividendo con lei il pouf.
«Buongiorno, signor Hayes», rispose lei, condividendo quel sussurro, arrossendo per quell'appellativo.
«Di cosa stavate parlando?» chiese il ragazzo, con disarmante disinvoltura e genuina curiosità.
L’anziana governante lo squadrò per diversi secondi, dondolandosi due o tre volte, continuando imperterrita a far scivolare sopra e sotto le punte dei ferri circolari.
«Di bambini», rispose, con voce ancora un po’ risentita; ed era proprio quello che voleva si sentisse, per non dargliela subito vinta, com’era stato purtroppo abituato.
Saga strabuzzò gli occhi, ricambiando lo sguardo di Nanny e poi voltandosi verso Cora che, con un sorriso timido, stringeva ancora fra le mani la tutina, riferendogli ciò che la donna le aveva raccontato.
«In giro si dice che sia di Kanon, visto che ha la fama di dongiovanni», le sussurrò all'orecchio, ridacchiano.
«Fesserie!» intervenne Nanny, in tono secco; era forse avanti con l’età ma ci sentiva ancora bene!
«Naturalmente, Nanny!» si affrettò a concordare Saga, annuendo con vivacità per dare maggiore risalto alla sua esclamazione.
Cora si sorprese nel vederlo con un atteggiamento così partecipe, per delle chiacchiere fra donne. Le faceva uno strano effetto.
«Il fidanzato di Clare lavora come commesso alla farmacia; a ogni cliente che serve racconta sempre quanto sia orgoglioso del bimbo che sta aspettando», continuò Saga, sempre più pettegolo. «E poi è anche molto geloso! Una volta mi hanno detto che ha minacciato un tizio con una spranga di ferro perché, a detta dei testimoni, aveva guardato in modo inappropriato le gambe della sua fidanzata, che era andata a trovarlo sul lavoro.»
«Oh, Saga, non fare la comare. Lo sai che non è affatto così!» lo rimproverò di nuovo Nanny, facendo sorridere il ragazzo.
Sotto sotto però anche lei era un poco divertita, perché pettegolezzi di quel tipo le riportavano alla memoria gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza del suo angelo, dove l’unico passatempo, fra lo studio, il nuoto – che aveva fortemente consigliato il dottore – e il tennis al Country Club, erano quei momenti in cui lui restava a sentire le chiacchiere delle domestiche di casa Hayes. E poi… pian piano aveva iniziato a unirsi a loro e a partecipare, fino a diventare il “pettegolo” di casa. Ma solo quando non c’erano testimoni ancora più pettegoli di lui.
A dispetto delle apparenze, ovvero era alto quasi due metri e dieci centimetri e con due spalle larghe quanto un armadio, la persona di cui stavano parlando era un ragazzone impacciato, timido e generoso.
«Naturalmente sono tutte voci infondate, ma sai, assomigliando alla “Bestia”, ed essendo sempre stato preso in giro da bambino, si è montato su una reputazione da bullo, ma in verità è un pezzo di pane», disse, rassicurando Cora.
La giovane ridacchiò, nascondendo la bocca con la mano. In quel momento così “intimo” e familiare, aveva forse scoperto un altro aspetto dell’uomo che amava e che la sorprese piacevolmente. L’espressione sul volto di Saga era tanto dolce e spensierata che la stava contagiando e, al tempo stesso, le stava facendo accantonare i suoi tormenti e i suoi dolori.
«E voi due, state già pensando di averne?»
Cora sgranò gli occhi, poi abbassò lo sguardo, sperando non si notasse il senso di colpa che provava, lisciando con mani nervose la tutina che teneva appoggiata sulle gambe: a quella domanda non sapeva cosa rispondere.
«Sicuramente!» esclamò Saga, senza alcun indugio. La sua voce era stata ferma e convinta.
Passò un braccio dietro la schiena della giovane moglie e l'attirò un poco a sé.
«Vero?» le chiese conferma in un sussurro; e lei, dopo un attimo di smarrimento, rispose di sì, anche se con voce un poco incerta. «Magari fra un paio di anni e tu, Nanny, potrai realizzare queste belle tutine anche per noi», aggiunse, decidendo tutto lui, accarezzando la lana morbida e sottile della tutina.
Poi, rivolse uno sguardo innamorato alla moglie, prendendole la mano e distraendola dal fissare con occhi troppo malinconici quel piccolo capo, mostrandole un sorriso dolcissimo e trovando, nel cenno di lei, approvazione a ciò che aveva detto.
Sentì un leggero brontolio di stomaco. «Hai fame?» le chiese. «Ho visto che il piatto che ti ho portato ieri sera non l’hai neanche toccato», la rimproverò con tono preoccupato.
«Scusami. Non mi va di mangiare.»
«La colazione è il pasto più importante della giornata!» pontificarono all’unisono, Saga e Nanny, rimbrottando la giovane in tono bonario.
«Scommetto che se assaggi i pancake di Nanny lo ritroverai subito, l’appetito! Vero, Nanny, che i tuoi pancake sono i migliori?»
L’anziana donna annuì con orgoglio, sotto lo sguardo di Saga che la stava fissando in quel momento con i suoi occhioni verdi e l’espressione da eterno bambino; e che già dentro di sé stava pregustando quelle delizie.
«Hai avuto proprio una splendida idea, tesoro mio. Era giusto quello che mi andava di mangiare. Perché non vai in cucina, prendi gli ingredienti e questa volta li prepari tu?» gli propose la donna. «Di sicuro saranno più graditi a Caroline.»
«Ma…»
«Caro, sai leggere delle istruzioni, vero?» disse la donna, in tono compassionevole, ricevendo una risposta affermativa, seppur titubante, da Saga che non capiva perché la sua tata stesse dicendo quelle cose. «Allora sarai sicuramente anche in grado di seguire la ricetta sul mio quaderno. Lo trovi nel cassetto centrale della credenza», gli disse, con un sorriso sul viso affaticato dall’età.
Per diversi secondi il ragazzo la fissò allibito; poi, con un rossore che gli stava imporporando le gote abbassò gli occhi sul pavimento.
«Ti do una mano, se vuoi», si offrì Cora, ripiegando la tutina come l’aveva trovata e riponendola con molta cura nella cesta dei lavori.
Alle parole della moglie, Saga riprese immediatamente vigore e, grato per l’aiuto, le sorrise dolcemente. Si alzò dal pouf e le tese la mano per aiutarla ad alzarsi a sua volta.
«No, mia cara», la trattenne Nanny. «Fatti viziare un po’ dagli uomini, perché non passerà molto tempo che loro inizieranno a dare per scontato di essere serviti di tutto punto. E poi, mi piacerebbe parlare ancora un po’ con te.»

*****

In quella tarda mattinata di inizio settimana, che poteva dirsi tutto sommato incominciata in toni tranquilli, l’improvviso scampanellare alla porta d’ingresso della grande villa risuonò come delle dolorose martellate nella testa di Aiolos. Forte, rintronante e decuplicato nelle sue note acute; persino accanito, per come prepotente si stava facendo sentire.
Poi, così com’era iniziato, tutto si era fatto silenzio ed era tornata la pace.
«Finalmente…» sospirò il ragazzo che non era certo nel massimo della forma.
Si massaggiò una tempia e fece un profondo respiro, provando a riprendere la lettura del libro, sdraiandosi malamente sull'enorme e morbido divano del salotto. Di tanto in tanto la vista gli andava in confusione e perdeva il filo, dovendo ricominciare a leggere, senza comunque riuscire a capirci nulla. Aveva la testa tutta sottosopra e sentiva che la colazione gli stava tornando su, nonostante la calma che pian piano stava ritrovando; o forse, quella sgradevole sensazione la sentiva di più proprio perché tutto sembrava essere di nuovo tranquillo.
Il campanello della porta suono di nuovo, ancora, ripetutamente, con maleducata insistenza. E, ancora una volta, nella sua testa tutto si amplificò.
«Ma non va nessuno ad aprire?» sibilò fra i denti, coprendosi il volto con il libro aperto. Dov'era la cameriera quando serviva? Dov'era Shura quando serviva?
Scattò nervoso, continuando a sentire quel suono fastidioso: la sua mente stava già immaginando di andare lì e sradicare il campanello dalla parete.
Sbuffò e si alzò dal divano, affacciandosi dalla soglia del salotto: nessuno in quella casa pareva essere anche solo minimamente interessato ad andare ad aprire. Arricciò la bocca in una smorfia, scocciato. Forse, lassù qualcuno ce l’aveva con lui, quel giorno. Ancora con il libro in mano, che teneva completamente aperto con la mano, si avvicinò a passi pesanti alla porta d’ingresso. Non guardò dallo spioncino, né dal monitor della telecamera puntata proprio sul pianerottolo antistante e sui gradini, ma si limitò ad aprire quella porta con un atteggiamento scostante, con l’unico pensiero di mandar via lo scocciatore.
«Ah!» esclamò, senza molta enfasi a dire il vero, nel momento in cui vide chi era. «L’amabile zio Phil, direttamente dall’accogliente città di Philadelphia! Come mai non sono sorpreso di vederti qui?»
Il sarcasmo e la sprezzante arroganza nella sua voce fece serrare le mascelle all’uomo che aveva di fronte. L’eleganza e la pacatezza che aveva dimostrato solo un paio di giorni prima sembravano non essergli mai appartenute e anzi, Aiolos non si preoccupò affatto della reazione dell’altro, forte di essere nel suo territorio, questa volta. Con disinvoltura – e un mezzo ghigno sul viso – dimenticandosi del tutto dei postumi della sbornia che ancora lo stavano condizionando, allungò un poco il collo e diede uno sguardo alle spalle dell’investigatore: vicino all'auto ferma in mezzo al vialetto ghiaioso c’erano altri due uomini dall’aspetto cospiratorio che stavano fumando.
«Ti sei portato i rinforzi?»
«Ehi, ma è solo il maggiordomo di casa», disse con un mezzo sorriso Phillip Burton, ai suoi compagni, indicando Aiolos con un gesto del pollice.
I due in disparte sogghignarono; poi, quello con la giacca scura buttò a terra la cicca di sigaretta schiacciandola con il piede.
«Cos’è, il potente Shion Hayes è caduto tanto in miseria che non può permettersi di pagarti abbastanza per la divisa più decorosa?» rincarò la dose di dileggio, squadrandolo da capo a piedi. Il ragazzo infatti si era presentato davanti a lui con delle semplici infradito, jeans scoloriti e strappati e una polo che aveva visto giorni migliori.
«Se avessi saputo che erano attesi ospiti così di “riguardo” sarei andato a ritirare quella buona in lavanderia», rispose Aiolos, con un sorrisetto. Subito dopo però fu costretto a una smorfia di dolore per una fitta alla testa. «Allora, che vuoi?» chiese di nuovo, mutando repentinamente il tono della voce e l’espressione sul viso.
«Aiolos!» chiamò Kanon, scendendo di corsa le scale per dirigersi in biblioteca. «Chi è alla porta?» chiese, vedendo che l’altro si stava intrattenendo con qualcuno.
«È il suocero di tuo fratello!» rispose Aiolos, senza distogliere lo sguardo dall’ex poliziotto, osservando la lieve contrazione delle mascelle dell’uomo. «O forse il sostituto suocero», mormorò maligno. «Per te cosa sarebbe, Kanon?» domandò all’amico, con aria sempre più strafottente, mettendosi una mano in tasca e assumendo una posa fin troppo rilassata.
«Cos’è, un quiz a premi?» ribatté Kanon, per nulla in vena di scherzare o fare conversazione, non dopo la serata passata a discutere con il padre e con il gemello. «Piuttosto, chiama al garage e chiedi se la Lamborghini è a posto! Dopo la riunione in città devo andare a New York», ordinò, prima di scomparire in biblioteca.
Aiolos sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Quel giorno ci mancava anche Kanon che si metteva a impartire ordini come un dittatore.
Anche Phillip Burton, che fino a quel momento era rimasto comunque rispettosamente sulla soglia, iniziava a dare evidenti segni di impazienza.
«Allora?» ripeté ancora una volta Aiolos, assottigliando lo sguardo.
«Devo vedere mr Hayes», disse Phillip, lapidario e con voce ferma.
I due si guardarono negli occhi per diversi secondi, senza cedere dalle rispettive posizioni, neanche fossero due pistoleri del Far West.
«Non è disponibile», fu la risposta, altrettanto lapidaria, di Aiolos.
Di nuovo si fissarono a lungo, come due cani da guardia che mostrano i denti e ringhiano sommessi, prima di azzannarsi a vicenda.
«Non ho tempo di giocare con te, ragazzo», disse Phil, mettendosi una mano nella tasca dei pantaloni, spostando con quel movimento la giacca leggera e mostrando la pistola nella fondina che questa volta portava alla cintura.
«Io invece ho tutto il tempo che voglio; e questa volta gioco in casa», gli rispose per le rime e con inaspettata freddezza l’altro.
«Ragazzo…» si fece avanti minaccioso uno dei due uomini che attendevano poco più in là, affiancandosi a Phillip Burton. «Io invece gioco sempre in casa», affermò con sicurezza, scostando la giacca e mostrando il distintivo del dipartimento di Polizia di Boston, Squadra Omicidi, agganciato alla cintura. «Ora facci entrare e vai a chiamare il padrone di casa.»
Aiolos non si scompose più di tanto per quella dimostrazione da duro. «Avete un mandato, agente?»
«Detective Moore», lo corresse l’uomo. «Non ho bisogno di un mandato per una semplice chiacchierata informale, né di un invito scritto. Restatene al tuo posto, ragazzo e facci entrare.»
«Amico…» lo apostrofò Aiolos, con tono sprezzante, «non siamo a Chester’s Mill, sotto la cupola. Qui i diritti costituzionali sono ancora in vigore e la polizia non può fare i propri comodi», rispose a tono, chiudendo il libro che teneva in mano, l’ultimo che aveva comprato di Stephen King, puntandolo al petto del poliziotto, che non sembrava poi così tanto più vecchio di lui, a giudicare dall’apparenza.
Il detective scacciò quel libro con un gesto brusco, portando in seguito la mano sulla fondina della pistola, frenato però dall’ex capitano.
«Ehi, big Phil, c’è qualche problema?»
Anche il terzo uomo raggiunse infine i suoi compagni, ancora fuori dalla porta d’ingresso della villa.
«Tutto sotto controllo, Ed. Non è vero, signor Foster?»
Edward Price annuì con la testa, ma rimase in allerta, come la sua esperienza di tanti anni sulle strade gli aveva insegnato, con gli occhi fissi sul giovane che sbarrava loro la strada.
«Ehi, ma che succede qui, Aiolos?» chiese Kanon, affiancandosi all’amico, ora di umore migliore, appoggiandosi con il braccio alla sua spalla.
Tutti erano stati così intenti a osservarsi che non si erano accorti di quella nuova aggiunta, rimanendo sorpresi.
«Salve! Sono Kanon Hayes, cosa desiderate?» chiese, stringendo la mano di Phillip Burton che, subito a prima vista, aveva reputato come “il capo” di quel gruppetto.
Nonostante Burtun avesse già visto una sua fotografia, qualche giorno prima, rimase allibito nel ritrovarselo di fronte.
«Lui è il patrigno di Caroline», disse Aiolos a voce molto bassa, indicando con un cenno del capo l’uomo a cui Kanon aveva appena stretto la mano. «È venuto a parlare con tuo padre. L’altro è un poliziotto e il terzo non lo so, ma dall’aspetto sarà un altro sbirro.»
«Ah, allora questa volta Saga si è cacciato in guai davvero grossi?» commentò Kanon, squadrandoli da capo a piede, facendo poi un mezzo sorriso. «Beh, Aiolos, accompagnali in biblioteca e poi chiama il grande capo. Così finalmente risolveremo questa storia», gli ordinò. «Non andateci troppo pesante, voi… è pur sempre mio fratello», disse, con tono sfacciato, rivolgendosi ai tre ancora fuori dalla porta.
Poi, prima di uscire di casa, informò l’amico che agli impegni in ufficio si era aggiunto anche un meeting dell’ultimo minuto e di portargli la Lamborghini direttamente nei parcheggi sotterranei del grattacielo della compagnia, perché il suo programma di tornare a New York era ancora valido; ed era propenso questa volta a rimanerci per diverso tempo.
Aiolos annuì svogliatamente, ma non eseguì subito. Prima voleva capire il vero motivo per il quale quell’uomo era venuto da Philadelphia e si era presentato alla porta di casa Hayes. Di certo non poteva essere solo per ciò che tutti ritenevano la sciocchezza più grossa che Saga avesse mai fatto in vita sua. Dietro doveva esserci dell’altro, ma gli mancavano ancora diversi tasselli per ricostruire il quadro.
«Ma di che stava parlando, quello?» chiese il detective al suo ex superiore Price. Solo in quel momento, Moore si rese conto della reazione allibita dell’uomo quando era comparso davanti a loro Kanon.
Anche dopo che il rampollo degli Hayes si era allontanato, Edward Price era rimasto con le mascelle serrate, lo sguardo fisso e il respiro trattenuto, prima di scambiare uno sguardo eloquente con Burton e, di nuovo, stringere le mascelle per la tensione.
Burton fece un passo in avanti per entrare in casa, ma fu respinto dalla mano di Aiolos.
«Lascia, ci penso io!» intervenne Shura, sbucando da chissà dove e arrivando di corsa: sembrava essere inseguito dal demonio in persona. «Vai in cucina e trattienili», sussurrò all’orecchio di Aiolos, mettendogli una mano sulla spalla.
Il ragazzo non fece una piega, ma nemmeno si mostrò contrariato per quella che, in altre circostanze, avrebbe interpretato come una punizione.
«Morales.»
«Capitano Burton», ricambiò il saluto Shura, facendoli finalmente accomodare nell’elegante atrio della villa, fissando però l’uomo con sospetto.
La tensione di quei minuti, nonostante il cambio degli attori, non era diminuita affatto; anzi, se possibile era persino aumentata, perché da quel momento in poi sarebbero potuti riemergere eventi del passato che dovevano invece rimanere nascosti.



note:
Tulipe: com'è intuibile, deriva dal francese e significa Tulipano; è un bicchiere dalla forma affusolata che ricorda appunto il suddetto fiore e si usa per la degustazione di vini bianchi e di alcuni alcolici come la grappa.
Chester's Mill: è la cittadina, inventata, del Maine nella quale si svolge la storia di "The Dome", romanzo di Stephen King, pubblicato negli Stati Uniti nel 2009.



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Capitolo 28
*** Capitolo XXVII ***






XXVII




Contrariamente a quanto avrebbe fatto di solito, quando arrivavano degli ospiti che avevano affari delicati da discutere con Shion Hayes, Shura portò Burton al piano seminterrato, nella sala del biliardo.
«Qui avremo maggiore privacy», disse, facendo accomodare l’ex poliziotto.
«È qui che fate i vostri loschi affari?» commentò Burton, dando una lunga e approfondita occhiata a quell’ambiente.
La stanza era ampia, con le pareti ricoperte di legno e il parquet sul pavimento. Aveva proprio l’aria di uno di quei vecchi locali dove si andava a fumare e giocare, ma il lusso e la raffinatezza la facevano da padrona. Del resto, non poteva aspettarsi altro da una delle più ricche famiglie di Boston.
Si avvicinò alla rastrelliera con le stecche posizionate in verticale, una accanto all’altra, studiandole meglio, ma già a occhio si capiva che erano di gran pregio, alcune addirittura erano famose, appartenute a grandi giocatori del passato. Si lasciò sfuggire un commento poco educato sull’ostentazione di quella famiglia, mentre ne prendeva in mano una, che aveva attirato la sua attenzione in modo particolare, esaminandola in maniera più approfondita con l’occhio di un vero professionista.
Sembrava molto vecchia e molto usata. Appena sopra l’impugnatura ricoperta in pelle, c’era una specie di scarabocchio scuro, un’incisione fatta sul legno nella quale era distinguibile a malapena una K.
«Al padrone di casa non piacerebbero queste insinuazioni», grugnì Shura, trattenendo a stento la rispostaccia che gli frullava in testa.
Prese il cellulare e, appoggiandosi al bordo di mogano pregiato del tavolo da biliardo, che sembrava un pezzo di antiquariato di gran pregio, telefonò a Shion Hayes. La chiamata fu molto breve, giusto per avvertire che era atteso. Poi, posò il cellulare accanto a lui e attese con le braccia incrociate al petto.
«Non mi importa un accidenti di cosa possa piacere o non piacere al tuo padrone», ribatté l’uomo, in tono secco, mandando una palla in buca e commentando subito dopo, fra sé e sé, che la stecca non era proprio niente male, soppesandone il peso e il bilanciamento.
«Mettiamo le carte in tavola, Burton, cos’è venuto a fare qui?» disse Shura, non nascondendo l’inflessione nervosa nella sua voce, bloccando con la mano la palla che stava scivolando lenta sul panno verde fino alla buca d'angolo.
«Ancora quell’atteggiamento da bulletto di quartiere, Morales?» disse l’ex capitano del dipartimento di polizia di Boston, accennando un ghigno sardonico.
Ricordava abbastanza bene quella volta che un giovane teppistello ispanico un po’ troppo scalmanato, era stato trascinato al distretto con le manette ai polsi da un agente in divisa e sbattuto nella gabbia assieme agli altri fermati di quel giorno. Ricordava come quel ragazzetto tutto pelle, ossa e nervi tesi, attaccasse briga con chiunque e sfidasse con occhi pieni di rabbia ogni singola sventurata persona incrociasse il suo sguardo. Faceva persino paura a omoni grandi tre volte più di lui. In seguito non ne aveva saputo più niente, almeno fino a quando non l'aveva incontrato – molti anni dopo – durante le indagini del caso Taylor, quando lui in persona si era presentato a casa Hayes per interrogare Shion e tutti quelli che erano stati in un qualsivoglia rapporto con Anthony Young.
«Che diavolo vuole, Burton?» insistette Shura. Nei suoi occhi si stava riaccendendo la fiammella della rabbia giovanile.
«Non sono affari che ti riguardano, tirapiedi», rispose l’uomo, col medesimo tono.
Shura digrignò i denti, sfidandolo con lo sguardo per diversi secondi, senza però sortire alcun effetto. Non era facile riuscire a intimidire uno come Burton. Si buttò allora a sedere sulla poltrona di pelle e si accese un sigaro, mentre osservava l'altro che continuava a mandare palle in buca.
Shion si fece vedere dopo quasi quindici minuti. Le maniche della camicia bianca arrotolate a tre quarti e il colletto slacciato gli donavano un'aria molto rilassata. E i jeans scoloriti contribuivano a farlo sembrare più giovane, nonostante i capelli grigi che stavano via via diventando più evidenti rispetto al suo castano chiaro.
«Capitano Burton. Che piacere inaspettato», lo salutò il padrone di casa, con particolare gentilezza, tanto che Shura se ne stupì, muovendosi poi nervoso sulla poltrona. «Qual buon vento la porta qui, dopo tutti questi anni?»
«Come potevo non venire, viste le particolari circostanze?» rispose con altrettanto garbo Burton, avvicinandosi e stringendogli la mano.
Entrambi mantennero la stretta per diversi secondi, fissandosi negli occhi. In quello sguardo reciproco erano espressi tanti sottintesi che non avevano bisogno di essere svelati a parole. L'uomo fece poi un breve cenno col capo in direzione di Shura, mostrando così quanto fosse poco incline a svelare il vero motivo della visita data la presenza dell'altro, ma Shion lo rassicurò con un gesto della mano che poteva parlare liberamente. Allora, si avvicinò di nuovo al tavolo da biliardo e vi appoggiò sopra la stecca, prendendosi un momento per riflettere su come affrontare il discorso.
«Come sta il tuo ragazzo?» chiese, provando a prenderla alla lontana. Il tono che aveva usato non sembrava affatto di circostanza. «Non ne ho più sentito parlare, da quel giorno alla clinica.»
«è cresciuto bene», rispose con orgoglio Shion Hayes.
«Come diavolo fa a sapere di Saga?» disse Shura, scattando in piedi e facendosi cadere addosso della cenere.
«Calmati, Shura», lo placò il capofamiglia Hayes.
«Sì, calmati, Morales», fece eco Burton, ma in tono provocatorio. «Ero lì per motivi personali e ho visto mr Hayes che accudiva il figlio. A quel punto non poteva certo nasconderlo.»
«Quindi lui ha sempre saputo dei gemelli e di... allora perché non ha mai detto niente in questi anni?» chiese Shura, con voce preoccupata e diffidente.
«Ha lavorato dietro le quinte per nascondere ogni possibile notizia fosse potuta trapelare a proposito dei gemelli», svelò Shion, mantenendo una tranquillità invidiabile.
«Cosa che tu non saresti certo stato in grado di fare», intervenne Burton, con un sorriso sghembo sulle labbra.
«E in cambio cos’hai voluto?» disse Shura, con tono sprezzante.
«Niente. L'ho fatto solo perché non mi sono mai andati a genio i Taylor. A questo mondo ce ne sono già abbastanza di squali. Se quei due bambini fossero finiti nelle loro mani, chissà come sarebbero diventati oggi.»
Shion non replicò, poiché quello era anche il suo pensiero. Certo, fare uno sgarro di quella portata alla famiglia Taylor gli aveva dato una grande soddisfazione, ma non era stato solo per quello. Aveva protetto e amato l’eredità che aveva ricevuto dalle uniche due persone che aveva amato nella sua vita.
«Allora, Burton, qual è il vero scopo di questa tua visita?» chiese Shion Hayes, offrendo da bere al suo ospite.
«Mi stupisce che tu non lo immagini», disse l’uomo, facendo una lunga pausa per valutare la reazione del suo ospite. «Gli accordi erano che non avremmo più incrociato le nostre strade e che tu avresti tenuto a bada i tuoi ragazzi, ma quello più giovane è venuto a pascolare dove non avrebbe dovuto.»
Ci fu un lungo e pesante silenzio nel quale Shion e Shura si scambiarono uno sguardo perplesso: nessuno dei due riusciva a comprendere cosa intendesse dire Burton.

*****

Che quella non fosse una mattina come tutte le altre Aiolos ne aveva già avuto sentore a colazione, con la sua bella dose di nausea da overdose di sdolcinatezze generosamente servitegli da un Saga fin troppo gentile che, di fronte a Caroline, che lui vedeva solo come un elemento estraneo e fuori luogo nella “loro” famiglia, si era trasformato in un servizievole cameriere; il tutto sotto lo sguardo della nonna, particolarmente accondiscendente a tale spettacolo indegno. Ma se ne rese davvero conto solo quando, rientrato in cucina, il suo umore – già di per sé pessimo per il dopo sbornia e l'incontro con Burton – non era ulteriormente guastato all'idea di dover fare da balia ai due piccioncini. Gli costava fatica doversi preparare psicologicamente a “Vita da strega” in versione Hayes.
Si guardò attorno: Francine era già impegnata ai fornelli, neanche fosse stata a servizio in una grande magione del secolo passato, dove si lavorava in cucina dalla mattina alla sera, ma degli altri non pareva esserci traccia.
«Dove sono andati?»
La donna alzò lo sguardo dall'impasto che stava energicamente sbattendo e lo fissò come se non avesse inteso la domanda. Aiolos aveva già aperto la bocca per ripetere di nuovo, ma fu interrotto dall'arrivo della nonna, sbucata da chissà dove.
«Li ho mandati fuori in giardino», disse con un poco di fatica la donna, camminando a piccoli passi. Aveva le mani piene di pacchi di farina, zucchero e frutta secca avanzata dall’inverno.
«Dammi qua! Lo sai che non dovresti portare pesi», la rimproverò il giovane, scrollando la testa in disapprovazione, mentre la liberava da quei pesi eccessivi, appoggiando poi i pacchetti sul piano di lavoro.
«Quella povera ragazza è pallida come un cencio, ha bisogno di tanto sole, di stare all’aria aperta e di mangiare sano», continuò la donna, sedendosi sullo sgabello vicino al forno.
Aiolos invece sbuffò, guardandosi bene dal dirle che le condizioni di Cora non sarebbero certo magicamente migliorate stando semplicemente “all’aria aperta”, o “mangiando sano”, ma stando invece a letto a riposare e provando a lasciarsi al più presto alle spalle quella brutta storia.
Dal forno arrivava un odorino a dir poco invitante che distrasse il ragazzo dai suoi pensieri e dall'incarico che gli era stato affidato.
«Cosa state combinando voi due?»
Inspirò profondamente, allargando ben bene le narici per meglio saggiare ogni aroma che si spandeva nell'aria. E proprio in quel momento il ding del timer di uno dei due forni avvertiva la cuoca che ciò che custodiva così gelosamente era pronto.
Francine lasciò la ciotola dell’impasto, si infilò in fretta il guanto imbottito e aprì lo sportello, liberando così un’improvvisa zaffata di cacao; poi estrasse la teglia piena di soffici e invitanti muffin di goloso cacao e gocce di cioccolato extra fondente, che posò a raffreddare sulla griglia già predisposta.
Aiolos allungò la mano, pronto a rubarne uno, ma una sculacciata sul sedere lo fece desistere.
«Fermo con quelle manacce!» lo rimproverò Nanny, provando a replicare il colpo, ma questa volta col mestolo di metallo che aveva trovato lì vicino, poiché dopo il primo la mano le doleva. Aiolos fu invece lesto a scansarsi, anche se ciò lo fece rimanere a mani vuote.
Non gli era andata però poi così male, perché sotto il canovaccio che era steso sul piano di lavoro trovò una scatola di biscotti all’uva passa. Non ci pensò due volte e ne arraffò uno, trangugiandolo praticamente intero.
«Aiolos! Sei proprio impossibile!» disse Nanny, esasperata da quel comportamento infantile. E la bocca gonfia come quella di un criceto in piena fase di “abbuffamento” era la prova che per certi versi bambino lo era rimasto davvero. In fin dei conti le faceva piacere, perché lui nonostante fosse ormai un uomo, era sempre il suo piccolino.
«Questi biscotti sono per qualcosa di particolare?» chiese, facendo fatica ad articolare le parole che uscivano dalla sua bocca goffe e comiche.
«Tutto quello che stiamo preparando oggi è per la festa per il bambino di Claire di questa sera», spiegò Nanny. «E tu...» gli disse, facendogli cenno di avvicinarsi, per poi cingergli con affetto la vita. «Tu quando ti deciderai a sistemarti con una brava ragazza e a farmi diventare bisnonna?»
«Queste idee da dove vengono?» disse con una certa perplessità Aiolos. «Ah! Non me lo dire!» esclamò, vedendo l'espressione sul viso della vecchia nonna. «Ti sono venute per colpa di Saga, non è vero? Il principino prende moglie e tu ora ti stai facendo prendere dalle fantasticherie di avere una nidiata di marmocchi di nuovo per casa! Ma non ti siamo bastati noi a rovinarti la vita?»
«Non ti permettere!» lo sgridò la donna, punzecchiandogli dispettosa la pancia con il dito. «Voi tre siete stati la cosa più bella della mia vita, oltre naturalmente a tua madre, prima che…» Lasciò in sospeso la frase, perché altrimenti sarebbe terminata con qualche insulto nei confronti di Thomas. E anche se sapeva che ad Aiolos non importava affatto, non le pareva comunque giusto continuare ad infierire su quell'uomo che aveva ormai rimediato al suo errore di gioventù diventando un buon marito e un buon padre.
Sospirò e si alzò dallo sgabello. Aprì l’antina del mobile per prendere un piatto pulito sul quale posò un tovagliolo e si avvicinò alla scatola dei biscotti, borbottando che non sarebbero comunque stati sufficiente e ne avrebbero quindi cotti degli altri.
«Per cortesia, portali a quei due ragazzi», disse ad Aiolos, mettendo alcuni dolcetti sul piatto e coprendoli poi con l’altro lembo del tovagliolo.
Il giovane fece una smorfia, ma non si sottrasse a quel favore che gli aveva chiesto la nonna, quantomeno per non darle un motivo di lamentarsi anche di lui. A volte ci voleva poco a passare dalle grazie della nonna a far parte della lista dei “cattivi”, per usare un eufemismo, che attualmente aveva come unico membro Thomas Cooper.
Con il piatto in una mano, tenuto con i polpastrelli delle dita come farebbe un cameriere provetto, si avvicinò alla portafinestra del porticato dando una lunga occhiata, prima di varcarne la soglia. Il giardino era troppo grande e non ci teneva a percorrerlo in lungo e in largo come un segugio da caccia per trovare quei due. Con l’altra mano sfiorò la tasca posteriore dei jeans, dove teneva il cellulare. Poteva sempre fare uno squillo a Saga e domandargli dove si trovasse di preciso in quel momento, così da non doverlo rincorrere; ma perché dargli a intere che si interessava di lui?
Non visto dalla nonna, già impegnata con Francine nel porzionare l’impasto per la nuova infornata di muffin, prese un biscotto dal piatto dandogli un bel morso, mentre usciva nel porticato. La buona sorte gli stava dando una mano, se così si poteva dire: li intravide camminare mano nella mano paralleli alle siepi di bosso, quelle che erano state piantate poche settimane prima, e si stavano dirigendo verso il lago. Ciò voleva dire che erano stati dalle parti della serra. Non che vi fossero grandi motivi per appartarsi lì, se non proprio per “l’appartarsi” in sé, era però anche vero che proprio in quei giorni erano arrivati diversi alberi e arbusti per l’allestimento del nuovo giardino orientale che Shion aveva ordinato come regalo per la giovane Sakura, per farla sentire più a casa.
«Strano, Saga non ci mette mai piede lì dentro. Avrà voluto mostrarle le nuove piante», commentò con indifferenza, finendo di mangiare il biscotto.
Poi, abbassò lo sguardo sul piatto, soppesandolo per qualche secondo con entrambe le mani, tamburellando col pollice sul bordo. Indugiava ancora nel porticato, domandandosi perché diavolo doveva fare da cameriere a Saga.
«Cosa avrò mai fatto di male alla nonna, perché si ingegni in una punizione simile?» borbottò, cercando qualsiasi scusa possibile per tergiversare.
Non ne aveva proprio voglia. Più passava il tempo e più sentiva tornare a galla la sua antipatia per Saga. Ma c'era anche un lato positivo, poteva... Ma che andava a pensare, anche se gli sarebbe piaciuto sopra ogni altra cosa metterlo in difficoltà, stava diventando troppo pigro per cose del genere.
Si guardò un attimo alle spalle, di nuovo. Sua nonna gli dava la schiena e non poteva vederlo, sempre indaffarata con Francine a sfornare altri dolci e, almeno a giudicare dall’odorino di bacon e formaggio che lo aveva raggiunto, anche qualcosa di salato. Davanti a lui, la coppietta in giardino continuava la sua passeggiata. Poteva quasi udire la voce di Saga, gentile, ilare, mentre descriveva i dintorni a Caroline. E lei in risposta lo guardava estasiata negli occhi, sorridendo, rispondendo magari con commenti sciocchi e poi stringersi al suo braccio e lasciarsi abbracciare.
Masticò amaro, fissando quei biscotti sul piatto. E nella sua testa si fece sentire la voce dell'adolescente Kanon che gli sbatteva in faccia senza pietà come stesse diventando un rosicone di prima categoria.
«Al diavolo! Sai che mi importa di quello che dici?» sibilò, rispondendo alla voce immaginaria.
Afferrò i lembi del tovagliolo e ne fece un fagotto che subito si mise in tasca. Poi, lasciò il piatto sul primo appoggio che gli capitò a tiro, per liberarsene. Quasi per caso l’occhio gli cadde sul cestino dei lavori che sua nonna quella mattina aveva lasciato vicino alla sedia a dondolo, dove era solita sedersi. Osservò quei piccoli capi in morbida lana e dai colori delicati.
«Ma perché la gente è così fissata nel voler fare figli?» mormorò, dopo un altro sbuffo, scrollando la testa.
Lui non ne sentiva affatto la necessità di avere attorno delle mini persone sempre col moccio al naso, che fanno i capricci o piangono per un nonnulla. E non comprendeva l'entusiasmo della nonna quando si parlava di neonati, né il suo darsi tanto da fare per realizzare corredini e quant’altro per i figli di estranei. Ma del resto, sua nonna era una donna e in quanto tale per natura guidata da un indelebile istinto materno.
Sbuffò per l'ennesima volta, mentre finalmente si decideva a scendere quei cinque gradini che separava il porticato dal giardino e si incamminava verso Saga e Caroline. Si mise le mani in tasca e procedette a passi lenti, misurati. Da lontano le voci di quei due gli arrivavano fastidiosamente felici. Non che augurasse loro infelicità eterna, ma che diamine, almeno che mostrassero un po’ di considerazione per il suo stato d’animo scocciato!

*****

«È un posto magnifico», sospirò Cora, guardandosi attorno con occhi pieni di meraviglia. Sapendo quanto fosse facoltosa la famiglia di Saga, se lo aspettava; eppure, essere lì, passeggiare in quel parco enorme, con tutte le sue varietà di piante e fiori che poteva competere con una riserva naturale, le faceva girare la testa per lo stupore. «Sei fortunato a poter vivere in questo paradiso.»
«Sì, è vero. È davvero bello e tranquillo, qui», confermò Saga, stringendole un poco la mano per rafforzare quella sua conferma e farle sentire che le era vicino. Stavano passando di fianco a dei grossi vasi di lavanda francese tutta in fiore e, con un gesto rapido strappò la cima di uno stelo, odorandola: era di un bel colore viola brillante e aveva un profumo pungente, ma gradevole. «Adatto a far crescere dei bambini», aggiunse, con lo sguardo che vagava lontano. Quello era un panorama che conosceva da sempre, ma che non si stancava mai di ammirare.
Cora abbassò lo sguardo per un momento. Sentiva uno strano formicolio nello stomaco e nel petto. Il calore del corpo di Saga era inebriante, la sua voce confortevole e il profumo dei fiori e delle piante che arrivavano alle sue narici si mescolavano all’odore naturale di lui in un mix che le faceva girare la testa. E poi c'erano quelle ultime parole che aveva pronunciato il marito. Lo aveva fatto a mezza voce, forse involontariamente, ma lei le aveva udite con chiarezza; l'avevano fatta emozionare, ma avevano anche rinnovato il suo senso di colpa.
«Sarebbe bello… un giorno», mormorò con voce tremolante.
I suoi passi iniziarono a diventare più lenti e incerti, mentre camminava sul prato all'inglese con quegli zoccoli da giardino di una misura più grande e di questo Saga se ne accorse subito.
«Ti senti bene?» le chiese, con un poco di apprensione. «Sei sicura che il malore di ieri fosse solo del mal d’aria?»
Lei annuì lentamente, ma in quel preciso momento le sue gambe cedettero del tutto e non finì a terra solo perché lui la sorresse. Respirò in modo stanco, con la bocca. Sentiva il suo stesso fiato uscire bollente.
«Sono una sciocca, mi dispiace», si scusò Cora, mentre Saga la faceva sedere sul prato e si accomodava vicino a lei. La vestaglia che ancora indossava la proteggeva dall'umidità dell'erba. Dopo colazione non aveva trovato l'occasione di tornare su in camera per cambiarsi, perché erano subito usciti in giardino. «È che non sono più riuscita a chiudere occhio e forse…»
«Credo che sia qualcosa di più di una notte insonne. Stai scottando», le disse lui, interrompendola e accarezzandole la guancia arrossata. «Vieni, torniamo dentro. Ti rimetti a letto e ti faccio preparare qualcosa che ti farà stare meglio», le propose, rialzandosi agilmente.
La giovane scrollò la testa, pregandolo di sedersi di nuovo, appoggiandosi poi al suo petto.
«Mi basta rimanere qui per qualche minuto. E poi, mrs Foster ha detto che devi prenderti cura di me.»
«Appunto!» disse Saga, con piglio infantile, come a ribadire che aveva ragione. «Non voglio che ti ammali. Quindi ora fai la brava e torniamo in casa.»
Cora si dimostrò altrettanto infantile e testarda, rifiutando per la seconda volta quell’invito che aveva del ragionevole. No, doveva essere sincera con se stessa: l’insistenza di Saga era molto più che ragionevole, considerato come lei si sentiva e, soprattutto, considerato le sue reali condizioni.
Sorrise quando lui alla fine l'assecondò. Sapeva che ci sarebbe stata più tardi l’occasione per farsi rinfacciare un amorevole “te l’avevo detto”; per ora le andava bene così. Chiuse gli occhi. Era piacevole e quasi ipnotico sentire la mano di Saga che le accarezzava con movimenti lenti il braccio, dalla spalla fino al gomito e viceversa. Era piacevole condividere il calore del suo corpo, il suo odore, quella giornata mite.
«Mi sembra di fare un pic-nic», mormorò, scivolando in un leggero dormiveglia.
Rimasero seduti sul prato per diversi minuti, senza aggiungere altro. Saga scrutava la superficie del lago, con quella sua acqua scura e le sue piccole onde sempre regolari. Lo scintillio del sole sull’acqua era bello, ma gli stava facendo venire il mal di testa. Pian piano si sdraiò con la schiena sull’erba, portandosi il braccio libero sotto la testa. Osservare quel cielo di primavera, con quella tonalità di azzurro che sembra quasi finto e le sue nuvole bianco latte era una cosa che non faceva più da quando era bambino; o almeno, non lo aveva più fatto con lo stesso spirito e la stessa genuina voglia di osservare, perché quando si diventa adulti si guarda tutto con occhi diversi.
Anche Cora si era sdraiata, rimanendo appoggiata al suo petto. Distese le gambe: i pantaloni del pigiama si erano alzati un poco, fino a metà polpaccio; con un braccio cinse la vita di lui, l'altro braccio, il destro, era invece piegato sul proprio ventre e la mano posata mollemente sul fianco.
«Di cosa avete parlato tu e Nanny?» le chiese Saga. Aveva provato a fare l’indifferente, ma era da prima di colazione che moriva di curiosità.
«Di alcune cose», rispose lei, distrattamente.
«Anche di… me?»
Cora si tirò su un pochino e si allungò per dargli un bacio sulle labbra. «Non ti preoccupare, mi ha detto solo cose belle. Cose che già sapevo.»
Saga le sorrise, scostandole un ricciolino dalla tempia. Gli sembrava che lei iniziasse a sentirsi meglio. La sua voce era dolce e non più rotta dall’affanno. Le gote, nonostante fossero ancora arrossate e spiccassero sul pallore che quel mattino la sua pelle aveva assunto, non erano più calde da farlo preoccupare e i suoi occhi castani non erano più lucidi di febbre, ma avevano ripreso un poco di vivacità. Anche se... in fondo a quel bel colore, caldo e rassicurante, intuiva un velo di tristezza al quale forse poteva dare una spiegazione.
«Perdonami», le disse, deviando lo sguardo da lei e fissandolo di nuovo sulle nuvole in cielo. «Ti ho delusa.»
«Perché dici questo?»
Saga fece un lungo respiro, senza risponderle. Preferì seguire il transito di una nuvola che si stava sfilacciando come zucchero filato.
«Perché pensi di avermi delusa?» insistette Cora. Con la mano sinistra gli accarezzò la fronte, scostandogli i capelli e poi gli stuzzicò la guancia con un filo d'erba.
«Abbiamo fatto tutto così in fretta. Senza dirlo a nessuno», disse lui, tormentandosi l'angolo del labbro inferiore con i denti. «Ho voluto affrettare le cose, ma forse tu preferivi avere più tempo. Forse avresti voluto vivere il periodo dei preparativi, decidere il come e il dove, avere la tua famiglia vicina. Non hai potuto contare sull’aiuto e il sostegno di tua madre, non hai potuto avere i suoi consigli...» Lasciò quella considerazione in sospeso, ma avrebbe voluto aggiungere molto altro.
Cora si appoggiò di nuovo con la testa a lui, la mano accarezzava lentamente il suo petto. Quelle parole la stavano facendo riflettere. Era vero, tutto si era svolto così in fretta che in quattro e quattr’otto erano sposati. Ma questo non valeva anche per Saga?
«Ti ho mai detto che anche i miei genitori si sono sposati in tutta fretta e in gran segreto? Non perché fosse un matrimonio di riparazione, io sono arrivata dopo, con tutta calma, ma perché il loro era stato una specie di un colpo di fulmine. E sono stati felici, finché è durata.» Sospirò nel parlare dei suoi genitori, i suoi occhi si velarono di lacrime e la sua voce tradì una certa commozione. «Per quello che riguarda me, non ho rimpianti per come sono andate le cose. Certo, non c’era mia madre al mio fianco, non c’era il mio fratellino Mickey, non c’era nessuno ad accompagnarmi all’altare… c’era però la persona più importante, quella che spero vorrà condividere il suo futuro con me: c’eri tu.»
«Però ti ho negato tutte quelle cose che di solito fa una promessa sposa: un anello di fidanzamento, l’esperienza della scelta dell’abito bianco, l'addio al nubilato... persino la fede nuziale.»
«Quella è solo rimandata, vorrai dire», puntualizzò lei, per nulla scoraggiata da quel discorso che invece stava iniziando a sortire qualche effetto su Saga. «Hai detto che sarebbe stato da lasciare a bocca aperta e adesso me lo aspetto!» disse, tirandosi su di nuovo e muovendo le dita sotto il suo naso, ridacchiando. «E comunque, nessuno ci proibisce, quando tutti avranno metabolizzato la situazione, di fare una cerimonia più tradizionale e rendere partecipi anche le nostre famiglie.»
Gli accarezzò la guancia e lo baciò teneramente sulla bocca, prima di lasciarsi andare a un bacio più coinvolgente e passionale. Di quelli pieni di sentimento che fanno dimenticare tutto e lasciano senza fiato.
«Forse...» disse lui, con le labbra umide e stanche, «potremmo valutare seriamente l'idea di un figlio e... iniziare subito.»
Saga sorrise all'espressione stupita di lei e all'imbarazzo che si stava manifestando sulle sue guance, colorandole di una sfumatura di rosso che trovava molto attraente. Non erano state però solo le sue parole a creare quella reazione, con la mano le stava accarezzando il gluteo, mentre la stringeva a sé.
«E vorresti farlo qui, ora?» disse lei, con un pizzico di ironia nella voce, ma anche con una certa emozione che non riusciva a nascondere.
«Non mi dispiacerebbe affatto», rispose lui, con una strana luce negli occhi. «Mi è mancata mia moglie. Mi è mancato condividere il letto con te.»
«Anch'io mi sono sentita sola, nel tempo che siamo stati separati», confessò Cora, sfiorandogli il profilo della guancia. Le stava venendo il batticuore nell'avvertire su di sé quello sguardo innamorato che valeva più di mille parole. Provava una forte emozione nel vedere quelle labbra dolci piegate in un sorriso sereno e nel sentire le sue carezze gentili sopra lo strato poco sensibile della flanella della vestaglia. Eppure, lo stomaco le si stava aggrovigliando anche per il senso di colpa che la tormentava.
«Un bambino...» mormorò con voce tremante e gli occhi che si stavano facendo di nuovo lucidi. «Sì, lo voglio anch'io.»
«Ma non iniziate a farlo proprio ora, per favore.» La voce scocciata di Aiolos arrivò inaspettata e fu accompagnata da una leggera ombra che oscurò il cielo sopra la testa di entrambi. «All'ospedale, il dottore ti aveva detto espressamente di riposare», arrivò poco dopo anche il rimprovero nei confronti della giovane, nel quale Aiolos sottolineò volutamente le parole “ospedale” e “dottore”.
«Ospedale? Dottore?» inquisì Saga. Il suo sguardo esprimeva tutta la sua confusione. «Allora è qualcosa di serio!» disse in tono preoccupato, puntellandosi sui gomiti.
Cora rabbrividì a quelle parole. Nonostante tutto il rimuginare di quella mattina era impreparata ad affrontare quell'argomento. Le sue mani divennero gelide e tremavano un poco. Abbassò lo sguardo.
«No, non è nulla di preoccupante. È solo un po' di anemia. Il livello di ferro nel sangue è un po' basso. È per questo che in questi ultimi giorni sono più stanca», rispose, facendo un respiro profondo e sperando di essere stata abbastanza convincente; ma anche se aveva appena mentito a Saga, non era stata una completa bugia. Si sentiva stanca, senza forze, eppure il suo cuore batteva tachicardico. «Dati i miei precedenti, sono tutti più apprensivi del necessario.»
«Te lo avevo detto che sarebbe stato meglio se ti mettevi a letto», la rimbrottò Saga. Ma il suo tono non era affatto arrobbiato. Si mise seduto e le tolse un filo d'erba dai capelli.
La giovane signora Hayes abbassò la testa, girandosi un poco e dando le spalle al marito. Raccolse un ginocchio al petto, ma in quel momento avvertì una profonda fitta al ventre che le mozzò il respiro; per sua fortuna Saga non se ne accorse.
«Dai, rientriamo in casa», le propose Saga, posando le mani sulle sue spalle.
Si accovacciò e, in modo inaspettato per Cora, la prese in braccio, alzandosi con un movimento fluido e senza apparente sforzo.
La giovane invece lanciò un gridolino di sorpresa.
«Aggrappati forte a me», le disse con un sorriso. Poi, la prese più saldamente e si incamminarono verso la villa.
Aiolos sbuffò. Avrebbe dovuto immaginare che sarebbe potuta finire in quel modo, con i due che avrebbero continuato a fare gli sposini innamorati. Rabbrividì a tali considerazioni e li seguì a distanza di sicurezza, ovvero sufficiente affinché non fosse investito dalla scia dei cuoricini svolazzanti che si lasciavano dietro. Saga era così ottuso quando c'era di mezzo l'amore. Sospirò rassegnato, ma subito si formò uno strano ghigno sulle sue labbra, perché immaginare il momento in cui l'altro avrebbe scoperto la verità sarebbe stata una soddisfacente rivincita sul principino di casa Hayes.

*****

«Cosa c'è che ti dà pensiero?»
Kanon le diede le spalle, mentre si era riallacciava i pantaloni, grugnendo qualcosa di incomprensibile; ma anche se non avesse detto nulla sarebbe bastata l'espressione che aveva mantenuto da quando era arrivato negli uffici della società e poi per tutto il tempo in cui avevano fatto sesso, per far intendere che quella mattina non era aria.
La donna fece spallucce per il comportamento poco collaborativo dell'altro, riabbassandosi la gonna. La rigirò un poco – affinché fosse di nuovo dritta e con la chiusura sul fianco – e se la lisciò un paio di volte con le mani, per togliere eventuali pieghe sospette. Anche se ormai tutti, negli uffici del piano, sapevano cosa accadeva quando Kanon Hayes passava per quei corridoi, nonostante lei facesse del suo meglio per essere discreta.
Si avvicinò alla scaffalatura di metallo dello stanzino delle fotocopiatrici, dove erano riposte le scatole con le scorte delle risme di carta e quelle dei toner, e riprese gli occhiali che vi aveva appoggiato poco prima, rimettendoseli sul naso.
«Non hai dato il tuo solito. Cos'è che ti preoccupa così tanto da monopolizzare i tuoi pensieri anche quando stai con me? Lo sai che se hai qualche problema, puoi parlarmene. Il mio ufficio è sempre aperto», gli disse, rassettandosi la pettinatura.
«Preferisco quando sono le tue gambe a essere aperte», mormorò lui.
Non gli importava di essere poco elegante nelle sue esternazioni da non farsi sentire e quando lei gli rivolse un meritato epiteto a mezza voce, non se la prese poi molto.
«È colpa di mio fratello», sbuffò, infilandosi la camicia nei pantaloni e sistemando la cintura nei passanti.
«Di nuovo? Povero piccolo...» disse la donna con finta compassione, prendendogli il viso fra le mani e dandogli un bacio sulle labbra. Non per questo però si era risparmiata lo sguardo risentito di Kanon.
Eleonor sorrise materna. Da quando Shion Hayes l'aveva assunta come sostegno psicologico per i dipendenti, lei e Kanon avevano subito intrecciato una relazione sessuale clandestina. Del resto, lei era bella e decisamente sensuale, per essere una strizzacervelli. E, cosa che non guastava, particolarmente sicura di sé. Insomma, era proprio il tipo di donna che aveva sempre attirato l'attenzione dell'erede di casa Hayes. Ma non c'era da dimenticarsi di un altro fattore importante: da sempre, Kanon aveva una predilezione per le donne più grandi di lui.
«E nelle questioni amorose, come vanno le cose? Ti vedi ancora con quella hostess? Come si chiamava, Kimberly, vero?» chiese lei, mentre gli risistemava il nodo della cravatta.
«Che fai, dottore, vuoi psicanalizzarmi? O forse sei gelosa?» ribatté Kanon, piegando le labbra in una smorfia provocatoria. «Lascia perdere.»
Le accarezzò l'angolo della bocca col pollice, dove si era fatta una piccola sbavatura del rossetto rosso passione che portava quel giorno. La guardò per qualche secondo in quegli occhi azzurro cielo che sembravano ancora più intensi dietro le lenti degli occhiali e la baciò. Non era stato però un bacio passionale, né dolce. Solo possessivo e invadente, addirittura rabbioso, che le tolse ogni forza e la volontà di reagire. Quando Kanon si staccò da lei, le ginocchia della donna cedettero e lei si dovette aggrappare alla sua camicia per non cadere a terra.
«Tu hai qualche problema», ansimò la donna. Alzò lo sguardo su di lui e gli rifilò un sonoro ceffone. «Perdi le attenzioni di tuo fratello e allora ti comporti da stronzo con gli altri!»
«Immagino che le nostre scopate siano finite.»
Kanon controllò l'ora sullo smartphone, commentando distrattamente che a quel punto alla riunione dovevano aver superato la parte più noiosa e poteva quindi presentarsi e prendere il proprio posto. «Beh, finché è durata mi sono divertito. Ma ora...»
«Ora mi scarichi perché sei uno stronzo.»
“E due...” pensò Kanon, senza scomporsi. Tanto ci era abituato a essere etichettato in quel modo dalle donne che aveva frequentato in quegli anni. E non poteva dar loro torto, visto che passava da una all'altra con una frequenza tale che quasi non aveva il tempo di chiederne il nome.
«In teoria dovrei scaricarti perché sei manesca e continui a darmi dello stronzo», le disse, con tono vagamente sarcastico. «In pratica dovrei farlo perché sono ufficialmente fidanzato, o non te lo hanno riferito quelle chiacchierone delle risorse umane?»
«E una cosa del genere quando mai ti fermerebbe dal farti una bionda o una bruna, o dallo scoparmi ogniqualvolta passi per la sede di Boston?»
Kanon non le diede corda, non aveva intenzione di iniziare una discussione sulla fedeltà o il rispetto delle donne, che francamente in quel momento non gli interessava. Raccolse da terra la giacca, la sploverò con la mano per qualche secondo e, rimettendosela addosso si apprestò a uscire.
«No, per favore, non andartene via così!» lo fermò lei, quando il giovane aveva già aperto la porta. «Lo sai che non mi piace lasciare le cose in sospeso, perché poi si trasformano in problemi; e questi successivamente diventano talmente grossi che sono difficili da risolvere.»
Kanon sbuffò, appoggiandosi a una delle fotocopiatrici. Sapeva che lei era il tipo che non mollava l'osso e l'ultima cosa che aveva bisogno era che si aggiungessero problemi ad altri problemi; ma forse, poteva anche darsi che... ma sì, in fin dei conti Eleonor era una psicologa, magari poteva essergli di qualche utilità, forse avrebbe capito perché ultimamente si sentiva diverso e in collera con il fratello.
«Saga si è sposato senza dire nulla a nessuno. Neanche sapevo che faceva sul serio con quella ragazza che frequentava di nascosto. Ha così tanti segreti che non sono più sicuro di conoscerlo», rivelò, passandosi una mano dietro il collo, che avvertiva irrigidirsi con il passare dei secondi.
«Tutto qui? Sei depresso e intrattabile solo perché tuo fratello si è sposato? È un po' troppo tardi per soffrire ora della sindrome del gemello scomparso!» rispose lei, con una breve risata. Lui voleva drammatizzare e lei gli stava dando una sorta di appiglio medico dal quale partire per riflettere, anche se era certa che sarebbe stato inutile. «Datti una svegliata, caro. E pensa a farti una famiglia tutta tua!»
Kanon alzò lo sguardo furibondo su di lei. Non si aspettava di essere deriso in quel modo, poiché lui si sentiva tradito dal suo stesso gemello. Perché nessuno riusciva a capirlo?
«Non guardarmi in questo modo. Stai sbagliando approccio alla cosa», continuò Eleonor. «Dimmi, quanto della tua vita hai condiviso con tuo fratello? Quanto gli dici delle tue relazioni sessuali e dei tuoi veri sentimenti? E quanto invece ti sei davvero interessato della sua vita e di ciò che prova? Ebbene, signor vicepresidente, quando troverai le risposte a queste domande, troverai anche la soluzione ai tuoi patemi d'animo», gli disse, prima di dargli le spalle per uscire; e questa volta sarebbe stata lei a lasciarlo lì, da solo, in quell'angusto stanzino delle fotocopiatrici.
«Eh no, non mi lasci in questo modo!» la fermò lui, afferrandola per un braccio e fissandola negli occhi, respirando in modo pensate. Lei non sembrava né impressionata, né spaventata e questo lo turbava. Non che fosse mai stato violento con le donne; anzi, tutto il contrario: le faceva cadere ai suoi piedi con il suo fascino e con la sua caratteristica galanteria sfrontata che al gentil sesso piaceva e lusingava. Ora però si sentiva una persona così distante da quello che era sempre stato. Lui stesso non si riconosceva in quel comportamento.
Eleonor non aveva alcuna intenzione di cadere nella provocazione di Kanon. Era troppo matura e soprattutto troppo esperta nel capire le persone per non vedere che l'atteggiamento dell'amante era dettato da problematiche che trovavano origine lontano nel tempo. Gli mostrò un sorriso comprensivo e si lasciò trascinare vicino a lui, mentre si appoggiava di nuovo alla fotocopiatrice, mesto. Gli passò le mani fra i capelli, incoraggiandolo a spostare indietro la testa.
«Sei rimasto ancora un bambino, vero? Quando le cose non vanno come vuoi tu, reagisci male», gli ussurrò con tono materno. «Dovresti seriamente considerare l'idea di passare dal mio ufficio per una bella chiacchierata.»
«Lo sai, non mi piace parlare troppo. Preferisco usare il tuo ufficio per cose più piacevoli.»
Lei gli sorrise e gli diede un bacio sulla fronte. Gli disse che anche se fidanzato, lei ci sarebbe sempre stata per lui, sia per una scopata veloce, sia per parlare. Poi, uscì dallo stanzino per tornarsene nel proprio ufficio.

*****

«Dai, lasciami scendere, ora mi sento meglio!» esclamò Cora, con un tono di finto rimprovero. «Voglio camminare con le mie gambe!» insistette, scalciando con le gambe per indurre il suo sposo a fare come chiedeva, o quanto meno ad ascoltarla. Le era però risultato impossibile rimanere col broncio e soprattutto concentrata sul suo obiettivo di rimettere finalmente i piedi a terra, poiché Saga – sordo a tutte le sue proteste che erano iniziate già in giardino – continuava imperterrito a farle fare il giro turistico della casa tenendola saldamente fra le braccia. Anzi, di tanto in tanto, con puntiglio dispettoso la faceva sobbalzare; e lei, ogni volta, si stringeva al suo collo con un gridolino, per poi ridere divertita.
«Basta, lasciami andare!»
«Signora Hayes, questa è solo la prova generale per quando ti farò fare il giro della nostra casa», le disse Saga, mostrandole un sorriso magnifico, che le scaldò il cuore, facendole dimenticare per un attimo le sue tribolazioni.
Era una novità per quella casa e quella famiglia. Non era infatti mai accaduto prima di allora che nella grande villa degli Hayes si fossero sentite le risate di una signora Hayes. Quelle di Caroline Miller Hayes erano forse un poco infantili, data la sua giovane età, ma genuinamente felici. Erano un soffio di freschezza che si faceva largo fra il vecchiume dell'antiquariato di cui quella casa era piena e del ricordo dell'arcigno mr Hayes che mai l'aveva lasciata.
«Mettimi giù! Mettimi giù!» disse lei, scoppiando di nuovo a ridere. E questa volta, sfruttando un momento di cedimento dell'altro, riuscì a liberarsi.
Corse a piedi nudi verso l'ingresso, poiché le scarpe da giardino che aveva calzato fino a poco prima le aveva perse, o meglio, gliele aveva fatte togliere Saga prima di rientrare in casa, per andare a rifugiarsi al piano di sopra; ma quando si affacciò nell'ampio atrio e si accorse della presenza dei due uomini, si bloccò di colpo.
«Presa!»
Saga la raggiunse e subito le cinse la vita, facendola sussultare dalla sorpresa. La baciò sul collo, stringendola in un abbraccio, ma l'attenzione della giovane era ormai catalizzata ai due uomini che si erano voltati verso di loro.
«Mr Price? Cosa... cosa ci fa qui?» balbettò. D'istinto si strinse la vestaglia addosso, colta da un improvviso senso di imbarazzo.
«Caroline Miller», la salutò l'altro, ugualmente sorpreso. «Non mi aspettavo di trovarti qui. Big Phil lo sa che frequenti posti del genere?» disse, con un tono a metà fra il sarcastico e il disprezzo, indicando con la mano quel lussuoso ambiente. Quando poi spostò lo sguardo anche su Saga, sgranò gli occhi. Se pochi minuti prima era rimasto di stucco alla vista di Kanon, di fronte a Saga era praticamente impietrito, poiché quel giovane accanto a Caroline aveva una più spiccata somiglianza con un uomo con il quale aveva avuto a che fare quando era un giovane poliziotto.
«Ehi, ma quello non se n'era già andato?» commentò il detective Moore, dando un colpetto col gomito all'altro.
«Salve! Voi chi siete?» disse Saga.
«Il signore è Edward Price, il titolare dell'agenzia investigativa nella quale lavoro», lo presentò Cora, indicando l'afroamericano. Nella sua mente però, si chiese con preoccupazione se avesse ancora o meno un lavoro.
«Detective Warren Moore, della polizia di Boston», si presentò l'altro, mostrando il distintivo. «Lei invece?»
«Saga Hayes, figlio di Shion Hayes. E lei è mia moglie Caroline», rispose Saga. «Polizia? È successo qualcosa?» domandò poi, con tono stranito.
«Siamo venuti per parlare con mr Hayes», rispose il detective.
«È venuto anche Phillip», aggiunse l'investigatore privato.
«Cosa?» Cora fu scossa da un brivido. «Perché? Quale motivo lo ha portato qui?» mormorò, come se fosse terrorizzata da quella notizia. Ricordava la reazione del patrigno quando gli aveva detto che sarebbe andata a convivere; possibile che l'uomo non si fosse dato pace e alla fine lo avesse rintracciato solo da una fotografia? Sì, era possibile. In fin dei conti lo zio Phil era un bravissimo investigatore privato e non sarebbe stato strano che avesse sfruttato i suoi agganci nella polizia per scoprire l'identità di Saga, ma non era necessario, perché gliene avrebbe parlato lei quando si sarebbe sentita pronta.
Iniziò a avvertire delle fitte violente al ventre. Forse per lo stress improvviso della situazione, ma se invece fossero state dovute ad altro?
«Cora, dove stai andando?»
«Di sopra, a cambiarmi. Non sta bene che sia ancora in questo stato», rispose lei, abbassando il capo e stringendosi di nuovo la vestaglia addosso. La voce le uscì incerta e timorosa. Barcollò nel fare quei pochi passi per arrivare allo scalone. Il dolore si stava facendo più intenso e le girava la testa.
«Ti senti bene?» chiese Saga, raggiungendola e sfiorandole una spalla, ma lei si ritrasse, scusandosi subito dopo.
Se il giovane non ci aveva fatto troppo caso alla reazione della sua sposa, questa non era invece sfuggita al detective Moore. L'uomo passò il suo sguardo prima su di lei e poi su Saga, infine ancora su Caroline. Gli era già capitato di trovarsi in situazioni del genere: quando era ancora un semplice poliziotto di pattuglia talvolta veniva chiamato a risolvere delle liti domestiche e quasi tutte nascondevano dei maltrattamenti sulle mogli.
«Signora, è sicura che vada tutto bene?» domandò Moore, frapponendo fra la giovane donna e Saga. La fissò negli occhi e li trovò sfuggenti: ne era certo, stava nascondendo qualcosa.
Caroline iniziò a respirare in modo affannoso, accasciandosi sui primi gradini dello scalone. Alzò lo sguardo su Saga, mentre si stringeva le mani al ventre; i suoi occhi erano spaventati.
«Cora?» la chiamò Saga, avvicinandosi di un passo a lei.
«Resti indietro, signore.»
«Ma...»
«Le ho detto di stare indietro!» Moore gli intimò quell'ordine portandosi la mano alla fondina della pistola.
«Ehi, calmati! Non c'è bisogno di alzare i toni in questo modo», intervenne Price. Si chinò su Caroline e le domandò ciò che per i due uomini era evidente, vista la grande esperienza che potevano vantare, ma doveva comunque accertarsene. «Perdonami, Caroline, ma devo insistere. Permettimi...» le disse con tono rammaricato. Poi, superando le ritrosie della giovane, con molta delicatezza lui le slacciò la cintura della vestaglia e le scoprì il ventre, portando alla vista di tutti l'enorme ecchimosi scura.
Quando notò quel segno, Moore – che aveva ancora la mano posata sull'arma d'ordinanza, mentre con l'altra teneva a distanza Saga – scambiò uno sguardo d'intesa con Price e rapido estrasse la pistola, puntandola contro il giovane Hayes.
«Bastardo...» lo apostrofò, guardandolo con disprezzo. «Mettiti in ginocchio e mani sulla testa! Sei in arresto, stronzo!» gli urlò, puntandogli la pistola proprio in piena faccia.
Saga rimase immobile, con gli occhi sgranati, atterrito da quella situazione così surreale. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, né come fossero arrivati a quel punto. Sentiva Caroline piangere e gridare qualcosa, ma non riusciva ad afferrarne il senso, poiché la voce della giovane era sovrastata da quella del poliziotto che continuava a minacciarlo e a dargli ordini. Provò ad avvicinarsi a lei, ma all'improvviso avvertì un forte dolore alla testa e cadde a terra.
«Che diavolo stai facendo, Moore?» urlò Price, trattenendo Caroline che voleva raggiungere Saga.
«Hai il diritto di rimanere in silenzio, qualunque cosa dirai potrà essere usata contro di te in tribunale. Hai il diritto a chiamare un avvocato, se non puoi permettertelo te ne verrà assegnato uno d'ufficio. Hai compreso i tuoi diritti?» Mentre elencava i suoi diritti a Saga, Moore lo costringeva a terra e gli ammanettava le mani dietro la schiena. Poi, si avvicinò al suo orecchio. «Dammi un buon motivo per darti una bella lezione», lo provocò, facendogli sbattere la testa contro il pavimento.
«Lo lasci andare! Lo lasci andare! Saga non ha fatto niente!» continuava a gridare con disperazione Caroline. «Aiolos! Ti prego, aiutalo! Aiutalo!» si rivolse all'altro, non appena lo vide.
«Ma che...» Aiolos non ci mise molto a inquadrare la situazione, avendone vissuta una molto simile solo pochi mesi prima. Corse subito verso Saga, per aiutarlo, ma anche lui fu bloccato dal detective che gli intimò di fermarsi, puntandogli l'arma contro, mentre con un ginocchio teneva il rampollo degli Hayes premuto a terra. Strinse le mani a pugno: era così vicino all'amico ma non poteva fare nulla per lui a parte rimanere a guardarlo mentre veniva costretto in una posizione sottomessa. Sentiva una grande frustrazione e una gran rabbia, perché anche lui aveva conosciuto quel tipo di umiliazione che ora stava sperimentando Saga.

Le grida dei presenti avevano richiamato nell'ingresso anche le altre persone che abitavano la casa. Da un'altra entrata arrivarono Nanny e Francine.
«Stai indietro, nonna!» urlò Aiolos, spostandosi di lato per frapporsi tra lei e il poliziotto, poiché l'uomo iniziava a dare eccessivi segni di nervosismo, alzando l'arma anche contro le due donne.
«Basta così, Moore!» lo riprese Price, nel momento stesso in cui accorrevano anche Burton e Shion Hayes, seguiti da Shura.
«Ed, che diavolo sta succedendo qui?» disse Phillip Burton. Osservò la situazione e, con piglio deciso, ordinò a Moore di riporre la pistola, ma questi non gli diede retta.
«Ragazzo, metti subito via quella pistola! Non fartelo ripetere un'altra volta!» intervenne Price, sovraponendosi alla sua voce dell'ex capitano.
Burton vide la figlioccia in lacrime, seduta sui gradini. «Caroline! Stai bene?» le chiese, inginocchiandosi di fronte a lei e stringendola in un abbraccio. «Ed, spiegami!» si rivolse all'altro, mentre Shion e Shura avevano subito raggiunto Saga, rimasto rannicchiato a terra, tremante e con lo sguardo vacuo.
Shion provò ad accarezzargli una guancia, la sua pelle era gelida e pallida come quella di un fantasma. Lo aiutò a mettersi seduto e poi tentò di abbracciarlo, ma Saga lo scacciò con uno scatto rabbioso.
«Scusami, Phil, quello ha perso la testa dopo che ha visto la ragazza in quelle condizioni», disse Price.
«Hanno visto il livido, zio Phil. E poi... e poi è successo tutto così in fretta che io... Mi dispiace», pianse Cora, con il viso nascosto nel petto dell'uomo.
«Bambina mia», le sussurrò lui, accarezzandola sulla testa. «Ed, libera quel giovanotto. Non le ha fatto niente. Caroline ha avuto un piccolo incidente quando era a Philadelphia.»
«Sempre violenti voi della polizia, vero? Non cambierete mai», spuntò con disprezzo Shura.
«Mi dispiace per il tuo ragazzo, Hayes», si scusò Burton, con tono sincero. Poi, si rivolse di nuovo a Caroline. «Tua madre ha sbagliato ha lasciarti partire, dopo quanto ti è successo. Vieni, tesoro, ti riporto a casa con me. Ti riporto a Philadelphia.»
«No, zio Phil! Non voglio!» disse lei, scrollando la testa.
«Ma sii ragionevole! Avevi promesso a tua madre che ti saresti presa cura di te stessa. Invece non stai bene. E di certo non migliorerai con tutto questo stress», insistette l'uomo. «Dopo l'aborto...»
«Smettila! Smettila!» gridò lei, terrorizzata. Spostò il suo sguardo su Saga, sperando non avesse sentito quelle parole, invece lui la stava fissando sconvolto.
Caroline provò ad alzarsi, ma le fitte al ventre stavano diventando più forti e insistenti. Le sue gambe erano preda di forti tremori e lei ricadde sul gradino. Trattenne il respiro per il forte spasmo che aveva sentito.
«Caroline.»
«Ce la faccio», disse lei, rifiutando l'aiuto di Phillip. «Vado di sopra a cambiarmi e poi...» si girò per un momento verso Saga, che invece si era chiuso in se stesso. Si morse il labbro, abbassando lo sguardo.
«Aiolos» disse Saga, in un sussurro.
Aiolos gli mise una mano sulla spalla. «Ci penso io», disse, senza aggiungere altro.




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Capitolo 29
*** Capitolo XXVIII ***





XXVIII



Aiolos non era di certo un sensitivo, ma lo aveva predetto che molto presto sulla famiglia Hayes sarebbero piovuti guai. Che poi sarebbe toccato a lui rimediare, sopratutto se questi guai riguardavano da vicino uno dei gemelli – Saga in particolare –, anche questo era abbastanza prevedibile, così come il senso di fastidio che lo avrebbe accompagnato. Eppure, quando era stato tirato in causa, aveva accettato senza pensarci un attimo; ma piuttosto che ammettere a voce alta che lo faceva perché era stato proprio Saga a chiederglierlo, si sarebbe fatto castrare. E senza anestesia! E ora, a distanza di neanche un giorno, si ritrovava ancora una volta invischiato nelle vicende sentimentali di quei due impiastri.
Con qualche difficoltà riuscì a inserire e girare la chiave nella serratura della porta d'ingresso. Una mano era occupata a tenere due grosse borse della spesa, mentre sulla spalla destra reggeva la tracolla del trasportino della gattina che al suo interno si stava agitando.
«Un'altra femmina Hayes...» sbuffò, alzando gli occhi al cielo; ma ciò che intendeva dire era: “altri grattacapi”. Non era mai andato matto per gli animali, specialmente i felini, troppo imprevedibili per i suoi gusti; e quel felino in particolare pareva rispecchiare in tutti i sensi i suoi due padroni. «E stai buona, accidenti!» sbottò, facendo un mezzo movimento con la spalla.
Aveva la sensazione che la gattina, nel continuare a muoversi, grattare e spostarsi da un lato all'altro del trasportino, gli facesse scivolare la tracolla giù dalla spalla e, nel cercare di tenerla più stabile, perdere gradualmente la presa sulle buste della spesa.
Dopo aver ritirato la chiave – ed essersela anche quasi lasciata sfuggire dalla mano –, con il piede diede una leggera spinta alla porta, riuscendo finalmente a entrare in casa. Quando aveva accompagnato Caroline non ci aveva fatto caso. Ora invece, stava subendo in pieno l'impatto con quell'ambiente e si sorprese dei cambiamenti radicali che vi erano stati fatti. Se prima dimostrava tutti i “suoi anni”, ora aveva completamente cambiato pelle. Niente più predominanza di legno scuro, carte da parati vecchie e tinte opprimenti, ma tanto bianco, alluminio e macchie di colore qua e là, che finalmente avevano fatto entrare quel vecchio appartamento nel terzo millennio.
Mentre si dirigeva verso la cucina studiò con lo sguardo il nuovo arredamento e la sua disposizione. Forse adesso la casa era persino troppo moderna. Però doveva ammettere che Saga aveva un ottimo gusto per il design; era un aspetto che non conosceva e che mai si sarebbe aspettato da uno come lui. Rallentò il passo, sovrappensiero. Fece appena in tempo a posare le buste della spesa sul piano in granito scuro dell'isola, prima che queste – o Kitty – gli scivolassero dalle mani per atterrare poco delicatamente a terra. Sbuffò nel liberarsi del trasportino, posando anch'esso sul piano di lavoro, accanto alla spesa. Al suo interno, la bestiola era forse più insofferente di lui per quella situazione: continuava a girare su se stessa come se volesse catturarsi la coda, si ribaltava prima da un lato e poi dall'altro e grattava forsennata, incastrandosi più volte nella stoffa trapuntata con le unghiette. Dall'esterno, il trasportino sembrava muoversi indemoniato.
Aiolos si chinò un poco all'altezza della grata metallica posta sul lato corto e sogghignò nel sorprenderla in una posizione contorta e imbarazzante. Anche lei lo guardava fissa, a occhi sgranati: con la testa piegata sul fondo, il sedere per aria e le zampette posteriori che si muovevano a scatti, faticando a toccare il materassino interno.
Per qualche momento si divertì a stuzzicarla dando dei colpetti con la mano, o battendo l'unghia dell'indice sulla grata. Giudicando poi che il felino aveva “sofferto” abbastanza, si raddrizzò e, con un gesto rapido, aprì la zip sulla parte superiore. Poi, con tono di sufficienza, le disse che era libera, esortandola a uscire da lì dando un altro colpetto al lato del trasportino.
Kitty si ribaltò un'ultima volta, si rimise in piedi e sbucò fuori con la testa, drizzando le orecchie. Le sue pupille si restrinsero subito in due fessure, lasciando spazio al colore ambrato delle iridi. Uno, due tentativi, che a occhi inesperti potevano sembrare tentennamenti impauriti. Invece, con un balzo elegante saltò fuori, atterrando flessuosa sul piano di granito. Per un attimo fiustò gli odori circostanti, attirata soprattutto dagli alimenti nelle buste lì vicino. Infine, si avvicinò al bordo del piano dell'isola e, allungandosi verso il basso, si lasciò cadere, atterrando sul pavimento di parquet scuro in modo perfetto. Si diede due leccate sul fianco in modo nervoso e corse via, verso la camera da letto. Era come se, nonostante il poco tempo trascorso in quella casa, tutti quei cambiamenti e l'odore stesso dell'ambiente, che non era più lo stesso di prima, lei sapesse comunque di essere tornata finalmente a casa.
Il giovane la seguì con lo sguardo per un po', finché lei non sparì dalla sua vista, distraendosi con la divertente idea che Saga avrebbe avuto il suo bel da fare con quella bestiola; e le sue labbra si piegarono in uno strambo sorriso. Peccato non sapesse quanto in realtà l'oggetto del suo scherno avesse una naturale sintonia con Kitty. Poco dopo però la sua fronte si corrugò: la casa gli sembrava troppo silenziosa.
«Caroline!» chiamò, con tono severo. Nessuna risposta. Sbuffò, commentando che non aveva voglia di starle dietro e farle da babysitter. «Caroline, ci sei?» riprovò, ma subito si diede dell'idiota. Era improbabile che nel poco tempo nel quale si era assentato – e soprattutto nelle precarie condizioni in cui si trovava la ragazza, che a quel punto erano più emotive che fisiche – fosse potuta uscire di casa.
Scrollò la testa, enfatizzando quel suo stato d'animo con un eloquente gesto della mano e si mise a sistemare la spesa nel frigorifero e nei vari armadietti. Gli ci vollero diversi tentativi per trovare la collocazione giusta per ogni acquisto. Non che avesse preso chissà che, giusto le cose essenziali per un paio di giorni e qualcosa di già pronto, affinché la giovane potesse riprendersi con tranquillità e non dovesse pensare anche a prepararsi da mangiare. Chiudendo l'antina dell'armadietto si fermò di nuovo, tendendo le orecchie, ma gli unici rumori che ora si sentivano erano quelli del leggero grattare di Kitty sulla porta e i suoi miagolii incompleti.
«Davvero buffo come in realtà siano così diversi da come ci fanno credere da bambini», commentò.
I richiami della gattina si stavano facendo via via più insistenti e rumorosi, irritanti per uno con così poca pazienza come lui. Sbuffò per l'ennesima volta e si diresse alla camera da letto padronale.
«Smettila! Sciò! Via di qui!» la rimproverò, provando a smuoverla dalla sua posizione con il piede. Kitty però, seduta a terra e con una zampetta pronta a grattare ancora sulla porta, alzò il musetto verso di lui e lo guardò con occhi sgranati, ma senza alcun timore. Sbadigliò e, subito dopo, la sua attenzione tornò alla porta, riprendendo a muovere la zampetta, anche se questa volta erano colpetti leggeri come carezze.
«Non riesco a farmi dare retta neanche da te...» grugnì, scrollando la testa.
Bussò un paio di volte con le nocche e chiamò Caroline, cercando di essere discreto, ma di nuovo non ricevette risposta. Allora aprì piano, uno spiraglio, facendo capolino all'interno della camera con la testa. E Kitty ne approfittò per intrufolarsi dentro, balzando sul letto e acciambellandosi fra i cuscini. La camera era vuota, immersa nel tenue chiarore della tenda color avorio che smorzava la luce del sole pomeridiano; le coperte erano ancora perfettamente lisce e ben tirate, persino il plaid ripiegato per bene sul fondo del letto. Borbottò qualcosa, mentre lasciava la porta socchiusa, cosicché la bestiola non rimanesse prigioniera e non combinasse guai.
Tornò in cucina. Da uno scomparto laterale del trasportino estrasse due ciotole di metallo, messe una dentro l'altra, e le sistemò a terra, vicino alla finestra. Una la riempì di acqua fresca presa dal rubinettoo, nell'altra vi versò un paio di manciate di croccantini. Se con quel rumore avesse attirato Kitty in cucina, tanto meglio, altrimenti avrebbe mangiato quando ne avrebbe avuto voglia.
Riaprì l'armadietto nel quale poco prima aveva ritirato una confezione di cookies e se n'era preso uno, come ricompensa per quella perdita di tempo, prima di passare nel salotto. Se Caroline non era nel suo letto, allora era rimasta sul divano, dove lui l'aveva lasciata prima di uscire per le commissioni. E infatti la ritrovò proprio lì, sdraiata – o meglio rannicchiata – sul divano, con il viso pallido e le guance ancora umide di lacrime.
«Caroline» Provò a smuoverla con delicatezza, ma lei sembrava così sfinita tanto da dormire profondamente.
Sbuffò. Certe cose lo rendevano più insofferente del solito; e vedere una donna prostrata come lo era Caroline in quel momento, gli dava ancora più fastidio, poiché gli ricordava sua madre – quando lui era solo un bambino – che piangeva ogni volta che Thomas le comunicava che sarebbe stato trasferito in un'altra base, più lontana da Boston. E lei andava a sfogarsi dalla nonna e a piangere sul divano di casa Hayes, fino ad addormentarsi.
Aiolos scrollò la testa e si chinò sulla giovane moglie di Saga. Se la caricò in braccio e la portò in camera, posandola sul letto e coprendola infine con il plaid. Le concesse un ultimo sguardo, mentre si massaggiava piano la spalla infortunata, prima di uscire dalla stanza: non capiva cosa lui ci trovasse in lei, o forse, quello che non capiva era cosa gli uomini in generale ci trovassero nelle donne. Prese lo smartphone dalla tasca dei pantaloni e, nel socchiudere di nuovo la porta, compose il numero della madre.
Con tutto quel movimento Kitty mosse a malapena un orecchio, continuando a dormire tranquilla, mentre Cora si lamentava in modo sommesso e si girava stancamente sul fianco sinistro.

*****

Avrebbe dovuto prendere e andarsene da lì. Il suo dovere l'aveva fatto, così come aveva promesso all'amico. Invece era rimasto in quella casa, passando il tempo a esplorarla – di nuovo – e successivamente a leggere, seduto comodo sul divano del salotto. Era stato così assorto nella lettura che non si era accorto che il sole era ormai calato oltre le case e la luce stava andando affievolendosi rapidamente.
Con un gesto secco richiuse il libro senza mettere un segno: tanto non lo avrebbe più ripreso in futuro. Prima di alzarsi dal divano girò lo guardo verso la camera da letto dove Caroline riposava ancora, o così almeno ne era convinto lui. Controllò l'ora, borbottando che era quasi il tempo della cena. Si grattò la nuca, sbottando un “ma che diavolo!” e alzandosi da lì. Non perse tempo a pensare alle conseguenze della sua permanenza nella casa di una donna sposata; le sue gambe lo avevano già portato in cucina, di fronte al frigorifero, con la mano che ne stringeva la maniglia. Con un movimento svogliato lo aprì e tirò fuori la porzione di zuppa di pollo che si era fatto fare al ristorante cinese, mentre era sulla via del ritorno verso l'appartamento sopra il negozio. Tutti dicevano che era un toccasana per quando non si stava bene e ci si doveva tirar su, quantomeno dal punto di vista fisico. La versò in una scodella e la scaldò al microonde per un minuto circa.
Quando si presentò nella camera di Caroline, con entrambe le mani occupate da un vassoio per la colazione a letto, Aiolos la trovò che parlottava con la gattina, la stuzzicava con il dito e la guardava con occhi tristi. Lei era ancora sdraiata sul fianco e non aveva accennato a muoversi neanche quando la porta cigolò un poco nell'aprirsi.
«Ti senti un po' meglio?» le chiese, mentre faceva il giro del letto. Attese che lei si raddrizzasse e si sedesse, prima di sistemarle il vassoio sulle gambe.
«Non ho fame...» sospirò lei, tornando a guardare Kitty che invece, distratta dal profumo della zuppa di pollo, si era ben presto dimenticata del gioco.
«Lo diceva anche mia madre quando stava nelle tue stesse condizioni», ribatté Aiolos, per nulla impietosito. Anzi, le parole di Cora lo aveva infastidito e non fece nulla per dissimulare ciò che provava. «Per il gelato però di fame ne aveva eccome! E ne divorava barattoli interi», aggiunse, svelando da sotto il tovagliolo una confezione alla crema variegata allo sciroppo all'amarena e con pezzi di frutta candita.
«È uno dei miei gusti preferiti! Ma come hai...»
Aiolos alzò gli occhi al cielo e fece per andarsene; non aveva affatto voglia di fare conversazione. «La zuppa non darla al gatto, devi mangiarla tu!» si limitò a dire. Era già con un piede oltre la soglia, ma si fermò, appoggiando la mano allo stipite della porta e voltandosi verso Caroline. Si era giusto appena raccomandato, invece lei aveva lasciato che Kitty salisse sul vassoio e allungasse il musetto fin dentro la scodella, limindosi a lisciarla sul dorso un paio di volte. Allora, fece dietro front, prese la gattina con una mano e si sedette sul bordo del letto, rimanendo in silenzio a guardarla.
Caroline corrugò la fronte, squadrandolo per qualche secondo: non le piaceva quel tipo di intromissione da mamma preoccupata, soprattutto in un momento difficile come quello che stava passando e in cui l'unica cosa che voleva era essere lasciata sola. Però doveva ammettere che Aiolos in quegli ultimi giorni aveva fatto tanto per lei. Nonostante non perdesse occasione di dimostrarle la sua antipatia, le era stato vicino come un buon amico. Si passò una mano sugli occhi e, dopo qualche altro momento di indugio, iniziò a mangiare timidamente la zuppa tiepida.
«Perché fai tutto questo per me?»
«Perché non può farlo lui», rispose serafico Aiolos, lisciando il morbido pelo corto della gattina. In quel momento sembrava uno dei cattivi dei film di James Bond.
Caroline respirò stanca. Non aveva una gran voglia di parlare, ma allo stesso tempo sentiva che il silenzio che si stava creato in quella stanza sarebbe stato peggio, troppo pesante da sopportare. Si portò di nuovo il cucchiaio alla bocca, mentre il ragazzo si alzava dal fondo del letto e faceva uscire Kitty, borbottando che l'ultima cosa che voleva era farsi riempire i vestiti di pelo, così come farsi rovinare le mani dalle unghiette affilate di una pantera in miniatura che aveva già cercato di affondare nella sua pelle. Poi, nello stesso momento in cui immergeva ancora una volta il cucchiaio nella zuppa, d'improvviso la stanza si fece più luminosa. Solo allora lei si rese conto di come la camera da letto fosse diversa; e i suoi occhi – stanchi e gonfi per il troppo pianto – si velarono di nuove lacrime. Tutto l'ambiente le ricordava la camera dal letto che lei stessa aveva sistemato quando aveva ristrutturato il bilocale nella palazzina di Dohko, quando aveva fatto ritorno alla sua Boston: con un'elegante sfumatura di grigio perla alle pareti e i mobili chiari, di un bel bianco avorio antichizzato; l'unica vera differenza che balzava all'occhio – se non si considerava il lavoro professionale rispetto a quello che aveva fatto lei – erano le tende alla finestra, anch'esse bianche avorio e non più rosa antico. Saga evidentemente aveva fatto tutto quel lavoro per lei. Le sue labbra si piegarono in un sorriso triste.
Come doveva considerare quel gesto alla luce di ciò che era successo quel giorno?
Le cose erano precipitate così tanto che ora non sapeva cosa le avrebbe riservato il futuro. Davanti agli occhi vedeva ancora la reazione di Saga quando aveva scoperto il suo segreto; come avesse distolto lo sguardo da lei, neanche avesse provato ribrezzo. E, nel ricordare ciò, avvertì un tremito attraversarle il corpo. Spostò il vassoio un poco di lato e si sedette sul bordo del letto, provando a fare un respiro profondo. Inevitabilmente le si spezzò in gola.
«Cos'hai intenzione di fare? Dove pensi di andare?»
«Devo prepararmi una borsa e cercarmi una camera in qualche albergo. Non credo di poter più rimanere qui», rispose Cora, fissando i suoi piedi.
«E perché mai?» ribatté Aiolos. Si potevano contare sulle dita di una mano le volte in cui era rimasto davvero sorpreso in vita sua e quella era una di quelle volte.
«Dopo quanto è successo...» mormorò lei, tormentandosi il labbro per trattenere le lacrime, stringendo la mano sul bordo del materasso.
«Ma la casa è tua! Saga l'ha intestata a tuo nome quando hanno terminato i lavori!» eslamò Aiolos.
«Cosa?» Caroline alzò la testa di scatto, fissando Aiolos a occhi sgranati e un'espressione stupefatta sul viso.
Aiolos accennò un mezzo sorriso un po' supponente, mentre incrociava le braccia al petto e si metteva in posa, appoggiato con la schiena allo stipite della porta. La sua intenzione era quella di mostrare alla donna una grande sicurezza per ciò che aveva appena asserito e farle credere che avesse partecipato attivamente alla faccenda. Di certo non poteva raccontarle la verità, ovvero che quel pomeriggio si era divertito a frugare qua e là per l'appartamento e che nella cassaforte a parete, che aveva scovato dietro un pannello di legno e che doveva essere un elemento originale degli anni '30, aveva trovato i documenti della casa e altre carte interessanti, come il certificato di matrimonio e la lettera di un avvocato di uno studio legale di Philadelphia, il quale comunicava a Caroline che dal 30 maggio del corrente anno, al compimento del suo ventiquattresimo anno di età, avrebbe avuto libero accesso al suo fondo fiduciario che ammotava a poco più di cinque milioni di dollari.
Forse, dopotutto, su di lei poteva anche essersi sbagliato. Quando aveva conosciuto Caroline – e saputo chi stava frequentando – gli era scattato un campanello d'allarme. Per come era comparsa all'improvviso nella vita di Saga, per come lo aveva cambiato e legato a sé. Persino la gravidanza e tutta la sceneggiata della sorpresa per un breve istante l'aveva considerata come una manovra astuta. Sembravano tutti segnali inequivocabili di una in cerca di soldi. Solo il dolore e lo strazio che poi aveva visto nella ragazza, gli aveva fatto cambiare idea. Quelli non avrebbe mai potuto simularli. Ora, con le nuove informazioni che aveva appreso, comprese che non aveva capito nulla di Caroline, poiché non aveva bisogno del denaro della famiglia Hayes, essendo lei stessa ricca e figlia di una celebrità. Però... anche così Saga era un partito che faceva gola a tutti.
«Questo vuol dire che posso rimanere?» chiese Caroline, con voce incerta.
«Per quel che importa a me, puoi fare ciò che vuoi», le rispose il ragazzo, con il suo solito tono di sufficienza. «Ma Saga vorrebbe saperti sistemata in modo adeguato. E soprattutto, che tu stessi bene.»
Cora si lasciò scivolare addosso la prima affermazione di Aiolos, poiché tutto sommato l'antipatia era reciproca, ma le parole seguenti invece fecero presa sulla sua fragilità. Respirò profondamente, chiudendo gli occhi per un istante. Quando li riaprì si rattristò nel vedere che il bel vestito da cocktail che le aveva regalato la madre era tutto spiegazzato. Quasi voleva piangere per quel pensiero così superficiale. Ma probabilmente, per come si sentiva, avrebbe pianto per qualsiasi cosa. Si passò una mano sugli occhi, per nascondere una lacrima intrappolata fra le ciglia. Inspirò – lo fece in modo così prolungato che le sembrò di essere arrivata al limite dei suoi polmoni – ed espirò piano, con lentezza quasi esasperata, come se in quel modo tutto potesse passare. La sofferenza che provava però era ancora lì. Si appoggiò di nuovo con la schiena alla testata del letto e riavvicinò il vassoio a sé. Ora si sentiva un poco più calma e l'appetito stava dando segni di risveglio: la zuppa di pollo non era poi così male.
Aiolos si rilassò nel vederla riprendere a mangiare, un cucchiaio alla volta. Il paragone con Georgina gli era venuto naturale: al contrario di quanto faceva a suo tempo sua madre, Caroline stava provando a reagire. Dunque, quel gelato se l'era guadagnato. Con voce pacata le disse che ora la sua presenza lì non serviva più e che quindi se ne tornava a casa. Gli parve di vedere da parte della ragazza un sospiro di sollievo e sogghignò. Mentre si girava, per uscire dalla stanza, un fulmine nero gli passò fra le gambe e lo fece incespicare e borbottare maledizioni irripetibili. Quando si girò di nuovo, vide la bestia già sul letto.
«Dovresti metterle un campanellino al collo», ringhiò.
Cora non lo sentì neanche, stupita di come Kitty forse corsa da lei e che ora le stesse chiedendo qualche carezza toccandole la mano con il muso.
«Sembra sia diventata più socievole», disse, accennando un sorriso ed esaudendo la richiesta della gattina. Le faceva uno strano effetto essere finalmente in confidenza con quella piccola palla di pelo che coincideva però con la separazione da Saga.
«Forse aveva solo bisogno di abituarsi alle persone», considerò Aiolos, passandosi le mani fra i ricci castani, per ritrovare una certa compostezza.
«Non ha avuto bisogno di abituarsi a Saga. Con lui è stato amore a prima vista.»
«Come capita a tutti», replicò Aiolos.
«Come capita a tutti...» ripeté lei; e nel fare quella considerazione, ancora una volta le labbra di Cora si erano piegate in un sorriso che però non esprimeva felicità, ma una straziante tristezza.
Scansò la zuppa e passò al gelato. Lo assaggiò, stava già diventando troppo morbido, e allora pensò che assieme non ci sarebbero stati male dei cookies sbriciolati, magari alle noci; oppure potevano andare bene anche i cereali al cioccolato, quelli per la colazione. Dopo il secondo cucchiaino lo posò accanto alla zuppa. Improvvisamente le si era chiuso lo stomaco. Sentiva che le stavano venendo i crampi e, quando con la mano si toccò il ventre, i suoi occhi si riempirono di nuove lacrime che questa volta non riuscì a trattenere.
«Scusami», sussurrò, passandosi le mani sugli occhi per asciugarli.
«Perché non ti prendi qualche giorno di vacanza e te ne vai da qualche parte?» le propose Aiolos. Nella sua voce non c'era alcuna intonazione particolare e, di certo, alcuna intenzione di essere malevolo.
«E dove dovrei andare? Non mi va di tornare a Philadelphia: mi tratterebbero come un fragile ninnolo di vetro.»
«Non c'è un posto che ti piacerebbe visitare?» insistette lui.
Caroline sospirò, abbassando lo sguardo. Non ci aveva mai riflettuto seriamente: vacanze e viaggi non erano fra le cose importanti a cui pensare. Aveva incanalato i suoi sogni e le sue speranze al raggiungimento di un unico obiettivo: ritornare a Boston, la sua città, la città di suo padre. Ora ci era riuscita; ed era andata anche al di là delle sue aspettative. Aveva trovato l'amore, una nuova casa, una nuova vita, una famiglia. Non c'era stato tempo per crearsi nuovi desideri, aveva già tutto ciò che si potesse desiderare. Scrollò la testa e si distese di nuovo sul letto, girandosi sul fianco, senza dargli una risposta vera e propria.
Aiolos scrollò la testa a sua volta. Ora sì che riconosceva pienamente quei sintomi e non ci teneva a rimanerci immischiato. Ma, contrariamente a quanto gli diceva l'istinto, era già accanto a lei, seduto sul bordo del letto e con la scodella di zuppa di pollo, ormai fredda, in mano.
«Smettila di fare la vittima e finisci di mangiare», le disse con voce dura, obbligandola praticamente a rimettersi seduta. «Ti conviene, perché prima finisci, prima ti liberi di me.»

*****

Toc toc
La giovane bussò discretamente alla porta della camera da letto. Come per gli altri abitanti della casa, anche lei era stata contagiata dall'atmosfera lugubre che aveva avvolto la villa. Ancora, dopo quasi tre giorni, tutti sembravano camminare sulle uova e stavano attenti a ciò che dicevano.
Toc toc
Doveva ammettere che si sentiva a disagio nell'insistere in quel modo. Le era stato detto che Saga passava quasi tutto il tempo chiuso nella sua stanza ed era preoccupata. Trattenne il respiro, tormentandosi un labbro. Si guardò attorno, mentre posava incerta la mano sulla maniglia. Per un momento le venne il batticuore. Sapeva che non stava bene entrare nella camera da letto di un uomo, soprattutto se questo era il fratello del suo fidanzato, ma cosa doveva fare?
Girò piano la maniglia e aprì uno spiraglio: la stanza era completamente al buio, ma al suo interno sentì una voce bisbigliare.
«È permesso?» disse con voce tremante, facendo capolino all'interno.
I suoi occhi non erano abituati a quell'oscurità e vedeva solo vaghe ombre.
«Vieni avanti, cara, accomodati pure», la invitò Nanny.
Saori trovò la donna seduta sul bordo del letto e le dava le spalle, mentre, rannicchiato al centro, c'era Saga.
«Come sta?» chiese lei, timidamente. In quei giorni, senza il suo tutor che le faceva lezione, si sentiva un pesce fuor d'acqua e messa in disparte; come se il lasciare la suite al Country Club per trasferirsi alla villa non fosse stato già abbastanza straniante, la villa stessa era avvolta da un'atmosfera surreale. Aveva capito subito che era successo qualcosa, ma non era riuscita ad afferrare cosa. Aveva raccolto solo mezze voci da parte delle cameriere, ma forse, a causa delle differenze linguistiche, non era sicura di aver compreso bene. Rimase in disparte, ferma accanto alla porta, a osservare l'anziana governante nella sua opera di convincimento.
«Tesoro mio, non puoi continuare così, guarda come ti stai riducendo. Non puoi bere in questo modo, non ci sei abituato e non ti fa bene», disse Nanny, con voce calma e materna, accarezzandogli una guancia. Era pallida e fredda. «Devi anche mangiare qualcosa. Fallo per me», lo pregò.
Da quasi un'ora era lì, che cercava di persuaderlo a scendere a mangiare. A nulla era valso provare a prenderlo per la gola, dicendogli che in cucina c'era una fetta gigante di Boston cream pie – la sua preferita – che aspettava solo lui. Sospirò: conosceva fin troppo bene l'infantile testardaggine del suo ragazzo. In parte ne era responsabile lei, perché quando era più giovane gli aveva permesso di fare come voleva; ma Saga non era più quel bambino. Ora che si era presentato alla famiglia come un uomo sposato, con tutte le intenzioni di lasciare il nido per intraprendere un nuovo cammino, doveva dimostrare di sapersi prendere certe responsabilità. E fino a quel momento non c'era riuscito un granché, rifugiandosi alla prima occasione nel falso conforto della bottiglia.
«So che ti senti ferito e spaurito per ciò che è successo; e soprattutto, che ti è difficile comprendere quello che è accaduto in seguito», disse la donna, provando ad accarezzargli la testa. Le era facile condividere il dolore e la disperazione che lui stava provando, così come poteva comprendere – senza bisogno di parole – il dolore di Caroline.
«Posso fare qualcosa?» chiese Saori, avvicinandosi di qualche passo. Anche lei era stata contagiata dalla tristezza che aleggiava in casa e avrebbe voluto rendersi utile in qualche modo, ma non osava fare di più. Sussultò per la reazione di Saga che, con un movimento brusco, aveva allontanato la mano di Nanny, alzando al tempo stesso la testa e guardandola con durezza. Lo vide tenere le labbra strette in modo capriccioso, i suoi occhi erano arrossati, lucidi, annebbiati dall'alcol. Sembrava un bambino in lacrime.
«Siete proprio fatti l'uno per l'altra!» sbottò Aiolos, sbucando fuori dalla cabina armadio che avevano in comune i due gemelli. Era passato dalla camera di Kanon per non farsi notare. In mano teneva un piccolo trolley che aveva già riempito con il necessario per un breve viaggio di qualche giorno.
Lo posò malamente sul letto, sotto lo sguardo ancora rabbioso di Saga e quello invece più perplesso di Nanny.
«Entrambi riuscite a drammatizzare e complicare la situazione più del necessario.»
«Aiolos, cosa stai dicendo?» provò a farlo smettere la donna.
«Lasciami parlare, nonna. È ora che il principino si svegli e la smetta di fare la vittima», rispose con disprezzo Aiolos. «Cos'è che ti fa sentire così, Saga? Il fatto di essere stato sottomesso da un idiota di poliziotto che non vedeva l'ora di rivalersi su una persona ricca, oppure di essere stato tradito dalla persona che ami?» gli chiese, con un mezzo sorriso di scherno sulle labbra.
«Non dire queste cose, Aiolos! Tu non sai di cosa stai parlando», lo rimproverò Nanny, minacciandolo di dargli una sonora sculacciata.
«No, nonna, invece so benissimo di cosa sto parlando. Sono stato io a portare Caroline Miller in ospedale, quando ero a Philadelphia. Ero presente quando le è stata comunicata la notizia della gravidanza e quando poi è crollata a terra, prima di essere operata d'urgenza. Ed ero sempre là, assieme alla madre, quando si è risvegliata dall'anestesia e si è resa conto di cosa le era successo.»
Saga scrollava lentamente la testa, mentre Aiolos raccontava, mormorando in continuazione dei “non è vero”, nascondendo il viso dietro le ginocchia raccolte al petto.
«Tesoro mio», disse Nanny. Questa volta lui non si sottrasse e la vecchia governante riuscì ad abbracciarlo, accarezzandogli la testa e sussurrandogli parole di conforto. Lo sentiva piangere in silenzio.
«Non rimanere qui nella tua tana a farti compatire da tutti», lo rimproverò Aiolos, in tono brutale. «Ti ho fatto mettere a disposizione l'aereo della società per domattina. Da ora in avanti i vostri casini ve li risolverete da soli», disse, sempre con voce dura e un tono che non ammetteva un “ma” come risposta. «Vieni, Saori, lasciamo che si crogioli ancora un po' nei suoi problemi, intanto che aspettiamo che inizi a crescere», si rivolse infine alla giovane ospite, rimasta così in disparte e dimenticata in un angolo, che si confondeva con la tapezzeria della camera.

*****

Uscirono dall'ascensore col fiatone e i vestiti in disordine. Si tenevano abbracciati, o forse si sostenevano a vicenda, mentre percorrevano a zigzag quei pochi metri che li separavano dalla porta del lussuoso attico degli Hayes. Entrambi avevano bevuto un po' più del lecito, quella sera. Le loro risate – più degli sghignazzi che delle vere e proprie risate – si sentivano per tutto il corridoio. Ma a chi importava, quel piano era completamente di proprietà della famiglia Hayes. Kanon piegò la testa all'indietro, passando davanti a una costosa e indiscutibilmente brutta scultura d'arte moderna posta in una specie di nicchia, per giunta illuminata. Le rivolse una pernacchia e rise ancora. Poi, si avvicinò alla compagnia femminile di quella notte e le sussurrò qualcosa all'orecchio. Lei rise a sua volta, piegando anch'essa la testa all'indietro e mostrando la gola ornata da una vistosa collana in diamanti. La donna era di un'eleganza peccaminosa, da farlo eccitare e tenerlo nel palmo della sua mano come un cagnolino a ogni sua mossa, se avesse voluto; ma quella risata gli faceva venire i nervi e rompeva l'incantesimo. E avrebbe sortito lo stesso effetto anche se fosse stato ancora più sbronzo di quanto già non fosse in quel momento.
La baciò lungamente, per non sentirla una volta di troppo, sicuro di non riuscire a sopportarla oltre; non voleva rispedirla a casa e interrompere lì la serata. Lei gli aveva fatto capire più volte che voleva portarselo a letto e lui non aspettava altro. La teneva stretta fra sé e la porta d'ingresso. Lei faceva la civetta; mentre Kanon con una mano le accarezzava il sedere e con l'altra girava la chiave nella serratura.
Neanche si ricordava il suo nome. Gliel'avevano presentata quella sera stessa, durante una specie di rimpatriata, alcuni suoi ex compagni di Università che ora lavoravano come broker a Wall Street e lei, unica donna del gruppetto, non lo aveva più mollato. Era sicuro che, oltre al suo fascino, avevano contribuito non poco anche il suo nome e i suoi soldi. Ma quella sera a lui andava bene così. Voleva solo passare una notte in compagnia. Eppure, se solo avesse immaginato quanto in realtà fosse appiccicosa... Però non baciava niente male, le sue mani così ben curate si muovevano esperte e audaci e aveva fatto capire fin dal primo sguardo le sue intenzioni senza alcuna vergogna. Proprio quello di cui aveva bisogno.
Mentre le loro bocche erano ancora incollate l'una all'altra, si girò, appoggiandosi con le spalle alla porta e, con una leggera spinta, l'aprì, camminando poi all'indietro. Era più intento a spogliare la donna, lasciando cadere nel loro percorso pezzo per pezzo ciò che aveva in dosso, piuttosto che guardare dove stava andando. Si avvicinarono così al divano, Kanon le aprì il gancetto anteriore del mini reggiseno di pizzo nero, che subito liberò – quasi in un'esplosione sorprendente – i suoi seni abbondanti. Erano sodi e perfettamente tondi, grazie alla sapiente opera del chirurgo plastico. Poi, le abbassò le spalline sottilissime sulle braccia bianche e sinuose, anch'esse troppo toniche per essere naturali. Fece due passi indietro e si prese del tempo per osservarla, commentando fra sé e sé: “Sarà anche rifatta, ma è uno schianto di bambola!”
«Come hai detto che ti chiami?» le chiese, mentre con gli occhi le accarezzava il petto orgogliosamente nudo e le sue labbra si curvavano in un sorriso sornione.
La donna sorrise a sua volta, colmando quella breve distanza con passi da modella, abbassando la cerniera della minigonna e lasciandosela scivolare giù, fino a terra. Il perizoma era microscopico e semi trasparente come il reggiseno ormai abbandonato.
«Camille Sanders», sussurrò lei, sfiorandosi maliziosamente le labbra rosso fuoco con la punta dell'indice, mentre con l'altra mano stuzzicava il pizzo delle mutandine. Si avvicinò a lui, lo guardò negli occhi e poi abbassò lo sguardo verso il basso, ad ammirare le “doti” di Kanon. Dalla sua gola arrivò un lieve ruggito, provocante e ferino. Gli posò entrambe le mani sul petto e lo accarezzò, facendogli sentire le unghie attraverso la camicia.
Kanon sentì un brivido attraversargli il corpo a quella carezza aggressiva. Di nuovo, la donna diede sfoggio della sua risata, mentre con le mani scendeva fino alla cintura e andava un poco oltre, dove le cose si stavano già facendo grosse. Si strusciò in maniera generosa su Kanon, fin quasi a fargli perdere l'equilibrio e cadere sul divano, dalla parte dello schienale. Non vedeva l'ora di giocare un po' con lui.
«Se mi avvertivi che tornavi così presto e in compagnia, preparavo qualcosa da mangiare per tutti.»
Al suono di quelle parole, la donna alzò lo sguardo al di sopra della spalla di Kanon e lo intravide lì, a pochi metri da loro, stravaccato in poltrona e con i piedi sul tavolino, che addentava senza tanti complimenti un sandwich di proporzioni inumane e sgocciolante di mostarda. Con l'altra mano invece smanettava sullo smartphone. Lanciò un urlo tale che la soglia sopportabile dei decibel fu superata in maniera preoccupante, mentre si copriva il petto con le mani come meglio poteva. Si guardò attorno in preda al panico, cercando i vestiti e continuando a urlare. Traballando sui tacchi vertiginosi, li raccolse in tutta fretta, ammassandoseli poi addosso, per coprirsi alla bell'e meglio.
«Bastardo!» urlò la donna. Lo prese a pugni e spintoni sul petto, continuando a insultarlo, perché Kanon stava ridendo di lei.
«Mi sa che la sera è rimandata», commentò a mezza voce Aiolos, con la bocca piena e le labbra sporche di mostarda piccante, proprio quella che piaceva a lui.
Kanon si girò verso l'amico, scambiando uno sguardo d'intesa come ai vecchi tempi. Poi, si avvicinò alla donna e l'afferrò per un braccio, interrompendo così la sua furia. Lui sembrava essere tornato sobrio tutto d'un colpo. «Mi dispiace, cara, sarà per un'altra volta», le disse con un sorrisetto sulle labbra.
Camille si divincolò e lo spinse con maggiore forza, fino a farlo cadere sul divano, a gambe all'aria.
«Vai al diavolo, Hayes! Vai al diavolo!» gli urlò nuovamente, mentre si rivestiva in fretta. La risposta di Kanon fu un'altra fragorosa risata. Ormai l'eccitazione della serata era passata e lui non aveva più voglia di stare con quella donna.
«Conosci la strada, vero?» le disse, con tono un po' canzonatorio. «Chiedi al portiere di chiamarti un taxi. Offro io!» continuò, alzando la voce, poiché lei se ne stava andando. Pochi secondi dopo, si sentì un gran sbattere di porte e lui si lasciò andare a una risata ancora più forte e divertita, che in sé portava però il disprezzo che provava per la situazione in cui si era messo.
«Pare che le tue quotazioni siano in ribasso!»
«Già. Ultimamente non ne mando più una in buca», sbuffò Kanon.

Passarono diversi secondi di silenzio nel salotto del lussuoso attico degli Hayes. Il respiro di Kanon si stava normalizzando, dopo tante risate amare; Aiolos invece continuava imperterrito a mangiare.
«Che diavolo ci fai qui?» gli domandò, arruffandosi i capelli.
«Non avevo più niente da fare a casa, così sono venuto a vedere cosa combinavi», rispose Aiolos, leccandosi le dita dopo aver mandato giù l'ultimo boccone.
Kanon sbuffò ancora una volta, più scocciato di prima. Avrebbe dovuto mettersi in una posizione più composta, invece era rimasto lì com'era, con un principio di mal di testa che non preannunciava nulla di buono. «Lui come sta?» chiese. Non ci credeva affatto che l'amico fosse lì, a New York, solo perché si annoiava a stare a Boston. Era più verosimile che fosse venuto per dargli notizie di Saga.
L'altro rispose con un'alzata di spalle. Posò sul tavolino lo smartphone e si alzò. Fece il giro del divano e si fermò proprio sopra Kanon, in mezzo alle sue gambe ancora imprudentemente larghe. L'erezione si stava pian piano sgonfiando con il passare dei minuti. Aiolos gli posò le mani sulle ginocchia, pesadovi sopra dispettoso e lo fissò con un ghigno ambiguo. Sapeva che così facendo avrebbe fatto sudare freddo l'amico.
«Che diavolo ti sta passando per la testa?» disse con un lieve panico nella voce, che lentamente si stava trasformando in terrore, nel vedere l'altro troppo interessato ai suoi “paesi bassi”. E nella sua, di testa, si stava già dando dell'imbecille, perché mai e poi mai doveva offrirsi in quel modo.
Aiolos sogghignò. «Ti preparo qualcosa da mangiare», disse, porgendogli la mano e aiutandolo a rimettersi in piedi. E una vendetta ancora più dolce – per tutte le volte che l'altro lo aveva sfottuto – se la prese nel vederlo barcollare e trattenere dei conati di vomito, portandosi le mani alla testa.
«Allora, me lo dici perché sei qui?» riprovò Kanon, con la mano a coprire la bocca, ora pallido in volto. Lo seguì fino in cucina, ma si bloccò sulla soglia, trattenendo il respiro. «È successo qualcosa?»
«Ne sono successe tante, di cose», disse con un mezzo sorriso Aiolos, prendendo dal frigo una bottiglietta d'acqua e lanciandola all'altro.
Kanon ne trangugiò il contenuto a gradi sorsate, sospirando soddisfatto.
«Ma lui sta bene? Dici che è il caso di tornare?»
«Sarebbe inutile, l'ho spedito alle Cascate del Niagara prima di venire qui.»
«Cosa?» Kanon strabuzzò gli occhi a quella notizia. «Ma allora la situazione è davvero grave se lo hai fatto espatriare!» esclamò quasi scioccato, ma si tradì piegando le labbra in un mezzo sorriso di scherno.
«Non ti esaltare in questo modo», disse Aiolos, tagliando con un movimento secco il sandwich appena preparato, tanto che il tac sul tagliere risuonò più minaccioso di quanto in realtà non fosse. «È andato in Luna di miele», spiegò, masticando amaro quelle parole.
La stessa reazione, o quasi, la ebbe anche Kanon. «Ah, allora me ne vado per qualche giorno negli Hamptons.»

*****

Caroline aveva dato poco peso a come aveva ceduto facilmente all'idea che le aveva messo in testa Aiolos: in quel periodo le mancava la voglia di fare qualsiasi cosa. Aveva a malapena accennato alle Cascate del Niagara e, come per magia, si era ritrovata lì. Erano bastate un paio di telefonate, il tempo di preparare una valigia, impacchettare la gattina – perché questa volta l'avrebbe portata con sé, considerato che non sapeva quanto sarebbe stata via – e arrivare in aeroporto per salire sul jet privato della Hayes Corporation. E ora si trovava lì, in uno dei più lussuosi alberghi in cui avesse mai avuto la fortuna di mettere piede, costruito quasi sulle sponde della cascata, a meno di una mezz'ora di auto da Buffalo. E poteva godere di quello spettacolo straordinario direttamente dalla finestra della sua suite.
Erano due giorni che non si muoveva dalla camera, praticamente da quando era arrivata. Stava davanti alla finestra per delle ore, seduta su una comoda chase longue e con Kitty acciambellata sulle sue gambe per la maggior parte del tempo. Il servizio in camera passava tre volte al giorno e almeno metà di ciò che le veniva portato ritornava indietro. Non era lei a ordinare: tutto era stato stabilito da Aiolos. Come avesse fatto era un mistero.
Lo sapeva già prima di partire che non sarebbe servito a nulla, non era in vena di godersi la vacanza e la solitudine che stava vivendo accentuava in lei i sensi di colpa che provava. La prima notte aveva avuto dei forti crampi allo stomaco che l'avevano costretta a passarla praticamente in bianco; ma anche in seguito aveva fatto fatica a riposare. Forse era l'aria di Buffalo che non la faceva sentire rilassata. Questo si era detta quando aveva lasciato la suite, pronta a tornarsene a casa.
«Come da istruzioni ricevute, le abbiamo prenotato una suite nel nostro hotel gemello, sul versante canadese delle cascate. Siamo spiacenti che voglia lasciarci così presto e ci auguriamo che la permanenza sia stata di suo gradimento», disse con tono professionale la donna al bancone della reception, restituendole i documenti.
Cora fu investita da quelle parole. Forse, ancora disorientata dal suo stato apatico, non si rese conto di cosa le stava capitando attorno e si ritrovò, suo malgrado, sul sedile posteriore di un taxi che la stava portando in Canada.
L'hotel era la copia esatta di quello appena fuori Buffalo, con la sola differenza che a ogni angolo c'erano bandiere del Canada e non degli Stati Uniti e la gente era più cordiale. Rimase piacevolmente sorpresa dal cambiamento. Persino l'aria sembrava migliore, più frizzante, più energizzante. E, di conseguenza, il suo umore ne fu un poco contagiato. Fece portare il bagaglio nella suite – anche questa era predisposta per ospitare piccoli animali – e accettò l'invito del receptionist di aprofittare della terrazza rialzata, dalla quale si poteva godere di una vista esclusiva della parte di cascata denominata Ferro di cavallo.
Scelse di sedersi a un tavolo vicino la balaustra fiorita. Il fragore di quell'ammasso d'acqua che precipitava per oltre cinquanta metri era potente e, nonostante la terrazza fosse a una buona distanza, si sentiva frastornante fin lì e faceva da sottofondo alle conversazioni. Ne rimase da subito attratta, tanto che il cameriere, quando ritornò al suo tavolo neanche cinque minuti dopo, fu costretto a ripetere due volte. Le portò una cioccolata calda e una fetta di torta allo zucchero di canna. O, come la chiamavano loro, tarte au sucre brun.
Cora fissò il cameriere, perplessa. Non aveva ordinato nulla, ma accettò senza muovere obiezione. Sorrise debolmente e rigirò la tazza portandosi il manico sul lato sinistro. La cioccolata calda era stata servita senza tanti fronzoli, accompagnata solo da manciata di mini marshmallow a parte. Lei li scartò subito: non le erano mai piaciuti, troppo dolci e appiccicosi alla masticazione, al contrario di Mickey che invece ne andava ghiotto.
Teneva lo sguardo fisso sulla cascata, mentre sorseggiava la bevanda densa e profumata. Il sole era alto nel cielo. Intenso e caldo, mitigato un poco dalla brezza che arrivava direttamente dalla cascata. Considerò che aveva fatto bene a tenere con sé il cappello a tesa larga, anche se si sentiva a disagio a indossarlo. Di tanto in tanto aveva la sensazione che delle goccioline d'acqua arrivassero sino a lei. Era una sensazione piacevole, anche se le provocava qualche brivido. Si passò le mani sulle braccia, indossava dei guanti senza dita, di cotone sottile, lavorati all'uncinetto e che arrivavano fino a metà avambraccio. Erano decorati con una rosellina della stessa tonalità dei guanti, anch'essa lavorata a mano.
Appoggiò un gomito al tavolino, reggendosi il mento con la mano. Per la prima volta dopo giorni le sue labbra si piegarono in un sorriso leggero. Respirava piano e una timida serenità stava rilassando il suo cuore. Si sentiva come se tutte le cose negative che le avevano gonfiato il cuore di dolore le avesse lasciate alla frontiera. Iniziò persino a spizzicare la torta con la forchettina, mettendosene in bocca una punta. Era dolcissima, ma non era affatto male. Sospirò, avrebbe voluto condividerla con Saga: anche a lui sarebbe piaciuta. Avvertì un pizzicore agli occhi quando formulò quel pensiero. Sentiva la sua mancanza, lo voleva accanto a sé.
«Signorina», richiamò la sua attenzione un cameriere. «Va tutto bene?»
Cora alzò lo sguardo su di lui. Poi, si guardò attorno: la terrazza sembrava più animata di prima. «Cosa succede?» chiese lei, cercando di capire il motivo di tale fermento.
«Più o meno a quest'ora, il sole e l'acqua della cascata formano un arcobaleno. È una delle attrattive più particolari della cascata, in questo periodo», le spiegò il cameriere che in mano teneva un vassoio con sopra una fetta di Boston cream pie e che subito posò sul tavolino, proprio di fronte alla giovane.
«Non l'ho ordiata io, questa», disse lei, rifiutandola. Nello stesso momento in cui se l'era ritrovata davanti, si domandò come fosse possibile trovare in Canada il dolce tipico della sua città.
«Gliela offre quel giovane laggiù», rispose il cameriere, indicandoglielo. «Non è gradita? Devo riferire qualcosa?»
Cora si voltò a guardare, ma non riuscì a individuare il misterioso ammiratore.
«Devo portarla via?» chiese una seconda volta il cameriere. Cora scrollò la testa, riaccostando a sé il piattino.
Non aveva fame, neanche aveva consumato metà dell'altra fetta di torta, che per inciso non aveva ordinato ma che aveva scoperto essere stata “programmata”, così come tutto il resto del suo soggiorno. Però, non se la sentiva di rimandare indietro la Boston cream pie: le ricordava casa e... lui.
Sotto il tovagliolino di carta c'era un foglietto. Lo prese e lo lesse. C'era scritto: “È la mia torta preferita. Vorresti dividerla con me?”
Subito alzò lo sguardo e si affannò a cercare la persona che aveva scritto il biglietto. E, quando finalmente la individuò, il suo cuore perse un battito.
Lo vide avvicinarsi al tavolino a passi lenti, sicuro di sé. Sembrava un turista come un altro, con quella semplice maglietta polo e i jeans, eppure riusciva a distinguersi lo stesso, perché i suoi occhi ora non vedevano altro che lui.
«Ciao»
«Ciao», rispose Caroline, con voce titubante ed emozionata.
Gli occhiali da sole, sotto quel grande cappello, nascondevano i suoi occhi nervosi che si stavano velando di lacrime. Abbassò la testa e si portò le mani al grembo, iniziando a tormetarsele: non sapeva cosa dire e quel silenzio fra loro due si stava caricando di tensione.
«Sei una ragazza difficile da inseguire», provò a scherzare, Saga. «Quando sono arrivato all'altro hotel, mi hanno detto che te n'eri appena andata.»
«Mi dispiace. È stata una sorpresa anche per me.»
Saga le sorrise: non c'era motivo che Caroline si dovesse scusare, lei non aveva alcuna colpa. Accennò a un movimento con la mano, forse per accarezzarla. Invece, si inginocchiò di fronte a lei.
«Cora...» Deglutì, nervoso. Anche lui sentiva il peso dell'emozione. «Caroline Miller», disse subito dopo, preferendo essere più formale, poiché il momento lo richiedeva. Le prese entrambe le mani nelle sue. «Vuoi essere ancora la signora Hayes?»
La giovane si irrigidì inconsciamente: era senza parole.
«Vuoi essere mia moglie?» le domandò ancora una volta, guardandola negli occhi, sfidando la barriera dei suoi occhiali da sole.
Le stava girando la testa. Per sua fortuna era seduta, altrimenti le sue gambe non avrebbero certamente retto. Una folata d'aria smosse l'ampia gonna del vestito che indossava. Si morse il labbro e il suo respiro si fece irregolare.
Saga le strinse un poco di più le mani, per incoraggiarla a dargli una risposta. I suoi occhi esprimevano tutta la convinzione di quelle parole, ma anche che non era disposto ad arrendersi a un rifiuto.
Cora mosse le labbra, avrebbe voluto rispondergli un “Ancora mi vuoi, dopo quanto successo?” ma non riuscì ad articolare quelle parole. Dalla sua bocca uscirono parole diverse: «Solo se mi prometti che mi darai un figlio.»
«Solo se questo non ti metterà in pericolo», replicò Saga, accennando un sorriso emozionato. Dalla tasca dei jeans prese una scatolina di raso e l'aprì davanti a lei. «Avrei dovuto dartela da tempo. Avrei dovuto fare le cose per bene...»
«Basta così. Non c'è bisogno di altre parole», lo interruppe lei, con un sorriso innamorato, offrendogli la mano sinistra. Saga le prese la mano e le infilò l'anello al dito. Poi, Caroline fece lo stesso con l'altra fede nuziale.
Fu solo in quel momento, quando sentirono un lungo ed entusiastico applauso, che si accorsero di essere attorniati da decine e decine di persone che si erano radunati attorno a loro e avevano assistito a quella dichiarazione, condividendone con loro l'emozione. C'erano tanti cellulari alzati che scattavano foto e filmavano. Qualcuno, in mezzo a loro, fischiava in approvazione, gridando a gran voce “Bacio! Bacio!”
Saga sorrise imbarazzato, senza però distogliere gli occhi dalla sua Caroline. Si alzò, le scoprì la testa dal cappello, le tolse anche gli occhiali da sole e, prendendole il viso fra le mani, la baciò con passione.



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Capitolo 30
*** Capitolo XXIX ***





XXIX


In tanti anni che frequentava gli Hamptons, non aveva mai fatto caso a quanto fossero belli e rilassanti quei luoghi a giugno. E neanche questa volta Kanon se ne sarebbe accorto, occupato com'era a passare da una festa all'altra, sempre con il bicchiere in una mano e l'altra appoggiata al formoso lato B di qualche bellezza; e senza mai fermarsi per più di mezza giornata consecutiva alla villa che aveva affittato per l'intera estate. Quando si era diffusa la notizia che il bel rampollo degli Hayes stava trascorrendo qualche giorno di vacanza, tutti avevano iniziato a fare a gara per contenderselo e lui, da generoso qual era, si era reso disponibile per animare quelle feste. Questo era Kanon Hayes in quell'ambiente di ricconi: bello, affascinante, spiritoso, spregiudicato negli affari e tanto sicuro di sé con le donne. Insomma era una vera star! Spesso finiva per rimanere fino all'alba, ospite di qualche generosa quanto molto disponibile padrona di casa. Qualche volta, quando la serata non si concludeva in modo piacevole fra le lenzuola, allora dormiva come un ghiro, completamente sbronzo, nel buio della sua camera da letto. E quella mattina era proprio l'epilogo di una di quelle rare volte in cui era andato in bianco. Non che gli dispiacesse, ci voleva un po' relax anche da quel lato.
Lo sbadiglio che aveva fatto gli aveva quasi slogato la mascella, ma era proprio ciò che gli serviva in quel momento per svegliarsi. Si grattò la testa, arruffando i capelli ancor di più di quanto già non fossero dopo la ronfata e si stiracchiò la schiena fino a far scricchiolare le ossa. Il rumore fu perfettamente udibile e... inquietante, per un tipo sportivo e in forma come lui.
«Mi sa che sto invecchiando», sbuffò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. Subito dopo si passò entrambe le mani sul viso, celando un altro sbadiglio e strofinandole con energia per darsi la carica.
La casa per sua fortuna era deserta, non gli andava di farsi vedere in quello stato. Camminava con gli occhi praticamente ancora chiusi, come uno zombie appena uscito dalla tomba. I piedi scalzi lasciavano impronte invisibili sul parquet chiaro. Si grattò il fianco, sotto la canottiera sbracciata. I pantaloni del pigiama gli cadevano abbondanti e, a ogni passo, gli orli gli finivano sotto i talloni. Ma di questo non se ne preoccupava. Si schermò gli occhi con una mano, le grandi finestre dell'open-space facevano entrare troppa luce. Sbatté le palpebre più volte. Poi, pian piano, i suoi occhi iniziarono ad abituarsi.
Entrò in cucina, notò con disgusto che il piano dell'isola era occupato da diverse bottiglie vuote di vodka, scotch e birra. «Che schifo... ma quanto ho bevuto?» borbottò, grattandosi di nuovo la testa e passando oltre.
Dal frigorifero prese una lattina di birra, rabbrividendo. Subito cambiò idea afferrando la bottiglia di succo d'arancia, bevendone a grandi sorsate quasi la metà. Due rivoli di quel nettare aspro gli colarono dagli angoli della bocca, scivolando lungo la gola e il petto, per poi venire assorbiti dal bordo della canottiera scura. Il resto se lo portò via con sé, uscendo sulla terrazza.
Si appoggiò alla balaustra di legno e osservò l'oceano. Gli piaceva l'oceano. Era terapeutico per lui, come lui aveva sempre creduto di esserlo per suo fratello Saga. Sbuffò nel pensare a lui. Era troppo tempo che non parlava con lui. Forse avrebbe dovuto chiamarlo per sapere come stava.
«Che idea stupida», mormorò fra sé e sé, scrollando la testa e tracannando il resto del succo d'arancia, pulendosi infine la bocca col dorso della mano. «Ora va decisamente meglio!» disse, riprendendo fiato. Ora sì che era in vena di apprezzare ciò che aveva davanti.
La giornata era un incanto e invogliava a passarla fuori di casa.
«Una bella corsa sulla spiaggia. Sì, decisamente!» si disse, con un sorriso sornione sulle labbra ancora umide.
Impiegò appena due minuti a sistemarsi e mettersi la tenuta da jogging, ovvero scarpe da corsa e un costume da bagno tipo bermuda, verde mare con delle righine bianche sui lati. Non aveva bisogno di rimirarsi allo specchio per sapere che era un vero schianto. Sorrise, mentre si inforcava gli occhiali da sole e scendeva l'ultimo gradino prima di mettere piede sulla bianca sabbia della spiaggia di Southampton. Si guardò attorno per qualche momento, giusto per scegliere in che direzione andate. L'istinto gli diceva che avrebbe fatto qualche incontro interessante; e il suo istinto non sbagliava mai. Due passate con le mani fra i capelli, il tempo di attivare l'app di fitness sullo smartphone che teneva legato al braccio sinistro e iniziò la sua corsa con un ritmo lento e cadenzato, giusto per sciogliere un po' i muscoli delle gambe. Ma neanche il tempo di sudare un po', che aveva raggiunto la mega villa dei Perkins. La studiò a lungo, mentre ci passava davanti, sperando di non incontrare nessuno di quella famiglia. Pie illusioni.
«Eccola là...» masticò fra sé e sé, trattenendo un brivido al solo pensiero di essere agganciato da lei e passare la successiva mezz'ora a sentirla lamentarsi di qualche banalità.
La bella Jenny Perkins, nel suo completino rosa confetto e la sua pelle bianchissima, sotto uno strato di abbronzatura color cioccolato andato a male, camminava sulla sabbia con lo sguardo fisso sull'ipad, in compagnia di quell'insopportabile botolo a quattro zampe – che lei si ostinava a chiamare cane – al guinzaglio. Sembrava piangere per qualcosa.
«Si sarà rovinata lo smalto», sogghignò. Ma se sperava di riuscire a passare inosservato e continuare la sua corsa, si sbagliava di grosso.
«Tu! Brutto bastardo!» ululò la giovane, alzando all'improvviso la testa. E subito dopo la bestiaccia prese a tirare, ringhiare e abbaiare all'indirizzo di Kanon.
Quell'urlo, stridulo e agghiacciante, lo fece incespicare nei propri piedi. Si fermò, piegandosi in avanti un poco con il fiatone, nascondendo uno sbuffo esasperato. Poi, si fece coraggio e si girò verso di lei, mostrandole la sua dentatura perfetta. «Jenny!»
La giovane ereditiera lo raggiunse sul bagnasciuga a grandi passi e gli diede uno schiaffone da fargli fare quasi una piroetta su se stesso. E il suo carlino, per non smentire il detto “il cane è uguale al suo padrone”, gli ringhiò contro ancora una volta, tirando e tendando di morderlo.
«Basta, Cicci», lo rimproverò lei, strattonando il guinzaglio rosa tempestato di strass.
«Ma che diavolo ti prende, pazza svitata!»
«Spiegami cos'è questo!» urlò isterica lei, mostrando l'ipad – anch'esso tanto pieno di strass da essere accecante – a uno scioccato, quanto ora irritato, Kanon.
Sullo schermo da 9,7 pollici scorrevano le immagini di un video preso da youtube, che aveva già milioni di visualizzazioni e tanti, tantissimi like, e commenti pieni di cuoricini che esprimevano quanto quella dichiarazione fosse romantica.
«E allora?» replicò Ken, restituendoglielo.
«Guardalo!» insistette Jenny, spingendogli contro il petto l'ipad e battendo nervosa il piede, affondando un poco nella sabbia bagnata con il prezioso sandalo. «Che cosa ci fa il mio Saga con... quella? E... chi accidenti è quella?»
Kanon aguzzò la vista, la luce del sole faceva strani riflessi sul display e le lenti scure rendevano tutto ancora più scuro.
«Ah!» disse, senza aggiungere altro. Doveva ammettere che la cosa era curiosa. Senza rendersene conto sorrise nell'ammirare il gemello, per nulla impacciato in quell'occasione, inginocchiato di fronte a Caroline e poi alzarsi e baciarla di fronte a tutto quel pubblico.
«Lui non mi ha mai portata alle Cascate del Niagara!» si lagnò lei.
«Lui non ti ha mai portata da nessuna parte, Jenny cara», le rispose, passandole di nuovo l'ipad sbrilluccicoso. «E sai perché? Perché sei una piattola rompiscatole!» infierì. «E poi, cosa pretendi, ti ha scaricata mesi fa!»
«No! No! No!» negò lei, alzando sempre di più i decibel della sua voce. «Ci siamo solo presi una pausa di riflessione!»
Il carlino rispose al nervosismo sopra le righe della sua padrona continuando a ringhiare, mentre dei piccoli rivoli di bava gli scendevano dai lati della bocca cadente.
«Beh, cara, ora hai perso il treno. A quanto pare lui ha messo l'anello al dito a un'altra», disse Kanon, scoccando un'occhiataccia al cane. Non aveva mai avuto un buon feeling con quel botolo che non perdeva occasione di dimostrargli tutta la sua antipatia, ma era un sentimento reciproco.
Per tutta risposta, Cicci gli abbaiò contro due volte, liberandosi con uno strattone deciso dalla custodia della padrona che era distratta a piagnucolare ancora sul video e gli si attaccò al polpaccio.
«Mollami, botolo rognoso», imprecò a denti stretti il giovane. Non gli andava di fare da “osso giocattolo” per quello scherzo della natura. Lo acchiappò per la collottola, come si faceva con i gatti – altra razza che mal sopportava – e lo scaraventò direttamente in acqua, a una decina di metri di distanza.
«Cicci!» gridò Jenny, portandosi le mani ingioiellate alla bocca. Era lì che camminava sulla sabbia senza però andare da nessuna parte. Provò a fare qualche passo in avanti, continuando a chiamare disperata il suo cucciolo, cantilenando il suo nome, ma nel momento stesso in cui la leggera spuma delle onde strisciava verso di lei, o per meglio dire verso i suoi sandali firmati, Jenny si ritraeva correndo indietro. E intanto il suo amato Cicci guaiva e annaspava nell'acqua salata.
«Ma che diavolo... è l'unico cane al mondo che non sa nuotare? L'ho sempre pensato che quel coso è inutile!» sbottò Kanon, incrociando le braccia al petto e scrollando la testa. Settò di nuovo l'app sullo smartphone, fece alcuni movimenti di stretching e si preparò a ripartire. «Tranquilla, prima o poi tornerà a riva!» le disse, ridendo e riprendendo la sua corsa salutare, ora decisamente più di buonumore di quando si era svegliato quella mattina. Era da quando aveva presentato Jenny a suo fratello che avrebbe voluto dare una lezione a quella bestiaccia.

*****

Il cimitero di East Boston non era mai stato un luogo lugubre. Almeno, non la parte nuova, ovvero i lotti di terreno che erano stati acquistati negli anni '50 come ampliamento di quello storico, racchiuso fra alte cancellate in ferro battuto nel quale trovavano posto le tombe più antiche, risalenti addirittura ai tempi delle colonie, e i mausolei delle grandi famiglie bostoniane dall'ottocento fino ai giorni nostri. Il nuovo parroco della chiesa, giovane e anticonformista, che solo un anno prima aveva preso il posto di Padre O'Sullivan e che gestiva l'amministrazione del cimitero, aveva dato il via a diversi lavori di abbellimento che prevedevano delle piccole isole di aiuole colorate, soprattutto dove si incrociavano i sentieri in ghiaietta, per rendere più festose le visite dei parenti ai defunti. Ma quel giorno, per alcune persone, quei fiori non stavano rendendo più leggera la visita alla tomba del defunto nei pressi del quale si erano dati appuntamento.
«Un altro incontro in così breve tempo», disse Shion Hayes, camminando sull'erba umida, con passi leggeri e misurati.
«L'altro dove lo hai lasciato?» domandò Burton. «Parlo di Morales.»
«Hai chiesto di vedere me o il mio dipendente? Cosa vuoi ora?»
Burton gli diede le spalle e si inginocchiò di fronte alla lapide, accarezzando il nome inciso sopra. Si sentiva un meschino traditore. Non solo perché era felice con la moglie del suo migliore amico, aveva cresciuto Caroline e il secondogenito lo chiamava papà, ma anche e soprattutto perché fin dall'inizio sapeva certe cose e non aveva mai parlato. Se lo avesse fatto, forse Greg non sarebbe morto.
Shion Hayes abbassò lo sguardo, intristendosi. Nonostante la conoscenza con il poliziotto si era limitata ad alcuni brevi incontri, si sentiva in qualche modo legato a quella persona.
«Ti ringrazio per esserti preso cura della sua tomba», disse l'ex capitano di polizia. «È strano come più ci si impegni a tenere sepate le nostre strade, più queste si intersechino.»
«Evidentemente doveva andare così», sospirò Shion Hayes. Anche lui aveva qualcuno a cui fare visita e nei confronti del quale sentirsi in colpa.
Era lì. Ironia della sorte, o forse no, la tomba di Anthony Young era proprio a pochi passi da quella del poliziotto. Vi posò lo sguardo e i suoi occhi minacciavano di velarsi di lacrime: la lapide era stata volutamente lasciata anonima e solo la scritta Devoto alla sua famiglia fino all'ultimo ne dava il vero significato a chi conosceva la verità. Si chinò e strappò via alcune erbacce. Con grande rammarico era stato costretto a lasciare che la tomba rimanesse per anni nell'incuria, per non alimentare sospetti. E questo gli faceva male, perché una persona che era stata tanto importante per lui meritava di essere ricordata come si conveniva e un trattamento migliore per quanto riguardava il luogo del suo riposo eterno.
«Immagino sia stato tu a fare in modo che fosse sepolto proprio qui, anziché vicino alla tomba dei suoi genitori. Soldi e potere evidentemente permettono di fare tutto. Me ne sono sempre domandato il motivo.»
«Era l'unico a ritenerlo innocente e a continuare a indagare per dimostrarlo», rispose Shion Hayes, rimettendosi in piedi. «In qualche modo gli è stato vicino. Ha cercato di capirlo e aiutarlo. Ora gli sta vicino nell'aldilà, così si fanno un po' di compagnia. Lui... per tutta la sua vita è stato solo», sussurrò, sfiorando un'ultima volta il bordo squadrato della lastra di pietra.
Si passò una mano sul viso, corrugando al tempo stesso la fronte. Non era da lui fare il sentimentale e di certo non voleva mostrare a estranei – a Burton in particolare – quel suo lato così intimo, del quale un poco si vergognava. Inspirò profondamente con il naso, per riprendere di nuovo padronanza di sé. Alzando lo sguardo intravide Aiolos che si aggirava pigramente, mani in tasca, fra le altre lapidi, leggendo qua e là qualche nome e ruminando il chewin-gum come un ragazzino in gita scolastica.
«Bella la gioventù», sospirò ancora, piengando l'angolo della bocca in un accenno di sorriso. Si girò di nuovo verso Burton. «Si può sapere qual è il motivo di questo incontro?» gli chiese. Questa volta la sua voce era uscita molto più seria.
«Ero intenzionato a chiederti di contrastare il rapporto fra quei due. Caroline è la mia figliastra, ma è la figlia di Gregory Miller, il mio più caro amico. Non voglio vederla soffrire come l'altro giorno», spiegò l'uomo. «Sono certo che prima o poi lui la farà soffrire ancora.»
«E Saga è il figlio di Tony ed Emma, che il tuo amico ha portato alla morte», rispose Shion, mordendosi la lingua per non dire qualcosa di troppo, di cui forse si sarebbe potuto pentire in seguito. «Come credi che potrebbe reagire se sapesse una cosa del genere?»
«Di cosa stai parlando? Di cosa lo stai accusando?» ribatté Burton, con un tono di voce rabbioso, quasi urlandogli in faccia e stringendo il pugno.
Shion Hayes chiuse gli occhi e trattenne l'aria nei polmoni per qualche secondo, mostrando all'altro i palmi delle mani: non aveva alcuna intenzione di raccogliere le sue provocazioni e fare a cazzotti.
Anche Burton ritrovò la calma, concedendosi un paio di respiri profondi. «Lei è una brava ragazza e merita di essere amata.»
«Tutto a posto, signore?» chiese Aiolos, raggiungendo i due uomini.
Shion Hayes annuì. Si voltò e iniziò a incamminarsi verso l'uscita del cimitero. Ma dopo pochi passi si fermò. «Saga è un ragazzo serio e coscienzioso. So che la ama con sincerità e non le farebbe mai del male. Non di proposito», disse. Poi, riprese la sua strada.
Aiolos squadrò Burton per diversi secondi, con una smorfia sulle labbra che voleva essere un sorriso di scherno. Avrebbe volentieri ripreso uno dei suoi duelli di nervi con lui, ma vi rinunciò subito. L'altro non sembrava certo voler fare lo sbruffone, anzi tutt'altro. Era visibilmente turbato. Il suo pensiero andò rapido al quadernetto che ancora teneva nascosto. C'erano diversi tasselli del puzzle che gli mancavano e nessuno a cui chiedere per completare il quadro.
A che scopo poi?
Non sarebbe spettato a lui farlo. Ma al punto in cui era arrivato, la sua posizione si faceva sempre di più compromessa.
«La signora Hayes non è in città in questi giorni», disse, facendo un cenno con la testa. Poi, seguì Shion Hayes.

*****

Caroline teneva lo smartphone stretto nella mano. Era in quella posizione da diversi minuti, con il display che mostrava il nuovo numero della madre. Non sapeva cosa fare, se chiamarla, se dirle degli ultimi avvenimenti che l'avevano vista coinvolta, se parlarle dello zio Phil che si era presentato a villa Hayes e aveva sconvolto tutti. Ancora non capiva cosa ci facesse in quella casa e come facesse a conoscere il padre di Saga. Di nuovo, fissò lo smartphone, sospirando. Avrebbe dovuto farsi sentire molto prima. Con la punta dell'indice sfiorò su “chiama” e attese.
«Mamma...»
«Caroline, tesoro mio!» esclamò Teresa. «Come ti senti?» Lo si avvertiva dalla sua voce che la donna era sorpresa di sentirla, ma anche molto felice, perché erano giorni che non aveva sue notizie e cominciava a preoccuparsi, soprattutto dopo quanto vissuto negli ultimi tempi.
Caroline titubò qualche secondo prima di rispondere, soprattutto per non farle intuire il suo vero stato d'animo. Fece un bel respiro e continuò con la telefonata. «Va meglio», le disse, stentando un sorriso. Parlava piano, quasi sottovoce.
«Mi fa piacere, tesoro. Vedrai che andrà sempre meglio», le disse la madre, con affetto.
«Tu e Mickey... voi come state? Mickey ce l'ha ancora con me?»
«No, Caroline. Stai tranquilla, tuo fratello non ce l'ha mai avuta con te. È solo che gli manchi. Ma lo sa che la tua vita è a Boston e non più qui con noi. Ora è tutto eccitato per la partenza», rispose la donna. E il sollievo nella sua voce era un sollievo anche per Cora.
«Quando partirete?»
«Fra qualche giorno. Ho già prenotato i biglietti.»
«Spero che Mickey si diverta tanto. Verrà con voi anche lo zio Phil? Dovrai presentarlo ai nonni, prima o poi.»
«Lavoro permettendo, Caroline. Ha detto che ci raggiungerà più avanti, dopo aver chiuso un caso che sta seguendo. Ora è a Boston, sai? Ma perché non venite anche voi due? Intendo dire... tu e... tuo marito.» Nel pronunciare quelle ultime parole, si sentì distintamente dell'imbarazzo. Per Teresa era ancora così strano pensare a Caroline, la sua bambina, come a una donna sposata. «Stare un mese in Italia, dai nonni, non potrà che farti bene. Il clima, il buon cibo... E poi, mi piacerebbe conoscerlo di persona.»
«Mi piacerebbe, mamma. Ma non so. Fra una cosa e l'altra, Saga e io non siamo riusciti a stare molto da soli fino a ora. Questa per noi è... la Luna di miele che non abbiamo fatto prima. Non so se vorrebbe venire», disse, abbassando ancora di più la voce. Quasi inconciamente coprì il cellulare con la mano e si girò un attimo verso il suo fianco, dove Saga stava dormendo placido sull'altro lato del letto.
«Vorrà dire allora che verremo tutti da te, quando torneremo. Non vedo già l'ora di riabbracciarti.»
«Sì, mamma. Anch'io non vedo l'ora di riabbracciarti», rispose Caroline, asciugandosi una lacrima.
«Non essere triste, bambina mia. Lo sento dalla voce che è così, quindi non mentirmi», la rimbrottò con affetto Teresa. «Ci sentiremo spesso, tutti i giorni, con le videochiamate su skype», le promise.
«Sì, mamma.»

*****

Alla giovane signora Hayes piaceva innegabilmente guardarlo dormire. Il viso di suo marito aveva un'espressione così angelica che sembrava un miracolo poterlo avere al suo fianco. Da più di mezz'ora era lì, seduta in mezzo al letto, con i capelli ancora umidi del bagno che aveva fatto e che ricadevano disordinati sull'accappatoio bianco dell'albergo, e distrattamente si accarezzava la fede nuziale che portava al dito. Si strinse al petto quella spugna morbida e profumata, aggiustandola anche sulle gambe, senza mai distogliere lo sguardo da lui. Non voleva perdersi neanche un istante del suo amore, ma più lo osservava e più i suoi occhi si velavano di lacrime. Si morse il labbro, per trattenersi. Poi, un respiro profondo per riprendere il controllo di sé. Infine, un lieve sorriso si disegnò sulle sue labbra, perché quella tenerezza che provava le faceva palpitare il cuore più forte del senso di colpa che sentiva costantemente dal giorno dell'aborto. Ma quella sofferenza era sempre lì, pronta a prendere il sopravvento.
Non importava se fosse stato naturale, o se si fosse reso necessario per salvarle la vita. Quel bambino arrivato così inaspettato l'aveva perso per sempre, ancora prima di sentirlo dentro di sé.
Deglutì a fatica, strofinandosi gli occhi con il bordo della manica dell'accappatoio e inspirò profondamente dalla bocca, per calmarsi. Lo guardò ancora per un po', si chinò su di lui e, con un certo timore, gli sfiorò i capelli che gli ricadevano sulla fronte. Non voleva svegliarlo. Sospirò d'amore. Dopo tutto quello che avevano vissuto – e così velocemente da non riuscire ancora a metabolizzarlo – ora lui sembrava sereno, almeno nel suo riposo. Le aveva dimostrato un affetto e un amore incredibili in quei giorni che avevano passato in albergo, ma chissà cosa aveva pensato di lei dopo che si era tirata indietro ancora una volta, quando le aveva chiesto di fare l'amore. Certo, l'aveva rassicurata che la capiva, che avrebbe aspettato tutto il tempo necessario, che avrebbe atteso il momento in cui si sarebbe sentita di nuovo pronta.
Ma per quanto tempo ancora Saga sarebbe stato così disponibile con lei?
Si portò una mano alla bocca e trattenne un singulto di pianto, che di nuovo si stava riaffacciando in lei. Era ancora così tremendamente emotiva. Forse, era colpa degli ormoni sballati. Forse lo era sempre stata e non se ne era mai resa conto sul serio.
«Sei troppo buono, troppo gentile, troppo comprensivo, per essere reale», sussurrò, avvicinando la mano tremante alla guancia di suo marito; ma non riuscì a daregli quella carezza che avrebbe voluto. E allora rimase a guardarlo, senza muoversi, per non turbare il suo sonno. Eppure, più stava lì, più pensava, e più le veniva da piangere, perché non si meritava un uomo così meraviglioso al suo fianco.
Qualcosa la distrasse all'improvviso. Rumori e suoni strani, per non dire sospetti, che provenivano dalla parte opposta della suite. Si girò verso la porta, tendendo l'orecchio per ascoltare meglio. Li sentì di nuovo, ma questa volta era sicura di cosa si trattasse: era il miagolio della gattina e il suo raspare su qualche superficie dura, ed erano insistiti e frustrati. Stava per alzarsi dal letto, per farla smettere. Poi tutto tornò silenzio e pochi secondi dopo la vide zampettare rapida, impettita, fiera; oltrepassare la soglia della camera e arrivare fino ai piedi del letto. Allora, batté piano la mano sulla coperta e Kitty fece un balzo sul materasso, avvicinandosi a lei e strusciandosi prima con il musetto e poi con il fianco, sulla sua gamba.
«Brava, piccolina», le sussurrò, accarezzandola sulla testolina nera con la punta dell'indice.
Kitty rispose facendo le fusa e muovendo il musetto, chiedendo ancora coccole. Affondò le unghiette aguzze nella spugna, iniziando a impastare, ma rimanendovi subito incastrata. Quella situazione non le piaceva e provò a liberarsi dando degli strattoni, senza ottenere alcun risultato, tirando solamente i fili della stoffa.
«No, no, stai buona. Aspetta!» le disse Cora, ridacchiando piano. «Non in questo modo, così si rovina!»
Le afferrò con delicatezza la zampina e, rischiando l'incolumità della propria mano, la tirò leggermente per liberarla, ma non la lasciò andare subito. Si divertì a giocherellarci un po'. Vedendo che si stava innervosendo, la prese in braccio e la coccolò, stringendosela al petto, sentendola fare le fusa. La sensazione della pelliccia morbida di Kitty sulla sua pelle era piacevole. La gattina era calda e soffice. La teneva fra le braccia come un neonato, coperta dalla manica abbondante dell'accappatoio. Con il dito le astuzzicò il musetto. La vide aprire la bocca e mostrare i dentini lattei. C'erano ancora i doppi canini. Allora le sfiorò le vibrisse e di nuovo lei mosse la bocca e le zampine, come se avesse voluto catturarle il dito e morderla, facendola ridacchiare per il solletico che le procuravano inevitabilmente quelle “carezze”.
«È bello vederti ridere.»
Cora alzò di scatto lo sguardo su Saga, colta di sorpresa. «Ti ho svegliato? Mi dispiace.»
Il giovane si tirò su, appoggiandosi con il braccio al materasso, scrollando piano la testa, mostrandole un'espressione serena. Allungò una mano e accarezzò Kitty. Subito la piccolina non si lasciò sfuggire l'occasione di dimostrare la sua preferenza per lui, leccandogli la punta delle dita con la sua piccola lingua rasposa.
«Sembra quasi un neonato», mormorò Saga. Se ne pentì nel momento stesso in cui lo aveva detto, osservando la lieve reazione di lei e le sue labbra che si erano mosse a pronunciare un muto “perdonami”. Fece un respiro profondo e si sedette sul bordo del letto, dandole le spalle. «Vado a farmi una doccia», disse, celandole la delusione che si sentì addosso all'improvviso.
«No! Non andare!» esclamò Cora, abbandonando Kitty – che si era rigirata sul materasso per poi zampettare via e acciambellarsi sul cuscino di Saga – e appoggiandosi alla schiena del compagno.
Saga le accarezzò la mano posata sulla propria spalla. «Non vuoi che vada a lavarmi?» le disse, provando a stemperare quel momento di tensione. Avvertì il movimento della testa della moglie; poi, anche le sue labbra che gli lasciavano dolci baci sulla pelle. Fece un lungo sospiro. Non aveva idea di come comportarsi con lei: un momento era serena, un momento dopo – per una parola di troppo – si intristiva spezzandogli il cuore, e un altro momento si comportava in maniera sensuale e romantica, facendolo eccitare. Proprio come stava accadendo in quel momento. Se avesse continuato in quel modo lui le avrebbe chiesto di fare l'amore e lei, probabilmente, si sarebbe tirata indietro, come succedeva sempre.
«Per favore», sussurrò Cora, nell'avvertire il movimento di Saga, che voleva alzarsi dal letto. «Per favore», ripeté in un respiro caldo che si infranse sulla schiena del marito. Sembrava un'invocazione di aiuto.
Appoggiata a lui con la fronte, con le mani si allentò la cintura dell'accappatoio e lo aprì, offrendosi completamente nuda a lui.
«Non puoi fare così», le disse Saga. Seppure non la stava guardando, capiva la situazione.
«Lo so. Perdonami.» Fece una pausa. «Ho paura», gli confessò lei. «Mi sento come se fosse la mia prima volta, ma questa volta... ho paura.»
«Una nuova verginità», mormorò lui. «È strano, eppure... mi piace. Mi sento... lusingato», disse, arrossendo lievemente. Si girò verso Caroline, trovandola con lo sguardo basso. «Se fosse solo questa la tua paura», le disse, alzandole il mento e mostrandole un sorriso.
Non voleva sviscerare di nuovo la vera ragione di quella rigidità che bloccava la sua Caroline. Non voleva vederla piangere. Lui era un uomo e probabilmente non avrebbe mai capito fino in fondo il dolore che aveva provato e che sempre avrebbe provato lei come donna. E allora preferì accettare ciò che gli aveva detto. La baciò. Prima piano, con dolcezza, per vincere le sue resistenze. Poi, con maggiore insistenza e passione, per coinvolgerla e magari permetterle di lasciarsi andare. La incoraggiò a sdraiarsi e, con la mano, le accarezzò il ventre.
La vedeva nuda, bellissima, perfetta ai suoi occhi. Sorrise, Caroline non si mostrava imbarazzata, eccetto per quella piccola cicatrice che nascondeva con la mano quando lui la sfiorava.
«Se te ne vergogni, possiamo consultare un chirurgo plastico per farla togliere», le propose. Non erano parole dette così, tanto per dire, avrebbe fatto di tutto per farla stare bene.
Cora lo rassicurò che non c'era problema. Eppure, qualcosa non andava in lei. La vide chiudere gli occhi e trattenere per un attimo il respiro.
Saga scrollò la testa, le rimise addosso l'accappatoio e le si sdraiò a fianco, stringendola in un abbraccio. «Non fa niente», le sussurrò all'orecchio, dandole un bacio sulla guancia.
Kitty balzò sul suo stomaco all'improvviso, miagolando e impastando con le zampine, facendolo ridere. «Abbiamo lei», disse senza riflettere, prendendola con una mano e sollevandola sopra di sé, ridendo nel vederla agitarsi.
«Sì, abbiamo lei», ripeté in un mormorio atono Caroline, ancora con gli occhi chiusi, cercando la mano di Saga e intrecciando le sue dita a quelle di lui.
Ma in realtà la giovane non voleva accontentarsi di un gatto, seppure ora le era molto affezionata. Si morse il labbro: dentro di sé voleva ritrovare quella determinazione che l'aveva aiutata in passato a riprendere in mano la propria vita e che, era certa, avrebbe fatto anche questa volta.
«Non voglio solo questo», disse, stringendo la mano di suo marito. «Rivoglio la mia vita, la felicità che mi hai promesso e...»
Di nuovo trattenne il respiro, per poi buttarlo fuori tutto in una volta. Si tirò su e fece un respiro profondo. Sentiva che stava per venirle voglia di piangere, ma non voleva più permettere a se stessa di autocommiserarsi.
«Io ti amo», gli disse, facendo scivolare nuovamente via da sé l'accappatoio. Si girò e lo guardò. «Voglio darti dei figli.»



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Capitolo 31
*** Capitolo XXX ***







XXX



Una telefonata inattesa aveva colto Anne Taylor, quasi a mezzanotte di sabato sera, nello studio che un tempo era del padre, nella casa di famiglia, con un bicchiere di vino rosso in mano, mentre lavorava all'arringa finale per il processo che si sarebbe concluso il lunedì successivo. Per casi importanti come quello, era solita lavorare da sola e scriverle da sé, le arringhe: non si fidava degli associati del suo studio legale, né permetteva a Richard, il gemello, di prendere parte a quella fase delicata, soprattutto perché non voleva condividere il merito della sicura vittoria con nessun altro che non fosse lei stessa.
Era stata una conversazione breve, nella quale il suo interlocutore le aveva dato appuntamento in un bar nei pressi del porto, ma lei invece aveva stabilito che si incontrassero allo studio legale per l'indomani mattina, perché sapeva sarebbe stato deserto.
E quella domenica mattina la donna si trovava lì, nel suo lussuoso ufficio, seduta dietro la sua scrivania da quindicimila dollari, dal design moderno, con un bicchiere di pregiato scotch whisky in mano e le gambe accavallate in posa sensuale.
«Allora?» disse lei con evidente fastidio. Si aspettava di incontrare l'altro socio, quello più anziano, quello a cui aveva affidato l'incarico più di vent'anni prima. Invece a trattare con lei c'era uno sbarbatello che poteva avere sì e no vent'anni.
Il giovane uomo, seduto su una delle poltroncine di fronte a lei, piegò le labbra in un ghigno, togliendosi la sigaretta dalla bocca e sbuffando una maleodorante nuvola grigiastra alla sua destra. Dalla tasca interna della giacca di jeans sgualcita tirò fuori delle fotografie e le fece scivolare sulla scrivania. La donna le blocco con la mano, facendo rumore con il grosso anello che portava al dito.
La prima fotografia era di Anthony ed era stata ricavata dall'annuario del 1983  dell'Università di Harvard; la seconda era invece una polaroid dei gemelli, scattata pochi giorni dopo la loro nascita, mentre l'ultima ritraeva un uomo molto somigliante ad Anthony.
Anne Taylor fece una smorfia nel vedere il giovane volto di Anthony e trattenne a fatica il proprio disgusto. Poi, alzò lo sguardo interrogativo sul cacciatore di taglie.
«Ho chiesto a un mio amico di elaborare una seconda volta l'immagine dei bambini con il software che usano all'FBI nei casi di scomparsa, per invecchiare i volti e vedere come sarebbero oggi. Con le nuove tecnologie il procedimento è più affidabile e il risultato è più realistico», spiegò.
«È solo per questo che ha chiesto di incontrarmi, mr Scorpio?» domandò la donna.
L'altro sogghignò, prendendo una lunga bocca dalla sigaretta. «C'è dell'altro, naturalmente, ma ha un prezzo.»
«Non ne dubitavo», replicò lei.
Dalla borsa posata poco più in là, prese il carnet degli assegni: ce n'era già uno compilato, mancante solo della cifra. A quello pose rimedio lì sul posto. Afferrò la stilografica d'oro e, con tratti rapidi e decisi, lo completò.
«Cinquemila dollari dovrebbero essere più che sufficienti per un'informazione. Se poi questa porterà a risolvere in maniera definitiva il problema, allora ne riceverà altri ventimila.»
Attese la conferma da parte del giovane e staccò l'assegno con un movimento secco, allungandoglielo, tenendolo con due dita; ma nel momento stesso in cui il cacciatore di taglie tentò di prenderlo, lei ritrasse la mano, fissandolo con piglio severo. Non erano necessarie altre parole.
Scorpio stette al gioco e, dalla stessa tasca, tirò fuori un vecchio modello di Ipad. Selezionò il filmato, lo fece partire e lo mostrò alla donna.
Anne Taylor lo guardò per intero ben tre volte, con occhi attenti, prima di restituire l'apparecchio all'altro. «La somiglinza è sconcertante, non c'è che dire», mormorò, rigirandosi nervosamente l'anello con un rubino da dodici carati. «Hai altre informazioni a riguardo?»
«Sono entrato in alcune chat e ho fatto un po' di domande, per scoprire qualcosa di più, ma ancora non sono riuscito a scoprire quale nome usi. Per quel che riguarda il filmato, è stato girato alle Cascate del Niagara. Purtroppo però non ci sono significativi riferimenti per capire su quale versante si trovi, se quello canadese o americano. Inizierò da Buffalo, ho il volo nel pomeriggio.»
Se pensava di ottenere l'approvazione da parte della donna, esponendole i suoi piani nell'immediato, aveva sbagliato i conti, poiché Anne Taylor rimase impassibile. Lei voleva risultati e non chiacchiere.
«E per quell'altra faccenda?» domandò ancora la donna.
Scorpio scrollò la testa. «Tutte le prove e i documenti ufficiali dicono che è deceduto in carcere. Non ci sono tracce che possa essere ancora in giro. E comunque, malato com'era, non può essere sopravvissuto. È passato troppo tempo. Quella ormai è una pista morta.»
«Anche per i gemelli era passato troppo tempo, eppure uno dei due è spuntato fuori.» La donna lanciò l'assegno sulla scrivania, ma era già concentrata su come muoversi da quel momento in avanti.
Dopo esserselo rigirato due o tre volte fra le mani, il cacciatore di taglie lo intascò. Poi si mise di nuovo in bocca la sigaretta, lasciandosi cadere addosso la cenere senza preoccuparsene. Si alzò, fece un breve cenno di saluto con la mano e uscì, con quel nuovo incarico implicitamente accettato.

Anne Taylor si appoggiò allo schienale della poltrona e rifletté per qualche secondo, sorseggiado il suo whisky. Dopo così tanti anni ne aveva ritrovato uno. Forse, quella somiglianza così sorprendente poteva anche essere una coincidenza, o più semplicemente il risultato mostrato nella foto poteva essere stato guidato. Del resto, quel tipo di manipolazioni digitali era solo il risultato di un mero calcolo matematico e algoritmi astratti; ma la fisionomia di una persona dipendeva da molti fattori, anche ambientali.
Accese il laptop e cercò quel video su internet. Rimase a visionarlo per più di un'ora. Quel giovane uomo biondo era quasi sempre inquadrato di profilo, a volte di spalle, perché chi stava filmando preferiva concentrarsi sulla ragazza. La qualità delle immagini non era un granché, ma la voce aveva qualcosa di terribilmente familiare. Ne cercò altri dello stesso genere per essere sicura; ne trovò uno più completo che andava oltre a quella dichiarazione smielata che le aveva dato il voltastomaco: i due giovani erano stati ripresi seduti al tavolino, mano nella mano, a sorseggiare una bevanda calda e si dividevano una fetta di torta. Riconobbe la Boston cream pie e si lasciò sopraffare per un istante dai ricordi, pensando che quello era il dolce preferito di Emma.
Si biasimò: tali debolezze non erano da lei. Poi, sgranò gli occhi, incredula. In quei fotogrammi, in quei pochi secondi di filmato, dove il giovane era inquadrato proprio di fronte, le sembrò di rivedere in lui i modo pacati di Anthony. Lo aveva conosciuto bene in passato, in tutti quegli anni che aveva vissuto in casa Taylor, con loro. Era stato il pupillo di suo padre e... il suo burattino.
Mise in pausa il filmato e stampò l'immagine, studiandola con insistenza.
«Se solo quell'idiota non si fosse divertito con quell'orfanello che papà si era portato in casa....» grugnì, mandando giù tutto d'un fiato il whisky rimasto nel bicchiere.
Non aveva mai creduto alla morte di Anthony. Se anche la corporatura, il colore dei capelli e il gruppo sanguigno corrispondevano, il viso del cadavere che le avevano mostrato era troppo tumefatto per un riconoscimento ufficiale; neppure le lastre dentali erano servite a dare una corrispondenza certa. E all'epoca le analisi del DNA erano troppo costose e non così affidabili come oggigiorno.
Gettò il foglio sulla scrivania, prese il cellulare e compose il numero privato di JJ. Chissà che ora, con quelle nuove scoperte, non si sarebbe deciso ad acconsentire a richiedere la riesumazione del corpo.

*****

Da quando erano tornati nella loro casa di Boston, quella sopra il negozio, Saga si era svegliato quasi ogni mattina da solo nel letto. In quelle occasioni, sospirava deluso e si girava sull'altro fianco, rimanendo poi sdraiato ancora qualche minuto con lo sguardo fisso sulla sveglia. Aveva imparato, nelle settimane trascorse alle Cascate del Niagara, che Caroline non era una persona mattiniera. Per questo, quando trovava il lato del letto della compagna vuoto, la sua testa si riempiva di pensieri tristi, immaginando che in quelle occasioni lei si estraniasse e pensasse a cose che invece dovrebbe lasciarsi alle spalle.
Gli tornò in mente la breve chiacchierata fatta con il padre; e con essa anche la voglia di bere, nonostante fosse la persona più lontana dall'alcolismo che potesse esistere al mondo. Chiuse gli occhi e strinse le labbra.

Il padre lo aveva trovato in biblioteca, con in mano un bicchiere di whisky e la bottiglia quasi vuota lì vicino. Non gli aveva nascosto il suo stupore, poiché sapeva che lui non era tipo a cui piaceva bere, ma poteva comprendere perché lo stesse facendo, soprattutto in quel modo.
Shion si era avvicinato al mobile bar, aveva preso un bicchiere e del ghiaccio dal secchiello, poi si era seduto sull'altra poltrona e aveva osservato il figlio di sottecchi, rimanendo in silenzio per diversi secondi. Dopo un debole sospiro, aveva preso la bottiglia dal tavolino e si era riempito il bicchiere. Si era bagnato le labbra, assaporando lentamente quel forte liquido ambrato, mentre continuava a tenere d'occhio Saga, notando con dolore il suo sguardo perso nel vuoto. Ma sapeva che lui era comunque presente. Se gli avesse parlato, l'altro avrebbe ascoltato.
«Una volta...» aveva rotto il silenzio, «una nostra illustre concittadina, la matriarca della famiglia più famosa del mondo, pronunciò queste parole: “Alcuni dicono che il tempo sana tutte le ferite. Io non sono d'accordo. Le ferite rimangono. Col tempo, la mente, per proteggere se stessa, le cicatrizza e il dolore diminuisce, ma non se ne vanno mai.”.»
Aveva fatto una pausa, per osservare la reazione dell'altro che invece continuava a rimanere in silenzio, impassibile, neanche fosse stato perso nei suoi pensieri. Ma Shion Hayes era più che sicuro che stesse ascoltando.
«Era una donna che aveva perso molto nella sua vita, ma non si era mai arresa», aveva aggiunto in un sospiro. «Non voglio paragonare le due situazioni. La tua e quella della matriarca dei Kennedy. Il dolore che stai provando in questo momento non credo di poterlo neanche immaginare: sei venuto a sapere in modo traumatico –  in un momento altrettanto drammatico, nel quale eri a terra e ammanettato ingiustamente – che stavate aspettando un figlio, e non ti è stato dato il tempo di rendetene conto che già ti era stato strappato via. E ora sei qui ad annegare i tuoi dolori nell'alcol.»
Saga aveva portato il bicchiere alla bocca e aveva trangugiato il contenuto in un solo sorso, continuando a fissare i mattoni anneriti da decenni di fuliggine del camino vuoto.
Shion aveva fatto una smorfia, scrollando impercettibilmente la testa. Aveva notato come il figlio subito dopo avesse strizzato gli occhi per un momento, forse per fermare le lacrime.
«Anche in questo aspetto assomigli molto ad Anthony. Neanche a lui piaceva bere, ma non perché non lo reggesse; sospetto... che non volesse rischiare di lasciarsi andare e di perdere il controllo. Era così attento in tutto, manteneva il controllo in ogni situazione.»
Shion non si era mai soffermato a pensarci seriamente, ma doveva essere così. In effetti non ricordava di aver mai visto Tony andare oltre un paio di bicchieri, le rare volte che riusciva a farlo partecipare alle feste delle confraternite, quando erano stati studenti ad Harvard. Invece lui finiva sempre per ritrovarsi sdraiato da qualche parte, completamente ubriaco. Aveva abbassato lo sguardo sul suo bicchiere ancora pieno. All'improvviso gli era passata la voglia di bere.
Saga aveva corrugato la fronte nel sentirsi paragonato a un uomo a lui del tutto sconosciuto. Aveva provato fastidio, ma anche una punta di curiosità. Cos'altro avrebbe scoperto che lo rendeva simile ad Anthony Young, l'uomo che aveva abbandonato lui e il gemello e aveva fatto poi quella brutta fine?
«Credi che in qualche modo Anthony abbia provato lo stesso?» aveva domandato il figlio, con voce atona.
«Forse anche di più», aveva risposto Shion, senza esitare. «Sono certo che quando si è separato da voi, lui e anche tua madre, si siano sentiti morire. Ma è stato diverso, loro sapevano che voi due avreste vissuto una vita migliore, che sareste stati protetti.»
«Non ha avuto il coraggio di dirmi niente», aveva sussurrato Saga, parlando di Caroline. «Ha lasciato che facessi progetti, che parlassi dei miei sogni... quando era con Nanny sembrava così naturale.»
Aveva allungato la mano per prendere la bottiglia e servirsi dell'altro whisky, ma la sua mano era stata bloccata da quella di Shion. Saga lo aveva guardato con gli occhi arrossati e visibilmente annebbiati dai fumi dell'alcol, incontrando quelli più comprensivi e saggi del padre.
«Lo so che stai soffrendo, che ti senti tradito, preso in giro, ma pensa a cosa possa aver provato lei. Per una donna è diverso. È più straziante. Soffre dentro, senza darlo a vedere. Quando perde un figlio, la cicatrice rimane indelebile nel suo cuore, ma sa essere forte, per amore, per continuare ad andare avanti.»

Saga scostò il lenzuolo e si sedette sul bordo del letto. Prima di alzarsi si pettinò i capelli con le mani, passandole due o tre volte in quella bella capigliatura bionda che gli arrivava un poco oltre le spalle. Fece un mezzo sbuffo e si mise in piedi. Quella mattina faceva caldo. Si vestì con i pantaloni del pigiama che prese dalla sedia e uscì dalla camera. La casa era tranquilla e la luce dell'alba si rifletteva sulle pareti e sui mobili con un chiarore soffuso e rilassante. Fece un paio di respiri profondi: non sentiva odori particolari provenire dalla cucina, anche se tutto sommato era presto per la colazione. Percorse il corridoio e vi si affacciò, rimanendo appena al di là della soglia. Vide Cora seduta sulla cassapanca bianca, fissata sotto la finestra e incassata fra la credenza dei piatti da un lato e una piccola libreria dall'altro. Teneva le ginocchia al petto e sorseggiava qualcosa dalla tazza. Entrando non aveva sentito l'aroma del caffé e sapeva che la sera precedente non ne era avanzato. La cucina poi era in perfetto ordine, anche l'angolo destinato alla gattina.
Allora, quando l'aveva preparato? Da quanto tempo era sveglia, se quella sera avevano fatto l'amore fino a tardi?
Kitty era acciambellata vicino ai piedi di Caroline e muoveva pigramente su e giù la punta della codina. Spostò per un attimo l'attenzione sulla bestiola e la osservò stiracchiare una zampina e puntare le unghiette nella stoffa del materassino. Poi, sbadigliare e portare all'indietro le piccole orecchie nere, facedole tremare in modo lieve.
Saga sorrise e si avvicinò piano a Caroline che invece sembra più interessata a guardare qualcosa giù nel cortile.
«Buongiorno», la salutò, baciandola sulla testa. «Credevo non ti piacesse il caffè nero», le disse, osservando il contenuto della tazza.
La giovane alzò lo sguardo su di lui e ricambiò il sorriso. «Non è vero caffè: è quello d'orzo, aromatizzato con il ginseng. Me lo ha consigliato una delle commesse del minimarket», rispose, porgendogli la tazza per farglielo assaggiare.
«Ha un profumo particolare», commentò Saga, posando entrambe le mani su quella della moglie e avvicinando la tazza al naso per sentirne l'aroma, bevendone poi anche un sorso. «È freddo! Ha un gusto strano e... è dolce.»
«Sì. Mi piace molto in questo modo. È dissetante.»
«Allora ne terremo sempre una caraffa piena in frigorifero», le disse, addolcendo ancora di più la voce. «Ti va di fare colazione? Ci vogliamo riprovare con i pancake?» le propose, considerato che erano abituati a mangiare solo latte e cereali.
Vide con rammarico che la sua proposta era caduta nel vuoto e, un po' avvilito, si apprestò a prendere il libro di ricette dei dolci: benché i pancake fossero una delle ricette più semplici, ancora non conosceva a memoria le dosi e gli ingredienti.
Caroline sgranò gli occhi e scattò in piedi. «Sì! La preparo subito», esclamò, appoggiando la tazza sul piano dell'isola e affrettandosi a prendere una ciotola di vetro e la frusta.
Poi, dal frigorifero prese due uova, il latte e il burro. Ci mise troppa foga, tanto da lasciare Saga sbigottito e con il libro ancora a mezz'aria, incredulo sull'effetto che le sue parole avevano avuto su di lei. Le mani Caroline ebbero un tremito improvviso e una delle uova le scivolò, schiantandosi a terra ai suoi piedi e schizzando ovunque sul parquet scuro.
«Scusami. Ora pulisco», disse lei, con voce nervosa, strappando alcuni fogli dal rotolo di carta cucina e inginocchiandosi per raccogliere i pezzi di guscio.
«Cora...» provò a richiamarla lui, bloccandole le mani ancora tremanti.
«No. Caroline. Il mio nome è Caroline. Basta con questi giochi infantili, con i nomi inventati e progetti impossibili. È tempo di fare le persone adulte», disse, scrollando la testa e nascondendogli lo sguardo addolorato.
Saga la fece alzare e la strinse in un abbraccio disperato. La tenne così per diversi secondi, sentendola tremare. «Ora il pigiama è completo», sussurrò, come se quella fosse stata una cosa di fondamentale importanza.
Caroline rise per quell'affermazione, rimanendo con il viso nascosto nel suo petto, odorando la sua pelle calda e confortevole. Era vero, quando si era alzata dal letto si era messa addosso la giacca del pigiama del marito. Gli strinse le braccia dietro la schiena e si aggrappò a lui, soffocando le lacrime che non riusciva a fermare, mentre ai loro piedi Kitty leccava avidamente il tuorlo dell'uovo caduto, solleticando al tempo stesso con la coda la sua caviglia.
«Va tutto bene, amore mio. Va tutto bene», la rassicurò Saga, continuando a tenerla stretta a sé.
Non era uno psicologo, ma sapeva che così lei non poteva andare avanti. Fin quando erano stati in Luna di miele, dopo i primi giorni, lei pareva aver ritrovato una certa serenità, ma dal loro ritorno a Boston, pian piano aveva iniziato a spegnersi. Non era colpa sua, lei ci stava provando, ma evidentemente non bastava. La sua Caroline, la donna che amava, aveva bisogno di un sostegno per superare il trauma; e forse, trovare qualcosa che la impegnasse, che non la facesse pensare, le sarebbe stato d'aiuto.
Il corso di criminologia cadeva giusto a proposito, ma mancavano ancora due settimane al suo inizio e lui non era sicuro che nel frattempo le cose non potessero anche peggiorare. Questa situazione così incerta lo angosciava molto.
«Che ne dici se questa volta proviamo a fare i pancake al cacao, o magari al burro di arachidi?» le propose, baciandola ancora una volta sulla testa. «Poi, se te la senti, potremmo uscire e andare da qualche parte.»
«Mi piacerebbe, ma devo passare all'agenzia di mr Price. Manco da troppo e chissà quanto lavoro si è accumulato, oltre quello che già dovevo sbrigare. E poi, devo organizzarmi con i nuovi orari, prima dell'inizio del corso», rispose lei, staccandosi dal marito e mostrandogli il viso ora più sereno nonostante fosse bagnato di lacrime.

*****

Saga l'accompagnò fino all'agenzia investigativa. Camminarono un bel pezzo, mano nella mano, dalla fermata dell'autobus fino al portone della palazzina, parlando un po' di tutto, anche della possibilità di comprare un'auto, perché nessuno dei due pareva possederne una. Caroline aveva riso quando lui le aveva confessato che aveva passato a stento l'esame per la patente e, non fidandosi delle sue capacità, guidava di rado; per quel motivo, benché in famiglia ne possedessero diverse, non aveva un'auto a suo nome e preferiva muoversi con i mezzi pubblici. Quando fu il turno di lei, cambiò argomento. Erano stati bene. Lui si era sentito bene durante quella passeggiata, immaginando che la vita da sposato potesse essere sempre come in quei minuti: a ridere, a fare progetti per piccoli acquisti, a decidere cosa preparare per cena. Caroline era più serena quando cucinava, aveva scoperto che le piaceva provare piatti nuovi e sperimentare; spesso lo facevano assieme: lui leggeva le istruzioni nel libro e lei eseguiva; e poi improvvisavano.
Rimasero di fronte all'entrata della palazzina dell'agenzia ancora per alcuni minuti, poi Saga la salutò con un bacio e attese, con il sorriso sulle labbra, che entrasse.
Tornando verso il semaforo, per arrivare sulla via principale e fermare un taxi, prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni scuri e chiamò casa. Passò di fianco a diverse automobili parcheggiate, pensando vagamente ai vari modelli, scrollando la testa: per lui erano tutte uguali. Incrociò la strada con un passante che gli sfiorò il braccio, senza dare l'impressione di essersene accorto. Per un secondo gli sembrò Aiolos. Ebbe la tentazione di chiamarlo, ma non poteva essere, altrimenti l'altro si sarebbe fermato. Non gli diede più peso e proseguì per la sua strada.
Durante il viaggio in taxi, continuò a rimuginare su cosa avrebbe detto e come si sarebbe comportato; e anche su cosa loro avrebbero potuto dirgli. Di sicuro avrebbero cercato di convincerlo a tornare, adducendo come giustificazione le sue condizioni di salute. Quello era un deterrente che lo aveva frenato per quasi metà della sua vita. Si toccò inconsciamente la tempia destra, grattandosi la cicatrice con insistenza, come capitava sempre quando c'era qualcosa che lo impensieriva, e uno strano malessere prese a pesargli addosso.
Si presentò alla porta d'ingresso della villa verso le quattro e venti del pomeriggio, suonando il campanello come un estraneo qualunque. Gli venne ad aprire Shura. All'uomo bastò un primo sguardo per capire come stesse il giovane. Non gli fece domande – e di questo Saga gliene fu grato –, né lo subissò di attenzioni, che per lui in quel momento sarebbero sembrate pesanti come un biasimo. Ma non poté evitare quelle di Nanny, quando entrambi misero piede in cucina.
«Saga, tesoro mio!» esclamò la donna, andandogli incontro e abbracciandolo con le lacrime agli occhi.
Lo tenne stretto a sé come se, lasciandolo poi andare, avesse timore di non rivederlo più. Fu rincuorata in piccola parte nel sentire che lui stava ricambiando l'abbraccio, ma era davvero poca cosa per il suo cuore sempre in pena. Il suo Saga non era mai stato per così tanto tempo lontano da quella casa e da lei. Si staccò infine da lui e si asciugò gli occhi con un angolo del grembiule sporco di farina e cacao.
«Quando Shura mi ha detto che saresti venuto a casa non riuscivo a crederci. Mio Dio, fatti vedere. Mi sembri così...»
Nanny preferì non completare la frase, i suoi occhi già esprimevano con chiarezza ciò che avrebbe voluto dire, ovvero che lo trovava un po' sciupato. Gli accarezzò la guancia e trovò la conferma che il suo bambino aveva qualche problema che lo preoccupava molto.
«Nanny, sono venuto solo a parlare con...» Nel pronunciare quelle parole, la voce di Saga ebbe un attimo di incertezza.
L'anziana donna rimase visibilmente delusa. Sperava si sarebbe trattenuto di più, magari fino a cena. Sospirò e gli prese le mani. «Tuo padre è in giardino. Ma prima che ti lasci andare da lui, parlami di te: come stai? E Caroline, quella povera ragazza, come sta? Ti prego, dimmi la verità», lo esortò, con tono accorato.
«Sta meglio. Oggi è voluta tornare al lavoro», disse Saga, ma nel risponderle era evidente il suo disagio. Provò a distogliere lo sguardo da quello indagatore della donna, perché sapeva fin troppo bene che Nanny era in grado di capire subito quando mentiva.
Nanny lo strinse forte in un altro abbraccio, accarezzandogli la testa bionda. Anche lei aveva qualcosa da nascondere: sentiva che da un momento all'altro avrebbe pianto e non voleva farsi vedere in quello stato, soprattutto non dal suo bambino. «Per Caroline», sussurrò, indugiando a lungo, dandogli anche un bacio sulla guancia. «Ora vai da tuo padre, che io ho da fare qui!» disse, riprendendo il suo solito vigore. Poi squadrò severamente Shura che rispose con un cenno del capo, seguendo il giovane.

Saga si fermò per qualche secondo nel porticato. Diede una lunga occhiata all'immenso giardino di fronte a sé. Notò il gazebo bianco, di forma ottagonale: quell'anno lo avevano contornato di azalee rosa e bianche. Quando mise piede oltre il porticato, venne investito da un sole caldo e accecante. Si schermò gli occhi con una mano e si diresse al gazebo.
Il padre gli dava le spalle, seduto su una delle poltroncine da giardino. Non era solo, Saga aguzzò un poco la vista e intravide un'ombra che si muoveva sull'altra poltroncina, quasi di fronte a Shion. Percepì una voce lieve e poi una risatina, e vi riconobbe Saori. Sorrise al pensiero che, con la presenza dei due ospiti giapponesi, il padre e Nanny non sarebbero rimasti soli in quella grande casa.
Continuò a camminare sul prato perfettamente curato, ma più si avvicinava, più sentiva le gambe diventare molli, più cresceva in lui un certo disagio.
Saori alzò per un momento gli occhi dal libro mentre girava la pagina e si accorse dell'arrivo di qualcuno in compagnia di Shura. «È tornato Kanon», disse a bassa voce, rimanendo a bocca aperta. Erano quasi due mesi che non lo vedeva e all'improvviso sentì una strana attrazione. Arrossì e abbassò gli occhi, toccandosi prima i capelli e poi lisciandosi con entrambe le mani la gonna del suo vestitino di cotone chiaro con stampe a fiori.
Shion girò un poco la testa e lo vide. «No, cara, è Saga», disse, allungandosi per prendere il bicchiere di tè freddo e bevendone un piccolo sorso. Con la coda dell'occhio notò una punta di delusione nella giovane. Guardò l'ora. «Chiedi a Nanny di prepararti qualcosa per merenda», le disse.
Saori annuì, chiuse il libro che stava leggendo e si alzò dalla poltroncina. Intuì subito che si trattava di una scusa e che l'uomo voleva parlare in privato con il figlio. Nel dirigersi verso la casa incrociò la strada con Saga. Si fermò un attimo e lo salutò con un inchino.
«Buongiorno, Saori», la salutò lui.
«Buongiorno, mr Hayes», rispose la ragazza.
«Sono semplicemente Saga», le disse, sorridendo, ma in lieve imbarazzo per tanta formalità da parte della giovane.
«Ora siete un uomo sposato», replicò Saori, con un pizzico di delusione nella voce, continuando a tenere lo sguardo basso. «Con permesso.»
Saga si scostò per lasciarla passare; poi, tornando con lo sguardo al gazebo, fece un respiro profondo. Il disagio di prima stava diventando più pressante. Gli sembrava di essere un bambino che va incontro a una punizione inevitabile, di essere tornato a qualche mese prima, quando il padre lo aveva chiamato in biblioteca e lo aveva tenuto lì, in piedi di fronte a lui, senza nemmeno rivolgergli uno sguardo o una parola, ferito e umiliato. Ma ora, nonostante avesse fatto tutto così in fretta e di nascosto, sapeva di essere nel giusto, perché aveva fatto qualcosa per se stesso, per la sua vita.
«Buongiorno, papà. Come stai?»
Shion Hayes girò la pagina del quotidiano che stava leggendo, gli diede una scorsa veloce, come se non avesse sentito il figlio e lo ripiegò con cura. Poi si tolse gli occhiali da lettura: nonostante fossero già alcuni anni che gli era stato consigliato l'uso, aveva preferito ignorarli, accantonati in una delle taschine della ventiquattrore. Era solo nelle ultime settimane che non aveva potuto farne a meno, sentendo i suoi occhi più stanchi e affaticati del solito.
«Accomodati, Saga. Gradisci un po' di tè freddo?» chiese, prendendo la caraffa e riempiendo il bicchiere della bevanda fresca.
Saga sfogò la tensione di quel momento, di predentarsi lì a chiedere un favore personale, stringendo con la mano il cuscino dello schienale della poltroncina, poi la spostò un poco indietro e vi si sedette, accettando il bicchiere che il padre gli aveva offerto, mentre Shura prendeva posto nell'altra poltroncina. «Porti gli occhiali?» domandò meravigliato.
«La vecchiaia», rispose laconico l'uomo, massaggiandosi la base del naso. «Qual buon vento ti porta da queste parti?» gli chiede, permeando quelle parole di una lieve sfumatura di ironia.
Saga abbassò lo sguardo sulle sue mani appoggiate alle cosce che si erano mosse nervose.
«Scusami, non volevo metterti in difficoltà», riprese Shion. «Come va la tua nuova vita, come state tu e Caroline?» domandò, questa volta con sincero interesse.
«Sono qui proprio per lei», sospirò Saga, mostrando ora tutta la preoccupazione che provava fin da quella mattina.
Shion lo fissò sbigottito, ma anche Shura, che era rimasto in silenzio – quasi disinteressato – durante quella conversazione che stentava a svolgersi, a quelle parole si fece più attento.
«Saga, c'è qualche problema?» gli domandò l'uomo, sporgendosi verso di lui e posandogli la mano sul braccio.
Il giovane annuì lentamente. «Lei non riesce ancora a riprendersi da quello che è successo e io non posso fare niente per rimediare.»
«Ma quanto è capitato non è colpa tua», lo interruppe Shura.
Saga lo guardò con gratitudine per quelle parole, ma ugualmente se ne sentiva responsabile. Se solo fosse stato più attento lei non avrebbe sofferto in quel modo. «Caroline ultimamente ha avuto diverse delusioni», iniziò a raccontare. «Qualche mese fa si è iscritta a un corso di criminologia che si tiene ad Harvard. Lei ne ha bisogno, non tanto per il lavoro, ma quanto per se stessa. Ieri è arrivata dall'Università la lettera di conferma», disse, prendendo dalla tasca dei pantaloni la lettera un po' spiegazzata, «solo che... per il momento la sua iscrizione è sospesa. Dicono che per potervi prendere parte deve presentare altri documenti oltre quelli già forniti. E questo non sarebbe un problema.» Indugiò qualche secondo, massaggiandosi la tempia, poi riprese. «Ma, come requisiti, richiedono anche un determinato numero di crediti ed esami. E Caroline purtroppo non li ha. Gli esami che ha dato a Philadelphia, al tempo del College, non le vengono riconosciuti.»
Shion rimase ad ascoltarlo in silenzio, con le mani appoggiate al giornale ben piegato sulle gambe mollemente accavallate. «Cosa vuoi chiedermi?»
«Lei non sa ancora di questo intoppo. Non le ho detto niente della lettera. Io... non posso darle anche questa delusione. Allora, considerato che sei un ex allievo e contribuisci ogni anno con una generosa donazione... ho pensato che se tu ci mettessi una buona parola, se le scrivessi una lettera di raccomandazione, potrebbero fare un'eccezione per lei.»
Nell'esporre il vero motivo per il quale si era presentato di nuovo a casa, aveva gettato completamente la maschera e mostrato ai due uomini quanto stesse male anche lui. Di nuovo si toccò la tempia, nel punto dove c'era la piccola cicatrice, grattandosi fino a farla diventare rossa.
Era una pena vederlo così prostrato.
«Shion», intervenne Shura.
I due erano in attesa di una reazione da parte dell'altro, ma l'uomo continuò a rimanere impassibile, con lo sguardo fisso sul figlio. Ci fu un pesante sospiro e altri momenti di silenzio, nei quali si sentì il rumore del ghiaccio che si scioglieva nella caraffa del tè.
Saga alzò la testa: i suoi occhi delusi incrociarono quelli del padre, seri e indecifrabili. «Scusami per averti disturbato.» Non aggiunse altro. Attraversò il giardino e prese il sentiero che portava a Winchester.
«Potevi dire qualcosa. Diavolo, Shion, è venuto a chiederti aiuto», lo rimproverò Shura, alzandosi e seguendo con lo sguardo il giovane che si stava allontanando. «Capisco che tu non voglia cedere subito, che preferiresti tornasse a vivere qui, in modo da tenerlo sotto controllo, ma così, non facendo nulla, lo perderai. Shion, non essere testardo!»
«Non mi sono rifiutato di aiutarlo», rispose l'uomo, appoggiando il giornale sul tavolo, «ma non posso neanche mostrarmi troppo accondiscendente, anche se viene da me a capo chino. Non è più un bambino, i suoi problemi deve imparare a risolverli con le proprie forze.»
I suoi pensieri però erano differenti. Vederlo in quello stato gli aveva fatto provare una stretta al cuore, perché si era ritrovato in una situazione simile a quella di tanto tempo prima, quando Anthony ed Emma lo avevano supplicato di aiutarlo e lui si era rifiutato.
Prese il cellulare dal taschino della camicia chiara e compose rapidamente il numero del suo ufficio di Boston. Parlò con la sua segretaria per qualche minuto e le diede istruzione di controllare la pratica relativa ad Harvard.

*****

L'uomo chiuse la telefonata con un mezzo sogghigno. Poi, prese la busta di tabacco appena comprata e iniziò a rollarsi una sigaretta che subito si mise in bocca. Era seduto sul muretto basso che contornava un cespuglio da siepe modellato a sfera. La main street di Whinchester era insolitamente deserta in quell'ora del tardo pomeriggio e nessuno lo avrebbe scocciato perché intendeva fumare. Imprecò fra i denti contro quelle stipide leggi sul fumo. Dal taschino della camicia sudaticcia prese l'accendino; ma, anziché usarlo, se lo rigirò nella mano. La sigaretta rimase a penzoloni fra le labbra, perché la sua attenzione venne attirata da qualcos'altro e quella specie di ghigno mutò in un sorriso inquietante. Pensava si sarebbe rivelata una totale perdita di tempo quel viaggetto fuori Boston, soprattutto dopo che aveva perso di vista il taxi che stava seguendo; invece, eccola lì la persona che aveva attirato la sua attenzione, che camminava proprio di fronte a lui, ma dall'altra parte della strada; e si dirigeva verso la fermata dell'autobus. Raccolse la busta del tabacco e lo seguì a distanza, fermandosi poi accanto all'auto che aveva parcheggiato pochi minuti prima. La posizione era ottima, la fermata era solo qualche decina di metri più in là.
La ruota della fortuna aveva girato ancora una volta in suo favore, facendo uscire un colpo doppio e poco importava se in realtà aveva dovuto attendere qualche mese: avrebbe atteso anche un anno per darle ciò che si meritava.
«Se l'è scelto proprio bene», mormorò fra sé, appoggiato con un braccio al tettuccio dell'auto che aveva preso a noleggio. In quei mesi passati a Boston, ne aveva cambiate più di dieci di auto, tutte sempre pagate in contanti, per non lasciare tracce di sé. Con il cellulare fece un breve video, quando lo vide salire sull'autobus. Sapeva già dove abitava assieme a lei, per diversi giorni era rimasto appostato nei dintorni di quella palazzina, sia prima che dopo il viaggetto di lei a Philadelphia. Ora non gli restava che scoprire il nome dell'uomo e attendere il momento giusto.




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Capitolo 32
*** Capitolo XXXI ***




XXXI



A Kanon Hayes era sempre piaciuto quando una donna gemeva il suo nome, stretta fra le sue braccia e avvolta solo nel tepore del suo corpo atletico. Era qualcosa che sapeva fare dannatamente bene, che lo gratificava e ne esaltava l'ego già di per sé smisurato, soprattutto quando si trattava di piacevoli attività da letto.
A volte si divertiva con qualche giochetto erotico; nulla di volgare, o quella “roba” che andava di moda in quel periodo. A volte gli bastava “farsi sentire” affinché quei gemiti gli rendessero onore, facendolo sorridere della giusta soddisfazione.
Però, da quando il gemello si era sposato, in quel modo, senza dirgli nulla, aveva iniziato a vivere il sesso in modo differente: era meno appagante, meno divertente. E quei gemiti, un tempo musica per le sue orecchie, arrivavano a infastidirlo, anche quando a produrli era la persona che più si avvicinava a fargli provare amore.
Più volte si era domandato come sarebbe stato essere monogamo, a come ci si sarebbe potuti sentire nell'essere legati stabilmente a qualcuno. C'era chi sosteneva che si era liberi, quando si donava il cuore a un'altra persona, ma come poteva essere? E comunque, lui era già libero; e quella libertà la viveva nella maniera più piena possibile: era libero di cambiare donna ogni notte, libero di averne più di una alla volta, libero di conquistare qualunque donna desiderasse e... perché no, anche libero di essere conteso. Insomma, era libero in tutti i sensi. Non come quell'educanda di Saga, che si faceva sempre tante remore nel chiudere una relazione, prima di iniziarne un'altra. E questo era capitato anche quando si era trattato di quella piattola di Jenny, rimanendo in bilico per diverse settimane, nonostante la lontananza e i numerosi capricci di lei, prima di decidersi a mollarla.
Kanon invece, lui si autodefiniva un “assaggiatore” e solitamente non andava mai oltre una o due notti, tranne che con due sole donne, che sapevano dargli – a modo loro – qualcosa in più. Ma ce n'era una sulla quale non avrebbe mai dovuto permettersi di soffermare i propri pensieri. Soprattutto quando era nel letto, già in compagnia, e con altri gemiti che facevano da colonna sonora al sesso.
All'improvviso sulle sue labbra sentì la stessa sensazione di quando aveva baciato Caroline sulla guancia, quando aveva lambito l'angolo della sua bocca, come una voluta provocazione al gemello nel giorno della sua presentazione ufficiale; e aveva provato una sensazione di pulito e candore: così assolutamente perfetta per suo fratello.
Non sapeva spiegarselo, eppure fino a poco prima aveva assaporato labbra voluttuose che avrebbero fatto dimenticare tutto e portato direttamente in paradiso. Poi, come una conseguenza naturale, gli tornò in mente l'odore dell'erba tagliata di fresco e dei fiori che quel giorno avevano addobbato la terrazza del Country Club. Era tutto così vivido che, inspirando, gli sembrò di sentirli ancora, nonostante nella stanza stessero bruciando dei bastoncini di incenso al sandalo e oppio.
Inspiegabilmente, in gola sentì anche il fastidio della terra rossa del campo da tennis che il fratello gli aveva fatto mangiare proprio quello stesso giorno, dopo l'ennesima sconfitta. Non aveva mai capito perché Saga avesse fatto costruire il loro campo privato con la terra rossa, anziché in erba com'erano invece gli altri campi, quelli per i membri del Club.
Chiuse gli occhi, mentre la donna sopra di lui si muoveva eccitata e con magistrale lentezza, per fargli godere ogni istante, ma non riuscì proprio a togliersi dalla mente quel pensiero proibito. Anzi, di secondo in secondo diventava più invadente, arrivando a fargli immaginare un'altra donna su di sé in quel momento. Sapeva di sbagliare, ma proprio non riusciva a scacciarli e questo lo faceva sentire un vero schifo.
Per quel poco che la conosceva, doveva ammettere però che Caroline sembrava la persona giusta per il gemello, lei così acqua e sapone, così tranquilla e alla mano, e lui tanto ingenuo e puro, dai gusti semplici. Non si doveva stupire affatto che con le altre, così artificiose, non fosse mai durata, nonostante l'impegno che Saga ci aveva sempre messo. Kanon grugnì, imponendosi di smettere subito di pensare a lei, a loro due, perché non avrebbe portato a nulla di buono. Doveva invece concentrarsi di nuovo sulla sua amante e sull'orgasmo che stava arrivando.
Se solo Saga non avesse fatto tutto così in fretta e di nascosto, se solo si fosse confidato con lui, o gli avesse lasciato il tempo di metabolizzare quel distacco...

*****

«Quello di prolungare le vacanze a tempo indeterminato deve essere un vizio di famiglia,», disse Aiolos, entrando nella camera da letto della villa sulla spiaggia e trovando Kanon, ancora a letto e in compagnia. Arricciò il naso quando avvertì l'odore dolciastro che persisteva in quell'ambiente.
Il giovane Hayes si mosse un poco, mugugnando qualcosa mentre si girava sul fianco, grattandosi la natica sinistra e sbadigliando fin quasi a slogarsi le mascelle. Poco dopo tornò a russare con quel suo modo lieve e un po' infantile.
Aiolos scrollò la testa, borbottando qualcosa sul fatto che alle due del pomeriggio anche i figli di papà più viziati e petulanti erano già in piedi. Con un colpo secco aprì le tende della doppia finestra scorrevole, poi fece altrettanto con l'altra e la grande stanza da letto si inondò di luce.
Kanon gemette, ferito da tanto chiarore.
«Che diavolo!» imprecò con voce impastata, provando a coprirsi il volto con il cuscino. Ma ormai il danno era fatto e, benché cercasse di resistere, non c'era più nulla da fare: lui era sveglio. Sbuffò. Alzò un poco il cuscino, fino a scoprire un occhio per vedere chi fosse il rompiscatole e lo tirò dritto in mezzo alla schiena di Aiolos, che ignaro si era soffermato ancora qualche istante a guardare fuori dalla finestra.
Il breve scossone che mosse il letto ridestò la donna stesa al suo fianco.
«Kanon? Che succede?» biascicò lei, infastidita. Accarezzò il braccio dell'amante e si tirò su, mostrando la capigliatura bionda completamente arruffata. Il suo bel viso non mostrava i segni della notte brava che i due avevano appena passato, né i suoi occhi azzurri erano contornati dal trucco sfatto.
«Tranquilla, Kim, è solo il cameriere del servizio in camera», rispose lui, passandosi le mani sul viso.
La donna alzò lo sguardo oltre l'amante e intravide Aiolos con un'espressione scocciata sul viso un po' in ombra. Non le era d'aiuto che il terzo incomodo avesse il sole alle spalle. «Ciao, Aiolos, cosa ci hai portato di buono?» gli domandò con tono vagamente divertito, tirando un poco il lenzuolo e coprendosi il petto. Non si sentiva più di tanto in imbarazzo in sua presenza perché sapeva che era gay e comunque lo conosceva abbastanza da poterlo considerare, fuori dal lavoro, come una specie di amico.
L'altro schioccò la lingua, facendo anche un breve scatto con la testa. «Quasi non ti riconoscevo, Kimberly.»
«Lo so, è colpa del foulard, vero?» scherzò lei. Si girò e si sedette sul bordo del letto; poi, si mise in piedi, portandosi dietro il lenzuolo e avvolgendoselo addosso, entrando subito nel bagno attiguo alla camera. Lo scroscio dell'acqua della doccia arrivò poco dopo.
Kanon invece rimase ancora sdraiato, con gli occhi di nuovo chiusi. Si mosse pigramente sul materasso, mostrandosi completamente nudo e alla mercé della vista interessata di Aiolos.
«Cosa sei venuto a fare qui?» gli chiese, con voce ora più decisa.
Aiolos piegò la testa di lato, continuando a fissarlo. Era appoggiato con la schiena alla finestra scorrevole, braccia incrociate al petto, e lo osservava con una punta di eccitazione negli occhi.
«È sempre lui, vero?» chiese ancora Kanon, ma in realtà temeva di conoscere già la risposta.
«Perché pensi che venga a romperti le scatole per qualcosa che riguarda lui?»
«E allora perché sei qui?» insistette Kanon, grattandosi vicino all'inguine.
A quella domanda Aiolos non rispose, ma il ghigno sulla sua faccia, che Kanon però non poteva vedere, era più che eloquente. Rimase ancora un minuto buono con lo sguardo sull'amico, ma quando iniziò a sentire una certa tensione al basso ventre, corruggò la fronte e si staccò dalla finestra per uscire dalla stanza. Nel passare vicino al letto raccolse da terra il copriletto e glielo gettò addosso, mugugnando scocciato.
Kanon trattenne la risata finché non sentì la porta chiudersi, poi si lasciò andare: non provava alcun interesse a essere oggetto di attenzioni da parte dei maschi, ma gli piaceva da morire provocare Aiolos in quel senso. La sua risata scemò in fretta. Si girò sul fianco destro e fissò per alcuni minuti la porzione di oceano che si intravedeva dalla finestra. Il suo cellulare era lì, a portata di mano, posato sul comodino. Gli mancava parlare con il gemello, sapere come stava e intromettersi nella sua vita. Ma forse era il solo a sentirsi in quel modo. Lui se n'era andato senza dirgli nulla e Saga non gli aveva fatto mai neanche uno squillo. Quanto era passato dall'ultima volta?
«Quasi tre mesi...» bofonchiò.
Fece un respiro profondo e si mise seduto sul bordo del letto. La camera era un vero macello. Individuò il pezzo sopra del bikini che aveva indossato Kimberly la sera precedente buttato malamente sul paralume della lampada a stelo, dietro la poltroncina nell'angolo. L'altro pezzo invece non ricordava dove l'aveva lanciato. I suoi vestiti erano disseminati sul pavimento, assieme a uno degli stringatissimi sandali dorati di lei e a una bottiglia vuota di champagne.
«Dove sono finiti i boxer?» si chiese, grattandosi la testa e continuando a scandagliare la stanza con gli occhi.
Poi, si accontentò di prendere da terra un asciugamano usato e se lo legò in vita.

Con passi svogliati, sbadigliando ancora un paio di volte, si diresse in cucina e al frigorifero. Prese il latte e bevve dei lunghi sorsi direttamente dalla bottiglia. Poi tirò fuori il necessario per preparare qualcosa di veloce da mangiare.
Fece un cenno all'amico, mostrandogli le uova e la frusta, ma ricevette una breve scrollata di testa in diniego.
«Pensi di fermarti a lungo?» gli domandò con l'eloquente tono di chi non vuole un terzo incomodo che gira per casa, iniziando a sbattere delicatamente le uova in una boule.
Mostrando di non voler dare troppo peso all'eventuale risposta continuò a cucinare, aggiungendovi un pizzico di sale, qualche fogliolina di prezzemolo, che tritò sul momento, un goccio di latte e, come tocco finale, abbondante peperoncino.
«Non ne ho idea», rispose Aiolos, allungando la mano e mettendo in bocca un mini hotdog che aveva pescato dalla confezione lì vicino, continuando a osservare l'altro che si destreggiava con sicurezza tra i fornelli.
Kanon sbuffò. Prese un paio di fette di pane in cassetta e le inzuppò per bene nelle uova, appoggiandole poi su un piatto. Tornò al frigorifero e prese anche del prosciutto cotto, del formaggio a fette e un pomodoro maturo. Preparò tutto con ordine e minuzia, ritagliando il prosciutto in pezzi un poco più piccoli delle fette di pane, vi aggiunse una fetta di formaggio e richiuse il toast, premendo un poco sui bordi. Mise del burro a rosolare in una padella e subito dopo anche ciò che aveva appena preparato.
«Ora che siamo soli, qual è il vero motivo di questa tua visita?» domandò ancora, mettendo sul fuoco un'altra padella, più piccola, nella quale versò i mini hotdog per arrostirli leggermente.
«Siamo ad agosto, no? Mi sono preso qualche giorno di ferie», rispose Aiolos, allungandosi per un altro assaggio, ma trovando il piatto vuoto.
Kanon rigirò il french toast nella padella facendolo saltare con un colpo di polso, al tempo stesso iniziò a impiattare e, quando Kim fece la sua entrata, indossando uno sfavillante bikini rosso con strass e un pareo legato in vita, le presentò con un sorriso il suo piatto preferito ancora fumante.
«Che programmi hai per la giornata?» le chiese, servendole anche un bicchiere di acqua frizzante, mentre lei si sedeva sullo sgabello di fianco ad Aiolos.
«Un ultimo bagno di sole e poi riparto per New York. Stasera è in programma un volo per Las Vegas. Dei liceali viziati hanno organizzato un weekend ai casinò per festeggiare la maggiore età», raccontò lei, arricciando le labbra in una mezza smorfia.
Si morse le labbra, pregustando il suo toast fritto e ne tagliò un bel boccone, mettendolo subito in bocca, incurante del formaggio fuso ancora fumante al suo interno.
«Ma non hai paura di ingrassare a mangiare quella roba?» le domandò Aiolos.
«Da quanto non ti fai una bella scopata?» ribatté Kim.
Al di fuori del suo ruolo di hostess, che la obbligava a mostrare un sorriso in qualunque situazione si trovasse, lei era una persona che non aveva paura di rispondere a tono alle provocazioni. Con la forchetta a mezz'aria, Kim lo squadrò per qualche secondo, sogghignando: era tentata di fargli notare quel lieve rotolino che si intravedeva dalla maglietta color kaki che gli fasciava in maniera così sexy il petto, ma si trattenne.
«Mia cara», intervenne Kanon, accarezzadole la guancia, «ti stai forse proponendo? Lo dovresti sapere che non sei il suo tipo: hai qualcosa di troppo sopra e ti manca qualcosa di sotto.»
Aiolos assottigliò lo sguardo e grugnì qualcosa, confermando quanto avesse subito il colpo, soprattutto dopo l'ennesima sonora risata di Kanon. Fece un'alzata di spalle e, incurante dell'altro che ancora se la rideva, intento a tagliare un'arancia rossa, si mise a frugare nel frigorifero. Il nervoso gli aveva risvegliato l'appetito.

*****

Alle sette e mezza del mattino, nella casa si respirava già silenzio e tranquillità, ma nella mente di Saga, quando entrò in cucina, ancora risuonavano i saluti di Cora alla gattina e le sue raccomandazioni di non fare danni; infine, dopo un breve trambusto, la porta d'ingresso che si chiudeva con un leggero click e un giro di chiavi. Aveva trovato divertente come la moglie fosse uscita di corsa perché in ritardo per l'autobus, senza neanche accorgersi della sua presenza. Si versò una tazza di caffè fumante, fermandosi a sorseggiarlo di fronte alla finestra. Nella palazzina dall'altra parte del cortile, Jade era alla sua di finestra e lo stava salutando con la mano. Le fece un sorriso e ricambiò il saluto, ma subito si scostò da lì, avvicinandosi all'isola della cucina, dove era stato lasciato il quotidiano del mattino, ancora ben piegato e una cloche in alluminio, di quelle professionali, un poco scostata dal piatto che avrebbe dovuto coprire. Appoggiato a essa c'era un bigliettino piegato in due, scritto a mano da Caroline.
Questa è una specialità italiana che ci manda mia madre. Assaggiala, ma lasciamene un po' per quando torno!
Saga alzò la cloche: nel piatto c'erano due fette di pane fresco cosparse di quella che sembrava della crema alla nocciola.
«Nu...te...la», lesse il nome sull'etichetta del barattolo gigante. La pronuncia non era stata delle migliori, perché alla doppia elle gli venne naturale leggerla alla spagnola. «Non era necessario farla arrivare fin dall'Italia. Se la voleva la poteva prendere anche al minimarket qui vicino», commentò. Poi, girò il bigliettino che teneva ancora in mano. Il messaggio continuava: Lo so che ce l'abbiamo anche qui da noi, ma vuoi mettere quella originale che è stata confezionata in Italia?
Sorrise divertito, perché era stato come se lei gli avesse letto nella mente, ma più facilmente aveva previsto l'obiezione che lui avrebbe potuto fare.
Prese una fetta di pane e l'addentò, mentre con l'altra mano spiegava il giornale sul piano dell'isola e si portava più vicino la tazza di caffè. Lesse un paio di articoli dalle pagine finanziarie, intanto che beveva e mangiava anche la seconda fetta. Quando trovò il piatto vuoto, alzò lo sguardo sul barattolo, considerando che se solo Caroline avesse saputo quanto lui era goloso di dolci, nonostante non sembrasse affatto, non sarebbe stata tanto incauta da lasciarglielo a portata di mano.
Da qualche mese riceveva sempre meno lavoro dagli uffici di New York. Seduto a gambe incrociate sul divano – e con il laptop appoggiato sulle gambe – controllò la casella email professionale, ma di nuovo materiale non ce n'era. Sbrigò le vecchie pratiche in poco meno di un paio di ore e si ritrovò con il resto della giornata libera.
Sbadigliò annoiato e si distrasse a seguire con lo sguardo Kitty che zampettava silenziosa verso la cucina, con quella sua codina dritta verso l'alto e perfettamente immobile. Piegò la testa di lato e si sporse un poco, per vederla meglio. Poi, quando la bestiola scomparve dietro l'angolo, fece spallucce e sospirò, chiudendo il laptop e buttandosi sdraiato sul divano. Un tempo non avrebbe avuto difficoltà a occupare le ore libere: gli sarebbe bastato fare una passeggiata fino al Country Club e prestare il suo tempo come maestro di tennis, oppure lavorare nel laboratorio del vecchio Josh. Ora il laboratorio l'aveva a disposizione in qualsiasi momento, doveva solo varcare la porta di casa e fare due rampe di scale, ma in qualche modo questo gli faceva passare la voglia.
Fissò il soffitto per qualche minuto, rimuginando un po', anche se su nulla in particolare. Al piano di sopra, la soffitta era stata rimodernata così come il resto dell'appartamento, ma la vecchia mobilia c'era ancora tutta. Gli balenò l'idea di fare qualche lavoro lì sopra.
«Sono sicuro che a Josh farebbe piacere se qualcuna di queste cose potesse essere utile ad altri, anziché prendere polvere qui», commentò mettendo piede in quello stanzone, grande ancora quando metà dell'appartamento, nonostante fossero state ricavate due camere e un bagno.
Non si soffermò a domandarsi come mai gli fosse venuto in mente proprio di salire in soffitta, ma in poco tempo era già completamente preso a suddividere le cose che avrebbe potuto tenere da quelle che invece poteva dar via.
Fra le vecchie cose dell'uomo, Saga trovò una bella scrivania a serranda degli anni '30. La osservò con attenzione, nonostante la polvere e qualche intaccatura era ancora in ottimo stato. La trascinò in mezzo alla stanza, annuendo soddisfatto, poi si guardò attorno: c'era anche una vecchia libreria bassa, o forse era la parte superiore di un mobile che a suo tempo era stato ben più grande. Ne accarezzò la superficie con la mano, valutando che con una passata di cera sarebbe tornata come nuova e, appoggiata alla parete bassa, proprio sotto il lucernario nuovo – che aveva completamente cambiato l'aspetto della soffitta donandole un'aria più luminosa e ariosa –, sarebbe stata perfetta. Di nuovo, diede un'occhiata in giro. Trovò anche un paio di mobiletti che potevano trasformarsi in schedari e una cassettiera bassa, che poteva essere sfruttata eventualmente come piano per la stampante.
A sinistra accantonati della porta, c'erano ancora alcuni scatoloni di Caroline. Sorrise. Quello era un aspetto di lei che forse non sarebbe mai cambiato, ma neanche avrebbe voluto cambiasse. Li prese uno dopo l'altro e li sistemò, proprio come aveva già fatto una volta.
Senza rendersene conto si erano fatte le cinque del pomeriggio. Lui si era ritrovato pieno di polvere e ragnatele, ma era soddisfatto. Si scrollò di dosso la polvere e scese in casa. Non si fermò, ma continuò fino al laboratorio. Prese il cellulare che usava per gli affari della sua “vita segreta” e telefonò al centro giovanile della parrocchia del quartiere. Si accordò con Brian, il responsabile dei volontari, per lo sgombero in giornata: voleva finire tutto prima del ritorno di Caroline e farle una sorpresa.
Dopo i grandi lavori effettuati in casa, dopo la loro separazione, dopo il Canada e il tempo passato a recuperare intimità e sintonia fra loro, non c'era stata ancora una vera occasione per Caroline di organizzarsi uno spazio tutto suo. La cameretta che volevano utilizzare per farne uno studio aveva mantenuto la sua funzione originaria, così come la seconda camera matrimoniale, quella per gli ospiti, che non aspettava altro che accogliere la famiglia di lei, se avesse voluto far loro una visita.
Le cose di Caroline erano perlopiù ancora impacchettate o riempivano parte della biblioteca della sala, messe fra qualche rara edizione dei classici americani – che Saga aveva raccolto nel corso degli anni con il suo hobby del restauro – e oggetti di design moderno; e lei si sacrificava a studiava in cucina o accoccolata in una delle due poltrone, sommersa da libri di testo, codici e fascicoli di casi creati ad hoc per il corso.
Ora che finalmente la loro vita stava iniziando a viaggiare sui binari giusti, che lei aveva superato i suoi blocchi e accantonato le lacrime per la perdita del loro primo figlio, era diventata tanto energica che non si fermava un minuto. Le sue giornate erano suddivise fra il lavoro al magazzino prove dell'agenzia investigativa di Edward Price, il corso di criminologia ad Harvard e le prove sul campo. Paradossalmente, con la ritrovata serenità di Caroline, faceva da contraltare un velo di tristezza su Saga, ma che ancora non sbiadiva la sua voglia di vedere felice la compagna. Del resto, era stato educato da Nanny a pensare prima di tutto al benessere delle persone amate, e cosa poteva volere di più che prendersi cura di Caroline?
Fare il necessario per farla stare bene, faceva sentire bene anche lui.

*****

Da qualche tempo ormai, nei giorni in cui aveva lezione, Caroline aveva preso a rientrare tardi la notte; e, quando invece rimaneva in casa, si rintanava in soffitta, oppure si estraniava in sala, sempre immersa nello studio di vecchi casi di polizia. A volte, con il permesso del suo datore di lavoro, prendeva in prestito alcuni fascicoli dall'archivio e vi rimaneva così coinvolta nella lettura che neanche si accorgeva del tempo che passava. Proprio come quella domenica pomeriggio, che si stava pigramente trascinando verso la sera.
Saga aveva provato più volte a intavolare una conversazione, chiedendole di parlargli di ciò che stava studiando, ma Caroline non sembrava neanche accorgersene. Sbuffò, annoiato e frustrato, soffiando l'aria verso l'alto e smuovendo un poco i capelli che gli ricadevano sulla fronte.
Kitty mosse un orecchio, poi alzò la testolina e si girò verso il suo padrone. Scese poco dopo dal divano, sul quale era rimasta accoccolata vicino alla gamba di Saga e si stiracchiò per bene, allungandosi sul parquet e facendo un gran sbadiglio. Girò per la casa zampettando silenziosa, ma tornò quasi subito, rimanendo a metà fra la cucina e la sala. Seduta sul parquet scuro e con la luce del tramonto che proiettava la sua ombra davanti a lei.
Miagolò.
Lo fece di nuovo, con uno strano tono. Si grattò dietro l'orecchio. Poi si leccò la zampina un paio di volte, passandosela sul musetto e tornò a fare la statuina per qualche altro minuto.
Saga la osservò tutto il tempo, sorridendo lievemente, passò quindi a fissare la moglie: era seduta scomposta, con entrambe le gambe a cavallo del bracciolo morbido della poltrona e gli dava praticamente la schiena. La testa bassa e gli occhi sempre incollati su quei fogli. Erano ore che non si muoveva da quella posizione. Aggrottò la fronte e abbassò lo sguardo. Lo stomaco iniziava a borbottare.
«Caroline», la chiamò, ma lei non diede segno di aver sentito.
Kitty scambiò il movimento del braccio di Saga per un richiamo, zampettò veloce e saltò sul divano, strusciandosi con tutto il corpo contro la mano del suo padrone, appoggiata – non proprio rilassata – sulla coscia, facendo le fusa.
«Sai», riprovò Saga «l'altro giorno Jade ha portato del polpettone, lamentandosi che il frigorifero è sempre più vuoto, mentre la dispensa è sempre ben rifornita di snack e schifezze varie. Ha detto anche che è molto preoccupata per te», le disse, con un tono vagamente serio, accarezzando il pelo lucido di Kitty.
Alzò lo sguardo su di lei attendendo una reazione e dopo qualche secondo ricevette un mugolio distratto. Fece una mezza smorfia, pensando a qualcosa che avrebbe potuto scuoterla, scioccarla abbastanza da farle tralasciare almeno per qualche minuto i suoi interessi e dedicarsi a lui.
«Ieri ho incontrato la mia ex e abbiamo fatto l'amore.» Il suo tono divenne più aspro e indispettito.
Nonostante quelle parole, che avrebbero fatto balzare in piedi chiunque, da lei provenne invece un altro mugolio.
«La smetti di ignorarmi?» le urlò, strattonandola per un braccio. Non si era reso conto di quanto la sua voce fosse uscita alterata in quel momento; però, finalmente ottenne la sua attenzione.
«Che succede?» chiese Caroline, alzando lo sguardo stralunato verso di lui, togliendosi lentamente gli auricolari, anche se già da diversi minuti non stava più ascoltando nulla. Fissò l'espressione afflitta di Saga senza riuscire a capire cosa avesse e perché la guardasse in quel modo. «Va tutto bene?»
Saga si accasciò sul tavolino basso, appoggiando stancamente le braccia sulle gambe. Scrollò la testa, tenendo lo sguardo sul pavimento. Le sue spalle erano tese e la schiena, un poco incurvata, esprimeva una tristezza difficile da ignorare. Si passò una mano fra i capelli con un gesto sfrustrato e provò a dire qualcosa, ma subito vi rinunciò.
«Saga», lo chiamò la giovane, preoccupata. Mise da parte le carte che stava studiando e si accovacciò di fronte a lui. «Mi volevi parlare di qualcosa?» gli domandò. «Perdonami, ero sovrappensiero.»
«In questi giorni lo sei sempre, quando sei a casa.»
«Lo so. Mi dispiace», rispose lei, provando a sorridergli.
«Se hai qualche problema all'Università, o al lavoro, puoi dirmelo. Non tenertelo dentro», la incoraggiò Saga, stringendo le mani che lei aveva posato sulle sue e alzando lo sguardo per guardarla negli occhi. I suoi, di occhi, erano velati di tristezza, nel sentirsi così messo da parte.
«No, stai tranquillo. Al lavoro va tutto bene, come al solito, e le lezioni sono interessantissime. E poi, Aiolia mi sta aiutando ad ambientarmi, fra campus, biblioteche e aule», gli disse, allargando il suo sorriso.
Caroline era consapevole che era solo grazie a Saga se il fratello di Aiolos aveva iniziato a tollerarla e a trattarla con più cordialità. Ma soprattutto, sapeva che lui si sentiva più tranquillo se qualcuno come Aiolia vegliava su di lei.
«Il fatto è che ho un pensiero fisso che mi tormenta.»
«Spero che questo pensiero fisso riguardi me», disse lui, con un tono di voce un po' risentito.
«Se hai un accento spagnolo e sei sulla quarantina, allora sì», rispose Caroline prendendogli il viso fra le mani e dandogli un bacio sulle labbra strette in una smorfia dispettosa. «Cosa posso fare per farmi perdonare?»
Vide che si stava facendo sera e si ricordò che aveva delle responsabilità. Si alzò da terra e accennò a portarsi verso la cucina. Kitty si svegliò nello stesso momento e scese dal divano zampettando veloce per precederla.
Saga non era dello stesso avviso. L'abbracciò e la trattenne, senza dire nulla. La strinse appassionatamente. Non rispose neanche alle deboli proteste di lei di lasciarla andare perché doveva preparare la cena, ma nonostante questo era chiaro che si stava godendo l'affettuosità del marito.
«Non hai bisogno di farti perdonare nulla», sussurrò Saga, sfiorandole il collo con le labbra.
La fece girare verso di sé e la baciò. Nei suoi occhi c'era la voglia di fare l'amore con lei, di consolidare una volta di più quella loro intimità che, nonostante non fosse mancata in quelle settimane, lui sentiva di aver bisogno; e questi suoi sentimenti trasparivano da ogni suo gesto.
Caroline arrossì e si lasciò coinvolgere dal momento, ma con un unico miagolio Kitty frenò sul nascere ogni possibile sviluppo romantico.
«Hai sentito? C'è anche qualcun altro che ha fame. Fammi andare a preparare la cena», disse lei, con voce emozionata.
Saga invece non sembrava intenzionato a darle ascolto. Si convise solo all'insistenza di Kitty che si era fermata ai suoi piedi e lo fissava con i suoi teneri occhioni, toccandolo delicatamente anche con la zampina.

Per una giovane coppia come loro non sempre era necessario apparecchiare la tavola di tutto punto per cenare, soprattutto quando potevano stare appollaiati sugli sgabelli della cucina, usare il piano dell'isola come tavola e spizzidare da un unico piatto, mentre osservavano Kitty seduta sul cuscino della cassapanca bianca e guardare fuori dalla finestra, chiacchierando del più e del meno.
Non avevano bisogno di usare il servizio buono, di vino pregiato e tovaglioli finemente ricamati, ma solo della reciproca compagnia e di condividere nell'amore e nel rispetto quei momenti di vita quotidiana.
«Allora, chi è questo misterioso ispanico?» chiese Saga, scansando le tartine alle uova di lompo e prendendo invece l'ultima vegetariana al cetriolo.
«Nel fascicolo viene appena accennato, inserito in un elenco di possibili persone da “sentire”, ma non è mai stato identificato con certezza», rispose Caroline, avvicinando il rapporto della polizia sul caso che in quei giorni, nei suoi momenti liberi, studiava con assiduità. «Purtroppo le indagini sono state decisamente superficiali: si sono lasciati sfuggire un più che probabile testimone.»
«Davvero? E la polizia non lo ha mai sentito?»
«Da quello che ricordo dei racconti di mio padre sul lavoro di indagine, non tutte le persone interrogate vengono poi anche verbalizzate. Forse, chi ha parlato con questo tizio non deve aver ritenuto importanti le informazioni raccolte, o forse queste non portavano da nessuna parte.»
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, nei quali Caroline preparò una veloce macedonia di frutta con pesche, melone e l'ultima fetta di anguria rimasta, che servì in due coppette, spolverando il tutto con lo zucchero di canna. Fissò Saga per un momento: teneva gli occhi incollati al materiale del caso del quale avevano parlato un attimo prima, intento a rimuginare su qualcosa.
«Non è uno dei casi per il corso di criminologia», disse, rompendo quel silenzio, ottenendo l'attenzione del marito. «È il rapporto sulla morte di mio padre.»
«Capisco», rispose Saga. Poi tornò con gli occhi all'incartamento.
«Non hai nulla da chiedermi in proposito?» domandò lei, trattenendo il respiro.
Lui scrollò la testa e le sorrise.
Caroline rimase senza parole alla reazione fin troppo pacata di Saga, ma capì che le stava lasciando la libertà di affrontare la situazione con i suoi tempi e i suoi modi.
«Ho la sua chiamata al 911», disse ancora.
Saga girò di nuovo lo sguardo perplesso su di lei.
«Quell'uomo quella notte chiamò la polizia.»
«Una chiamata vera?» domandò lui con tono incredulo, sgranando gli occhi.
«Non è poi questo granché», replicò lei, facendo spallucce. Vedendo la delusione sul viso di Saga si spiegò meglio. «Non è come nei film o in quelle ricostruzioni televisive dei crimini che passano a notte fonda su Investigation Channel. La voce non è chiara, la chiamata è disturbata e ci sono anche vari rumori di sottofondo che coprono alcune parole. Insomma, è una vera delusione», concluse, passando il panno umido sul piano dell'isola per raccogliere le briciole.
Mentre continuava a rassettare la cucina, vide con la coda dell'occhio la crescente curiosità dell'altro che non smetteva di fissare il materiale lì vicino. Si asciugò le mani, prese il suo vecchio lettore mp3 e offrì a Saga gli auricolari.
«Negli anni '90 usavano ancora i nastri magnetici, anche per questo la qualità è bassa. Grazie ad Aiolia ho conosciuto un tipo all'Università che me lo ha digitalizzato ed è riuscito anche a ripulire un poco la traccia, anche se purtroppo i miglioramenti non sono serviti a molto», gli spiegò. Poi, gli lasciò ascoltare la registrazione, tornando a lavare i piatti.
Saga ascoltò diverse volte la chiamata e ogni volta con maggiore attenzione. Era solo una sensazione, ma c'era qualcosa di familiare in quella voce. Non che potesse dire di essere un esperto di voci o accenti, eppure... Aggrottò la fronte e rimase con un'espressione pensosa, togliendosi gli auricolari. In quella registrazione gli sembrò di riconoscere la voce di Shura che solo quando era nervoso, o molto arrabbiato, faceva uscire il suo accento spagnolo. E poi, c'era quell'intercalare così particolare...
«Allora?» chiese Caroline, avvicinandogli una coppetta di budino al cacao e un cucchiaino.
«Avevi ragione, non si capisce molto», rispose lui, appoggiando il lettore mp3 e gli auricolari sul fascicolo del caso.
«C'è la trascrizione, se vuoi.»
Saga scrollò di nuovo la testa: per il momento era soddisfatto. Ciò che voleva era che lei lo rendesse partecipe e Caroline lo aveva fatto.
«Vado un po' in laboratorio. Se faccio troppo tardi vieni a chiamarmi», le disse, dandole un bacio e portandosi via il budino.

*****

Con l'arrivo dell'autunno, con le giornate che si stavano facendo più corte e le serate più umide e fredde, Saga aveva sperato che Caroline passasse più tempo a casa. Le aveva consentito tacitamente di continuare le sue “esercitazioni” sul campo oltre a quelle assegnate nel corso, sicuro che non fosse da sola a svolgerle, ma affiancata da qualche compagno. Queste però le stavano prendendo un po' troppo la mano e lei aveva iniziato a rincasare anche a notte fonda. Qualche volta, Saga riusciva ad aspettarla sveglio, ma il più delle volte si addormentava con la consapevolezza che la parte di letto della moglie sarebbe rimasta vuota.
Quella notte in particolare, non era riuscito a chiudere occhio. Jade, la vicina un po' troppo impicciona, gli aveva detto che da qualche tempo aveva notato la stessa auto parcheggiata nello stesso punto per diverse ore durante il giorno. E, al suo interno, la stessa persona che una volta l'aveva fermata per chiederle delle informazioni, che sul momento le erano sembrate banali. Nonostante la donna vivesse dall'altra parte del cortile interno – e le finestre anteriori del suo appartamento dessero su tutt'altra zona del quartiere – lei era sempre ben informata su tutto ciò che accadeva sulla strada di fronte alla bottega del vecchio Josh. Gli aveva detto di fare attenzione, offrendosi anche di tenere gli occhi aperti nel caso il tizio fosse stato un malintenzionato, poiché aveva sentito dire in giro che c'erano stati dei furti negli appartamenti della zona nelle ultime settimane.
Caroline si richiuse la porta dietro di sé, troppo stanca, arrabbiata e delusa per badare al rumore: quella notte era stato un altro buco nell'acqua. Sbadigliò, facendo seguire poi una lieve smorfia di dolore, portandosi la mano al viso. Buttò il mazzo di chiavi nello svuotatasche che Saga aveva realizzato per lei, lasciò cadere la borsa a terra e, con la casa avvolta nel buio, entrò in cucina.
«Dove sei stata finora?»
La giovane sobbalzò nel sentire una voce alle sue spalle e nel vedere la luce accendersi all'improvviso. Si girò e vide Saga; sembrava avesse dormito ancora vestito e il suo viso portava i segni di una duratura stanchezza.
«Scusami, non volevo svegliarti», disse lei, voltandosi di nuovo per prendere dal frigorifero la bottiglia d'acqua. «Sono stata alla biblioteca dell'Università a visionare i film di alcuni vecchi quotidiani del 1998.»
«Sono quasi le quattro del mattino!» ribatté Saga, fissandola con occhi arrossati e nervosi.
«Sono rimasta fino alla chiusura, verso mezzanotte. Nei periodi di esami la biblioteca rimane a disposizione degli studenti fino a tardi. Poi, sono andata in una tavola calda, aperta tutta la notte, per studiare gli articoli che ho stampato», spiegò lei. «Sono nella mia borsa, raccolti in una cartelletta di plastica», terminò, passandosi una mano sugli occhi e trattenendo un altro sbadiglio.
In quel momento Saga si avvicinò a lei e le bloccò il polso. «Cos'hai fatto al viso?» Le prese il mento e le alzò il viso a favore della luce, per esaminarlo meglio.
«Non è niente», disse lei, provando a divincolarsi.
«Hai un labbro rotto e la faccia livida. Non mi dire che questo non è niente!» le rinfacciò con voce irritata. «Dimmi la verità: sei stata di nuovo in giro da sola in posti poco raccomandabili, vero?»
«Sono gli inconvenienti del mestiere. A Philadelphia ho lavorato per alcuni anni con lo zio Phil e capitava di avere a che fare con gente poco collaborativa. E comunque, davvero, non è nulla di grave», provò a chiudere l'argomento lei, sperando che quella piccola bugia potesse far desistere Saga dall'approfondire cosa fosse successo realmente.
«Smettila con queste cose! Smettila di mettere in pericolo la tua vita! Tu non sei una poliziotta, non hai l'addestramento, né le capacità per affrontare queste situazioni così pericolose!» urlò Saga, strattonandola con eccessiva forza.
Caroline rimase interdetta da quella reazione così veemente. Per diversi secondi fissò a occhi sgranati l'espressione alterata del marito. Non sapeva cosa rispondere; ma sicuramente, qualunque cosa avesse provato a dire in quel momento per giustificarsi non sarebbe riuscita a placare la rabbia che balenava negli occhi di Saga.
«Non volevo farti preoccupare in questo modo», sussurrò contrita.
«Non voglio che tu vada avanti con questa assurdità. Lo so che stai lavorando a un'indagine tutta tua, che non fa parte dei casi per il corso di criminologia. Da ora in poi non lo frequenterai più e smetterai anche con il lavoro part-time!»
«So di aver esagerato e mi dispiace, ma non puoi dirmi cosa devo fare», replicò Caroline, provando a mantenere una voce calma ma determinata, sostenendo lo sguardo del marito.
Se non fosse stata consapevole che stava tirando troppo la corda con il suo modo di fare, avrebbe dimostrato maggiore combattività rispondendo a tono, schiaffeggiandolo magari, ma sapeva che Saga aveva ragione. Non era necessario dover ammettere che quella sera aveva rischiato davvero grosso quando si era avventurata in una zona malfamata; e solo grazie allo spray al peperoncino, che portava sempre con sé in borsa, era sfuggita per un pelo all'aggressione di uno spacciatore. Era consapevole anche che quell'incoveniente non sarebbe stato l'unico, ma in lei si era risvegliata la voglia di scoprire la verità sulla morte del padre e riempire le lacune di quel rapporto di polizia che teneva ben chiuso nel cassetto della sua scrivania, assieme al materiale che in quelle settimane era riuscita a raccogliere in proposito.
Come se non fosse bastato, da quando aveva aumentato le ore di indagine, aveva iniziato a sentirsi osservata, soprattutto quando girava in città da sola. Per quel motivo aveva avviato le pratiche per un nuovo porto d'armi, visto che in Massachusetts non le veniva riconosciuto quello che le era stato rilasciato in Pennsylvania. E, sempre per lo stesso motivo, confidandosi con il suo datore di lavoro, questi le aveva dato, esclusivamente per difesa personale, una calibro 22 non registrata che teneva solitamente in ufficio.
«Io finirò quello che ho cominciato e lavorerò fintanto che ne avrò voglia», concluse la discussione accennando un sorriso, mentre accarezzava con la mano libera il viso di Saga.
Fu in quell'istante che vide negli occhi verdi del marito formarsi delle lacrime e scendere poi sulle guance pallide. Era stata così concentrata a perseguire i suoi obiettivi che non si era accorta che lui, così sensibile, ne stava soffrendo.
«Per favore, amore mio, concedimi ancora un po' di tempo», lo pregò.
«Non se sarai da sola a farlo, non se ti dovessi trovare di nuovo in pericolo. La prossima volta voglio venire con te», disse lui, stringendola forte a sé.

Nei giorni successivi Caroline aveva mantenuto la parola data implicitamente a Saga. Dopo le lezioni, o dopo il lavoro, tornava subito a casa e passava il tempo con lui, aiutandolo a organizzare il lavoro di restauro che di tanto in tanto lui ancora faceva, preparando cassette e scatoloni di libri da portare al centro giovanile della chiesa o alla scuola elementare del quartiere. Lei partecipava agli interessi del marito e lui si interessava senza più ingerenze su come procedeva lo studio.
Con la serenità ristabilita, e il viso completamente guarito, Caroline pensò che fosse arrivato il momento giusto per coinvolgerlo più attivamente. Dopo cena avrebbe provato a introdurre il discorso, fiduciosa di poter condividere con lui il desiderio di andare a vedere il luogo dove era morto il padre, perché finalmente lei si sentiva pronta a quel passo.
Le cose non erano andate proprio come aveva pensato, ma il fuori programma era stato molto gratificante. Avevano fatto l'amore in modo molto appassionato e con la mente libera che le aveva fatto provare lo stesso eccitante e piacevole stordimento della prima volta. Saga glielo aveva promesso: ogni volta sarebbe stata come una prima volta.
Erano distesi sul letto, avvolti nelle lenzuola bianche di cotone che profumavano di bucato fresco, abbracciati l'uno all'altra. Il cuore di Caroline batteva ancora emozionato. Avrebbe voluto rimanere così per sempre, con l'orecchio appoggiato al petto di Saga ad ascoltare il battito del suo cuore, invece ruppe il silenzio.
«C'è un posto dove vorrei andare, stanotte.»
Saga mugulò e si mosse un poco, stringendo lievemente l'abbraccio.
«In tutto questo tempo non ho mai trovato il coraggio di vedere dov'è morto mio padre. Ora credo di essere pronta», disse lei.
A quelle parole, il giovane aprì gli occhi, ma non disse nulla.
«Verresti con me?»
«Sì», rispose semplicemente lui.
La stanza ricadde nel silenzio per diversi minuti. Poi, entrambi si alzarono dal letto e si vestirono. Non avevano sentito la necessità di farsi prima una doccia: addosso avevano l'uno l'odore dell'altra e questo, in qualche modo, dava a entrambi la forza e il coraggio per ciò che li aspettava là fuori.
Caroline salì in soffitta e prese dalla scrivania il rapporto della polizia che conteneva le foto della scena del crimine. Indugiò per qualche secondo con la mano sulla maniglia di uno dei cassettini, poi si decise e prese qualcosa che era avvolto in un foulard scuro. Mise tutto nella sua borsa a tracolla e raggiunse il marito.
Dopo poco meno di mezz'ora, arrivarono in una zona di Boston che Saga non riconosceva, ma forse perché non aveva mai frequentato la città al di fuori del quartiere della residenza principale di famiglia e la zona della bottega del vecchio Josh. Caroline invece sapeva che si trovavano non troppo lontano dalla casa di Dohko.
Il taxi li lasciò in un parcheggio poco illuminato. La giovane sentì all'improvviso addosso dei brividi e si sfregò le braccia. La notte era umida ma non abbastanza fredda da far loro pentire di non essersi messi addosso qualcosa di più pesante.
«Tutto bene?» chiese Saga, immaginando che quella reazione fosse dovuta al luogo e a cosa rappresentasse per lei.
Caroline annuì. Fece un respiro profondo per calmare quella strana sensazione che stava provando e tirò fuori dalla borsa il rapporto della polizia. Si spostò più vicino all'unico lampione funzionante, iniziando a rileggere alcune informazioni e verificandole poi con lo sguardo, parlottando fra sé, mentre Saga faceva un giro e si guardava attorno.
Il giovane si avvicinò all'ingresso di un locale che sembrava essere chiuso da diversi anni. Alla porta era ancora attaccato un cartello che riportava la dicitura “Chiuso per fallimento.”
Quel posto non gli piaceva affatto, gli stava facendo provare disagio. Aggrottò la fronte e tornò verso la moglie, che vide invece concentrata. Per alcuni minuti la seguì a distanza, camminando quasi parallelo a lei: Caroline procedeva a testa bassa e con gli occhi fissi sull'asfalto, si fermava dopo qualche metro e si accovacciava. La vide ripetere quella sequenza diverse volte e, chinandosi un'ultima volta, gli sembrò che lei accarezzasse un punto preciso, indugiandovi di più. Ebbe la sensazione che lei tentennasse, che tremasse, ma subito la vide riprendere sicurezza e alzare lo sguardo verso di lui.
«Quello è il vicolo dove dovevano trovarsi due dei testimoni che erano stati sentiti all'epoca. Erano dei drogati, quindi probabilmente si erano appartati lì per farsi una dose», disse Caroline, indicandolo con il dito.
Saga guardò alle sue spalle: non aveva badato a dove si era fermato e in quel momento si accorse di essere proprio all'imboccatura del vicolo. Era oscuro, tetro. Lo fissò e ciò che gli suggeriva era di andar via il prima possibile. Fece un passo indietro, pronto a girare i tacchi, prendere sua moglie e tornare a casa, quando si vide affiancato proprio da Caroline che gli porgeva la borsa e il fascicolo.
La giovane frugò nella borsa e prese una pila tascabile, prima di addentrarvisi.
«Cosa pensi di trovare?» domandò Saga, con tono dubbioso. Erano già più di dieci minuti che lei stava controllando in modo minuzioso quello sporco e buio vicolo e lui iniziava a diventare insofferente per quella situazione.
«Nessun indizio diretto, ma sicuramente qui c'è qualcosa che possa dirmi chi frequenta ancora questo posto. I barboni sono abitudinari, soprattutto quando individuano un posto sicuro dove stare. E conservano tutto quello che trovano. Se riesco a risalire a chi occupa, od occupava di recente, questo vicolo, forse potrei arrivare a scoprire chi ci veniva prima e chissà, magari arrivare anche ai testimoni che cerco.» Caroline si soffermò di fronte a degli scatoloni umidi, accatastati gli uni agli altri a formare un riparo di fortuna.
«I testimoni non dovrebbero lasciare le proprie generalità, quando vengono interrogati?» domandò ancora lui.
«Di norma è così. Ma il rapporto è pieno di falle. Mancano tanti dati, alcuni anche piuttosto banali.»
«Dici che è stato fatto di proposito?»
«Era la vigilia di Natale, probabilmente chi lo ha stilato non vedeva l'ora di tornarsene a casa. E comunque, qualunque cosa possa essere successa all'epoca, qualunque mancanza potesse esserci stata, non lo ammetterebbero mai. I poliziotti si coprono sempre le spalle.»
«Anche nel caso fosse stato un altro poliziotto a uccidere tuo padre?»
Caroline sussultò: non voleva minimamente prendere in considerazione una cosa simile.
«Credo che sia tutto lavoro sprecato», mormorò Saga, stringendosi nelle spalle; quelle parole però gli uscirono dalla bocca con sufficiente chiarezza tanto che Caroline poté udirle.
«Me ne rendo conto che potrebbe essere un lavoro inutile», ammise lei, «ma vorrei almeno fare un tentativo, perché altrimenti so che lo rimpiangerei in futuro. Se fosse successo a tuo padre, tu non faresti di tutto per conoscere la verità?»
Saga si morse il labbro, abbassando lo sguardo. In un certo senso anche lui si trovava in una situazione simile a quella di Caroline. Forse, sarebbe stato normale voler scoprire qualcosa sul suo vero padre, quello biologico, che pochi mesi dopo la nascita sua e del gemello li aveva affidati a Shion Hayes.
Smise di fare domande e si girò verso il parcheggio, prendendo il cellulare dalla tasca. Stava già componendo il numero del servizio taxi quando, alzando lo sguardo, vide qualcuno fermo a pochi metri da lui.
«Aiolos? Cosa ci fai qui, come ci hai trovati?» chiese, visibilmente sbigottito, credendo di riconoscerlo. Strizzò gli occhi, ma era in controluce e non lo vedeva bene. Oltretutto, si era formata anche una leggera foschia.
«Vi ho seguiti», rispose l'uomo, impassibile, avvicinandosi di qualche passo.
Nella mano, nascosta un poco dietro la gamba, stringeva un tubo di ferro arrugginito.
Saga aggrottò la fronte, infastidito dall'ingerenza da parte dell'amico. «Dovrei prendemela con te, ma ormai che sei qui mi risparmi di dover aspettare un taxi. Avverto Caroline e torniamo a casa», disse. Gli diede le spalle, ma ebbe il tempo di fare appena un passo che l'altro vibrò un colpo secco alla testa che lo tramortì, facendolo crollare a terra.
Sul volto dell'uomo comparve un sorriso compiaciuto. Si avvicinò a Saga e lo trascinò per qualche metro – fuori dalla visuale del vicolo – prendendolo per le caviglie. Con un calcio allontanò il cellulare che la sua “vittima” stringeva ancora in mano. Gli tolse anche la borsa a tracolla, gettandola poco più in là. Poi, tornò all'imboccatura del vicolo.
«Ho trovato una spilletta militare e un biglietto con l'indirizzo di un ricovero per senzatetto. Per questa notte possiamo tornare a casa. Grazie per la tua pazienza, Saga», disse Caroline, rimettendosi in piedi.
Con le dita provò a pulire la spilletta per vedere se riportava qualche riferimento che l'avrebbe potuta ricondurre al suo proprietario. Poi, se la mise in tasca assieme al foglietto e si girò per raggiungere il marito.
«Ciao, Caroline. È un piacere rivederti.»
La giovane si bloccò sul posto, raggelata da quella voce che avrebbe riconosciuto fra mille.
«Deline», balbettò.



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Capitolo 33
*** Capitolo XXXII ***





XXXII



Johnson Deline era a Boston ed era proprio di fronte a lei. Com'era possibile?
Nonostante il vicolo scarsamente illuminato, Caroline lo vedeva bene, fissandolo con occhi sgranati. Non poteva crederci, lui non poteva essere lì. Non poteva averla seguita fino a Boston, fino a quel vicolo...
Il suo cuore iniziò a battere forte nel petto. Strinse le braccia allo stomaco: le fitte erano tanto prepotenti da toglierle il respiro. La sua vista era appannata dalle lacrime imbrigliate fra le ciglia. Iniziò a indietreggiare, lentamente, quasi strisciando le suole, incespicando nelle piccole buche dell'asfalto umido e sporco. Le sue gambe tremavano a ogni passo e le sue labbra balbettavano quel nome maledetto in una sorta di delirio terrorizzato.
Deline avanzava verso di lei con altrettanta lentezza, ma inesorabile, mantenendo inalterata la distanza. Sul suo volto spiccava un sorriso maligno, che rivelava la sua anima nera. In mano stringeva il tubo di metallo che aveva usato poco prima, ne faceva strisciare una estremità sull'intonaco scrostato del muro esterno del locale alla sua sinistra, producendo un suono stridulo e inquietante; quando incontrava un ostacolo, che fosse un cartone o un cassonetto, lo colpiva con violenza e ferocia e ogni colpo era come lo sparo di un proiettile. Si esaltava nel vederla sussultare spaventata.
«Caroline Miller», disse, pronunciando quel nome con voce calma, addentrandosi sempre di più nel vicolo. «Che fortunata coincidenza ritrovarci nella stessa città, non credi?»
I suoi occhi scintillavano di torbido piacere, poiché a ogni passo che faceva nell'avanzare, la sua preda indietreggiava, avvicinandosi alla rete metallica che bloccava il vicolo e sbarrava qualsiasi sua possibilità di fuga.
«Perché ti affanni in questo modo?» le disse, stringendo la presa sul tubo di ferro.
«Perché non mi lasci in pace?» mormorò lei, ansimando pesantemente e con le lacrime che scendevano tiepide sulle guance pallide. Si girò all'improvviso e corse fino a quella maledetta rete metallica, scuotendola e aggrappandovisi con disperazione. Imprecò, con la mente sconvolta per essere senza via di scampo.
L'uomo reagì quasi istantaneamente e, quando la raggiunse, l'afferrò per i capelli, colpendo al tempo stesso, e con violenza, la rete con il tubo di ferro.
Caroline gridò, Deline le teneva premuto il viso sulle maglie metalliche. Chiuse gli occhi quando lui la tirò per i capelli e la costrinse a tornare indietro.
«Non trovi anche tu che il destino è stato generoso nel darci la possibilità di finire ciò che avevamo iniziato?»
«Lasciami andare, ti prego, lasciami andare e non chiamerò la polizia», disse lei in tono supplichevole, provando a fare resistenza. Sapeva che le sue parole sarebbero rimaste inascoltate e, soprattutto, sapeva cosa l'aspettava. Faticava a respirare e il cuore le scoppiava nel petto. Lui le stava facendo male, spingendola e strattonandola in continuazione per farla camminare, insensibile ai suoi singhiozzi; ma ciò che più l'atterriva era la consapevolezza che questa volta non c'era lo zio Phil a salvarla, né la polizia a intervenire.
«Dovresti saperlo come vanno queste cose», le sussurrò lui a un orecchio.
La voce di Deline era impregnata di una malsana dolcezza che fece rabbrividire Caroline. Provò a divincolarsi, approfittando di un momento in cui avvertì la presa dell'uomo più lenta. Lo colpì alla bocca dello stomaco con tutta la forza che aveva e, non appena lui la lasciò – sorpreso dalla reazione – corse via, verso l'uscita del vicolo.
«Dove credi di andare!»
Deline brandì il tubo di ferro e la colpì di striscio a una spalla, ma tanto bastò per sbilanciarla e farla cadere a terra, fra gli scatoloni e i rifiuti. Si fermò a un passo da lei, ansimando. Le sue labbra erano piegate in un ghigno furioso. Caroline era riuscita ad arrivare quasi al parcheggio.
«Sapevo che con te mi sarei divertito, ma ora è il momento di fare la brava», disse, afferrandola per la giacca di jeans e rialzandola di peso, scaraventandola poi contro il muro, in mezzo ad altri scatoloni fradici e sporchi.
Le strinse una mano alla gola, mentre con il tubo di ferro le accarezzava l'esterno della coscia sinistra. Arrivò all'altezza del fianco e si spostò sul ventre, premendo l'estremità di quell'arma improvvisata fino a farla gemere, guardandola soffrire con una certa soddisfazione negli occhi.
«Ho saputo cosa ti è successo ultimamente. Me ne dispiace molto, sai? Avresti meritato molto di più dalla vita», le disse avvicinando il suo viso a quello di lei.
Caroline rabbrividì a quel tono così mellifluo, lo stesso che lui, il mostro di Philly, era solito usare con le sue vittime per carpirne la fiducia. Ma lei non era mai stata una sua vittima; non come Shirley e nemmeno come le altre. Le faceva rabbia ripensare a cosa era successo alla sua migliore amica, che non si era mai ripresa e alla fine aveva deciso di farla finita. Si sentiva in colpa per quello, perché non era riuscita a starle vicina come avrebbe dovuto, ma anche lei aveva passato i suoi guai e aveva faticato a raccogliere i pezzi della sua vita.
Deline le accarezzò il profilo della mascella. Era divertito dalle sue resistenze ed eccitato dalla paura che lei stava provando. «Ti sei scelta proprio un buon partito. Peccato non ci sarà alcun futuro per voi.»
A quelle parole, Caroline strinse i denti, cercando di trattenere le lacrime: era una sentenza troppo crudele per lei. «Saga...» ansimò; la sua mente sconvolta era piena di immagini terribili. «Cosa gli hai fatto?»
«Se ti può essere di consolazione, gli ho risparmiato di assistere all'epilogo di questa nostra rimpatriata.»
Sentire il respiro di quell'uomo sul suo viso la disgustava. Udire le sue parole sprezzanti le faceva venire da vomitare. Avrebbe voluto gridare, ma quella mano la stringeva troppo e le spezzava le parole in gola. Non riusciva a liberarsi, a respirare. Avvertiva come lui stesse premendo sempre di più: se fosse andato avanti ancora un po' di sicuro avrebbe perso i sensi e questo non poteva permetterselo. Raccolse tutte le sue forze e il suo coraggio e lo colpì con una ginocchiata fra le gambe.
Deline gemette per il dolore e si piegò in due, perdendo la presa sul tubo di ferro che cadde a terra con un gran frastuono.
«Maledetta!» ringhiò, portandosi le mani ai genitali. D'improvviso era bianco in volto e il suo corpo tremava.
Per qualche istante, Caroline rimase sbalordita da ciò che era riuscita a fare. Approfittando del momento, gli diede una spinta e scappò verso il parcheggio con l'unico pensiero di raggiungere il marito e accertarsi che stesse bene. Si sentì tirare per i capelli e provò un forte dolore al viso; poi si ritrovò stesa a terra, con un peso che le schiacciava il bacino.
«Devi stare al tuo posto!» urlò Deline, sferrandole altri due pugni in piena faccia con una ferocia mai vista. Il suo volto era trasfigurato dall'ira. Le mise le mani intorno al collo e strinse forte. Ora i suoi programmi erano cambiati, ora voleva ammazzarla subito.

«Lasciala stare!»
La voce di Saga risuonò strascicata in quel vicolo buio, ma abbastanza forte e sicura da distrarre l'uomo.
«Ero convinto di averti sistemato a dovere», disse Deline, alzando lo sguardo vero di lui.
Sulle sue labbra comparve un mezzo ghigno nel vedere che l'altro gli stava puntando addosso una pistola, ma questo non era un incentivo sufficiente a farlo desistere dai suoi propositi. Strinse più forte; sotto di sé sentì Caroline dibattersi per la propria vita e boccheggiare nel tentativo di respirare.
«Non te lo ripeterò un'altra volta: allontanati da lei!» urlò Saga. Era ancora stordito e vedeva con difficoltà a causa della botta alla testa.
«Non fare l'eroe e aspetta il tuo turno», lo sbeffeggiò Deline, abbassando di nuovo lo sguardo sulla sua preda, ma fu un attimo appena. Un forte scoppio rimbombò nell'aria umida nel vicolo e un dolore lancinante infiammò la sua spalla sinistra. Cadde all'indietro e rimase a terra, a occhi sgranati, tenendosi la spalla.
Saga gemette e si accasciò, appoggiando un ginocchio a terra, ma con le braccia indolenzite ancora tese in avanti e le mani che stringevano l'arma. Il rinculo dello sparo gli aveva causato un forte giramento di testa.
«Caroline! Caroline!» chiamò.
Faticava a tenere gli occhi aperti e respirava con affanno. La testa pulsava e gli faceva male, qualcosa di umido e caldo gli colava dietro il collo, inzuppando la camicia.
La giovane tossì diverse volte, rigirandosi a stento sul fianco e riuscendo poi a mettersi a carponi. Alzò lo sguardo pieno di lacrime sul marito, passandosi il dorso della mano sulla bocca piena di sangue. Ci mise diversi secondi per riprendersi e rendersi conto di cos'era appena accaduto, ma soprattutto di cosa avesse fatto Saga. Si rimise in piedi, barcollando, e si avvicinò a lui.
«Saga, Saga...» lo chiamò, pronunciando il suo nome con tono pacato, ma pieno di amore e preoccupazione, perché il suo unico pensiero era lui. «È finita, va tutto bene. Va tutto bene.»
L'arma era sempre puntata su Deline, che si trovava a terra, immobile, ma rideva, seppure era una risata intrisa del dolore alla spalla. Non c'era più alcun pericolo, nonostante ciò Saga non accennava ad abbassare la pistola e a rilassarsi.
Caroline gli sfiorò le mani.
«È finita, mettila giù», lo pregò, ma lui era come in trance.
Gli tolse l'arma dalle mani con delicatezza e in quello stesso momento il marito si lasciò andare addosso a lei, esausto e senza forze. Avrebbe voluto tenerlo fra le sue braccia per sempre, proteggerlo da quel suo passato che non aveva mai avuto il coraggio di condividere; aveva fallito in quello, ma ora doveva chiudere i conti per poter andare avanti. Lo doveva a se stessa e lo doveva anche a Shirley.
Strinse l'impugnatura della pistola e tornò nel vicolo. Si fermò a un passo da Deline e gliela puntò in faccia: lui aveva quel maledetto sorrisetto sulle labbra.
«È così che avevi immaginato sarebbe finita questa serata?»
«Sapevo che dietro questo tuo aspetto così comune si nascondeva una persona non comune. Lo sapevo fin dalla prima volta che ti ho vista, con la tua amica. Come si chiamava?» disse lui.
Accennò un movimento per tirarsi su e Caroline indietreggiò di un passo, impugnando la pistola anche con l'altra mano.
«Non parlare di lei, non ti permettere di nominarla!» urlò la giovane, agitando la pistola. I suoi occhi si riempirono di nuovo di lacrime. Lui non doveva neanche osare rivolgere un pensiero a Shirley, non quando le aveva spezzato la vita in quel modo così brutale.
«Ho letto sui giornali della sua morte. È davvero una tragedia.»
«Stai zitto! È colpa tua, bastardo, tutta colpa tua!» urlò Caroline, con le mani tremanti e il dito nervoso che iniziava a premere sul grilletto.
Ansimava in modo pesante e la sua mente faceva sempre più fatica a trattenere l'odio che provava nei confronti di quella bestia.
Deline rise di scherno: oltre la canna di quella pistola puntata su di lui vedeva una giovane donna impaurita che si nascondeva dietro una finta maschera da dura. Questo lo divertiva e lo eccitava al tempo stesso. Anche in una posizione così di svantaggio, era ancora lui il vero predatore.
«Già, una gran tragedia», continuò, in barba alle minacce. «Ma è ingiusto da parte tua darmi la responsabilità di tutto, anche di ciò che è successo in seguito. È lei che se l'è andata a cercare. Si è messa in mezzo, si è offerta con una tale voglia che quasi è stato un fastidio per me.»
Nel parlare, nel pronunciare quelle parole, continuava a fissare l'espressione sempre più scioccata di lei. E ora, lo sapeva, era il momento di dare la stoccata finale.
«A dire la verità... la responsabilità è tua, Caroline. Era te che puntavo fin dall'inizio, ma la tua amica si è letteralmente buttata fra le mie braccia. Ti ha lanciato i segnali giusti e tu, che avevi così fretta di tornartene a casa, l'hai lasciata sola, con me. Quanta impazienza avevi quel giorno, quanta insofferenza c'era sul tuo viso per l'eccessiva espansività della tua amica, che invece voleva divertirsi», disse, con un sogghigno malevolo sulle labbra.
Le mani di Caroline tremarono e, nello stesso momento in cui sentì la sua risata, nel vicolo riecheggiarono tre spari ravvicinati. Poi, ci fu spazio solo per il suo respiro ansimante.
«Lei si è uccisa per colpa tua, non mia», mormorò, tremando con tutto il corpo. «Per colpa tua, hai capito? Per colpa tua!» urlò fra le lacrime, poi cadde in ginocchio e si portò una mano al volto.
Rimase a terra per diversi minuti, tremando di rabbia e piangendo tutta la disperazione che provava e che aveva provato in quegli ultimi anni. All'improvviso si rese conto che tutto era troppo calmo.
Possibile che nessuno nei dintorni avesse sentito le urla e gli spari?
Un freddo intenso le penetrò fin nelle ossa. Ebbe un brivido che la scosse in tutto il corpo, risvegliandola dai suoi tormenti.
«Saga»
Si ricordò delle parole pronunciate da Deline e un forte panico crebbe in lei. I suoi occhi si riempirono di angoscia quando intravide il marito steso a terra e privo di sensi.
Corse da lui con il cuore in gola. Lo girò, singhiozzando e tenendolo fra le braccia. Era pallido. Aveva gli occhi chiusi e una sottile striscia di sangue, che gli era colata dalla testa impiastricciandogli i capelli biondi, gli solcava lo zigomo. Gli sfiorò la guancia con la punta delle dita, la sua pelle era gelata.

*****

Tutto taceva in quell'angolo squallido di Boston. Dove prima la voce di Deline era in parte offuscata dalle ventole dei condizionatori, ora, nel silenzio di quel vicolo, lei era sola con i suoi pensieri e proprio per quello aveva paura.
Erano rimasti lì a terra, a due passi dall'uscita di quel vicolo male illuminato, umido e maleodorante delle immondizie, ammonticchiate contro i muri. Nell'aria persisteva l'odore acre della polvere da sparo che lei conosceva bene. Nelle sue orecchie rimbombavano ancora quei tre colpi esplosi a bruciapelo. Inorridiva al pensiero che non aveva avuto remore a premere il grilletto e tremava, impaurita e angosciata, perché erano bastate quelle parole provocatorie e lei aveva dato libero sfogo al desiderio di vendetta.
Non sapeva quanto tempo fosse trascorso da quando aveva chiamato i soccorsi. Sicuramente troppo per le condizioni di Saga. Caroline era china su di lui, con i vestiti strappati e sporchi di sangue, teneva stretto a sé l'uomo che amava. Si dondolava avanti e indietro, lentamente, sussurrandogli che l'incubo era finito, che presto sarebbe stato bene. Avrebbero dimenticato quella brutta notte e sarebbero stati di nuovo felici.
Le lacrime scendevano silenziose sul suo viso tumefatto e insudiciato del sangue del mostro di Philly che si mescolava al suo e pizzicavano sulle ferite già gonfie. Qualche metro più in là, riverso nel suo stesso sangue, giaceva Deline, lei stessa aveva messo fine alla sua vita, ma a quale prezzo?
Aveva ucciso un uomo, spezzato una vita, ma ne era rimasta coinvolta lei stessa. Nonostante fosse quella di una persona indegna, che avrebbe meritato di passare il resto dei suoi giorni in carcere, lei si era arrogata il diritto di prendere il posto di giudice e giuria, imponendo la sua sentenza e applicandola con le sue stesse mani. Ora però, iniziava a sentire il peso delle sue azioni. E poi, anche Saga stava pagando per i suoi sbagli. Questo le spezzava il cuore. L'ultima cosa che avrebbe voluto era fargli del male.
Un refolo di vento trasportò fino a lei l'odore della morte, investendola come un'accusa. Cosa avrebbe fatto da ora in avanti? Quale giustificazione avrebbe dato a sua madre, allo zio Phil e a Mickey? Come sarebbe apparsa agli occhi dell'uomo che amava?
Sarebbe stata biasimata per aver sprecato il suo futuro, ne era certa. Questa volta non se la sarebbe cavata. La polizia non ci avrebbe messo molto a capire che non si trattava di legittima difesa e allora, lei che sentiva di non avere più la forza per opporsi, sarebbe stata separata per sempre dalle persone che amava.
Fu distratta dai suoi pensieri da un lamento sommesso di Saga. Respirava piano, ma era sofferente. Gli sfiorò appena la guancia. Lui era vivo, solo quello contava per lei.
«Ho ucciso un uomo, amore mio», sussurrò fra le lacrime, «e ora... sono morta anch'io.» Con la mano tremante gli pulì la guancia da quello sbaffo di sangue. «Cos'ho fatto... cosa ti ho fatto...» singhizzò.
Lo aveva coinvolto di nuovo nei suoi guai, ma questa volta non si trattava di uno stupido trasloco, ma di qualcosa di molto più serio e pericoloso e per poco non ne era rimasto ucciso. Aveva la nausea all'idea di perderlo. All'improvviso avvertì al ventre una forte fitta e un gemito le si strozzò in gola. Si morse il labbro e strizzò gli occhi. Due grosse lacrime caddero dalle sue ciglia e finirono sul volto di Saga.
«Ma perché non arriva ancora nessuno», mormorò con rabbia.
«Ehi, tutto bene, hai bisogno di aiuto?»
Caroline trasalì nel sentire una voce alle sue spalle. Afferrò rapidamente la pistola a terra accanto a sé e, voltandosi di scatto, la puntò contro lo sconosciuto.
«Non ti avvicinare!» gli intimò.
«Calma, calma! Non voglio farti del male!» esclamò con tono sorpreso il giovane, mostrando i palmi delle mani per dimostrarle che non era armato e che non aveva cattive intenzioni.
Si mosse piano verso di lei, camminando con molta cautela: lei non sembrava intenzionata a credergli sulla parola e lui non aveva voglia di fare la stessa fine di quello steso nel vicolo.
«Chi sei?» chiese lei, spostando l'indice sul grilletto.
«Sono solo un tizio che passava di qui per caso», rispose il giovane. «Avevo finito le sigarette e sono uscito per comprarle. Sai, senza non riesco a studiare», le disse, con un sorriso malandrino sulle labbra, prendendo il pacchetto dalla tasca della giacca militare.
Estrasse una sigaretta e se la mise in bocca. Poi, come nulla fosse, l'accese usando un fiammifero.
«Questo è un brutto quartiere per fare una passeggiata romantica», disse, accovacciandosi di fronte a lei, notando la fede che la giovane portava al dito. «Siete stati aggrediti?» chiese, offrendole il fazzoletto, ma non ricevette alcuna risposta. Di fronte a lui, Caroline aveva posato di nuovo l'arma sull'asfalto e piangeva in silenzio.
Osservò meglio Saga che giaceva a terra privo di sensi e un leggero sogghigno incurvò le sue labbra nel riconoscerlo; non pensava di trovarlo in una circostanza simile, ma evidentemente la fortuna era girata dalla sua parte e ora, finalmente, poteva chiudere l'incarco con successo, alla faccia del suo capo che gli dava il tormento da mesi.
«Sei una persona difficile da scovare, amico», mormorò, togliendosi la giacca e mettendogliela sotto la testa.
Pochi momenti dopo, nella surreale calma di quel quartiere in declino, risuonarono le sirene delle auto della polizia e quelle dell'ambulanza.

*****

Caroline era seduta sul quel lettino ormai da più di due ore. Indossava lo scomodo camice azzurrino da ospedale che sembrava fatto di carta e le teneva scoperta la schiena. L'infermiera se n'era andata via senza rivolgerle una parola, portando con sé i suoi vestiti e tirando la tenda divisoria, isolandola così dal resto della sala visite del pronto soccorso. Non era sembrato un gesto di gentilezza nei confronti di una vittima, quanto una indifferente consuetudine del suo lavoro.
La giovane non aveva detto più una parola da quando i paramedici l'avevano visitata sul luogo dell'aggressione e il detective incaricato le aveva fatto le prime domande di routine; lo stesso era successo anche quando l'uomo l'aveva poi raggiunta in ospedale, dopo che era stata separata da Saga.
Un leggero fruscio anticipò il movimento della tenda e, da dietro di essa, sbucò la testa bionda del giovane studente.
«Ehi, ciao!» la salutò sottovoce, ma con un entusiasmo che stonava in quel luogo e in quella circostanza.
Si guardò in giro come se temesse di essere visto e si infilò rapido dietro la tenda. Poi, si avvicinò al lettino, più rilassato. Fissò Caroline per qualche secondo, studiando le sue reazioni. O forse doveva dire le sue non-reazioni. La vedeva completamente assente, ma poteva comprenderla, dopo quello che aveva passato quella notte.
«Ehi», ripeté, «scusami se sono sparito. Ti senti un po' meglio?» Di nuovo non ottenne alcuna reazione: lei era come imbambolata. Solo quando le si mise di fronte, allora Caroline diede segni di ridestarsi.
La giovane mosse un poco la testa, alzò lo sguardo e sgranò gli occhi nel vedere il giubbotto che lui teneva piegato sul braccio, tutto imbrattanto di sangue.
«Questo?» disse il giovane, mostrandogliela, «Non ti preoccupare, non è un gran danno. Era da tempo che dovevo decidermi a buttarlo.»
D'istinto lei provò ad allungare la mano destra, ma si sentì frenata e non ci riuscì. Si guardò il braccio: era stata ammanettata alla sponda del lettino.
«Beh, wow... questo non me lo aspettavo. Non mi sembravi affatto un tipo pericoloso», rise lui.
Caroline abbassò la testa e i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Ho ucciso una persona», mormorò, stringendo i pugni.
«Sicuramente se lo meritava», convenne lui. «Ti ho riportato la borsa», disse, posandola accanto a lei.
«Ma dove...»
«Era vicino all'entrata del vicolo, ma stai tranquilla, ci dovrebbe essere ancora tutto», le sorrise comprensivo. «A proposito, ho saputo che tuo marito ha ripreso conoscenza.»
A quelle parole la giovane riprese maggiore presenza di spirito. «Lo hai visto? Hai visto Saga, lui sta bene? Ti prego, rispondimi, rispondimi, dimmi come sta!» disse con voce stravolta.
«Calma, calma!» la trattenne, posandole una mano sulla spalla. «Ho solo sentito un'infermiera che ne parlava. Scusami, non volevo farti agitare.» Le chiese il tacito permesso di guardare meglio le ferite sul suo viso e scrollò debolmente la testa, indignato. «Ma guarda come ha ridotto il tuo bel viso.»
Sbuffò, passandosi la mano fra i capelli spettinati, non era abituato a situazioni del genere, non era il tipo da consolare le vedove afflitte e in fin dei conti non era nemmeno fra le sue competenze. Aveva perso abbastanza tempo e per lui il tempo era denaro; ciò che gli serviva lo aveva già preso e ora non doveva far altro che portarlo al suo cliente e chiudere la pratica.
«Beh, ora devo andare. Spero che tuo marito si riprenda presto. Buona fortuna», le disse, facendo un cenno di saluto con la mano.
«Aspetta!» lo trattenne Caroline. «Non ti ho neanche ringraziato per l'aiuto, nemmeno so chi sei e come ti chiami.»
«Mi chiamo Milo e sono un semplice studente del Boston College, anche se fuori corso», disse, lasciandosi andare a una risatina imbarazzata.
«Grazie, Milo», disse lei, con una lacrima che scendeva lenta sulla guancia.

*****

Il giovane cacciatore di taglie si presentò poco prima dell'alba alla residenza della famiglia Taylor, quando tutti ancora dormivano, con la cartella clinica del paziente “Saga Hayes” sotto il braccio e una faccia di chi la sapeva lunga.
«Spero per lei che sia davvero una cosa importante, mr Scorpio», disse Anne Taylor, annodando con gesti nervosi la cintura della vestaglia porpora e accompagnandolo nello studio.
«Più di quanto lei possa immaginare, signora», rispose Milo, con un tono strafottente. Si fermò di fronte alla scrivania antica e vi posò una grossa busta di plastica trasparente, di quelle usate per le prove forensi, che conteneva la sua vecchia giacca militare sporca di sangue. Poi, sprofondò sulla poltrona lì vicino. Sembrava sfinito, ma nel suo sguardo c'era l'arroganza di chi si sentiva il re del mondo.
Anne Taylor si avvicinò a sua volta alla scrivania e, con uno sguardo pieno di disgusto, afferrò la busta. «Cosa dovrei farmene di questa?»
«Potrebbe essere nel suo interesse fare il test del DNA del sangue che si trova lì sopra.»
«E per quale motivo?» chiese con tono scettico la donna. Nei suoi occhi però si era già acceso l'interesse.
«Per confermare che la persona corrispondente al nome scritto in questa cartella è la stessa che cerca», rispose Milo, gettando la documentazione sulla scrivania. Dalla tasca dei jeans prese il cellulare e mostrò alla donna la foto che aveva scatto a Saga in ospedale, approfittando di un momento in cui era stato lasciato solo.
«Come ha fatto a trovarlo?» chiese Anne Taylor, sedendosi lentamente dietro la scrivania. Dall'ultimo cassetto prese le fotografie che il cacciatore di taglie le aveva dato durante il loro ultimo colloquio e iniziò a confrontarle. Era innegabile: si trattava proprio della stessa persona.
«Non è stato affatto facile, ho girato a vuoto per diverse settimane; quel tizio sembra non esistere. Allora ho cambiato strategia e ho cercato la ragazza. È stato uno scherzo rintracciarla. L'ho studiata per qualche tempo, l'ho seguita e questa notte... bingo!»
«È proprio lui, non ci possono essere dubbi, è la sua copia vivente», mormorò Anne, mentre uno strano ghigno le curvava le labbra. «Saga Hayes... si nascondeva proprio sotto il mio naso. Quel bastardo di Shion mi ha presa in giro per tutti questi anni.»
«Direi che possiamo passare al compenso», propose Milo, alzandosi stancamente.
«Il suo lavoro non è ancora terminato, mr Scorpio.»



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Capitolo 34
*** Capitolo XXXIII ***





XXXIII



«I prossimi giorni potrebbero essere difficili», disse il medico del pronto soccorso. Alle sue spalle, in bella vista sul diafanoscopio, c'erano le lastre che mostravano il cranio di Saga. «Sbalzi di umore, brevi amnesie, mal di testa, in alcuni casi anche perdita dei sensi.» Si soffermò a studiare ancora per qualche secondo le lastre, con un'aria pensosa. «Considerata la presenza di una vecchia frattura, i sintomi potrebbero presentarsi più marcati.»
«Sì, dottore, ne siamo consapevoli», lo interruppe Shura, con tono brusco. Si era presentato quasi un'ora dopo con un ordine del tribunale che dichiarava la sua temporanea carica di tutore legale del paziente per le questioni mediche e di salute.
Non era nella disposizione d'animo per sopportare spiegazioni troppo lunghe e altrettanto non intendeva darne lui, rivangando il precedente incidente di Saga. Assicurò il medico che erano in grado di gestire la situazione. Firmò il consenso per le dimissioni e, alla debole obiezione dell'uomo, lo liquidò con un'occhiataccia.
Il medico scrollò la testa e non insistette oltre, più che felice di scrollarsi di dosso quella responsabilità e di non dover avere a che fare con un tipo losco come lui.
«Aiolos, andiamo.»
Il giovane fece un cenno di assenso e accompagnò Shura nella stanza di Saga, celando il malcontento che lo stava divorando. Oltre alla preoccupazione per lo stato di Saga, gli rodeva che l'amante – dal momento in cui era stato informato dall'ospedale – lo trattasse con risentimento. Che colpa ne aveva lui se Saga aveva deciso di visitare dei vicoli malfamati in piena notte e senza avvertire nessuno? Che colpa ne aveva lui se il figlio prediletto di Shion Hayes si era messo intesta di escludere la famiglia per vivere un capriccio?
Una volta nella stanzetta privata guardò Shura di sottecchi. Lo vide accostarsi al letto di Saga, parlargli con gentilezza e comprensione e sfiorargli la mano mentre si sedeva sullo sgabello lì vicino. Intravide nei suoi modi un senso di colpa che non riusciva a comprendere, perché Shura non era responsabile di quanto era accaduto quella notte, eppure era lo stesso che tormentava anche il suo cuore. Di questo ne era certo.
«Ti riporto a casa. Te la senti di alzarti?» gli sentì dire a Saga, che però non reagiva a nulla, continuando a fissare il vuoto. Aveva gli occhi infossati e con la testa abbondantemente fasciata sembrava ancora più pallido.
Sospirò e uscì. Con la testa piena di pensieri percorse il corridoio del pronto soccorso, fino alle sale vista. Era sicuro che ci fosse anche Caroline, forse era nelle medesime condizioni di Saga, o forse era stata più fortunata. Nei suoi confronti non sentiva alcun obbligo, ma la cercò ugualmente.
«Sempre a cacciarti nei guai, vero?» disse, scostando la tenda divisoria.
Caroline si girò di scatto e ancora una volta le manette al suo polso cozzarono con la sponda di metallo del lettino. «Aiolos», mormorò, sgranando gli occhi.
«Che diavolo ci facevi in quel vicolo e a quell'ora di notte?»
Lei abbassò lo sguardo sulle sue mani ancora insudiciate: l'infermiera era passata per medicarla e qualcun altro aveva raccolto da lei delle prove forensi, ma nessuno le aveva ancora dato il permesso di pulirsi.
«Volevo scoprire qualcosa di più sulla morte di mio padre», confessò lei.
«E dovevi proprio coinvolgere anche Saga in questa tua pazzia inutile? Tuo padre non ha già causato abbastanza morti?» l'aggredì lui. Vederla tormentata dal senso di colpa gli faceva provare rabbia.
A quelle parole la giovane sgranò di nuovo gli occhi. Cosa c'entrava suo padre con quanto accaduto a lei e Saga?
«Non ti permettere di parlare di mio padre e di insultare la sua memoria!» urlò, scattando verso di lui, ma era ammanettata al lettino. I suoi occhi si velarono subito di lacrime.
Aiolos strinse le labbra per frenare la collera e la voglia di risponderle che quell'irresponsabilità che la metteva costantemente nei guai l'aveva ereditata da Gregory Miller, che quel pensare solamente a se stessa e a raggiungere i suoi fini, senza riflettere sulle conseguenze, era lo stesso atteggiamento che aveva condizionato la vita del padre e forse portato alla morte.
Si sentiva frustrato, confuso e arrabbiato. Lei aveva il potere di scatenare la gelosia in lui come nessun altro e questo lo faceva infuriare ancora di più, perché si scopriva vulnerabile.
Caroline singhiozzò, trattenendo a stento la voglia di piangere. Si passò il dorso della mano libera sugli occhi. «Lui sta bene?» chiese con voce supplichevole. «Ti prego, dimmi che lui sta bene.»
Aiolos rimase in silenzio. Prese il cellulare e compose velocemente un paio di messaggi. Poi, una volta inviato l'ultimo, si avvicinò allo sgabello metallico e vi si sedette. Gli venne in mente che non era la prima volta che faceva una cosa simile. «C'è qualcuno che può occuparsi di te?»
«Mi posso arrangiare da sola.»
Aiolos si lasciò andare a un sogghigno, incrociò le braccia al petto e chiuse gli occhi, mettendosi comodo per la lunga notte che si prospettava: se c'era di mezzo anche la polizia, di sicuro si sarebbe andati per le lunghe.
Caroline lo fisso per diversi secondi: non sapeva cosa pensare di lui. Era antipatico e scostante, ma era sempre lì nel momento del bisogno. Abbassò di nuovo lo sguardo. Sentiva le lacrime che premevano per uscire e la frustrazione che provava non l'aiutava di certo. Lei continuava a chiedere, ma nessuno voleva darle notizie di Saga.

*****

«Lo vuoi uno Scotch?»
Caroline scrollò la testa; rannicchiata sul divano, teneva lo sguardo fisso sul vecchio poggiapiedi occupato da Kitty: sembrava sonnecchiare tranquilla, così tutta acciambellata dove solo la punta della codina era libera e si muoveva su e giù.
Sulle spalle, a coprire l'anonima tuta di cotone che le aveva fornito l'ospedale, prima di permetterle di tornare a casa, portava il giubbotto di Aiolos, per ripararsi dal freddo e dai tremori che scuotevano il suo corpo provato.
«Io invece ne ho proprio bisogno», mormorò il ragazzo, aprendo le antine dei pensili della cucina. «Ma dove diamine lo tieni?»
«Non ne ho.»
«Whisky? Brandy? Vodka?» chiese con insistenza, ottenendo sempre un breve cenno di diniego.
Trattenne uno sbuffo e aprì il frigorifero: per fortuna, almeno c'era della birra. Stappò una bottiglia e ne bevve dei lunghi sorsi, lasciando che quel liquido fresco gli andasse giù per la gola, dissetandolo. Poi, con la bottiglia in mano, si rilassò in poltrona. Rimase in silenzio a bere e a scrutare Caroline. Ripensò a come si era comportata al pronto soccorso e a come fosse stata collaborativa con i detective quando erano tornati una seconda volta per interrogarla; ma anche a come si fosse chiusa in se stessa quando le domande iniziarono a vertere con maggiore insistenza su Deline: sui suoi rapporti con l'uomo, sul perché si erano incontrati proprio in quel luogo e a quell'ora...
Per quei poliziotti poco importava che la vittima se la fosse meritata una morte come quella, per loro era un omicidio da risolvere. Solo grazie al nome degli Hayes, Aiolos aveva ottenuto di poterla portare a casa, ma nemmeno a lui era stato risparmiato un vero e proprio terzo grado.
Si rigirò fra le mani la bottiglia ormai vuota, ma ancora umida di condensa.
C'era tensione nell'aria e tristezza e dolore. Non sapeva cosa dire, o cosa fare.
Fuori c'era già il chiarore del giorno e un sole ancora forte e pimpante, ma velato di nuvole sfilacciate che andavano ingrigendosi. Un raggio di sole pentrava dallo spiraglio delle tende e tagliava come una lama il salotto, riflettendosi sui mobili bianchi. Guardò l'ora: erano le otto e dodici del mattino. Sbuffò, muovendosi incomodo sulla poltrona. Sarebbe arrivato in ritardo in ufficio.
Tornò a osservare Caroline, nel tempo che avevano trascorso in casa lei non si era praticamente mossa di un millimetro. Iniziava a irritarsi di quella passività.
«Un'arma... ma dove se la sarà procurata quell'arma e perché poi? Sapeva che lo avrebbe incontrato?» mormorò, corrugando la fronte.
Non riusciva a capacitarsi di cosa era stata capace di fare lei. Mettersi in pericolo in quel modo, coinvolgere Saga...
«Fatti una doccia e qualche ora di sonno. Ripasserò nel pomeriggio», le disse, arrivandole dietro le spalle e riprendendosi il giubbotto.
Sospirò stancamente nel vedere che la sua esortazione era caduta nel vuoto. Si grattò la testa. Non aveva idea di cosa fare per scuoterla dal suo torpore. Di certo non poteva permettersi che lei si lasciasse andare, ma neanche poteva farle da balia: lui non era la sua babysitter!

*****

Con i primi freddi dell'autunno le sponde del lago Mystic spesso si velavano di nebbia. L'aria si caricava di umidità e la sera calava presto. Quel giorno in particolare, si era alzato un poco di vento e sembrava si stesse preparando un temporale, eppure erano diverse ore che Saga se ne stava seduto da solo in giardino, nel gazebo bianco, a fissare le acque scure del lago.
Il medico all'ospedale aveva raccomandato di controllarlo e tenerlo sveglio almeno per le successive ventiquattro ore per non incorrere in conseguenze gravi, ma non ce n'era stato bisogno, perché non era comunque riuscito a dormire. Non appena chiudeva gli occhi si ritrovava in quel vicolo, con gli spari che gli riempivano le orecchie e lo facevano tremare. In quei momenti sopraggiungevano dei forti giramenti di testa e la nausea gli contorceva lo stomaco.
Saga si rendeva conto di stare male e altrettanto stavano male gli altri, ma non riusciva a esprimere apertamente ciò che provava, perché neanche lui sapeva cosa provava e sentirsi gli occhi addosso lo faceva chiudere ancora più in se stesso. Gli mancava qualcosa, a cui però non era capace di dare una forma o un nome.
Saori lo aveva osservato per più di un'ora, nascosta nel porticato della cucina, prima di prendere coraggio e avvicinarsi a lui. Gli portò una tazza di tè caldo, sperando gli facesse piacere, ma si sentiva intimorita dall'aura di tristezza che avvolgeva l'uomo; da quando aveva lasciato la villa sembrava passato un secolo e lui era tornato cambiato.
«Come si sente, signor Hayes?» disse la giovane, facendo un breve inchino di saluto. Non le era venuto niente di meglio da dire e pregava di non sembrare troppo sciocca.
Lo vide continuare a fissare lo specchio d'acqua di fronte a sé. Il suo viso, sul quale era presente un'ombra di barba, era immobile e inespressivo, bianco come la foschia che si stava formando sul lago.
Provava un crescente disagio a rimanere lì in piedi. Poi, avvertì provenire da lui un respiro un poco più ampio e un lieve movimento della testa. Si morse il labbro, tesa e nervosa: sapeva che non doveva permetterselo, ma nonostante tutto era ancora più affascinata da lui, da quella fragilità tragica che veniva da lui. «Povero principe Genji...» mormorò sovrappensiero, mentre con un dito si sfiorava rapida sotto l'occhio per asciugare una lacrima.
Quel paragone le venne naturale, ripensando a quanto avesse sofferto l'uomo in quegli ultimi mesi, dalla notizia dell'aborto della moglie, al fatto che lei glielo aveva tenuto nascosto, alle difficoltà del suo breve matrimonio e, per finire, con quel brutto episodio di pochi giorni prima, di cui era stato protagonista. Il secondogenito di Shion Hayes era bello, ricco, di ottima cultura, sempre gentile con tutti; si poteva dire che avesse tutto dalla vita, eppure era così sfortunato.
Vedeva i suoi occhi così spenti, il tratti del suo viso così scarni, che le si stringeva il cuore.
Saga abbassò gli occhi sulla tazza di tè, i suoi vapori salivano in sottili lingue biancastre. Allungò la mano sopra di essa; il calore che accarezzava le sue dita lo fece sorridere.
«Signor Hayes?» insistette Saori, accennando a sfiorargli il braccio. Ricordò in quel momento che l'ultima volta che lui aveva fatto visita alla villa le aveva detto di chiamarlo semplicemente per nome e allora, in un sussurro appena udibile, balbettò il suo nome.
Saga posò lentamente lo sguardo su di lei e nei suoi occhi comparve una flebile luce di vitalità.
«Indossi l'uniforme della scuola privata», disse con voce roca.
«Sì, signore, sto frequentando l'ultimo anno», rispose la giovane, arrossendo un poco.
Per un breve attimo rivide sulle labbra dell'altro un sorriso dolce, come quello che non gli era mai mancato quando le aveva fatto da tutor, ma fu davvero solo un attimo: scomparve quando lui si scusò per non essere stato presente alla festa del suo diciottesimo compleanno.
«La maggiore età è un traguardo importante per ogni giovane, legalmente si diventa adulti e si entra a pieno diritto a far parte del mondo», le disse, porgendole la mano. «Anche se in ritardo, ti prego di accettare i miei auguri.»
Le strinse la mano con insolita delicatezza – che poteva essere scambiata per debolezza – e, nel momento in cui lei la lasciò, rimase a fissare la propria con sguardo vacuo. Il flebile calore di quella stretta gli parve simile a quello che aveva provato nello stringere il calcio della pistola.
Ripiombò ancora una volta nel gorgo dei suoi pensieri. In quel vicolo buio e maleodorante, in quella notte piena di pericoli, nella quale aveva ucciso un uomo. Rabbrividì. Non aveva mai preso in mano un'arma in vita sua, men che meno aveva mai sparato. Eppure, in quell'occasione l'aveva maneggiata come se fosse stata una cosa naturale. Aveva saputo togliere la sicura e colpire il bersaglio senza neanche mirare, senza pensare. Forse, crescendo leggendo libri gialli e guardando in televisione film e serie poliziesche, quelle cose gli erano diventate familiari.
«Chi l'avrebbe mai detto...» mormorò. Si alzò, si mise le mani nelle tasche del cardigan di lana pesante e si incamminò senza dire nulla nella direzione della rimessa delle barche.
Quello era un luogo che non frequentava spesso; anzi, erano anni che non ci metteva piede, perché ogni volta che vi si avvicinava provava una strana tensione, ma ora sentiva il bisogno di andarci.
Quando vi entrò, calpestando con circospezione le tavole di legno del pavimento, non lo riconobbe. Era un unico ambiente, un enorme stanzone, completamente costruito in legno, con due ampie doppie finestre su entrambi i lati lunghi e la parete di fondo – quella che dava sul lago – tutta aperta. Era pulito e luminoso, sembrava essere stato rimodernato di recente. Un vecchio motoscafo, coperto da un telo verde sbiadito, ondeggiava nell'acqua, proprio al centro dello stanzone. Sulla parete di destra era appoggiata una canoa, un po' di traverso, e poco più in là anche una coppia di remi.
Fece ancora qualche passo, fino al punto dove il pavimento si restringeva in una sorta di pontile coperto, largo non più di due metri e proseguiva verso il lago, ricollegandosi a quello esterno a formare una specie di doppia T.
Saga provò una strana sensazione di morte nel stare lì, nonostante tutto fosse nuovo e tirato a lucido. Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi. In quel momento nella sua mente si formarono le immagini di com'era la rimessa tanti anni prima, con le tavole originali del pavimento, con gli scricchiolii spettrali, le macchie di muffa e di alghe e la puzza di acqua marcia. Provò un leggero fastidio alla tempia, proprio dove aveva la piccola cicatrice e riaprì gli occhi.
Ricordò che in quel punto, una volta c'era una grande pozza di sangue; ricordò due individui mai visti prima che massacravano un uomo già a terra e poi lo buttavano in acqua, tenendolo a fondo con un remo.
Ricordò la paura che aveva provato, la corsa disperata e il momento in cui lo avevano preso. Ricordò il dolore e la vista offuscata, le forze che gli venivano meno e poi... quelle voci.

«Ci era stato detto di tenerlo d'occhio, non di ucciderlo!»
«Lo so, ma lui ci ha visti mentre davamo una lezione a quel ficcanaso di un giornalista!»
«La ricompensa ci sta costando troppo cara. Io mollo qui, non ci tengo a passare la vita in galera!»

Scrollò con vigore la testa per togliersi quelle immagini dalla mente e uscì dalla rimessa. Fuori il sole era ormai tramontato e tutto era immerso in uno strano grigiore. Si guardò attorno, il parco era desolato e il boschetto che circondava la proprietà sembrava ancora più oscuro, proprio come quel vicolo. Osservò le sue mani, che pochi giorni prima avevano impugnato la pistola. Non poteva credere di aver sparato a un uomo.
«È così facile porre termine a una vita?»
Si girò verso la villa e la fissò per diversi secondi. Il suo sguardo era diverso. Si sentiva stanco, piegò le labbra in un mezzo sorriso e rientrò in casa.

*****

Kanon se la stava proprio godendo quella settimana di fine ottobre sullo yacht, invitato da un amico di un amico di Jenny Perkins.
Feste, sole, mare, grandi bevute, pesca d'altura, ancora feste... e di tornare al lavoro non ne voleva proprio sentir parlare.
L'ultima sera, si trovava a mollo in una mega vasca a idromassaggio assieme a una moretta niente male, una di quelle indossatrici finte curvy che andavano di moda in quel periodo, a bere champagne e a guardare le stelle. Si sentiva in paradiso, senza pensieri, senza preoccupazioni e, soprattutto, senza pensare una sola volta al gemello traditore. Poi, arrivò quello stramaledetto messaggio da Aiolos, che riuscì a guastare tutto quanto.
Il suo primo istinto fu quello di gettare lo smartphone direttamente nell'oceano – tanto tutti i contatti, i documenti, le foto e qualunque altra cosa importante era caricata sul cloud – ma sarebbe stato solo uno spreco. E lui odiava quel tipo di spreco. Poi, sopraggiunse l'altro, quello di mamma chioccia, sempre in apprensione e, se fosse stato possibile, sarebbe partito subito per Boston e poi di filato alla villa sul lago Mystic senza fare sosta! Del resto, era suo fratello e benché l'ultima volta che avevano parlato i toni si erano accesi più del dovuto – probabilmente da parte sua –, il suo istinto da mamma chioccia stava prevalendo su tutto il resto e al diavolo il suo orgoglio ferito!
Per sua sfortuna non era in grado di portare una barca a remi, figurarsi quel cinquanta metri extra lusso, anche se aveva il pilota automatico.
Alla villa si presentò due giorni dopo aver ricevuto il messaggio. Salì i gradini dello scalone tre alla volta, tanto era il livello di ansia che aveva addosso, e spalancò la porta della camera da letto di Saga. Poteva andare a colpo sicuro con il gemello, poiché sapeva che quando lui aveva un problema si metteva seduto a terra, debole e dimesso come un cucciolo abbandonato e con lo sguardo fisso a guardare fuori dalla finestra. Allora, si sarebbe specchiato in quegli occhi tristi e si sarebbe visto superiore, nel suo tentativo di consolarlo. Invece, quando fece la sua entrata trionfale, la stanza era vuota.
«Saga! Saga!»
Il sorriso da vincitore sulle sue labbra si era via via smorzato fino a svanire, lasciando un'espressione di sconcerto e una paura di fondo che gli faceva tremare le gambe.
«Saga!» urlò, entrando con foga nella cabina armadio. Anche lì non trovò nessuno.
Con il cuore in gola si affacciò nel bagno in comune e lo trovò lì, di fronte allo specchio di uno dei due lavabi, con un asciugamano legato in vita e una mano sporca di schiuma da barba che lo fissava.
«Tu lo sai come si usa questo affare? Io continuo a tagliarmi», gli disse, mostrandogli un rasoio a lametta: era in argento e con il manico di madreperla, molto raffinato.
Kanon sgranò gli occhi, spiazzato e sconvolto dalla tranquillità che mostrava l'altro. Avanzò a passi lenti fino al water e vi si sedette come sfinito, mentre l'altro si sciacquava il viso. Da un lato era sollevato perché Saga sembrava in gran forma, ma dall'altro sentiva che il suo preoccuparsi tanto di quegli ultimi giorni era stato del tutto inutile. Poi, si sciolse in una gran risata.
«Mi avevano detto che ti eri spaccato la testa e giacevi moribondo nel letto, ma vedo che quelle voci sono infondate», disse, dopo essersi calmato. Si avvicinò a lui e dal primo cassetto del mobiletto prese un rasoio elettrico a tre testine. «Di solito usi questo, per questa tua pelle così delicata», lo sfotté, accarezzandogli ambiguamente la leggera peluria sul profilo della mascella con le dita.
«Questa tua recita riservala per qualcun altro», ribatté Saga, bloccando con forza la mano del fratello e lasciandolo senza parole.
Kanon lo fissò a lungo. In quegli occhi verdi brillava una luce diversa, più cupa, mentre sulle sue labbra un poco screpolate comparve un sorriso insolente. Era solo un accenno, ma lo avrebbe riconosciuto fra mille, perché da sempre era il suo marchio di fabbrica.
In quel momento, in quel bagno, loro due soli, ebbe l'impressione di ritrovarsi dopo tanto, troppo tempo, di nuovo di fronte al vecchio Saga, quello prima dell'incidente. E finalmente erano di nuovo uguali.


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Capitolo 35
*** Capitolo XXXIV ***





XXXIV



Da due giorni interi la testa gli dava fastidio. Non erano i soliti giramenti con i quali poteva convivere, o il dolore sordo e pulsante che di tanto in tanto lo portava a chiudere gli occhi e a concentrarsi fin quando non passava, ma erano i punti che il medico gli aveva messo al pronto soccorso, ben dieci, che lo tormentavano. Continuava a tastare proprio lì e ogni volta ne rimaneva impressionato, quasi schifato.
Si guardò fisso nello specchio del bagno, mentre di nuovo passava le dita fra i capelli. Erano stati clementi con lui durante la medicazione, gli avevano rasato solo una piccola parte della testa e questa veniva mimetizzava tranquillamente dal resto dei capelli. Si diede una veloce sciacquata e si pettinò con cautela, poi tornò in camera e si distese ancora una volta sul letto. Fuori non era ancora sorto il sole, lo avrebbe fatto di lì a poco, ma lui non aveva chiuso occhio.
Si portò una mano sotto la testa e si mise a fissare la sinistra. Quella fede...
Nella sua mente passavano veloci le immagini degli ultimi mesi e lui le vedeva come dei flash della vita di un'altra persona, non della sua. Guardava quell'anello e si rendeva conto di non riuscire a ricordare i sentimenti ad esso legati.
Rimanere sdraiato sul letto stava diventando un supplizio. Si alzò e si avvicinò alla libreria. La studiò con attenzione, sfiorando i volumi sugli scaffali con la punta dell'indice, senza il bisogno di accendere la luce: il quarto di luna nel cielo che si vedeva dalla finestra diffondeva sufficiente chiarore perché lui potesse distinguere e leggere i dorsi dei vari libri. Si fermò su uno sottile, dalla costina ricoperta di nastro di tela nera e senza scritte. Lo prese e notò che la copertina era stata riparata, mentre le pagine erano grinzose, come se fossero state a contatto con l'acqua.
«Curioso», mormorò, «non mi sembra di averlo mai visto prima.»
Spostò la sedia della scrivania e si sedette. Si allungò per accendere la lampada da tavolo e iniziò a sfogliarlo. Era scritto a mano, con una penna stilografica e una bella calligrafia. Alcune pagine erano ancora in buono stato, altre un po' meno, ma ancora leggibili.
In alto a sinistra notò delle date.
«Un diario», commentò a mezza voce.
Lo richiuse subito. Non amava particolarmente i diari personali, ma gli tornò in mente che apparteneva a Caroline e quale valore aveva per lei. Ricordava anche in quale occasione ne era venuto in possesso. «Ma erano più di uno.»
Lo studiò con maggiore attenzione e si accorse che infatti non era un quaderno unico, ma almeno tre uniti assieme. Si massaggiò la fronte, il mal di testa stava aumentando. Nelle orecchie risuonò il pianto di Caroline e la sua disperazione di quella notte. Lo riaprì facendo attenzione: da quando li aveva restaurati non aveva mai pensato neanche una volta di leggerli, perché non trovava giusto invadere la privacy della giovane in quel modo. Aveva pensato di restituirglieli una volta che la sua situazione si fosse stabilizzata, ma poi erano successe altre cose, altri problemi e se ne era dimenticato.
Girò le prime pagine e iniziò a leggere.

24 Maggio 1987
Oggi è arrivata una notizia che mi ha rattristato molto. Anthony è morto. Credo che ormai posso considerarlo alla stregua di un amico e permettermi di chiamarlo per nome, dopo tutte le volte che sono andato a fargli visita in prigione, anche se lui è sempre stato di poche parole.
Pare che sia stato coinvolto in una rissa, forse un regolamento di conti, durante il quale sono morti altri due detenuti. Cose del genere non sono poi così rare in un ambiente come quello.
Ho sentito dire che nessuno alla procura ha intenzione di approfondire. Non mi sorprende affatto, visto come si sono comportati con il caso Taylor fin dall'inizio. A chi vuoi che importi la vita di qualche criminale?
Se non fosse perché c'è andato di mezzo Anthony, probabilmente non importerebbe neanche a me e questo mi spaventa.
Ora che ci rifletto, sono andato a trovarlo non più di un mese fa e mi è sembrato teso, nervoso. Come se avesse paura di qualcosa e che in qualche modo si aspettasse quello che poi è accaduto. In quell'occasione, per la prima volta da quando lo conosco, non si è limitato a parlare del più e del meno, ma ha accettato di rispondere alle mie domande. In cambio però mi ha chiesto di andare a trovare Emma, stavolta per suo conto.
Gli ho dato la mia parola, ma ancora non sono riuscito a mantenerla. Devo ammettere che un po' è colpa mia, ultimamente sto dando la priorità alla mia vita privata (la mia bambina assorbe tutto il mio tempo libero), ma quando ho provato a chiedere di vedere Emma, ho trovato delle resistenze. Dietro deve esserci la famiglia della donna.
Non scorderò mai ciò che mi ha risposto quando gli ho chiesto come mai non si fosse mai battuto per la sua innocenza. Disse: «Quando si ha qualcosa di importante da difendere, si può sopportare qualsiasi cosa.»
Penso di capire cosa intendesse dire, farei di tutto per mia moglie e mia figlia.

30 maggio 1987
Finalmente l'altro giorno ho avuto l'opportunità di vedere Emma Taylor. Della giovane e affascinante donna che ho imparato a conoscere e ammirare in questi tre anni, è rimasta solo l'ombra di se stessa.
È davvero in uno stato terribile, ora i segni della malattia si sono manifestati in tutta la loro raccapricciante visione. Suppongo che sia inevitabile anche per una persona sana di mente se viene rinchiusa in un posto del genere. È ancora più magra dell'ultima volta che l'ho vista, il suo viso è scavato e orribili ombre nere contornano i suoi occhi. Le bende alle braccia e alle gambe sono aumentate: sta continuando a farsi del male da sola o è il risultato del metodo che usano in questo posto per curare i pazienti?
Quegli occhi! Nonostante tutto hanno mantenuto intatta la lucidità di una mente forte e tenace, almeno fino a quando non le ho riferito della morte di Anthony. Detesto essere latore di brutte notizie e mi si è spezzato il cuore quando dalla mia bocca sono uscire quelle parole.
Durante in nostri incontri, mi chiedeva sempre di lui, era la prima cosa che chiedeva, ma questa volta non l'ha fatto, come se se lo aspettasse. L'ho vista rimanere immobile, glaciale, mentre mi ascoltava. Da quel momento comunque, la visita si è praticamente conclusa: lei non ha più parlato con me.
Però, mentre varcavo la soglia della sua camera, mi ha rivolto un sorriso e mi ha ringraziato per tutto quanto ho fatto per lei. Che strano, io non ho fatto proprio nulla se non continuare a farle domande sui bambini.
Oggi avrebbero quattro anni. (La mia piccola Caroline invece, proprio oggi compie un anno.)
Mentre terminavo di scrivere questi pensieri, ho ricevuto una telefonata da una delle infermiere che si occupavano di Emma Taylor. Mi ha comunicato che è stata trovata priva di vita nella sua stanza. Le ho chiesto di descrivermi la scena, forse così capirò cos'ha tentato di nascondere fino a questo momento.
La donna mi ha detto che l'hanno trovata seduta sulla sedia, di fronte alla finestra, e guardava fuori con un'espressione serena. Nella mano destra, adagiata mollemente sul grembo, teneva un pezzo di plastica dai bordi taglienti, ricavato da una penna bic. Il braccio sinistro invece pendeva dal bracciolo e sopra una grossa pozza di sangue; all'altezza del polso aveva diversi tagli, alcuni più profondi di altri.
La porta della camera era stata bloccata dall'interno con una sorta di barricata di fortuna e sono stati costretti a buttarla giù con l'aiuto di due inservienti.
L'infermiera mi ha raccontato un particolare molto interessante e significativo: le dita della mano destra di Emma erano ombrate di una sostanza rosso scuro, ma ciò che l'ha impressionata di più è stata la scoperta del ritratto di un uomo sul muro, eseguito con il sangue. Deve essere stata Emma a farlo e deve aver usato il suo stesso sangue.
Chiederò ai detective che si occupano del caso di poter visionare il materiale fotografico, perché sono ormai certo che l'uomo ritratto sia proprio Anthony.

Saga alzò gli occhi stanchi e arrossati dal quaderno e si rilassò sulla sedia. La luce della lampada da tavolo era smorzata dal chiarore del giorno che entrava dalla finestra. Diede uno sguardo alla camera da letto e provò la sensazione di essere rimasto prigioniero per troppo tempo di una vita che non rispecchiava il suo vero Io. Si mise la vestaglia di seta blu scuro sopra il pigliama della stessa tonalità e scese al piano di sotto con il quaderno nella tasca.
Si fermò in fondo alle scale: la casa era tranquilla e gli unici rumori presenti provenivano dalla cucina, dove probabilmente Nanny stava già preparando la colazione. L'aria era avvolta dall'aroma di caffè appena fatto e sarebbe stato un richiamo irresistibile per chiunque, ma non per lui, non in quel momento e non nello stato d'animo in cui si trovava.
Entrò nella biblioteca, chiuse tutte le tende e accese la lampada sulla scrivania di mogano. Poi, dalla cassaforte dietro il grande dipinto dell'arcigno Abraham Hayes tirò fuori il plico che conteneva i documenti che Shion Hayes custodiva gelosamente. Si sedette alla scrivania e continuò nella lettura.

10 dicembre 1998
Non ho notizie di Brett da più di dieci giorni. L'ultima volta mi aveva detto di aver messo insieme del materiale esplosivo e stava seguendo una pista interessante per il caso Taylor. Secondo lui dovrebbe provocare un bello scossone nell'alta società di Boston, ma prima di pubblicare l'articolo voleva trovare delle conferme. Non credo ci sia da preoccuparsi più di tanto, lui è un tipo che sparisce anche per giorni e poi riappare come nulla fosse. Comunque, ho parlato con il suo capo redattore e anche lui è tranquillo.
Brett è un buon amico, appassionato del suo lavoro. Grazie a lui sono riuscito a sapere la parte mancante della storia di Anthony Young.
Dalla sua ricostruzione, pare abbia origini europee, di qualche paese del mediterraneo, ma non c'è nulla di certo. È arrivato negli Stati Uniti con la sua famiglia (padre, madre e un fratello di un anno più giovane) quando aveva sette anni. Il padre era un primario di pronto soccorso che era stato invitato per partecipare a un congresso a Washington DC sulle nuove tecniche di procedura d'emergenza. L'intera famiglia è stata coinvolta in un incidente mortale e l'unico sopravvissuto è stato Anthony.
Del bambino si sono poi perse le tracce per diversi anni, probabilmente ha vissuto per strada o in qualche istituto, ma visto che all'epoca non si era certi se parlasse inglese o no, questo fatto deve aver complicato la sua identificazione e il susseguente iter di affidamento dei servizi sociali.
Alla fine, è rispuntato fuori come Anthony Young e coinvolto nella rapina alla farmacia che gli è costata la condanna. Il resto è storia nota.
Sembra combaciare tutto, ma come avrà fatto Brett a ricostruire questa storia? Ciò che mi lascia perplesso, e lo stesso anche lui, è che secondo i verbali della polizia di Washington dell'epoca non erano stati trovati documenti addosso alle vittime, quindi l'identificazione non è certa. Il lato ancora più tragico della vicenda è che la donna era incinta di quasi venti settimane.
Dopo che Brett mi ha raccontato questa storia, sono andato a spulciare nei vecchi numeri del Washington Post; in effetti, in un articolo di cronaca locale si parlava di un incidente molto simile e dalle foto pubblicate potrebbe essere lui il bambino biondo.
Perché annoto tutto questo proprio ora? Non lo so, così come non so perché mi interessa così tanto conoscere la vita di quell'uomo. Forse, se mai un giorno verranno ritrovati quei due sfortunati ragazzi, vorranno conoscere chi era il loro padre.

Saga girò quell'ultima pagina aggrottando la fronte. Avvertiva i suoi occhi umidi di commozione e questo gli dava fastidio. Non provava sentimenti particolare per quell'uomo, né per l'autore di quelle pagine; eppure, nel leggere quelle note, qualcosa nella sua mente era scattato, come se avesse riconosciuto alcuni degli eventi di cui si parlava.
Ricontrollò la data e le prime righe.
«Possibile che il tizio nella rimessa fosse lui? E quei due, per chi lavoravano, per mio padre o per qualcun altro?» Scrollò la testa per togliersi quei pensieri pazzeschi.
Si prese un bicchiere di whisky dal mobile bar e riprese la lettura. Le pagine successive erano bianche e raggrinzite dall'acqua. Poi, arrivò a quello che sembrava essere l'ultimo blocco scritto.

24 dicembre 1998
Non credevo che avrei mai ripreso in mano quest'ultimo blocco di appunti del caso Taylor, anche se ultimamente pensavo di cedere alle pressioni di Teresa e darle il materiale per il libro che vorrebbe scrivere. Forse, un libro-inchesta sul caso Taylor potrebbe smuovere le acque e indurre qualcuno a uscire allo scoperto... forse, proprio i due ragazzi potrebbero riconoscersi e farsi vivi. Oggi sarebbero adolescenti. Chissà se somiglierebbero più al padre o più alla madre. Di sicuro sarebbero due splendidi ragazzi.
Comunque, credo che se non dovesse uscire qualche nuova pista, questa sarà l'ultima nota che scriverò su questo caso. Ho passato più di quattordici anni a cercare, ma ho sempre fallito.

… Poco dopo essere tornato in centrale dalla pausa pranzo ho ricevuto una strana quanto inattesa telefonata da parte di una donna. Non mi ha lasciato il suo nome, ma si è presentata come la sorella minore di una ex infermiera della clinica privata nella quale era ricoverata Emma. Credo fosse la stessa che mi diede la notizia del suo suicidio.
Mi ha detto che ultimamente non si sente al sicuro, ha la sensazione di essere osservata e seguita. Le ho offerto il mio aiuto, ma lei ha insistito che deve incontrarmi con urgenza. Sembrava sorda a tutto il resto. Quando le ho chiesto il motivo, mi ha detto che deve darmi qualcosa di molto importante collegato alla scomparsa dei figli di Emma Taylor. Dopo tutti questi anni, quando ormai mi ero quasi messo l'animo in pace, ecco che compare una potenziale pista. Forse il destino vuole che non mi arrenda e che continui a indagare.
La voce di quella donna e i suoi modi mi hanno convinto che sta dicendo la verità.
Stasera la incontrerò in un pub in periferia, durante una serata di speed date, quando il locale sarà pieno di gente. (Ma cosa diamine è uno speed date?)
Ne ho parlato con Phillip per un consiglio, gli ho raccontato della telefononata; lui mi ha dato una pacca sulla spalla, ha ammiccato e ha detto che è così che ha trovato l'ultima fidanzata, quella che ci presenterà domani sera a cena. Poi però si è fatto serio, mi ha preso da parte e ha provato a convincermi di lasciar perdere, ma quando ho insistito sulla possibilità di una svolta significativa, il suo consiglio è diventato un ordine.
Questa volta non posso proprio obberdire.

… Ho lasciato pochi minuti fa l'informatrice (la chiamerò così perché non ha voluto dirmi il suo nome, addirittura si è presentata con una parrucca e un grosso berretto di lana pesante) e ora mi ritrovo seduto in auto con una busta gialla appoggiata sul sedile di fianco. All'interno c'era una lettera dell'infermiera e un'altra busta, sigillata, con un piccolo oggetto dentro. Di solito ci metto qualche giorno per elaborare le informazioni e riportarle nel quaderno, ma questa volta è diverso. Questa volta non posso aspettare di tornare a casa e mettermi al tavolo a scrivere, anche se è tardissimo e dovrei essere con la mia famiglia in questa notte di vigilia, ma ciò che la donna mi ha detto e che mi ha portato, mi ha scombussolato. Ho le mani che tremano mentre sto scrivendo.
Quella donna mi ha raccontato quanto le aveva riferito sua sorella anni prima, riguardo gli ultimi giorni di vita di Emma Taylor. Ha detto che Emma aveva cambiato atteggiamento dall'ultima volta che le avevo fatto visita; era più serena e in pace con se stessa, come se non avesse alcun rimpianto. L'ultimo giorno in particolare, lo aveva passato a scrivere alcune lettere personali, che poi aveva affidato all'infermiera stessa affinché me le consegnasse.
Dopo aver letto la lettera destinata a me, mi sono commosso della considerazione che Emma aveva di me, ma al tempo stesso mi sento un vero schifo per come sono andate a finire le cose. Se penso che potrei essere stato io a spingerla a suicidarsi... non so come potrò guardare in faccia mia moglie e mia figlia.
Insieme alla lettera c'è anche una chiave, sembra di una cassetta di sicurezza. Non so cosa fare...

«Entrambi hanno avuto a che fare con il padre di Caroline», mormorò Saga, sfregandosi gli occhi con le dita.
Chiuse il quaderno e vuotò il bicchiere a piccoli sorsi, sprofondato nella poltrona di pelle. Aveva bisogno di riflettere e metabolizzare tutto quello che aveva appreso. E non era affatto facile.
Quella appena letta era l'ultima pagina scritta e la frase era rimasta a metà, come se l'uomo fosse stato interrotto e non avesse più avuto modo di andare avanti. E poi, la chiave di cui parlava... l'aveva vista. L'aveva trovata all'interno della copertina di uno dei quadernetti, quando ci aveva lavorato su. Aveva pensato di parlarne a Caroline una volta risistemati i quaderni del padre, quindi per non perderla se l'era portata a casa e l'aveva riposta nel cassetto della scrivania ed era ancora là.
«Chissà quali segreti custodisce», mormorò.
«Da quando fai colazione con il whisky?»
La voce di Shion Hayes irruppe nel silenzio della biblioteca con un marcato tono di rimprovero, misto a delusione e sorpresa. Era stato attirato dalla luce che filtrava dalla porta socchiusa, ma non si sarebbe mai aspettato di trovare il figlio con un bicchiere in mano.
«Posso capire che non stai bene, che sei ancora frastornato», disse, fermandosi di fronte alla scrivania, «però mi sembra eccessivo che tu ti riduca a bere fin dal primo mattino.»
Saga alzò lo sguardo su di lui e lo fissò dritto negli occhi; il suo viso era privo di espressione e i suoi occhi erano ben lontani da quelli dolci e limpidi che tutti amavano. Posò il bicchiere sulla scrivania, accanto ai due vecchi ritagli di giornale che parlavano della morte di Tony ed Emma. Ciò che non era stato riportato dal giornalista, lo aveva appreso dalla mano del poliziotto morto.
«Non hai nulla da dire?»
«Hai già tirato le tue conclusioni», risposte atono Saga. Si sporse un poco verso la scrivania e spinse il quaderno verso il padre.
«Che cos'è?»
«Un pezzo del passato.»
Shion Hayes sfiorò il quaderno con le dita e respirò piano. Lo studiò per diversi secondi, la tentazione di conoscerne il contenuto era forte, ma lo restituì al figlio nello stesso modo. «Non ho alcun diritto di leggerlo.»
«Eri al corrente che il padre di Caroline li conosceva e indagava sul caso?» domandò Saga, mascherando appena un tono di sfida.
«Quando mi hai presentato Caroline, speravo che il nome Miller fosse solo una coincidenza, invece è stato un crudele scherzo del destino», disse in un sospiro l'uomo. «Il detective Miller venne diverse volte, sia negli uffici in città, sia nell'altra residenza, che all'epoca abitavamo, a farmi molte domande. Fu molto insistente durante i primi anni, poi diradò le sue visite e alla fine non ne seppi più nulla, se non alla sua morte. Mi dispiacque per quell'uomo, era una brava persona, si vedeva che ci teneva alle persone coinvolte.»
Saga lo ascoltò in silenzio, ma indifferente, giocherellando con la fede. Poi, si alzò, si tolse l'anello e, dopo un attimo di esitazione, lo posò sul quaderno.
«Questo cosa significa?» chiese Shion, senza ottenere alcuna risposta.
«Una cosa», disse Saga, fermandosi sulla soglia, dando sempre le spalle al padre. «I Taylor di cui si parla in quel quaderno, sono “quei” Taylor?»
Shion non aveva bisogno di sforzarsi per interpretare quelle parole e rispose subito affermativamente.
«Sarà bene allora andare a presentarsi ufficialmente, non trovi?» disse, facendo un breve sorriso.
Quando lo vide sparire dietro la porta, Shion ebbe un violento tremito e si dovette afferrare alla scrivania. A fatica riuscì a sedersi sulla poltrona e, dal fondo del cassetto centrale tirò fuori un pacchetto di sigarette. Erano molti anni che non fumava, forse due decenni, ma ora sentiva la vitale necessità di riprendere quel vizio.

*****

Aiolos parcheggiò di fronte alla vetrina oscurata della legatoria del vecchio Josh e si rilassò sul sedile. Dalla tasca del giubbotto prese una confezione piccola di M&M's, si riempì la mano di lenti di cioccolato e le soppesò per qualche secondo prima di divorarle in una volta sola. Poi, ne offrì anche all'amico, ma al suo rifiuto scrollò le spalle e se le finì senza rimorsi.
«Cosa ci facciamo in questa parte della città?»
«Voglio mostrarti una cosa», iniziò. «Lo so che potrà sembrarti paradossale, conoscendolo...»
«Più paradossale di come si sta comportando in questi giorni?» lo interruppe Kanon, con uno scatto nervoso. Fece un respiro profondo per calmarsi. «Ha definito la sua camera da letto come quella di un ragazzino, poi ha buttato all'aria il suo guardaroba e ora si serve dal mio. Quando provo a protestare, mi rinfaccia che ho detto che condividiamo anche le mutande! Ma la cosa più inconcepibile è che non mangia più il suo dolce preferito!» si sfogò con insolita veemenza.
Aiolos lo lasciò parlare. Scese dall'auto e sbuffò, alzando lo sguardo verso la finestra della cucina dell'appartamento di Caroline.
«Allora, vuoi spiegarmi cosa ci facciamo qui?» insistette Kanon, chiudendo la portiera dell'auto.
«Seguimi e basta», replicò Aiolos, attraversando la strada.
Si fermò davanti al portone al numero tre e aprì con la chiave. Poi, salì le scale fino alla porta dell'appartamento.
«Vedere dove porti i tuoi amichetti non mi interessa affatto.»
«Piantala e fai il serio, una volta tanto!» ribatté Aiolos. Iniziava a non sopportare più quel tipo di sfottò da parte dell'amico. Aprì la porta come fosse casa sua e lo fece accomodare.
L'appartamento era avvolto in una calma quiete, le tende delle finestre erano aperte e facevano entrare la luce del giorno. Sembrava non esserci nessuno, eppure dalla cucina arrivava un invitante odorino di sugo di pomodoro e, a quell'ora del giorno, con il momento del pranzo che si stava approssimando, faceva nascere un certo laguorino.
Kanon si guardò attorno un po' spaesato, ma curioso. Nell'arredamento, nei colori, nella conformazione dell'appartamento stesso, riconosceva alcuni elementi distintivi del fratello e in un certo senso si sentiva a casa.
«Allora è qui che ha abitato in questi mesi.»
Nel rendere concreto quel pensiero il suo viso assunse un'espressione seria, quasi contrariata. Forse però, ciò che lo disturbava veramente era che non riusciva proprio ad essere felice per lui.
All'improvviso si udì un docile miagolio e da dietro il divano sbucò il musetto nero di Kitty, con quei suoi furbi occhietti color ambra. Kanon si irrigidì nel vedere quella pantera in miniatura avvicinarsi a lui; e quando la bestiola si fermò a metà strada, fissandolo con insistenza, iniziò a temere per l'incolumità dei pantaloni.
Kitty si esibì in un grosso sbadiglio, mostrando i suoi dentini aguzzi, poi si stiracchiò sul parquet e zampettò verso Aiolos con la codina dritta. Si strusciò sulle sue gambe, arcuando la schiena e miagolando un paio di volte, per attirare la sua attenzione.
«Dov'è finita la tua padrona?» disse il ragazzo, prendendola per la collottola e alzandola fino al livello del viso.
La gattina squittì e mostrò di nuovo i dentini e lui, giusto per provocarla un po', le soffiò sul musetto, facendola agitare. La mise giù e si diresse in cucina, subito seguito dalla gattina, mentre Kanon si rilassava per lo scampato pericolo. Lasciato solo, il giovane riprese a guardarsi attorno e a rimuginare.
La porta d'ingresso si aprì poco dopo.
Nonostante il carico ingombrante, Caroline entrò in casa senza fare rumore, con la cesta del bucato appena ritirato dall'asciugatrice sotto un braccio, la posta tenuta fra i denti e nell'altra mano un sacchetto di plastica con dei vasetti di vetro vuoti. Alzò lo sguardo e lo vide lì, girato di tre quarti, che studiava i libri nella libreria. Le cadde la corrispondenza dalle labbra e quasi si lasciò sfuggire anche la cesta.
«Saga», balbettò. Non poteva crederci, finalmente era tornato a casa e stava bene. Fece un respiro incerto, spezzato dall'emozione che stava provando in quel momento. «Saga!»
Appoggiò la cesta e il sacchetto per terra e corse ad abbracciarlo, stringendosi a lui e singhiozzando contro il suo petto. Sentì le braccia dell'altro stringerla piano, dapprima con indecisione, poi con maggiore convinzione e calore. Si morse con forza il labbro per trattenere il pianto. Non aveva il coraggio di alzare la testa e mostrarsi a lui, non dopo quello che era successo, ma al tempo stesso aveva bisogno di essere consolata da lui.
Sul momento, Kanon si ritrovò spiazzato e imbarazzato, ma inaspettatamente si sentiva anche bene in quella situazione. Chiuse gli occhi, fece un respiro profondo inalando il profumo delicato dei suoi capelli e ricambiò l'abbraccio. Avrebbe potuto rimanere così in eterno, invece la sua indole da buontempone prese il sopravvento.
«Buongiorno... cognatina», si lasciò sfuggire dalle labbra.
Caroline sussultò e alzò la testa, fissandolo a occhi sgranati: erano lucidi di lacrime e spaventati. Si staccò da lui e provò a indietreggiare, ma Kanon l'afferrò per i polsi e allora lei si scansò alla sua vista, nascondendo il viso come meglio poté.
Fu solo un gesto istintivo da parte di entrambi.
«Lasciami andare», disse Caroline con voce agitata.
«No»
Lui non aveva intenti negativi, eppure non aveva alcuna intenzione di esaudire la sua richiesta. Il calore e il sentimento di quell'abbraccio, la sua disperazione... non aveva mai provato nulla di simile. Lui stesso era sorpreso e sconcertato del proprio comportamento.
«Per favore, lasciami andare!» insistette lei, alzando involontariamente la voce, tanto che Aiolos si affacciò dalla cucina.
«Kanon, piantala di fare l'idiota!» inveì il giovane, con in mano un pezzo di pane intinto di salsa.

Sedevano tutti e tre in salotto, la casa era avvolta in una sorta di imbarazzo generale. Il rampollo degli Hayes se ne stava sulla poltrona, con lo sguardo basso, quasi in disparte, mentre Caroline sedeva al centro del divano e Aiolos invece sul un angolo del tavolino, di fronte a lei. Nonostante Kanon si fosse scusato per il suo comportamento inappropriato e lo avesse fatto con sincerità – ed era stato perdonato – non aveva il coraggio di guardare in faccia la giovane donna. Quei desideri reconditi erano tornati a galla e lo spaventavano.
Aiolos invece era fin troppo a suo agio e in confidenza, soprattutto quando era tornato dalla cucina portando con sé un bicchiere d'acqua e le medicine per la padrona di casa, anche se lei gli aveva detto che le aveva già prese.
«Non l'ho fatto apposta a scambiarti per Saga, te lo assicuro, è solo che... la mia vista è ancora un po' annebbiata e voi due vi assomigliate così tanto. O forse, è che mi manca e ho sperato fosse lui», si giustificò Caroline, passandosi la mano sugli occhi che sentiva affaticati. Erano passati alcuni giorni, ma il suo viso non era migliorato affatto e portava ancora evidenti i segni dei pugni presi.
Kanon fece un breve e timido cenno di assenso con la testa, rifiutandosi ancora di guardarla, ma osservò Aiolos di sottecchi, pregando che l'amico si inventasse qualcosa per far progredire la loro visita.
Aiolos ricambiò quell'occhiata e non gli ci volle un grande sforzo per leggergli dentro il senso di colpa che lo schiacciava. Un infondato senso di colpa, gli avrebbe detto, se fosse stato libero di parlare. Invece, si sporse verso Caroline appoggiando gli avambracci sulle gambe e le spiegò il motivo – quello apparentemente ufficiale – per il quale erano lì.
«Il procuratore generale di Boston ha deciso di non procedere con alcuna incriminazione. In considerazione dell'identità del morto e di quanto gli è stato riferito dalla procura di Philadelphia ha accettato la tesi della legittima difesa. Non sarà avviato alcun processo. È stato assicurato a Shion Hayes che né il tuo nome, né quello di Saga saranno resi pubblici o associati a questo caso», disse, nel tono più formale e legalese che conosceva.
Caroline ascoltò in silenzio, con lo sguardo fisso su una ciotolina di cristallo al centro del tavolino, che conteneva delle caramelle in vetro soffiato. Quasi le sembrava di essere la protagonista di una delle repliche di Law&Order che trasmettevano a notte fonda in quel periodo.
Tutta l'agitazione e l'angoscia provate poco prima erano sparite, ora sostituite da una strana consapevolezza che le faceva apparire tutto chiaro. In quel momento finalmente capiva cosa doveva aver provato la madre al funerale del marito. Fece un respiro profondo e abbozzo un sorriso.
«Grazie per essere passati a informarmi», disse, alzandosi e tornando all'ingresso, riprendendo la cesta del bucato che aveva lasciato vicino alla porta. Si muoveva con calma, senza lasciar trasparire le emozioni, ormai azzerate.
L'invito ad andarsene era esplicito e non aveva bisogno di altre parole. Con una mano aprì la porta e rimase lì in attesa, evitando il loro sguardo mentre le passavano davanti.
«Kanon», lo chiamò un attimo prima che questi varcasse completamente la soglia di casa. «Non volevo fargli del male. Te lo giuro», disse, mentre una grossa lacrima le scendeva sul viso.
«Lo so.»

*****

«Un po' pretenzioso per una famiglia senza tradizioni e senza futuro, non trovi?»
Shion Hayes si sedette accanto a Saga sulla panchina di marmo lucido. In mano si rigirava il vecchio borsalino che da almeno due decenni non portava più, ma a cui era affezionato. Quel giorno l'aveva voluto rispolverare un po' per nostalgia e un po' anche per sentirsi più vicino al suo passato.
Alzò lo sguardo verso il mausoleo della famiglia Taylor. La facciata in marmo bianco e le due colonne classiche che incorniciavano il grande portone di bronzo – decorato con inserti d'ottone lucido, così come il nome a grandi lettere posto sul frontone neo classico – spiccava su tutto il resto che sapeva invece di decadente.
«Devo essere sincero, quando ti ho visto prendere l'auto e andar via in quel modo non sapevo cosa pensare, ma di certo non mi sarei mai aspettato che saresti venuto proprio qui.»
Saga rimase ancora in silenzio. Si appoggiò con gli avambracci alle ginocchia e si portò una mano alla fronte, premendo un poco le dita sulle tempie per arginare il mal di testa che lo affliggeva.
«Ti senti bene?» chiese Shion. Non era tanto l'essere taciturno del figlio, a cui peraltro era abituato, a renderlo apprensivo, quanto le possibili complicazioni del trauma cranico e una seria ricaduta della sua salute.
Il giovane respirò profondamente con la bocca e si raddrizzò: era pallido in viso, ma aveva lo sguardo determinato. Dalla tasca interna della giacca prese una busta bianca e la chiave della cassetta di sicurezza della banca di Boston nella quale aveva trovato la busta stessa e diverse altre cose, stringendole nella mano.
«Cos'ha scatenato tutta questa situazione? Perché gli eventi ci hanno portato nostro malgrado a questo punto?»
«L'ambizione di uomo», rispose Shion, «un uomo nato povero che voleva fare grande il suo nome e la sua famiglia; voleva dar vita a una dinastia e ora, vecchio e solo, non ha nulla se non un presente che presto diventerà passato.»
«Non è forse la stessa cosa che voleva anche nonno Abraham?» disse Saga, sentendosi strano a chiamare nonno una persona che non aveva mai conosciuto e che non aveva alcun legame di sangue con lui.
«Sì, è vero, anche lui era ossessionato dal potere e dalla ricchezza, ma non ha avuto la possibilità di portare a termine i suoi piani. James Taylor senior aveva una perla rara fra le mani e la sua smania di controllo l'ha portata alla rovina, condannando alla fine la sua stessa famiglia», svelò Shion, con un poco di commozione nella voce.
«Stai parlando di Emma?»
«Tua madre, Saga. Lei era una persona determinata, che sapeva ciò che voleva dalla vita e non si lasciava comandare. Aveva davanti a sé un futuro brillante, avrebbe fatto grandi cose, se solo...»
«Se solo non si fosse rovinata la vita facendosi mettere incinta?» intervenne Saga.
«Un tempo lo pensavo, e sicuramente lo pensava anche la sua famiglia, ma aveva ragione lei. Ha sempre avuto ragione lei. Aveva fatto la scelta giusta. Con Anthony aveva trovato un equilibrio perfetto. Lui era la medicina che teneva sotto controllo i suoi sbalzi d'umore, che la manteneva a contatto con le cose veramente importanti. Purtroppo però, Anthony veniva da un ambiente troppo diverso. Era inadatto per lei, avrebbe macchiato la reputanzione dei Taylor.»
«Non sai quanto...» mormorò Saga, facendo un respiro profondo.
«Che vuoi dire?»
«Qui dentro ci sono gli scheletri della famiglia Taylor», disse Saga, mostrandogli la busta corposa. «Forse, se Gregory Miller non fosse morto, tutto sarebbe stato diverso.»
Shion Hayes posò una mano su quella del figlio e questi alzò lo sguardo su di lui. Gli occhi di Saga avevano ritrovato la limpidezza di sempre e il suo viso, che portava i segni della notte insonne, esprimeva la pacatezza e la sensibilità che erano sue caratteristiche.
«Tu che ruolo hai avuto?» gli chiese.
«Mi stai accusando di qualcosa?» ribatté l'altro, ma senza intenti di rimprovero. Era conscio di essere colpevole, lui stesso si sentiva responsabile per tutto quanto. «Probabilmente hai ragione», sospirò, massaggiandosi la fronte. «Se a quel tempo li avessi aiutati...»
«Saremmo stati diversi?» lo interruppe Saga.
«Sareste stati due splendidi ragazzi come lo siete ora, ma avreste conosciuto l'amore dei vostri genitori», rispose l'uomo, lasciandosi vincere dalla commozione.
«Le stesse parole usate da Gregory Miller. Allora deve essere vero», mormorò, alzandosi dalla panchina. Un improvviso giramento lo fece sbandare e lo costrinse a risedersi.
Volse lo sguardo al cielo, la giornata era piacevolmente calda e il sole splendeva forte e solitario, ma gli feriva gli occhi. Li chiuse per un momento. Poi, avvertì un'ombra davanti a sé e qualcosa gli coprì la testa.
«Dovresti riguardarti di più», disse Shion Hayes, porgendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi.
«Grazie» Saga sorrise sereno accettando l'aiuto del padre.
Insieme camminarono fra le lapidi del cimitero. Shion lo accompagnò fino alla tomba di Gregory Miller, dove gli raccontò che ogni anni, verso la fine di febbraio, veniva a deporre un mazzo di fiori come ringraziamento per i suoi sforzi nel tentare discolpare Anthony; e poi gli mostrò la tomba trascurata di Anthony a due passi da lì. Gli si stringeva il cuore quando la vedeva. Avrebbe voluto prendersene maggiormente cura, ma ogni volta si costringeva a passare oltre e ignorarla per non destare sospetti. Forse però, ora non sarebbe più stato necessario. Forse ora poteva parlare a cuore aperto anche con Kanon e sistemare le cose.
«Dovrebbero riposare assieme... lui ed Emma», disse Saga, accovacciandosi e sfiorando la pietra della lapide.
«Sì, dovrebbero»
Si mise la mano nella tasca della giacca e prese la fede nuziale che Saga aveva lasciato a casa. Se la rigirò nella mano un paio di volte. Sembrava il momento giusto per restituirgliela e dargli la sua benedizione.
«Ma che bella riunione di famiglia, quasi non credo ai miei occhi. Sapete, mi avete risparmiato un mucchio di tempo e di lavoro», disse il giovane, sbucando da dietro un albero. Alle sue spalle c'era un piccolo boschetto e poco dietro la cancellata in ferro.
Sollevò gli occhiali da sole sulla testa e sfoggiò un sorriso accattivante, ma il suo sguardo era indubbiamente di sfida.
«Tu chi sei?» disse Shion Hayes, con tono allarmato.
«Sei quello dell'ospedale, vero?» intervenne Saga.
«Esatto! Mi chiamo Milo Sanders, ma nel mio ambiente sono conosciuto come Scorpio.»
«Che tipo di ambiente?» inquisì Shion, con preoccupazione crescente.
«Cacciatore di taglie, signore. E sono il migliore sulla piazza!»
«Quanto ti pagano i Taylor per starci dietro?» chiese Saga, mettendosi le mani in tasca, provocando un visibile choc al padre con quella domanda.
In un attimo il suo atteggiamento era mutato. Il suo viso assunse tratti duri e spavaldi, i suoi occhi erano freddi e determinati e la sua postura esprimeva la sicurezza di chi non teme nulla.
Milo fece un sorriso sghembo. «Mi piace il tuo modo di fare. Bene, allora possiamo evitare spiegazioni inutili. Vieni con me con le buone o devo passare alle cattive maniere?» disse, facendo scrocchiare le dita.
«Nessuna delle due, ma puoi riferire ai Taylor che sarò ben lieto di fare la loro conoscenza domani, nel loro studio.»



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Capitolo 36
*** Capitolo XXXV ***





XXXV


Caroline iniziava a cedere.
Più volte al giorno si doveva ripetere che presto la sua vita sarebbe tornata alla normalità, che si sarebbe buttata alle spalle quel periodo da incubo; ma quando si guardava allo specchio e osservava il suo viso, con quell'occhio un poco cadente a causa del gonfiore, non si vedeva com'era in quel momento, ma ancora tumefatta, con mezza faccia livida, le labbra gonfie e il sangue secco sulla pelle, proprio come si era vista riflessa quella notte al pronto soccorso. Un'immagine che forse non avrebbe mai cancellato dalla sua mente.
Poi, a quel ricordo, sopraggiungeva la nausea; e, ad acuire il tutto, anche il mal di testa, perché da quell'occhio vedeva ancora sfocato e questo le creava problemi.
Fece un respiro profondo e raddrizzò la schiena: non poteva permettersi di lasciarsi andare.
Caroline si sentiva sola.
Non perché quella casa, da dopo quella tragica notte, la condivideva solo con Kitty, non perché l'altra metà del suo letto era da troppo tempo vuota e fredda. Dentro di sé percepiva strisciante un senso di abbandono. E questo era diventato ancora più presente e pesante dopo la visita di Kanon, che aveva fatto nascere in lei la falsa speranza del ritorno di Saga. Forse, se suo marito se ne fosse andato per un tradimento, o perché non l'amava più, le si sarebbe spezzato il cuore di certo, ma l'avrebbe potuto accettare; ma era difficile quella situazione di sospensione in cui viveva, senza una parola da parte sua, una chiamata, un messaggio. Era come se l'avesse dimenticata, che per lui non esistesse nemmeno.
Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
Se li avesse riaperti in quell'istante, si sarebbe ritrovata di nuovo nel bilocale di Dohko, ancora tutto sottosopra per i lavori? Sarebbe poi uscita per gli ultimi acquisti e si sarebbe imbattuta in quel ragazzo dallo sguardo limpido, e al tempo stesso smarrito, di un bambino e il viso d'angelo?
La suoneria del nuovo smartphone interruppe i suoi pensieri e la riportò alla sua ancor più triste realtà. Quasi aveva la tentazione di lasciarlo suonare fin quando chiunque fosse a chiamare non si fosse stancato. Non aveva voglia di affannarsi per andare a rispondere, non ricordava dove lo aveva posato l'ultima volta; e poi, non era neanche il suo, non c'era dentro nulla di suo, era vuoto come vuota era la sua vita, azzerata da quella notte nel vicolo.
Si piegò in avanti, appoggiandosi con le mani e la fronte al bordo del lavabo del bagno, trattenendo a stento le lacrime.
«Tutto andrà bene. Tutto tornerà come prima», mormorò, prima di fare un altro grosso respiro e tornare in camera da letto.
Quel maledetto aggeggio continuava imperterrito a suonare e non voleva lasciarla in pace.
Con gesti svogliati iniziò a spostare i vestiti abbandonati sopra le coperte in disordine in una ricerca senza esito. Poi, quasi per caso, lo trovò semicoperto dal lembo di lenzuolo ripiegato sulla coperta. Vide sul display il nome della madre e, benché non se la sentisse in quel momento di parlare con lei, rispose.
Le doveva molto.
Non solo perché, appena saputo dell'agguato di Deline, era corsa da lei per darle tutto il proprio sostegno, ma anche perché per lei aveva messo in standby la sua vita, rimandando il matrimonio a pochi giorni dal sì e interrompendo il tour promozionale dell'ultimo libro.
Si sedette sul letto e riuscì a sorridere quando Teresa le chiese se per pranzo preferisse la pizza ai peperoni e salsiccia, al prosciutto, oppure capricciosa.
«Perché non la facciamo noi in casa?» propose lei. «Ho voglia di cucinare. Prendi solo gli ingredienti. Scegli tu.»
«D'accordo! Allora vedrò di sbrigarmi», rispose Teresa; nella sua voce c'era speranza e sollievo nel sentire la figlia aver voglia di fare qualcosa.
Caroline si era chiesta in quei giorni cosa facesse la madre quando usciva di casa, ma non intendeva approfondire, per non sembrare invadente e ingrata.
Averla in casa era un aiuto insostituibile e questo lo poteva vedere soprattutto nelle piccole cose di tutti i giorni: il frigorifero era sempre rifornito di cibo fresco e sano, la casa era in ordine, cucinava per lei e le teneva compagnia; ma anche... le lasciava tempo e spazio per commiserarsi, quando ne aveva necessità.
Salì in mansarda, in attesa del ritorno della madre.
Quando percorreva quella bella scala a chiocciola che aveva sostituito la vecchia e scricchiolante in legno, accarezzando il corrimano in acciaio, si diceva che ci andava per riordinare, ma non appena metteva piede in quell'ambiente che Saga aveva preparato per lei, faceva una lunga panoramica e sospirava, perché quel leggero caos che persisteva le riportava alla mente ricordi piacevoli, ma anche gli ultimi momenti del suo matrimonio.
Si accomodò su una poltrona imbottita, di quelle con il sistema di sollevamento per le gambe e che si reclinavano. Forse faceva anche i massaggi, ma lei non se ne era mai curata di testarla. Di solito si metteva lì, incrociava le gambe e rimaneva a pensare.
Kitty arrivò dopo pochi minuti e le saltò subito sopra le gambe. Era come se non volesse più lasciarla sola. Accarezzare il suo pelo morbido, sentire le sue fusa e avvertire attraverso il contatto con le dita le soffuse vibrazioni che produceva era piacevole e rilassante. La calmava e regolarizzava il battito del suo cuore, che altrimenti, se lasciato a se stesso, probabilmente si sarebbe fermato per il dispiacere.
Pet therapy, la chiamano i dottori.
La gattina era la sua medicina, per non lasciarsi andare alla deriva.
Chiuse gli occhi. Era certa che la sua mente si sarebbe riempita di ricordi e rimpianti; invece il suo respiro si fece calmo, quasi impercettibile, e il vuoto prese il sopravvento. Trovava gradevole e confortante l'odore della cera d'api per i mobili che si respirava nella stanza. Le faceva provare uno strano senso di nostalgia.

Un breve rumore, come quello di schiarirsi di gola, le fece riaprire gli occhi e girare la testa verso la porta. Sgranò gli occhi e si irrigidì nell'intravedere un'ombra appena al di là della soglia. Strinse la presa sul bracciolo morbido.
«Chi c'è?» chiese lei, sforzandosi di mantenere un tono deciso.
«Non volevo spaventarti, Caroline Miller.» Shura si fece avanti, fino ad essere completamente alla sua vista.
«Come ha fatto a entrare?» chiese lei, raddrizzandosi.
«Non dovrei vantarmi, ma sono un eccellente scassinatore», rispose lui, con un sorriso sghembo sulle labbra.
Benché la gattina non avesse accennato ad alcuna reazione che premonisse pericolo, le recenti esperienze vissute da Caroline la portavano a mantenere un certo livello di allerta e poco importava che quell'uomo facesse parte della famiglia Hayes, era un estraneo che si era introdotto in casa sua senza permesso. Lo scrutò con attenzione: era combattuta, tra il dargli fiducia e tentare di fuggire; ma l'unica via d'accesso – e di conseguenza di fuga – era ostruita proprio da Shura.
Aprì la bocca per domandargli il motivo per il quale si trovasse in casa sua, ma venne anticipata.
«Shion Hayes aveva il desiderio di incontrarti e parlarti, così l'ho accompagnato», spiegò. Preferì però tralasciare per il momento che anche lui avrebbe avuto qualcosa da dirle, da confessarle, e del quale neanche Shion era a conoscenza. «Mi sono fatto dare l'indirizzo da Aiolos», aggiunse, notando l'espressione turbata sul viso di Caroline. Fece un passo indietro per liberare il passaggio e le diede strada.
Scesero al piano inferiore.
La giovane faceva ogni gradino con molta attenzione, cercando di appoggiare bene il piede e di concentrarsi soprattutto sull'occhio buono, ma non era facile. A metà scala, mise un piede in fallo e barcollò. Shura l'afferrò per un braccio perché non cadesse. Caroline si divincolò, scostandosi da lui e proseguendo più sicura, senza dire una parola.
Quando si affacciò nel salotto, la sua attenzione fu subito attirata dal padre di Saga. Se ne stava in piedi di fronte alla libreria, proprio come Kanon solo pochi giorni prima, e teneva in mano la cornice con la fotografia di Gregory Miller in uniforme. Persino di schiena la figura dell'uomo era molto distinta e metteva soggezione, tanto che il cuore della giovane iniziò a battere nervoso nel petto.
Mentre si avvicinava a passi leggeri, le si formò un breve sorriso d'imbarazzo sulle labbra. Le sembrò che il capofamiglia Hayes fosse circondato da una sorta di aura luminosa, mistica, e si bloccò, trattenendo il respiro. Rimase a fissarlo per almeno un minuto, come estasiata. Poi, si rese conto che quell'effetto era dovuto al riverbero del sole sui mobili chiari e ritornò con i piedi per terra.
«Buongiorno, signor Hayes», lo salutò, facendolo voltare nella sua direzione.
«Buongiorno a te, cara. Ti prego, chiamami Shion», rispose lui, posando con attenzione la cornice sul ripiano della libreria e avvicinandosi a lei. «Devi perdonarmi se mi sono presentato qui senza preavviso», disse in tono formale, ma sul suo viso vi era un sorriso paterno.
La giovane sentì un improvviso pizzicore agli occhi per la gentilezza con la quale le stava parlando e, d'istinto, si passò la mano sul viso. Poi, ricambiò la stretta di mano, ma si sorprese quando Shion la trattenne, posando l'altra mano sul dorso della sua. Non poteva fare a meno di guardarlo e sentire nel suo cuore un senso di nostalgia e di mancanza, per quel padre che aveva perso troppo presto e che le mancava ogni giorno, nonostante la presenza di Phillip Burton nella sua vita. Ma un padre era molto di più di un volenteroso zio acquisito e Shion Hayes sarebbe potuto essere quel padre che le era stato portato via tanti anni prima, se le cose fossero andate in modo diverso.
«Vieni, sediamoci un momento», disse l'uomo, facendo gli onori di casa.
Si accomodarono sul divano, mentre Shura preferì sedersi sul bracciolo della poltrona, osservandola con uno sguardo cupo, tormentandosi l'unghia del pollice sinistro.
«Ti starai domandando perché siamo qui. Innanzitutto devo chiederti scusa da parte di tutta la famiglia: in questo momento così difficile non ti siamo stati vicini come avremmo dovuto. E anche, di nuovo ti chiedo scusa per il comportamento di Saga, per questo suo silenzio così prolungato.»
«Non deve scusarsi, sono io che le devo delle scuse. L'ho trascinato con me nel pericolo ed è quasi morto. Lui voleva che smettessi di indagare, mi ha pregato di lasciar perdere di cercare la verità sulla morte di mio padre. Mi aveva avvertito che era pericoloso, ma io non gli ho dato retta. Sono stata testarda, sorda, volevo andare avanti... e Saga si è sentito obbligato ad accompagnarmi», confessò lei, con voce alterata dalla disperazione e gli occhi lucidi di lacrime. Faticava a trattenersi: quando ripensava a quei terribili momenti l'unica cosa che voleva fare era piangere. «Non lo biasimo se ora non vuole parlarmi, né vedermi. Gli ho fatto del male e non se lo merita», concluse, asciugandosi il viso con le dita.
«Hai certamente commesso un errore, mia cara, ma nessuno può obbligare Saga a fare qualcosa contro la sua volontà. Se quella notte era con te è perché voleva essere al tuo fianco», la consolò Shion, battendole il dorso della mano con delicati colpetti.
Nello sguardo e nella voce dell'uomo non c'era ombra di rimprovero. Eppure, dal punto di vista di Caroline sarebbe dovuto essere in collera con lei, perché aveva messo in pericolo la vita di Saga. Sentiva però che quella comprensione non sarebbe durata ancora a lungo; era in attesa del fatidico “ma”.
«In un certo senso, è proprio per questo che volevo parlarti... delle conseguenze che quella notte ha portato», continuò l'uomo.
Vide la giovane irrigidirsi, ma anche lui aveva perso quella moderata tranquillità con la quale si era presentato. Prese qualcosa dalla tasca della giacca, ma la tenne ancora nascosta nella mano. Si concesse qualche secondo per riordinare le idee; se fosse giusto che fosse lui a restituirle l'anello, oppure se doveva essere Saga a porre fine a quel matrimonio.
«Devi sapere che da quando è tornato dal pronto soccorso non è più la stessa persona. I medici hanno detto che a causa del trauma cranico lui è...»
Fece una pausa, per cercare le parole più adeguate. Aveva delle remore nel rivelarle il reale stato di salute del figlio, ma Caroline aveva il diritto di sapere, per potersi chiarire con Saga al più presto e forse aiutarlo a ritrovare se stesso. Si girò per un momento verso Shura, come a cercare un incoraggiamento per proseguire, ma quando incrociò il suo sguardo cupo corrugò la fronte. Il suo braccio destro sembrava avere un peso sulla coscienza e non desiderava altro che potersene liberare.
Tornò a guardare Caroline, che attendeva con penosa apprensione. «Saga è cambiato; nello sguardo, nel modo di rispondere, nei suoi atteggiamenti. Questo mi preoccupa, perché del vecchio Saga che entrambi conosciamo non sono rimasti che sprazzi.»
Caroline strinse i pugni e abbassò la testa, per nascondere gli occhi gonfi di lacrime. «Allora è per questo che non si è fatto sentire? È colpa mia. Tutta colpa mia», sussurrò, portandosi le mani al viso.
«Non ti sto dicendo questo per farti sentire in colpa, ma perché tu sia preparata per quando lo incontrerai.»
«Ma come posso fare se neanche risponde ai miei messaggi», si sfogò Caroline, lasciandosi cingere dalle braccia dell'uomo.
«Shion, dobbiamo andare», disse Shura, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Aveva valutato la situazione e non gli sembrava più il caso di ripulirsi la coscienza e confessare cosa aveva fatto più di tredici anni prima, non quel giorno almeno.
L'uomo annuì e, a malincuore, rimettendosi in tasca la fede nuziale, si alzò dal divano. Dalla tasca interna della giacca prese un biglietto da visita e glielo porse. «Anche con noi parla poco, Caroline, ma credo che questa sera lo potrai trovare a quell'indirizzo.»
La giovane lo strinse fra le mani, fissandolo a lungo con sgomento. «Lo studio legale Prescott-Cochrane», mormorò.
Era il più importante studio legale di Boston, che primeggiava in ogni branca della giurisprudenza e che, da quando i Taylor erano stati nominati soci titolari, era diventato anche il più spietato. Se Saga si era rivolto a loro, cosa doveva aspettarsi lei che non aveva quel tipo di risorse?
«Siamo già arrivati a questo punto», si lasciò sfuggire dalle labbra tremanti. Se fino a un attimo prima le sembrava difficile poter risolvere la situazione, ora si era trasformata in un'impresa impossibile.

«Caroline, tesoro, sono tornata!» disse Teresa, aprendo la porta di casa con le mani piene di sacchetti del supermercato e di un paio di una boutique del centro.
Era così entusiasta di cucinare con la figlia, di fare qualcosa con lei, che non si accorse degli ospiti fin quando non alzò lo sguardo e li scorse nel salotto, vicino al divano. Si bloccò sul posto. L'atmosfera in casa era tesa. Osservò i due uomini che nel frattempo si erano voltati verso di lei, le diedero l'impressione che sovrastassero Caroline, seduta sul divano. D'istinto avanzò bellicosa verso di loro, ma venne preceduta da Shion Hayes che, con un sorriso affascinante, le tese la mano.
«Mrs Miller, finalmente la conosco, anche se in un'occasione poco felice. Sono Shion Hayes, il padre di Saga», la salutò, stringendole la mano con delicata fermezza. «Le presento Fernando Morales, il mio più stretto collaboratore.»
Teresa scambiò uno sguardo con il più giovane dei due e indietreggiò di un passo. Quegli occhi scuri e torvi le fecero una brutta impressione. «Cosa volete da mia figlia?»
«Solo esprimerle la nostra vicinanza», rispose Shion. «Ma forse non era opportuno il modo in cui ci siamo presentati, avremmo dovuto chiamare prima. Ci perdoni per il disturbo.» Fece un cenno di saluto ed entrambi uscirono dall'appartamento.
«Tesoro, va tutto bene?» chiese la donna alla figlia, appoggiando i sacchetti sulla poltrona e sedendosi accanto a lei.
Caroline annuì.
«Cosa volevano quei due?»
«Parlarmi di Saga e sapere come stavo.» Nascose il biglietto da visita e fece un respiro profondo. «Non ti preoccupare, mamma, non volevano nulla.»
Teresa la strinse in un abbraccio e la lasciò andare solo una volta convintasi che la figlia stesse veramente bene. E poi, dovevano cucinare assieme; di certo sarebbe stata un'efficace distrazione ai suoi crucci. La incoraggiò a seguirla in cucina.
«Sai, tua nonna mi ha svelato il segreto del suo favoloso impasto per una pizza croccante. Ce la preparava ogni domenica e tuo fratello non mancava mai di fare il bis», le raccontò, versando la farina sul piano dell'isola, formando poi una fontanella nella quale versò il lievito disciolto in un poco d'acqua, iniziando a impastare.
Intimamente tirò un sospiro di sollievo nel sentirla ridere e commentare che se Mickey avesse continuato così sarebbe diventato un barilotto. Ma quella sensazione di serenità e spensieratezza che aveva contagiato anche lei, durò giusto il tempo di quella preparazione.
Essere lì in quei giorni per Teresa era vitale come respirare, ora che la sua Caroline aveva più bisogno di lei. Nel corso degli anni si era domandata spesso se avesse fatto abbastanza per sua figlia, se fosse stata una buona madre per lei.
Guardò di sottecchi sua figlia: gli anni della sua ribellione adolescenziale erano ormai lontani e sbiaditi come un ricordo quasi dimenticato, la testardaggine che l'aveva contraddistinta dopo le superiori l'avevano resa indipendente e capace di affrontare le difficoltà della vita, ma non aveva cancellato del tutto il bisogno naturale di appoggiarsi a sua madre nei momenti critici.
«Per favore, tesoro, puoi tagliare la mozzarella a scriscioline?»
Si perse ancora qualche secondo a osservarla, mentre Caroline avvicinava a sé il piattino con la mozzarella e il coltello, per assecondare la sua richiesta. Dio le aveva donato quella figlia stupenda che nel tempo era diventata una donna altrettanto stupenda, forte e determinata nelle sue scelte, ma nonostante la sua giovane età aveva già sofferto molto, troppo.
Finalmente era stata messa la parola fine al capitolo Deline, ma Caroline ne era uscita a pezzi e con il cuore spezzato, anche se cercava di nasconderglielo.
Come poteva ora sopportare di vederla soffrire ancora, non solo nel fisico ma anche nell'anima?
Non conosceva più nessuno a Boston che potesse darle una mano. Non si era fatta amicizie durature, né aveva coltivato i rapporti con i vecchi colleghi di Gregory, ad eccezione di Phillip che col tempo era diventato il suo nuovo compagno. Non sapeva a chi rivolgersi per aiutare Caroline. Però... una cosa la poteva tentare. Una volta Gregory le aveva detto che se mai avessero avuto un problema, avrebbero potuto chiedere aiuto al professor Taylor.
Guardò la sua Caroline, che fingeva serenità per lei, e maturò la decisione di fare qualcosa di più concreto per sua figlia. Si sciacquò le mani, prese la borsa e le chiavi dell'auto che aveva noleggiato per quei giorni e uscì dalla cucina.
«Mamma, dove stai andando?» disse con tono preoccupato Caroline. Si alzò per seguirla, ma inciampò nello sgabello accanto.
«Non ti preoccupare, tesoro, torno presto», rispose Teresa, chiudendosi la porta di casa alle spalle.

*****

«Hai delle mani meravigliose. Se fossi una donna, Ted, ti sposerei.»
«Se fossi una donna, mr Hayes, non apprezzerebbe in questo modo il mio massaggio.»
«Hai ragione... una donna non saprebbe mandarmi in estasi come te.»
Era strano sentir uscire dalla bocca di Kanon Hayes parole di apprezzamento verso un altro uomo, soprattutto se lo stava toccando e lui era praticamente nudo; ma in quel momento, sdraiato a pancia in giù sul lettino per massaggi, si sentiva in paradiso e con un principio di erezione.
Quelle mani erano davvero magiche ed erano un toccasana per le sue spalle e la schiena irrigidite da troppe ore dietro la scrivania.
Aiolos grugnì qualcosa di indecifrabile, nauseato dalla situazione. Era seduto poco più un là, tenuto in ostaggio dalla manicure che lottava invano con le sue cuticole, ma solo perché lui non riusciva a stare fermo.
Kanon gemette più forte quando le mani robuste di Ted spinsero sulla zona lombare, facendogli provare scariche di piacere.
«È quasi meglio del sesso.»
Nuove lagne e mezze imprecazioni da parte di Aiolos si fecero sentire in sottofondo a quell'esternazione.
«Di' la verità, vorresti esserci tu al mio posto, vero?» lo schernì Kanon.
Congedò Ted e si mise seduto, risistemandosi l'asciugamano striminzito che gli copriva le parti intime. Poi, saltò giù dal lettino e si stiracchiò; si sentiva decisamente meglio e anche il suo umore era tornato quello di sempre. Era certo che nulla avrebbe rovinato quella giornata.
Almeno fino all'arrivo del direttore del Country Club che fece irruzione nella stanza con un'espressione disperata sul volto, mettendosi a piagnucolare che qualcuno si era barricato nella zona della piscina bloccando le porte d'accesso, o qualcosa del genere, e la squadra locale di nuoto non poteva allenarsi.
«Non è compito suo risolvere questi inconvenienti?» disse Kanon, sbuffando perché il momento idilliaco che stava vivendo era sfumato in un attimo.
«In altre circostanze non mi farei problemi a chiamare la sicurezza e far cacciare il responsabile, ma si tratta di suo fratello, mr Hayes; sono quasi quattro ore che occupa la piscina e non lascia entrare nessuno», spiegò, tamponandosi la fronte con un fazzoletto ormai sgualcito.
«Quattro ore? Siete sicuro che non si sia sentito male?» chiese Kanon, indossando l'accappatoio. Stranamente non sembrava preoccupato.
«Ma... ma... santo cielo, sarebbe molto sconveniente per il buon nome del Club», mormorò il direttore, impallidendo a quell'eventualità.
«Ah, non ne dubito, considerato che è uno degli azionisti di maggioranza di questa baracca», replicò il giovane, con una risatina.
Si strinse la cintura alla vita e, ciabattine ai piedi, sparì nella stanzetta attigua che fungeva da spogliatoio.
«Mr Hayes, cosa devo fare?» implorò il direttore.
«Lasci perdere», si intromise Aiolos, studiando le sue mani da “signorina” con una smorfia di disgusto. Le unghie erano così lucide e ben limate che sembravano avere su lo smalto. Si stava già pentendo di essersi lasciato convincere a farsi fare quel trattamento. Nascose le mani nelle tasche dei pantaloni, riflettendo su come potesse ridar loro un aspetto virile, mentre attendeva i comodi di Kanon.
Il rampollo Hayes si rifece vivo dopo una ventina di minuti, vestito di tutto punto, pronto ed entusiasta di tornare in ufficio e affrontare la riunione riepilogativa del secondo semestre delle aziende secondarie.
Alzò gli occhi al cielo e trattenne a stento uno sbuffo nel trovare ancora lì il direttore del Country Club, con un'espressione supplicante – e sudando disperato –, in attesa che facesse qualcosa.
Cosa pensava potesse fare lui?
Al massimo poteva parlare con Saga, ma non garantiva alcun risultato; il fratello era diventato un tale testone che a volte stentava a riconoscerlo. Scambiò uno sguardo con Aiolos, ma non trovò alcun sostegno da parte sua.
«Ma che diamine!» imprecò fra i denti, uscendo dalla spa a grandi falcate per dirigersi alla piscina.

Nel Country Club c'erano tre piscine, ma solo due erano esclusive dei soci; la terza invece, che era stata costruita con i criteri per essere usata in competizioni agonistiche ufficiali, spesso veniva lasciata in uso alle squadre dei college per gli allenamenti e veniva usata per il meeting di nuoto delle scuole superiori.
Il direttore non gli aveva detto in quale delle piscine si era rintanato Saga, ma a giudicare dalla piccola folla di curiosi che stazionava davanti alle porte sbarrate che davano accesso a quella olimpionica, non poteva essere che lì.
Seguito da Aiolos, mosso più che altro dalla curiosità, si fece largo fra gli studenti con i borsoni e, dopo aver provato ad aprire le porte, con scarso risultato, bussò al vetro. Da dentro, un inserviente si avvicinò e gli fece cenno che non era autorizzato a lasciar passare nessuno, ma l'occhiataccia che Kanon gli scoccò fu tale da valere come lasciapassare.
L'aria era calda e afosa. D'istinto si allentò la cravatta e sbottonò il colletto della camicia; già si sentiva soffocare. Nell'avvicinarsi alla vasca poteva sentire i suoi passi e quelli dell'amico che gli rimbombavano nelle orecchie. Si guardò attorno: dalle ampie finestre prorompeva un sole quasi estivo in larghi fasci di luci, eppure la piscina, vuota com'era, sembrava spettrale.
Arrivò fino al bordo della vasca e vide il gemello che galleggiava a corpo morto nell'acqua. La luce del sole creava un fastidioso effetto scintillante sulla superficie, increspata da lievi onde, e gli dava noia agli occhi. Saga stava fissando il soffitto, o forse il cielo incredibilmente azzurro che si vedeva dalle vetrate. Si chiese cosa gli fosse passato per la mente per volersi sfiancare con il nuoto se poi doveva ridursi in quel modo.
«Bel trambusto stai provocando, il direttore è sull'orlo di una crisi di nervi.»
Attese la risposta da parte dell'altro, ma sembrava che neanche l'avesse sentito. Allora si sporse un poco, appoggiando il piede su uno dei blocchi di partenza. Sul braccio teneva la giacca ben piegata e le maniche della camicia erano arrotolate fino ai gomiti, per la troppa umidità nell'aria. Aveva pensato di fare altrettanto con i pantaloni per non bagnarli, ma a tutto c'era un limite.
Saga ancora non si muoveva. Poi, all'improvviso, Kanon lo vide immergersi fino a toccare il fondo nella parte meno bassa e, dopo una spinta con i piedi, nuotare in apnea per oltre metà vasca. Rimase a guardarlo per qualche minuto completare la vasca e tornare indietro, seminascosto dalla spuma creata dalle bracciate e dalle poderose gambate; si dovette scostare, quasi scappare da lì, per non finire bagnato quando il fratello fece la virata. Era evidente che avesse fatto apposta a schizzare.
Saga fece avanti e indietro altre due volte a ritmo forzato, prima di toccare il bordo con la mano e fermarsi, ansimante.
«Ora sei soddisfatto?» chiese Kanon, con un mezzo ghigno.
Saga si tolse gli occhialini e la cuffia e si immerse completamente, riemergendo un attimo dopo, scrollando la testa. Ricambiò lo sguardo, ma non rispose subito. Nei suoi occhi però c'era una strana luce.
«Questa volta di cosa si lamenta quel pagliaccio?»
Kanon aggrottò la fronte, sorpreso per il tono e le parole del fratello. Non si era mai espresso in quella maniera; e più passavano i giorni, più lui si comportava in modo strano, come se fosse un'altra persona. Scambiò un'occhiata con Aiolos e tornò a guardare il gemello.
«Si può sapere cosa ti prende?»
Saga, in risposta, si riempì la bocca di acqua e la buttò fuori a fontanella contro il gemello, ma il getto risultò troppo corto, arrivando a mala pena a schizzare sul rivestimento antiscivolo.
«Il colpo che hai preso in testa ti ha fatto davvero male. Sei più taciturno del solito, enigmatico, scostante e maleducato.»
Kanon lo fissò negli occhi per diversi secondi, per capire cosa gli stesse passando per la testa. Aveva la netta impressione di dover stare attento alle prossime parole che avrebbe pronunciato. Ci rifletté per un momento, poi buttò fuori quello che gli premeva dire.
«Non parli mai di cosa ti è successo, né di Caroline. Dicevi di amarla, te la sei sposata in segreto, te ne sei andato da casa per stare con lei... ed ora non ti preoccupi di come stia. Non hai mai chiesto di lei.»
Saga indurì lo sguardo e si allontanò di qualche metro, nuotando all'indietro, dandogli poi le spalle. Sembrava voler riprendere a nuotare.
Il cuore di Kanon prese a battere più veloce. «Capisco che tu stia passando un momento difficile, Saga, ma dovresti prenderti cura di quella ragazza. Ti ama ed è disperata, perché non ha tue notizie», disse, alzando progressivamente la voce.
Aiolos era seduto sulle gradinate, occupato più a rovinare con i denti il duro lavoro della manicure che a seguire le scaramucce che stavano mettendo in scena i due Hayes; ma quando l'argomento della conversazione si spostò su Caroline, si irrigidì. A preoccuparlo era stato soprattutto lo strano tono che aveva usato Kanon nel parlare della giovane, come se ciò che era successo a casa di lei, non fosse stato un episodio isolato, ma il preludio a qualcosa di più complicato e pericoloso.
Imprecò, stizzito. Non ci teneva affatto a finire in mezzo a una più che probabile disputa tra fratelli; ne aveva già troppe di sue con Alan, che si era messo in testa di pagarsi da sé gli studi invece di continuare ad accettare il suo aiuto.
Sentiva Kanon continuare a parlare e, nei suoi tentativi di convincere Saga, a peggiorare la situazione, almeno a parer suo.
Kanon non poteva credere all'indifferenza di Saga. «Senti, fratellino, Caroline è una brava ragazza. Quando Aiolos e io siamo andati a trovarla e lei mi ha scambiato per te...»
Era indeciso se rivelargli che quando lei l'aveva abbracciato aveva provato il desiderio di consolarla, di baciarla, di tenerla fra le sue braccia senza lasciarla più andare; ma forse l'aveva già tradito la sua stessa voce.
«Se non inizi a comportarti bene con lei, se non te ne prendi cura, allora ci penserò io! Evidentemente non te la meriti!»
A quelle parole, Aiolos sgranò gli occhi e quasi gli scivolò di mano lo smartphone che aveva appena preso per avvisare in ufficio del nuovo ritardo. Non poteva crederci: l'aveva detto veramente?
Saga si girò di scatto verso il fratello e lo fulminò con lo sguardo. Al solo sentir nominare il nome di Caroline da parte di un altro uomo, i tratti del suo viso si indurirono, come se trattenesse a stento la rabbia. Si immerse di nuovo e nuotò sott'acqua fino a riemergere aggrappandosi al bordo della vasca, ma nei suoi occhi c'era ancora una luce pericolosa.
Kanon avvertì la pelle accapponarsi a quello sguardo. Per la prima volta nella sua vita, il suo gemello lo stava spaventando. Fu solo un attimo. Poi, vide il viso e gli occhi di Saga tornare quelli di sempre, quelli che lui ricordava, e si sentì rinfrancato.
Gli offrì la mano per aiutarlo a uscire dall'acqua. Non si sorprese quando il fratello l'afferrò, ma quando fu il momento di assecondare la spinta, Kanon avvertì una resistanza e un attimo dopo si ritrovò a mollo nella piscina.
Cercò con lo sguardo Saga, che se ne stava dritto in piedi, fuori dall'acqua, sgocciolante.
«Vattene, Kanon, per il tuo bene. Fai i bagagli e tornatene a New York», sibilò fra i denti Saga. Prese l'accappatoio e se ne andò negli spogliatoi.
«Chi diavolo sei diventato?» gridò Kanon, sconvolto e alterato, battendo la mano sull'acqua.
Una volta che l'eco delle urla di Kanon finì, risuonò la risata di Aiolos. Il ragazzo, si sporse verso l'amico e, puntando lo smartphone scattò una foto.

*****

Il giorno del suo colloquio, Edward Price le aveva detto che tra i suoi compiti sarebbe potuta rientrare anche la consegna di documenti ai clienti e che fra essi figurava anche il prestigioso studio legale Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor. L'occasione non c'era ancora stata, eppure lei in quel momento si trovava proprio di fronte al palazzo dove risiedevano i loro uffici; ed era lì per motivi personali.
Alzò lo sguardo verso l'alto, provando a immaginare come potevano essere quei locali e come sarebbe stata da lassù, dal 35° piano, la vista della città. Non aveva avuto molte occasioni in vita sua di osservare dall'alto la sua città, troppo piccola quando se n'era andata e travolta dagli eventi quando poi era tornata.
Il cuore le batteva forte nel petto. Fece un respiro profondo, dicendosi che era normale sentirsi nervosi al pensiero di entrare in quegli uffici e avere a che fare con persone tanto potenti; la verità invece era che quell'emozione così pesante, che le faceva tremare le gambe a ogni passo e le spezzava il respiro nei polmoni, era dovuto al momento in cui lo avrebbe incontrato. Aveva poca importanza il motivo per il quale Saga si sarebbe trovato lì, ciò che importava era che lo avrebbe finalmente rivisto; avrebbe avuto la possibilità di scusarsi di persona, di chiedergli perdono, di accertarsi di come stesse e, forse, convincerlo a darle un'ultima chance, anche se probabilmente non se la meritava.
Si soffermò ancora per una manciata di secondi di fronte alle porte automatiche: non era sicura di avere abbastanza coraggio per affrontare quell'incontro. Si fece superare da un giovane uomo che portava due grosse borse da ufficio, seguito da due ragazze che arrancavano anch'esse cariche di documenti. Li osservò con una certa compassione: sarebbe potuto capitare a lei di sfacchinare in quel modo. Poi, entrò nell'edificio.
I suoi passi si fecero fin da subito più incerti e timorosi. Si sentiva soverchiata dalla sfarzosa eleganza della hall, piena di marmi preziosi ed elementi decorativi in ottone lucido che risplendevano come oro.
Dietro al bancone della sicurezza c'erano quattro uomini, due in divisa e due in giacca e cravatta che sembravano usciti dalle pagine dei fumetti di Man in Black. I tre giovani che l'avevano precenduta erano inchiodati lì, mentre la sicurezza controllava le loro generalità e confermava il loro appuntamento. Sembravano fin troppo scrupolosi.
Si avvicinò con una certa cautela, frugando intanto nella borsa per recuperare il suo documento e sperando di non rimanere bloccata per troppo tempo: era certa che al minimo intoppo avrebbe perso tutto il coraggio che aveva e se ne sarebbe andata.
Il controllo procedette con straordinaria facilità e lei si ritrovò, neanche sapeva come, accompagnata dall'ascensorista fino al 35° piano, occupato esclusivamente dai lussuosi uffici dei soci titolari.
L'emozione si faceva via via più evidente. Iniziò a toccarsi i capelli, risistemandosi la punta di un ricciolo che le ricadeva sulla spalla; poi si sfiorò l'occhio ammaccato, sperando non si notasse troppo. Erano però i lividi che persistevano sul viso a preoccuparla di più. Si chiedeva in continuazione se il correttore li mascherava abbastanza da non farli notare; se il trucco che era costretta a mettersi sulla faccia fosse abbastanza discreto da non farla sembrare un mascherone, lei che non era abituata a impiastricciarsi tutta quando usciva di casa; anche solo un po' di rossetto la faceva sentire strana.
Osservò di sottecchi l'ascensorista: aveva l'impressione che la stesse fissando con un po' troppa insistenza, come se avesse qualcosa di strano sul viso, o come se la stesse giudicando. Forse riusciva a vedere quei segni che lei voleva cancellare e questo la metteva ancora più a disagio.
Abbassò lo sguardo, per non offrisi a quella che le sembrava una vera e propria inquisizione visiva. Pregava di arrivare presto al piano, ma più pocedevano, più le sembrava che l'ascensore rallentasse.
Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, provando a svuotare la mente e allontanare le preoccupazioni, sciocche o lecite che fossero, che l'assillavano in quel momento. Neanche si accorse che si erano fermati, le porte dell'ascensore si erano spalancate e l'uomo stava richiamando la sua attenzione perché erano ormai arrivati.

Il 35° piano si apriva davanti a lei elegante e di lusso quanto la hall al piano terra, se non di più; ma a differenza di quest'ultima, vi erano delle piante qua e là a smorzare la monotonia dei marmi. Pensò che tanto verde non fosse proprio normale, per un ambiente di lavoro tanto esclusivo; o perlomeno quella era l'idea che si era sempre fatta, in anni e anni di serie tv, perché di persona non ci era mai stata in uno studio legale tanto prestigioso.
Uscì dall'ascensore e si avvicinò di qualche passo al bancone del centralino, dove due donne, belle come top model, faticavano a stare dietro a tutte le chiamate in entrata; eppure, non perdevano un colpo e riuscivano a mantenere un'aria professionale e un aspetto perfetto.
Alle loro spalle, a precludere la vista degli uffici ai clienti e ai visitatori, c'era una grande parete sulla quale campeggiava la scritta, a grandi lettere d'oro, “Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor”. Le bastò leggere quei nomi perché il suo cuore battesse impazzito e si sentisse in soggezione.
Con voce incerta fermò una giovane che stava passando lì vicino, quasi correndo, con le mani occupate da una voluminosa cartella e gli occhiali che le erano scivolati sulla punta del naso, e le chiese dove fosse la toilette. Aveva il viso in fiamme, provava un senso di ineguatezza a stare lì, anche nei confronti di quella stessa ragazza che sembrava poco più di una praticante al primo anno: sentiva l'impellente necessità di nascondersi.
Passò cinque minuti buoni a tormentarsi le mani, camminando avanti e indietro, davanti ai lavandini del bagno, e poi a guardarsi allo specchio, toccandosi il viso con panico crescente non appena intravedeva un'ombra attorno all'occhio o vicino alla bocca. Al collo, invece, i segni del tentato strangolamento non si vedevano più.
Si chiese se avesse fatto bene a indossare in quell'occasione la catenina con il diamante che le aveva regalato Saga, o se lui si sarebbe potuto infastidire nel vederla. Si sciacquò le mani e prese un gran respiro, pronta a uscire da lì.
Aprì la porta con un poco di coraggio in più nel cuore; ma, mentre si avvicinava di nuovo al bancone delle centraliniste, addette anche alla ricezione dei clienti, si accorse di un certo trambusto che proveniva dal corridoio alla sua sinistra. Si girò e vide un vecchio su una sedia a rotelle che inveiva contro il distributore dell'acqua. Si guardò attorno e si sorprese molto nel vedere che nessuno diceva o faceva qualcosa a riguardo, come se fosse una cosa normale da quelle parti.
«Signore, si sente bene, ha bisogno di aiuto?» chiese Caroline, avvicinandosi con una certa circospezione per non spaventare il vecchio. Lui però pareva non averla neanche sentita e continuava a sbattere con la sedia a rotelle contro la colonnina del distributore nel vano tentativo di afferrare il bicchierino di carta.
«Signore?» insistette, avvicinandosi di qualche altro passo.
Vedendo che di nuovo se la stava prendendo con il distributore, gli passò dietro e poi gli si affiancò.
L'uomo strizzava gli occhi tanto che sembravano completamente chiusi, la sua mano – ossuta e raggrinzita – si protendeva a fatica verso i bicchierini, senza però riuscire neppure a sfiorarli.
Caroline lo osservò per qualche secondo, non aveva mai visto un uomo così vecchio. Gli faceva una gran pena nella sua caparbietà di voler fare da sé. Prese un bicchierino di carta al suo posto, lo riempì d'acqua e glielo porse con un sorriso imbarazzato.
Il vecchio si fermò nel suo dimenarsi e la squadrò con uno sguardo arcigno sotto le sue folte sopracciglia bianche. Aveva la barba lunga di due giorni e la sua capigliatura bianco-giallastra era trasandata. Non le rivolse una parola e, nel prendere il bicchierino, fece un movimento nervoso, rovesciandosi addosso alcune gocce d'acqua. Poi, borbottando, avvicinò l'altra mano alla bocca – dove teneva alcune pastiglie di varie forme e colore – e ingurgitò tutto in un solo sorso.
Tossì più volte, di una tosse convulsa e soffocante, che gli squassava il petto fragile sotto alla giacca e al gilet in gessato di lana pesante, come gli accadeva ogni volta che prendeva le sue medicine. Rimase senza fiato e quasi si accasciò sulla sedia a rotelle. Il suo respiro era diventato poco più che un rantolo.
Caroline gli offrì un altro po' d'acqua e questa volta il vecchio lo prese con maggiore gratitudine.
«Si sente un po' meglio?» chiese Caroline.
Il vecchio borbottò ancora qualcosa, poi le fece cenno di aiutarlo a girare la sedia a rotelle e di spingerlo fino alla saletta d'attesa. Era un atteggiamento che fece sorridere la giovane e che in qualche modo la rassicurava.
Percorsero il corridoio fino a tornare davanti agli ascensori e da lì passarono di fianco al bancone con le due centraliniste che finalmente avevano un secondo per rifiatare: una stava sorseggiando un caffé da una mug con la scritta D&G in oro sullo sfondo nero, l'altra si ritoccava il rossetto.
Non appena le due si accorsero di Caroline, la guardarono incredule: a nessuno il vecchio Taylor consentiva di spingere la sedia a rotella, a parte sua figlia Anne, soprattutto poi rimanendosene così calmo.
«Sei una delle nuove praticanti?» chiese James Taylor, biascicando un poco le parole.
«No, signore», rispose con pacatezza Caroline, «sono qui per incontrare una persona.»
«Uno degli avvocati, per una causa?»
«No, signore», disse lei, questa volta con un tono di tristezza nella voce. Abbassò lo sguardo, sperando che l'altro non indagasse ancora, altrimenti non avrebbe saputo cosa rispondere senza sembrare patetica.
«Ecco, fermiamoci qui», disse l'uomo, senza dare altre spiegazioni, girando da sé la sedia a rotelle, mentre Caroline prendeva posto sul divanetto.
Da quella posizione, benché un poco nascosti alla vista di chi entrava, dalle enormi piante di ficus, entrambi potevano vedere bene l'interno dell'ufficio di Anne Taylor grazie alla parete di vetro. Dentro, sembrava ci fosse una specie di riunione di famiglia: oltre alla donna, seduta dietro alla sua scrivania, c'erano anche il gemello Richard e il primogenito James junior.
«Quelli sono i miei figli», disse il vecchio, indicandoli con il dito ossuto. Nella sua voce non vi era l'orgoglio di un padre per il successo dei propri figli, ma quasi disprezzo e vergogna. «Spero tu non ci debba avere a che fare», sospirò.
Poi, un nuovo attacco di tosse gli tolse il respiro e lo lasciò spossato, ma mentre si  asciugava la bocca con il fazzoletto, con l'altra mano blocco per il braccio Caroline, che aveva accennato ad alzarsi per prendergli dell'altra acqua.



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Capitolo 37
*** Capitolo XXXVI ***






XXXVI


«Quanto ancora dobbiamo aspettare i comodi di questo tizio che pretende di essere il figlio di Emma?» imprecò impaziente James jr, camminando avanti e indietro di fronte alla scrivania di Anne.
L'uomo alternava momenti in cui si tormentava le mani ad altri in cui si sistemava con scatti nervosi il nodo alla cravatta, senza riuscire a trovare la giusta posizione per non sentire più quel senso di strangolamento che pareva tormentarlo da quando era arrivato. Del suo famoso aplomb di politico di carriera, che sfoggiava durante le interviste e le conferenze stampa davanti ai giornalisti, quando si trattava di questioni personali non ne rimaneva traccia. A fargli eco, nella sua figura miserabile, Richard beveva un whisky dopo l'altro, sprofondato nel divano e borbottando fra sé frasi sconnesse.
Al contrario dei suoi due fratelli, la donna era imperturbabile, seduta alla sua scrivania. Davanti a sé teneva aperto il fascicolo della causa Bellamy: un contenzioso tra due cugini di primo grado che si stavano facendo la guerra per dei brevetti che erano stati valutati non meno di quindici milioni di dollari.
Leggeva e prendeva appunti. Poi, dopo aver riflettuto qualche istante, chiamò con l'interfono il suo assistente, ordinandogli di fare una ricerca su alcuni precedenti potessero avere similitudini con il suo caso.
«Ma come fai a lavorare in un momento come questo, quando potrebbe crollarci tutto addosso?» urlò James jr, sbattendo le mani sulla scrivania, senza ottenere alcun risultato. «Ci stai tenendo nascosto qualcosa?»
Anne Taylor alzò lo sguardo calmo sul fratello. «Fatti anche tu un goccio e vedi di riprendere il controllo», gli disse, tornando a dare attenzione alla causa milionaria a cui stava lavorando.
«E tu, Richard, non dici niente?» si scagliò anche sull'altro il primogenito.
Richard Taylor non aveva la presenza di spirito sufficiente per intendere l'accusa che gli era appena stata rivolta. Con la mente già annebbiata dalla mezza bottiglia che si era scolato, lo sguardo vacuo e i fantasmi del suo passato che non gli davano pace da quando la gemella gli aveva detto che uno dei due figli di Emma si era rifatto vivo. Fece un gran sospiro e trangugiò l'ennesimo whisky.
«Possibile che nessuno di voi si preoccupi delle possibili conseguenze?»
Richard tremò, ripetendo in un mormorio lamentoso le ultime parole pronunciate da JJ e lasciando cadere a terra il bicchiere; i pezzi di ghiaccio al suo interno tintinnaro e si rovesciarono sul pavimento, formando una pozza d'acqua ai suoi piedi.
Milo, che per tutto il tempo se n'era rimasto in un angolo appartato dell'ufficio a seguire quei discorsi con molta attenzione, quando cadde il bicchiere aprì un occhio. Dal suo punto di vista, benché non fossero affari suoi, le cose si stavano facendo interessanti, soprattutto l'eccessivo nervosismo di Richard Taylor per quell'incontro. Quando aveva parlato con Saga Hayes, non gli aveva dato l'impressione di essere una persona pericolosa, o che potesse nuocere a degli avvocati potenti come loro; ma chi può sapere cosa nasconde una persona e quanto può essere un'incognita qualcuno che conduce una vita tanto tranquilla?
Doveva solo attendere per vedere soddisfatta la sua curiosità. Si accese una sigaretta, prese una bella boccata e sbuffò verso l'alto una grossa nuvola grigiastra, appestando l'aria dell'ufficio.
«Quel ragazzino deve proprio stare qui?» si irritò ancora di più James jr, rivolgendosi di nuovo ad Anne. «Tu, con quella sigaretta puzzolente, esci di qui!»
Il giovane cacciatore di taglie alzò le spalle, spense la sigaretta nel portacenere e uscì. Con le mani in tasca ad afferrare il pacchetto malanato e già la voglia di accendersene un'altra, era intenzionato a dirigersi agli ascensori per raggiungere poi la zona nella quale era consentito fumare. Mentre passava davanti alla saletta d'attesa notò Caroline in compagnia di un vecchio sulla sedia a rotelle, che a quanto aveva saputo doveva essere il patriarca dei Taylor.
Sorrise.
Decise di rimandare a più tardi la sua sigaretta e la raggiunse. Le ragazze che sapevano maneggiare le armi da fuoco erano proprio il suo tipo e, da quanto aveva visto quella notte, lei sapeva farlo bene. Peccato fosse sposata a un riccone, in altre circostanze le avrebbe proposto di mettere su un'agenzia insieme.
Approfittando di un momento in cui lei era distratta a parlare con il vecchio – ma probabilmente non l'aveva visto uscire dall'ufficio – si avvicinò da dietro, quatto quatto, per prenderla di sorpresa, come se fossero vecchi amici.
Quando le fu vicino infatti, le mise le mani sulle spalle e le diede un bacio sulla guancia, senza lasciarle neanche il tempo di sussultare.
«Ciao!» la salutò poi, con un'allegria spontanea.
Lei era senza parole, frastornata, ma il sorriso amichevole del giovane la rassicurò e, superato l'imbarazzo iniziale, rispose al saluto.
«Cosa ci fai da queste parti?» chiese lui, anche se il motivo era scontato, poiché sapeva che doveva avere a che fare con Saga.
«E tu, cosa ci fai qui?» disse lei, evitando di dargli una risposta.
«Per lavoro.»
Sul viso di Caroline comparve un'espressione dubbiosa e subito a Milo balenò il dubbio di essersi tradito in qualche modo; si corresse dicendo che in verità si trattava di un favore a un conoscente. Si lasciò cadere accanto a lei sul divanetto e iniziò a sfogliare una rivista trovata lì abbandonata; di sottecchi però non smetteva un attimo di scrutarla e studiare il suo atteggiamento. Fin dal momento stesso in cui le aveva dato quella risposta aveva capito che era stato poco convincente. Rifletté: cosa le aveva detto la prima volta che si erano incontrati? Che era uno studente, certo, ma era entrato nei particolari?
Sbuffò un “mah”, girando rumorosamente una pagina, finendo su un articolo che parlava di un contenzioso su un'eredità multi milionaria; e si lasciò sfuggire un commento su come i ricconi si facessero la guerra per quattro spiccioli in più. Continuò a far finta di leggere per qualche altro minuto, in silenzio, composto, ma senza mai togliere gli occhi da Caroline e da quel vecchio, che sembrava ormai così innocuo, eppure sapeva essere stato in passato un uomo duro e severo, una vera volpe, sebbene come mentore era stato molto amato e rispettato. Li vedeva scambiare qualche parola ogni tanto: lei era ancora un po' tesa e sulle sue, come se qualcosa la preoccupasse.
Sbuffò una seconda volta. La sua gamba si muoveva in preda a un tic nervoso.
«Ho bisogno di una sigaretta», borbottò. Ma se l'avesse accesa lì, qualcuno di sicuro sarebbe venuto a lamentarsi e lui questa volta avrebbe reagito male. Mise via la rivista e si rivolse alla ragazza. «Ti va di fare due passi, così ti offro un caffé e mi fumo una sigaretta.»
Caroline lo guardò per un attimo, poi abbassò gli occhi, tormentandosi le mani in grembo. Scrollò piano la testa. «Mi dispiace, devo vedere una persona.»
«Dai, staremo via solo pochi minuti», insistette il giovane, alzandosi in piedi e prendendole la mano.
La sua voce era convincente e il suo sorriso rassicurante quasi quanto quello di Saga. Lei non conosceva bene Milo; però, se ripensava a quanto aveva fatto quella notte per lei, non le sembrava una cattiva persona. Accennò ad alzarsi, ma venne trattenuta per il braccio dal professor Taylor. Allora fece un sorriso imbarazzato e rifiutò ancora l'invito.
«Prendimi dell'altra acqua», le ordinò il vecchio in tono un po' burbero, frugandosi nella tasca interna della giacca con la mano tremante e tirando fuori un flacone arancione pieno a metà di capsule bianche.
Caroline non ci pensò due volte e si alzò con prontezza; quando fu abbastanza lontana, il professore si rivolse a Milo: «Io ti ho già visto qui in giro. Fai affari con i miei figli, non è vero?» disse con un vago tono di disprezzo. «Lascia in pace quella ragazza. Li conosco i tipi come te, sembrate così innocenti, così perbene con quella faccia pulita, ma sapete portare solo guai.»
Milo rimase a bocca aperta per alcuni secondi: nessuno gli aveva mai detto che aveva la faccia pulita di uno perbene. Si lasciò sfuggire un mezzo ghigno e si rilassò sul divanetto.
«Beh, so fare bene il mio lavoro e mi pagano generosamente; ma credo che ormai non abbiano più bisogno dei miei servigi.»
«Cosa stanno macchinando questa volta?» gli chiese il vecchio. Nonostante gli oltre novant'anni di età, i suoi occhi erano vispi e la sua mente aveva sprazzi di estrema lucidità che gli permettevano di capire quanto stava succedendo.
«Segreto professionale», rispose con un sorrisetto il giovane, mettendosi in bocca l'ultima sigaretta del pacchetto.
Usò uno zippo ammaccato e graffiato, ma dopo qualche tentativo andato a vuoto si accorse con disappunto che era scarico. Bofonchiò qualcosa con evidente contrarietà e rimise via la sigaretta, mentre il professore – che a suo tempo era stato anch'egli un accanito fumatore – soghignava.
Caroline ritornò qualche secondo più tardi, porgendo il bicchierino di carta e aiutando l'uomo ad aprire il flacone delle pillole. Poi, si riaccomodò con un sospiro. Fuori era ormai buio pesto e lei non sapeva che pensare: più il tempo passava, più sentiva scemare la speranza di riuscire a incontrare il suo Saga e chiarire le cose. Se avesse perso quella occasione, quando le sarebbe ricapitato?
Con la punta delle dita si toccò sotto l'occhio destro, fermando una lacrima malandrina intrappolata tra le ciglia.

*****

Anne Taylor controllò l'ora sul costosissimo orologio che indossava quel giorno, trattenendo a stento un'imprecazione, mostrando così qualche crepa nella calma serafica che l'aveva accompagnata durante tutto quel pomeriggio. Sperava di concludere la faccenda in giornata, ma si erano già fatte le sette della sera, Saga non si era ancora fatto vivo e alle otto aveva una cena con un cliente molto importante.
Alzò gli occhi e fissò lo sguardo oltre la parete di vetro del suo ufficio in cerca di Scorpio, riflettendo che forse l'aveva ingannata solo per prendersi i soldi del compenso. Indurì lo sguardo nell'intravederlo che conversava con il padre.
«Cosa ci fa lui qui?» mormorò, stringendo il pugno. Poi, fulminò con lo sguardo James jr. «Perché ti sei portato dietro anche papà?»
«Perché me l'ha chiesto!» ribatté secco lui. «Voi americani non sapete cos'è il rispetto per i genitori. Lui era certo che se l'avesse chiesto a te, ti saresti rifiutata», disse, impregnando il termine “americani” di un velo di disprezzo, prendendo così distanza dai fratelli.
Nonostante fosse anch'egli americano, naturalizzato, – a differenza dei gemelli nati invece da madre americana – quando i discorsi o la situazione non gli aggradavano prendeva le distanze e si rifugiava nella sua origine very british.
La donna tamburellò con le dita ingioiellate sulla scrivania per diversi secondi, quasi a voler scandire il tempo che si stava prendendo per non rispondergli per le rime, tornando a osservare il padre.
«Cosa starà macchinando?» mormorò.
Dall'interfono arrivò la voce del suo assistente: avvertì che alla portineria si era presentato mr Saga Hayes. I fratelli Taylor si bloccarono di colpo come raggelati, gli occhi fissi sull'apparecchio.
Richard strinse in modo convulso il bicchiere, per evitare di farne cadere un altro. Poi se lo portò alla bocca con mano tremante, ingurgitando rumorosamente le due dita di whisky che si era servito, facendosene colare qualche goccia da un angolo della bocca fin sul mento.
James jr si girò di scatto verso Anne trattenendo il respiro e stringendo con forza i pugni. Deglutì. Dopo tanti anni di parole, supposizioni e ombre a ogni angolo, ora quella spada di Damocle si era trasformata in qualcosa di reale, tangibile, affrontabile; ma al tempo stesso era anche una grande incognita. Ancora una manciata di minuti e colui che poteva rovinare le loro vite e le loro carriere si sarebbe trovato faccia a faccia con loro.
La calma di Anne era invidiabile e incomprensibile agli altri due. Diede ordine al suo assistente di andargli in contro e di farlo salire con l'ascensore ovest. Nei suoi piani, così facendo, non avrebbe corso il rischio che il padre lo vedesse arrivare e potesse rovinare l'incontro.
«Ora siediti, James, riprendi un po' di contegno, sembri un pulcino spaventato», disse, appoggiandosi allo schienale della poltrona in pelle. Era certa che l'altro non l'avrebbe ascoltata e non diede alcun peso all'acchiataccia che gli scoccò.
Il suo sguardo si era fatto più acuto e la sua mente già elaborava la mossa successiva. Milo Sanders non era sceso nei particolari quando le aveva riferito che aveva parlato con lui; non sapeva cosa aspettarsi, ma se Saga aveva ereditato anche il carattere debole del padre, oltre al suo aspetto fisico, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a sottometterlo.
Dal cassetto della scrivania estrasse l'immagine che aveva stampato dal video, fissandola con insistenza. Non vi era un solo tratto somatico che le ricordasse Emma.
«Meglio così», mormorò, richiudendola nel cassetto.

Tre toc discreti catalizzarono l'attenzione dei Taylor alla porta dell'accesso privato dell'ufficio. Senza attendere l'invito, l'assistente aprì la porta e introdusse l'ospite atteso; poi, con la stessa discrezione uscì e la richiuse dietro di sé.
«Buonasera, perdonate il ritardo», salutò Saga, con voce suadente e le labbra piegate in un sorriso appena accennato, ma glaciale.
Richard si alzò e quasi ricadde fiacco sul divano: a quella vista le sue gambe lo ressero a malapena, come se il senso di colpa che provava si fosse trasformato in un macigno impossibile da sopportare. Inconsciamente biascicò il nome di Anthony, non rendendosi conto di averlo pronunciato abbastanza forte da essere udito da Saga, che gli lanciò uno sguardo di sfida, ammorbidendolo poco dopo nel vederlo tremare.
James jr invece era in piedi, quasi di fronte a lui; lo squadrò con attenzione, ma dall'espressione sul suo viso non trapelava alcuna emozione, come se l'impazienza e la tensione che aveva provato fino a poco prima non ci fossero mai state.
Anne Taylor lo guardò con gli occhi di un rapace. Si mosse verso l'ospite e gli tese la mano ingioiellata. «Finalmente, caro Saga, eravamo ansiosi di conoscerti.»
«Lo stesso è per me», rispose lui, stringendole la mano con cordialità, per nulla intimorito nel sentirsi sotto esame. «Ho pensato che per questa occasione ci volesse qualcosa di speciale», aggiunse, mostrando la bottiglia di un pregiato whisky single malt invecchiato venticinque anni e appoggiandola sulla scrivania della donna.

Prima di presentarsi nello studio legale Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor c'era stato un altro luogo in cui Saga aveva sentito il dovere di andare e qualcun altro con il quale doveva parlare. Troppe cose della sua vita erano ancora nebulose, così come della sua vera famiglia. Voleva conoscerle per prepararsi all'incontro che di sicuro avrebbe condizionato il suo futuro.
Aveva dato appuntamento a Dohko al cimitero, di fronte alla tomba anonima di Anthony Young. Era stato molto persuasivo, tanto da abbattere la naturale diffidenza del vecchio cinese e la sua codardia.
«Raccontami di nuovo di lui», gli aveva detto, con lo sguardo duro rivolto alla lapide e un tono che sembrava dichiarare disprezzo per qualsiasi tipo di debolezza di carattere.
Dohko tremava e si tormentava le mani, fissando la lapide con occhi pieni di rimpianto.
«Come ti ho già detto, abitò nell'appartamento della tua ragazza per circa otto mesi. Si era presentato alla mia porta una notte, assieme a tua madre e a un ragazzotto ispanico pelle e ossa che bazzicava sempre nel quartiere. Era spaventato, pallido. I segni della sua malattia ancora non erano evidenti. Si può dire che per le prime settimane andò tutto bene. Poi, i soldi che tua madre gli aveva lasciato finirono: prendersi cura di due neonati era dispendioso, ma Anthony non si limitava a voi due, aiutava chiunque ne avesse bisogno. Purtroppo però, non sempre chi veniva aiutato era in grado di ricambiare e tuo padre si ritrovò presto in gravi difficoltà. Raggranellava qualcosa dando ripetizioni, ma non bastava. A volte, digiunava per giorni per riuscire a comprarvi il latte e le pappine. In quel periodo iniziò a passare le notti in bianco, a causa vostra e a causa delle preoccupazioni sempre più pressanti. Era terrorizzato all'idea che i Taylor vi trovassero. E non sbagliava: in un paio di occasioni gli investigatori che avevano ingaggiato i Taylor ci andarono vicini. Quella vita da latitante non faceva per lui. A lungo andare la sua salute ne rimase compromessa, finché non prese la decisione di affidarvi a chi avrebbe potuto prendersi cura dei suoi figli.»
Aveva fatto una pausa dal suo lungo racconto. I suoi occhi erano liquidi e tremanti. Il suo respiro si era fatto incerto, rumoroso per il raffreddore; il suo corpo gracile e ossuto aveva ricominciato a tremare al refolo d'aria che si era insinuato fra le lapidi fino ad investirli come una sferzata gelida.
«Quell'inverno fu molto rigido. La caldaia della palazzina si bloccò ben due volte. Dopo che si separò da voi, cambiò. Era ancora più teso, nervoso. Scattava al minimo rumore. Era allo stremo. Era certo che non lo avrebbero mai lasciato in pace; e alla fine fu trovato. O forse si lasciò trovare.»
Una volta terminato il suo racconto, Dohko si era portato le mani al petto, come se il cuore gli si stesse fermando. Si era accasciato sulla tomba di Anthony e aveva iniziato a piangere.
«Sapeva farsi voler bene da tutti», aveva mormorato.
Aveva alzato la testa e si era voltato verso Saga, ma a quel punto lui se n'era già andato, lasciandolo con il dubbio di quanto avesse ascoltato della storia del padre.

Anne Taylor fece un sorriso di cortesia; si avvicinò all'angolo bar, mise del ghiaccio in due dei quattro bicchieri e ritornò alla scrivania, appoggiandoli vicino alla bottiglia, intanto che Saga si toglieva il cappotto e lo posava sullo schienale della poltroncina, prima di sedersi.
«Un brindisi, al nipote ritrovato e alla famiglia finalmente riunita», disse Anne, «spero che presto si possa avere l'occasione di conoscere anche tu fratello», aggiunse, con velata malizia.
Saga non era affatto sorpreso che la donna lo avesse accettato senza fare obiezioni o chiedergli nulla, così come si aspettava che conoscesse dell'esistenza di Kanon. Sorrise di rimando, ma i suoi occhi esprimevano tutt'altro. Lasciò il bicchiere sulla scrivania, senza toccare il whisky e prese dalla tasca interna della giacca una busta bianca. Se la rigirò per qualche secondo fra le mani, poi se la posò in grembo.
«Nessuno di voi avrà mai alcun contatto con mio fratello», disse in tono risoluto. «E per quanto riguarda me, questa sarà la prima e ultima volta che ci vedremo.»
La donna rimase allibita dalle parole del giovane.
«Noi siamo la tua famiglia!» intervenne James jr, scattando iroso.
«Saga, come puoi dire una cosa del genere, ora che ci siamo ritrovati», provò a mediare la donna, facendo un cenno quasi impercettibile al fratello, con l'intento di imporgli maggiore calma e diplomazia. «Perché non provi a conoscerci, prima di affermare una cosa così “definitiva”», gli disse, sedendosi sul bordo della scrivania e chinandosi un poco verso di lui, posandogli la mano sul ginocchio.
Gli sorrideva comprensiva, ma si poteva giurare che fosse pronta a saltargli alla gola alla minima provocazione.
Saga batté due volte la lettera sul palmo della mano, sicuro di sé. «Quel che avevo da conoscere di voi, lo conosco. Altro non mi serve sapere e non lo voglio sapere», disse, porgendo la busta la donna, che prese con circospezione.
Si alzò e si mise il cappotto sul braccio, pronto a lasciare quel covo di serpi.
«Non te ne puoi andare via così, potresti pentirtene», lo minacciò James jr.
Il giovane mostrò un sorriso supponente. «Quanto possono essere pericolose le minacce di un pluriomicida?» disse, sostenendo lo sguardo dell'uomo. «O quelle di uno stupratore», aggiunse, cambiando il suo bersaglio e fissando Richard che neanche riusciva ad alzare la testa dal suo bicchiere, piagnucolando in silenzio. «Le piacciono ancora i ragazzini indifesi, avvocato Taylor?»
«Queste tue affermazioni sono gravi e diffamatorie, mr Saga Hayes», disse Anne Taylor, cambiando tono in uno più intimidatorio, avvicinandosi a lui. «Potresti pentirti amaramente di aver aperto questa tua bella bocca», continuò, accarezzandogli le labbra con la punta delle dita. «Hai lo stesso temperamento di Emma; e sei bello come Anthony. Una combinazione letale», sussurrò.
Saga piegò le labbra in un sorriso accattivante, facendole capire di sentirsi lusingato dalle sue parole. Ma era solo apparenza. Mutò il suo attenggiamento e allontanò la mano della donna dal suo viso.
«Non ci provi con me, avvocato Taylor.» La vide raggelarsi. Allora, indietreggiò di qualche passo, fino alla porta di vetro, e squadrò i tre figli del professor Taylor. «In quella busta ci sono le prove che suffragano le mie affermazioni, raccolte da Emma stessa e da Anthony Young nel corso degli anni che lui ha passato nella vostra casa», disse. Li osservò uno ad uno, poi continuò e diede la stoccata finale. «Come ci si sente ad essere traditi da qualcuno di famiglia?» disse, appoggiando la mano sulla grande maniglia cromata. «Ah, sono delle copie, naturalmente, e non avrò alcuna remora ad usarle se qualcuno di voi proverà di nuovo ad avvicinarsi a me, ai membri della famiglia Hayes, o a chiunque mi sia caro.»


*****

Nel momento in cui spingeva la porta per uscire, Saga alzò lo sguardo e vide Caroline nella saletta d'attesa. Rimase sorpreso per qualche istante di trovarla lì, soprattutto perché non era sola. Accanto a lei c'era lo stesso ragazzo del cimitero, che faceva il buffone tentando di coinvolgerla in qualche conversazione, ma lei era poco collaborativa, cedendo solo a brevi risate. Aggrottò la fronte.
Poi, il suo sguardo si posò sul vecchio sulla sedia a rotelle e serrò le mascelle, indurendo i tratti del viso. Provò un grande e improvviso odio. Si avvicinò a passo deciso e si fermò di fronte all'uomo che pareva assopito; lo fissò finché egli non si accorse di lui e addolcì l'espressione sul viso.
«Saga», sussurrò Caroline, sussultando di sorpresa. I suoi occhi si velarono di lacrime nel vederlo. Stava bene, questo era importante per lei. Accennò ad alzarsi, ma sentiva le gambe molli e poco collaborative.
Il giovane le scoccò un'occhiataccia e si rivolse invece al professore. «Buonasera. Lei è l'esimio professor Taylor, se non erro. Ho letto con molto interesse il suo famoso libro sulla giurisprudenza negli scambi internazionali», disse, tendendogli la mano.
L'uomo alzò la testa e si prese il suo tempo prima di rispondere, guardandolo con occhi stanchi e velati dalla cataratta. «La conosco? L'ho vista da qualche parte?» chiese, stringendoli la mano con insolita debolezza, quasi fosse un fantasma.
«Conosce sicuramente mio padre. È stato un suo allievo, tanto tempo fa; un suo pupillo. Si chiama Shion Hayes. Era nella stessa classe di Anthony Young, si ricorda?» Nel pronunciare il nome di Anthony, cambiò completamente atteggiamento, l'inflessione nella sua voce tradiva la rabbia trattenuta durante l'incontro con i figli dell'uomo.
Caroline sgranò gli occhi, riconoscendo quella nota stonata, ma non intervenne, impietrita dall'atteggiamento del marito che glielo faceva vedere sotto una luce diversa.
«Shion Hayes», mormorò il professore, provando a richiamare quel lontano ricordo. «Sì, sì, mi ricordo, il caro Shion. Un bravo ragazzo, studioso, educato. Era sempre assieme a un altro studente. Aspetta, come si chiamava... Erano inseparabili, come fratelli», disse, continuando a stringere la mano di Saga, picchiettandone con affetto il dorso con l'altra mano. «Ho seguito i suoi successi nel mondo degli affari con molto orgoglio. Ho sempre saputo che avrebbe fatto grandi cose nella vita. È da tanto che non ho più sue notizie, come sta?»
«Sta bene», rispose Saga, trattenendo il disprezzo per quell'uomo che aveva cancellato dalla memoria la figura di Anthony, a cui doveva molto.
«Te ne prego», disse il vecchio in tono accorato, facendo maggiore pressione sulla mano, «portagli i miei saluti.»
«Non dubiti, non mancherò», rispose Saga, riacquistando la gentilezza che gli era propria, nel vedere quanto fosse ormai innocuo. Voleva provocare dolore a quel vecchio, ripagarlo con la stessa moneta per il dolore che aveva inflitto ad Anthony e ad Emma, e per avergli strappato via la sua famiglia, ma gli faceva troppa pena. La vecchiaia, il corpo decadente, la mente offuscata dalla nebbia della demenza senile, erano una punizione sufficiente.
Quei convenevoli durarono ancora alcuni minuti; poi, dopo aver salutato il professore, Saga si girò di tre quarti verso l'ufficio di Anne Taylor e vide la donna che guardava nella sua direzione con odio e timore.
Salutò con tono cordiale il professore e finalmente guardò negli occhi Caroline. Lei tremava e aveva un'aria affranta, mentre si alzava in piedi. La fissò per alcuni secondi senza rivolgerle la parola e si avviò verso gli ascensori.
«Saga! Aspettami, Saga!» lo chiamò disperata Caroline, raggiungendolo di corsa, appena in tempo prima che le porte dell'ascensore si richiudessero e la separassero di nuovo da lui.
Ansimava senza fiato, con il cuore che le batte in gola. Teneva la testa bassa, rimanendo in silenzio. Era da troppo tempo che non lo vedeva e c'erano tante cose che voleva dirgli, ma non sapeva come dirgliele.
Sospirò.
Anche Saga era silenzioso, le mani in tasca e lo sguardo perso nel vuoto, come se l'aver interpretato il ruolo del duro – durante l'incontro con i Taylor – l'avesse prosciugato di tutte le sue energie psicofisiche.
L'ascensore scendeva con una lentezza esasperante verso i piani sotterranei dei garage.
Lei si morse il labbro, nel tentativo di arrestare le lacrime che si stavano formando agli occhi. Deglutì, stringendo il pugno contro la sua gamba.
«Sono felice di...» iniziò a dire; non si aspettava di essere interrotta da un suo bacio improvviso e le lacrime le scesero sulle guance.
Avvertire il contatto delle labbra di Saga sulle sue era come essere travolti da una mareggiata di emozioni e lei voleva lasciarsi andare ancora una volta in balìa di quelle emozioni. Lui la tenne abbracciata per dei lunghi secondi, quasi la sorresse, perché non si accasciasse a terra senza forze; poi, la guardò negli occhi e le accarezzò il viso con la punta delle dita.
«Mi sei mancato tanto», disse lei tra i sighiozzi, lasciando che altre lacrime le bagnassero il viso.
«Lui ti ha fatto questo», mormorò con una dolcezza e una pena tali da spezzare il cuore. Anche lui aveva gli occhi lucidi. Riusciva a vederli i segni dell'aggressione sul viso di Caroline. Ricordava ogni cosa di quella notte nel vicolo: il dolore alla testa, la vista appannata, l'odore di immondizia e lei, a terra, mentre quel tizio le stringeva le mani al collo. La strinse di nuovo al petto e la sentì singhiozzare ancora. Una volta in più visse la paura di perderla.
Aveva provato rabbia quando l'aveva vista con il professore e con quel ragazzo che lavorava per i Taylor; ma ora, solo con lei nell'ascensore, quella rabbia era svanita. Il suo cuore batteva emozionato come la prima volta che aveva fatto l'amore con lei. Cominciava a ritrovare il vecchio se stesso, ma al contempo era conscio che non sarebbe più stato come prima. Le accarezzò la testa, con la tentanzione di rassicurarla; invece la prese per le braccia e la allontanò da sé. Poi si appoggiò alla parete della cabina, dandole le spalle.
«Saga... ricominciamo la nostra vita, torniamo a casa.»
A quelle parole, il giovane fece un respiro profondo, si raddrizzò e si ricompose.
«Sì, ricominciamo le nostre vite», ripeté lui, mentre le porte dell'ascensore si aprivano davanti a loro. Fece un passo e le oltrepassò, ma quando Caroline provò a fare altrettanto, lui la bloccò tendendo la mano davanti.
La giovane interpretò quel gesto come un invito e gliela prese con fiducia. In quel momento però si accorse che lui non portava più la fede al dito. Gli lasciò la mano e abbassò lo sguardo. Le si spezzò il cuore.
«Vai per la tua strada, Caroline.»
La giovane alzò di scatto la testa, fissandolo con occhi sgranati. «Perché?»
«Non lo immagini? Noi due siamo troppo diversi, incompatibili. Prima di incontrarti ero una persona semplice e innocente, ero felice; tu mi hai portato in luoghi oscuri e pericolosi, dove regna il dolore. Le mie mani ora sono sporche di sangue a causa tua. Tu mi hai reso una persona diversa da quella che ero, capace di uccidere», disse.
Tirò fuori tutti i dubbi, tutti i nodi irrisolti che aveva dentro, senza preoccuparsi dell'espressione scioccata di Caroline. Era consapevole che con quelle parole le stava facendo del male, ma era necessario per entrambi.
«Perché mi stai dicendo questo? Tu non hai fatto nulla di male. Tu mi hai salvato la vita, sei il mio eroe. Se non fosse stato per te io sarei morta in quel vicolo. Tu non hai ucciso nessuno quella notte. Sono io che ho sparato. Sono le mie mani a grondare sangue», spiegò in tono sempre più accorato, ma sembrava che lui non stesse neanche a sentire le sue giustificazioni.
Lei non capiva perchè ora Saga si stesse comportando in quel modo, dopo quel bacio appassionato che le aveva dato; non comprendeva perché stesse rinnegando ciò che c'era stato fra loro, l'amore, i sogni e le sofferenze che avevano condiviso.
«Lo so che ti ho fatto soffrire, non lo nego, ma dammi una seconda possibilità.»
Saga le diede le spalle, scrollando la testa.
«Ti prego, ti prego!» lo supplicò, aggrappandosi con disperazione alla stoffa della sua giacca.
«Lasciami andare, Caroline.»
«No! No! Ti prego, torniamo a casa, torniamo nella nostra casa», lo trattenne lei.
«Non fare così.» Saga si girò e la prese per le spalle; il cappotto dava impiccio sul suo braccio.
Caroline alzò la testa verso di lui; sgranò gli occhi nel vedere un'espressione di disgusto sul suo bel viso.
«Detesto le persone che supplicano.» La spinse all'improvviso contro la parete di fondo dell'ascensore. «Nei prossimi giorni ti farò avere le carte del divorzio», le disse; e pochi secondi dopo le porte si richiusero.

Dall'interno della cabina dell'ascensore arrivavano a lui, appena percettibili, le urla disperate di Caroline, ma si allontanò senza la minima esitazione verso l'auto. Eppure, non era rimasto indifferente. Teneva la testa bassa, le labbra strette in una linea sottile e provava una irrefrenabile voglia di bere. In una delle tasche del cappotto c'era il quaderno di Gregory Miller. Avrebbe voluto restituirglielo, ma non c'era riuscito, perché il loro incontro aveva assunto toni drammatici e strazianti.
«Come puoi comportanti in questo modo», lo rimproverò Aiolos, appoggiato alla portiera dell'auto.
«Non sono affari tuoi», ribatté Saga.
«È vero, non sono affari miei, ma non posso permetterti di trattare in questo modo le persone. Prima Kanon, che ti adora, adesso Caroline. Chi altri allontanerai dalla tua vita?»
Saga gli passò di fianco e posò la mano sulla maniglia della portiera. «Spostati», sibilò fra i denti.
Aiolos si scostò di un passo per lasciargli libero l'accesso, ma gli bloccò il braccio con la mano. «Saga»
Il giovane si divincolò con uno scatto violento e lo inchiodò con lo sguardo. «Perché continui a starmi dietro? Cosa diavolo vuoi da me?» ringhiò.
«Capire cosa ti sta succedendo», confessò l'altro. Strinse la presa sul braccio di Saga, ma abbassò la testa, come se volesse nascondere i sentimenti che trasparivano dal suo volto in quel momento. «Io... io non ce la faccio più a continuare così. Negli anni ti ho detestato, quando sembravi fragile e debole, perché manipolavi gli altri con quel tuo modo di fare; e quando si è manifestata questa nuova versione di te, così forte e determinata, ne sono rimasto affascinato, ma sbagliavo. Non ti importa nulla delle persone, le fai soffrire e continui per la tua strada. Saga, ti voglio bene, ma ora...»
Lo strinse in un abbraccio, ben consapevole che l'altro avrebbe potuto reagire in male; però, arrivato a quel punto, non gli importava più. Doveva essere sincero fino in fondo, con se stesso e con lui.
«Anch'io ti voglio bene», rispose Saga, con voce incerta, ritrovando la gentilezza di un tempo.
«No, Saga, io ti amo. Sono innamorato di te da sempre», confessò Aiolos, «e voglio stare con il vecchio Saga.»
Nel parcheggio sotterraneo calò un pesante silenzio.
Aiolos lo sentì irrigidirsi. Era palpabile il fastidio che Saga stava provando e capì che ora sarebbe toccato a lui essere allontanato.
«Non mi toccare, schifoso.»
Slacciò l'abbraccio ed evitò di guardarlo, per non vedere il sicuro disprezzo dipinto sul suo viso. Gli diede le spalle e si incamminò mani in tasca verso l'ascensore. Pochi secondi dopo sentì le ruote dell'auto sgommare via.
Shura lo aveva avvertito. Glielo aveva detto che a Saga facevano schifo i finocchi, ma doveva sbatterci la testa per capirlo. Aveva una gran voglia di piangere, si sentiva un bambino abbandonato... ancora una volta lo aveva escluso, ma anche se se lo aspettava, gli faceva male lo stesso; forse di più delle altre volte, perché poteva significare la fine di tutto.

*****

Saga era stato di parola. Non erano passate che due settimane e un giovane avvocato, probabilmente appena laureato, si era presentato alla porta di Caroline con una busta gialla che conteneva i documenti del divorzio.
Negli accordi che aveva fatto stilare erano compresi una quota generosa di azioni della corporation della famiglia Hayes, una buona uscita di dieci milioni di dollari e un assegno mensile di centomila dollari. L'avvocato le spiegò per filo e per segno ogni punto e ogni clausola; poi le indicò dove firmare, aggiungendo che poteva far controllare l'accordo da un avvocato di sua fiducia.
Caroline aveva ascoltato in silenzio, immobile, il respiro quasi impercettibile. Una volta rimasta sola, si sedette di nuovo sul divano e rimase a fissare quei fogli in disordine sul tavolino – accanto all'edizione del mattino del Boston Globe, sul quale campeggiava la notizia che Saga era stato presentato ai vertici della corporation e nominato vice presidente – fin quasi all'ora di cena. Nonostante il modo in cui lui l'aveva lasciata, aveva continuato a sperare in una riconciliazione. Ora però sembrava tutto definitivamente finito.
Kitty aveva miagolato più volte in quelle ore, richiamandola per avere la pappa, ma lei l'aveva ignorata, ripiombata in uno stato di trance.
Fece un lungo sospiro e si passò le mani sul viso. Ormai di lacrime da versare non ne aveva più, ma non le servivano, ora riusciva a convivere con il peso dell'abbandono. Si riscosse sentendo la pelliccia setosa di Kitty strusciare sul suo braccio.
«Sì, piccola, ora ti preparo qualcosa.»
Prese di nuovo in mano i documenti per riporli, ma si perse nel rileggerli. Arrivata all'ultima pagina si accorse che Saga non li aveva firmati. Le stava forse chiedendo di essere lei per prima a siglare la fine del loro matrimonio?
No, questo non lo avrebbe mai fatto.
«Smettila di rimuginarci su», disse Aiolos, uscendo dalla doccia con l'asciugamano legato in vita e un altro sulla testa.
Da qualche tempo si era trasferito nella casa di colei che aveva sempre ritenuto la sua rivale, ovvero da quando gli era diventato insopportabile stare nella casa di famiglia – dove la madre lo assillava in continuazione intromettendosi nella sua vita sentimentale e Thomas faceva ogni sforzo per diventare suo amico –, né poteva stare alla villa degli Hayes, a contatto con Saga, benché la nonna gli aveva chiesto più volte di tornare. Certo, avrebbe potuto trovarsi un appartamento tutto suo, ma si era licenziato dal lavoro e non sapeva ancora cosa ne avrebbe fatto della sua vita. E poi, nelle sue condizioni, Caroline ora aveva bisogno di qualcuno che le stesse vicino e lui non aveva nulla di più urgente da fare.
«Viene, palletta di pelo, ci penso io a te», si rivolse alla gatta, che non ci pensò un attimo e lo seguì zampettando fino in cucina.
Il ragazzo tornò in salotto pochi minuti dopo, vestito, e le lanciò un flacone di vitamine, che lei doveva prendere tre volte al giorno, ma che spesso dimenticava di farlo.
Caroline sospirò un'ultima volta; poi, finalmente si decise ad alzarsi. Raccolse il quotidiano e i documenti e li appoggiò sul tavolo in cucina, dove vi erano stati raggruppati vecchi giornali e riviste che dovevano essere portati in cantina. Si legò alla vita il grembiule e iniziò a preparare la cena.


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Capitolo 38
*** Epilogo ***




Era il lontano 22 dicembre 2011 quando è iniziata l'avventura pubblica di Legacy. Dalla sua prima stesura sono cambiate diverse cose, compreso lo stile narrativo, che si è evoluto dapprima come volume, poi tecnicamente, andando a correggere le leggerezze e le ingenuità di un'autrice che all'epoca era solo una dilettante. Fra pause brevi e lunghe, accantonamenti per scrivere storie di diverso genere, siamo infine giunti a vederne l'epilogo.
Nel corso degli anni i lettori sono andati e venuti, qualcuno di molto importante non ha potuto continuare a seguire la storia a causa di gravi problemi di saluti, altri invece hanno tradito la mia fiducia spalleggiando persone disoneste, altri ancora si sono allontanati da questo passatempo perché la vita è fatta anche di cose più serie.
Se dovessi fare un bilancio di questi anni in cui Legacy ha riempito la mia mente in ogni istante, persino negli anni in cui sono rimasta lontana da questo sito, credo che le cose belle siano di più delle cose cattive, ma tutte hanno contribuito a rendermi l'autrice che sono oggi. Nonostante abbia pubblicato il mio primo romanzo (lo potete trovare qui) con una casa editrice, essere stata affiancata da un editor professionista e aver imparato molto da chi in questo campo lavora da anni, ancora non mi sento a mio agio a definirmi una scrittrice.
Non so se mi impegnerò a scrivere fanfiction nuove, di certo terminerò ciò che ho iniziato, perché bisogna avere rispetto per voi lettori che mi avete seguito in questi anni e state attendendo la loro conclusione.
Ora vi lascio alla lettura dell'epilogo, sperando vi piaccia.





Epilogo


Boston, 2015
«Ah, no! Ormai ho detto basta a traslochi e ristrutturazioni!» ridacchiò Caroline, evitando di ricordargli le difficili settimane in cui nelle loro chat lei si era sfogata raccontandogli di tutti i problemi che aveva dovuto affrontare per riconvertire in un loft l'ultimo piano del vecchio magazzino che aveva comprato.
L'imprenditore edile le aveva garantito che i lavori sarebbero durati al massimo sei settimane erano diventati quasi tre mesi, per colpa delle vecchie condutture dell'acqua che erano stati costretti a sostituire, dei vetri per i finestroni per i quali avevano sbagliato le misure e, alla fine, anche l'impianto di riscaldamento aveva dato forfait, gracchiando come un animale in agonia a pochi giorni dalla presunta consegna. Dulcis in fundo, c'era stato un troppo zelante ispettore comunale che aveva bloccato tutto perché alcuni permessi non erano arrivati in tempo. Ma ora, guardandosi attorno, poteva contemplare quella casa tutta sua, ampia, spaziosa, luminosa, elegante e al tempo stesso accogliente, dall'atmosfera rasserenante, familiare, e con una vista mozzafiato sul porto.
Aveva scelto di trasferirsi nel North End, nella Little Italy di Boston, per sentirsi più vicina alle sue origini e non aveva sbagliato: lì aveva trovato un ambiente stimolante e cordiale dove vivere, studiare e lavorare.
«Voi invece, quanti ne hai cambiati di appartamenti nell'ultimo anno?» si interessò. L'ultima volta che avevano parlato lui le aveva detto che c'era la possibilità di una cattedra in una scuola media a San Diego, ma si sarebbero dovuti spostare di nuovo.
«Solo due. Stiamo migliorando, non trovi?» disse Chris con una risata, dall'altra parte dello schermo. Spostò un poco la webcam per mostrarle gli ultimi scatoloni ancora da vuotare.
«Dipende dai punti di vita.»
«Almeno gli appartamenti erano già pronti e arredati. Se avessimo dovuto affrontare una ristrutturazione radicale come te, non so come ce la saremmo cavata.»
«Lo sai che tutto sommato mi trovo bene fra polvere e calcinacci. E poi, realizzare qualcosa quasi da zero e vederla prendere forma è magnifico.»
«Hai ragione. Ricordo quanto è stato bello sistemare il nostro appartamento a Philadelphia e quanto fossi felice in quel caos.»
«Smettila!» ridacchiò di nuovo lei. «Non si ingelosisce Nicole a sentirti parlare in questo modo?»
«Tranquilla, è a un pranzo di lavoro e queste cose di solito vanno per le lunghe, quindi possiamo parlare liberamente», disse lui, facendo l'occhiolino.
«Te lo concedo, questa volta è stata dura. Ormai sono passati tre anni, eppure ci sono giorni in cui mi sento ancora precaria.»
Mentre gli raccontava quei suoi intimi timori, Caroline lo vide distrarsi per un momento, allontanarsi dal computer parlottando con qualcuno e poi tornare davanti allo schermo portando in braccio un bimbetto di quasi tre anni e un piattino di plastica dei Minions con della pizza fredda tagliata in pezzetti triangolari.
«Scusami, oggi tocca a me farlo mangiare», si giustificò Chris.
«Scusami tu. Dimenticavo che da voi in California è circa l'una», disse lei, dando un'occhiata furtiva all'orologio dello schermo del suo computer che segnava invece quasi le quattro del pomeriggio. «Non dovresti abituarlo fin da piccolo a mangiare quelle cose; avrà tempo da grande per rovinarsi», lo rimproverò con un sorriso. Salutò il piccolo Nicky e rise divertita nel vederlo sporcarsi il mento con la farcitura della pizza. Era un bel bambino e assomigliava tutto al papà.
Approfittò di un momento in cui Chris puliva il visetto del figlioletto per dare una sbirciata al titolo in prima pagina del giornale: anche quel giorno la notizia principale sembrava essere Saga Hayes e la Corporation di famiglia. Piegò le labbra in un accenno di sorriso nel considerare come negli ultimi mesi si fossero moltiplicati gli articoli su di lui, sia che riguardassero il suo lavoro, sia che fossero più frivoli. Da quando aveva sostituito il padre nel ruolo di amministratore delegato, inanellava un successo dopo l'altro. Di riflessò però, ripensò anche ad altri tipi di successo che aveva ottenuto in quegli ultimi anni: gli articoli di gossip riportavano fin troppo spesso notizie del suo presunto fidanzamento ufficiale con un'ereditiera di New York: una biondina svampita, sempre in compagnia di un cagnetto odioso, che non perdeva occasione di appiccicarsi a lui in presenza dei fotografi.
Sospirò tristemente. Rimpiangeva il tempo che aveva vissuto con lui, quando il mondo neanche sapeva della sua esistenza e lui era una persona semplice e pura come un bambino. Lo aveva amato tanto, anche per quel suo aspetto. Ora invece le sembrava un'altra persona: elegante, sofisticato, sempre impegnato in qualche evento mondano, così a suo agio sotto i riflettori come se fosse in posa; eppure non aveva mai concesso un sorriso e aveva lo sguardo cupo. In nessuna fotografia apparsa sui quotidiani lo aveva mai visto sorridere. Aveva nostalgia di quei suoi sorrisi spontanei...
Nonostante tutta quella sovraesposizione mediatica però, non era trapelata alcuna informazione sulla sua vita privata; quella davvero privata. In quello Saga non era cambiato affatto.
«Caroline, ehi, tutto bene?» chiese Chris, nel notare un'ombra di tristezza trasparire dal viso dell'amica. Aveva provato più volte a richiamare la sua attenzione, ma senza successo. Sembrava persa in qualche sogno. «Caroline, sei ancora fra noi? Torna con i piedi per terra!»
«Come dici?»
Chris liberò una risata divertita alla seguente espressione stralunata sul suo viso. «Ti stavo chiedendo se sei sola in casa.»
«Per il momento, ma dovrebbe essere qui fra pochi minuti», rispose, dando piccoli colpetti all'angolo del giornale con il dito, per rimetterlo nella stessa posizione di prima, lasciandosi catturare ancora una volta dalla rete dei propri pensieri. Venne però riportata alla realtà pochi secondi dopo dal suono del citofono. «Lupus in fabula», esclamò, ma anche da Chris, quasi contemporaneamente, era arrivato qualcuno, perché lo sentì dire “bentornata, amore”.
«Devo chiudere, è tornata Nicole. Ci sentiamo fra un paio di giorni. Mi spiace non aver fatto in tempo a salutare il tuo “uomo”», disse Chris; ma prima di disattivare la webcam aggiunse un'ultima cosa. «Ah! E salutami anche quel simpaticone del tuo angelo custode!»
Caroline rise, promise di recapitare i saluti e prima di scollegarsi gli augurò una buona giornata. Si alzò, corse al citofono e aprire il portone; poi tornò in fretta in cucina, per spegnere sotto la moka che come ogni giorno aveva preparato per Aiolos. Poco più di un minuto dopo spalancò la porta d'ingresso, era pronta ad accogliere l'amico con la solita battutina, ma non era preparata alla sorpresa di ritrovarsi di fronte qualcuno di così inaspettato e il respiro le si fermò in gola.
Vestiva in giacca e cravatta blu scuro, con un vecchio borsalino calato in testa e gli occhiali da sole. Nonostante il bel tempo e le temperature gradevoli, la giornata era ventosa e incoraggiava a indossare anche l'impermeabile, ma lui lo teneva piegato al braccio.
Non ricordava di averlo mai visto con un cappello in testa, ma sempre con la sua bella capigliatura dorata libera al vento. Ora però i suoi capelli erano decisamente più corti di un tempo e gli conferivano un aspetto più serio e maturo. Il suo viso, sempre ben rasato e pulito, era pallido come non lo aveva mai visto, e un poco smagrito, che trasmetteva un senso di solitudine.
Stava per domandargli il motivo per il quale si trovasse lì, ma si trattenne. Abbozzò invece un sorriso e lo invitò a entrare, richiudendo poi piano la porta e nascondendo un respiro emozionato. Ogni giorno, per un lungo anno, aveva sperato nel suo ritorno e proprio ora che era finalmente andata avanti con la sua vita, lui era lì.
Saga si guardava attorno in silenzio, studiando quell'ambiente così spazioso e luminoso, mentre lei lo accompagnava fino all'isola in cucina, dove avrebbero potuto parlare in modo informale.
Si parlava meglio davanti a una tazza di caffé e magari anche una fetta di torta.
«Posso dedicarti solo pochi minuti, alle cinque ho un appuntamento di lavoro in centro e devo ancora preparare il materiale da presentare.»
«Lo so; è con una certa Emily Dawson», disse, togliendosi gli occhiali da sole con movimenti studiati e posando il cappello sul piano in marmo grigio chiaro. Rilassò i tratti del viso nel vederla sgranare gli occhi, ritrovando in lei i medesimi atteggiamenti di quando l'aveva conosciuta. «Immagino quanto tu sia sorpresa.»
«È vero, lo sono.»
Lui la scrutò per alcuni secondi, aggrottando la fronte nel rendersi conto di quanto in quei cinque anni fosse cambiata. Aveva abbandonato ogni traccia della ragazza, a tratti infantile, di cui si era innamorato quando lui era un'altra persona, e si era fatta una donna sicura di sé e della propria bellezza; vestiva casual ma con gusto, valorizzando ancora di più il suo aspetto acqua e sapone. Ma ciò che stonava era l'eccessiva magrezza. Se ne rese conto quando lei gli mise davanti la tazzina, versando poi il caffè direttamente dalla moka. E ancora, quando gli servì una fetta di torta, prendendola dall'alzatina in cristallo e posandola su un piattino bianco dalla forma quadrata, chiedendogli se fosse ancora la sua preferita. Rimase a fissarla qualche secondo, prima di rispondere che non mangiava più dolci.
Il polso di Caroline era diventato così sottile che i braccialetti d'oro che indossava davano l'impressione di potersi sfilare dalla mano ad ogni movimento.
Si chiese cosa l'avesse ridotta in quello stato, se fosse stato a causa sua e di come si erano lasciati – senza più una parola – o se invece fosse la conseguenza di qualche malattia. Vedeva che lei si stava sforzando di essere serena di fronte a lui, eppure sembrava raggiante. Lui stesso non era sereno, nonostante l'avesse voluto fortemente quell'incontro. Aveva persino cancellato gli impegni del pomeriggio e si era messo d'accordo con la interior designer affinché programmasse un nuovo appuntamento con Caroline.
Voleva afferrarle la mano, trattenerla nella sua, sentire il calore della sua pelle.
Abbassò lo sguardo sulla tazzina di caffé.
Caroline lo osservò con un sorriso. Dentro di sé sentiva riaffacciarsi la stessa felicità e l'emozione di un tempo, nel ritrovare quella dolce tendenza di Saga a sorprenderla. In fondo al cuore però, era presente il germe del dubbio che in qualche modo lui non avesse mai smesso di avere un ruolo nascosto nella sua esistenza. Ancora una volta il suo principe azzurro, benché rimasto lontano per anni, le stava semplificando la vita con un semplice schiocco di dita?
Quando Emily Dawson, una fra le più importanti interior designer degli Stati Uniti l'aveva contatta per la prima volta, lei che era ancora solo una studentessa e stagista presso un mobilificio appena fuori Boston, era stata un'emozione indescrivibile. Non solo le aveva fatto i complimenti per il suo lavoro, ma le aveva persino proposto di produrre il suo pezzo migliore. Era una grande opportunità di lavoro e il fiore all'occhiello del suo curriculum di futura designer d'arredamento. Il coronamento di tre anni intensivi di studi, lavoro non pagato, tanti fallimenti e notti insonni; ma si era anche domandata perché tanta fortuna in una volta sola.
Aprì la bocca per chiedergli che ruolo avesse avuto in tutto ciò e dare concretezza ai propri sospetti, ma ci ripensò. Cosa avrebbe cambiato saperlo adesso?
Fra di loro c'era un silenzio ingombrante, alimentato da più di quattro anni di lontananza, di segreti e di problemi lasciati in sospeso. Eppure, era certa che sarebbero bastate poche parole per colmare la distanza fra loro.
Nei mesi seguenti a quel loro addio, lei si era presentata quasi ogni giorno ai cancelli della villa a Winchester, ma non era mai riuscita a trovare il coraggio di farsi vedere. Poi, aveva iniziato a diradare quelle visite nascoste, fino a non presentarsi più. Se solo a quel tempo avesse avuto ancora la forza di lottare per la sua felicità, forse...
Sospirò, scrollando debolmente la testa, mentre Saga indugiava con lo sguardo sul caffè. Dal frigorifero prese un bricco di caffé d'orzo e si riempì la sua mug.
«Ti starai chiedendo come faccio a conoscerla. È l'arredatrice che ha assunto Jennifer per rinnovare gli uffici di Boston», le spiegò, risparmiandole il racconto della giovane ereditiera che aveva fatto il diavolo a quattro pur di assicurarsi i servizi della guru degli interior design, arrivando anche a pestare i piedi per terra come una bambina. «L'ultimo acquisto di Emily Dawson è stato un tavolino componibile in cristallo bianco e fumè, creato da una giovane e talentuosa designer.»
Dalla tasca dell'impermeabile tirò fuori una rivista di arredamento, sulla quale c'era un articolo di tre pagine che parlava di Caroline e del progetto che aveva presentato l'anno prima al concorso nazionale e che le aveva permesso di vincere il primo premio, nonché l'invito alla mostra del mobile di New York.
Caroline mascherò il rossore sul viso sorseggiando il suo caffè d'orzo.
«Quando ho saputo di questa tua nuova vita ne sono rimasto sorpreso, ma forse avrei dovuto aspettarmelo. L'avevo capito fin dal primo momento che in questo campo te la saresti cavata egregiamente.»
«È vero. Studiare da interior designer era da sempre il mio sogno nel cassetto. Forse, se la mia vita non avesse avuto una brusca deviazione, con la morte di mio padre, vi sarei approdata prima. Ma anche tu non te la sei cavata male in questi anni», replicò Caroline. «Negli ultimi mesi, sui giornali non si fa altro che parlare di te e dei tuoi successi.»
Lei gli offrì dell'altro caffè, nonostante non ne avesse bevuto ancora un sorso.
«Come stanno tuo padre e mrs Foster?»
Lui sospirò. Non voleva ammettere che non aveva idea di come stessero e preferì mentire. «Stanno bene.»
«E tuo fratello?»
«Kanon è in giro per il mondo. Ha accettato il fidanzamento con Saori e sono partiti dopo la fine del college.»
«Capisco. Immagino allora che la tua fidanzata allievi un poco la solitudine della tua famiglia per la lontananza di Kanon. Sono certa che si stia trovando bene alla villa. Era così bello il lago in estate; il posto perfetto per far crescere dei bambini. State già facendo dei progetti per il futuro?»
Saga sembrò rimanere indifferente alle sue parole, ma il suo sguardo divenne più cupo, quasi rabbioso.
«Non dovresti credere a tutto quello che scrivono sui giornali. Anche se le piace crederlo, Jennifer Perkins e io non siamo fidanzati. Non siamo niente.»
Caroline non replicò nulla, limitandosi a un sospiro silenzioso, sempre appoggiata al bordo del lavello della cucina.
Saga alzò lo sguardo su di lei: quella sua magrezza lo infastidiva.
«Tu invece», chiese con voce stranamente incerta. «C'è qualcuno nella tua vita?»
Lei annuì con un sorriso.
«Ne sei innamorata?»
«È tutta la mia vita.»
Saga sentì un'improvvisa fitta al cuore. «Capisco»
La vide prendere un altro sorso di caffè d'orzo e solo in quel momento riconobbe la mug che stava usando.
«Quella è...»
Si sorprese nel riconoscere quella particolare mug, ovvero quella che le aveva regalato quando lei era andata a vivere nell'appartamento sopra il negozio. Gli faceva un certo effetto vedere che l'avesse tenuta; gli riportava alla mente com'era stata la sua vita assieme a lei.
«Sì. È una delle poche cose che mi sono portata dietro dalla vecchia casa, quando sono venuta ad abitare qui.»
«Allora... l'hai venduta?»
Lei scrollò piano la testa. Vedeva in lui il dubbio e il bisogno di sapere. «Ho vissuto lì per un anno circa, poi ho trovato questo posto. Ma la casa che tu hai ristrutturato per me, per noi, è ancora mia.»
Rimase sbalordito nell'udire quelle parole e dentro di sé avvertì uno strano sollievo. Poi però, si formò nella sua mente l'immagine di lei e di un altro uomo che abitavano quell'elegante loft e provò rabbia, come se qualcuno gli avesse preso qualcosa che gli apparteneva, benché non avesse alcun diritto su di lei. Si morse il labbro e respirò piano, per mantenere il controllo.
Caroline prese un altro sorso dalla mug e lui notò la fede al dito. All'improvviso avvertì la voglia di qualcosa di molto forte.
Controllò l'ora, si erano fatte quasi le cinque del pomeriggio: l'ora in cui abitualmente si concedeva un drink per spezzare la giornata lavorativa.
«Hai del whisky?»
La giovane rimase sorpresa da quella richiesta, ma non era impreparata. «Non sapevo che ora ti piacesse bere», disse, mentre apriva l'armadietto sopra il frigorifero. Prese una bottiglia di brandy – che tirava fuori solo quando Aiolos era giù di corda e aveva bisogno di sfogarsi – e attese un suo cenno, prima di versargliene due dita nel caffè.
Gli occhi di Saga erano calamitati su quell'anello.
«Dunque, c'è un “signor” Miller nella tua vita» disse, con la tensione che cresceva dentro di lui. Quando la vide annuire di nuovo, sospirò un “capisco” rassegnato. «È per questo che hai preferito trasferirti...»
Diede uno sguardo alla casa, prestandovi maggiore attenzione. Al centro di quell'unico grande ambiente spiccava un modernissimo caminetto a gas a forma di goccia, di un nero satinato, il cui interno era riempito di pietre lisce e tonde, fra le quali danzavano sottili fiamme azzurrognole; il salotto si componeva tutt'attorno con un gigantesco divano componibile color bianco latte, dalla forma morbida a mezzaluna. I mobili erano perlopiù a sospensione, fissati alle pareti di mattoni rossi a vista e quasi scomparivano.
Tutto l'arredamento era caratterizzato da linee pulite ed essenziali, e dai toni naturali, con pochi soprammobili per non appesantirne l'estetica.
Ma era la parete alla sua destra che attirava la sua curiosità. Di due metri più profonda rispetto al resto del muro, sembrava completamente composto da vetrate, che arrivavano fino al soffitto a doppia altezza, come a formare una specie di serra o veranda. E, proprio come una serra, era pieno di piante: alcune ornamentali, altre aromatiche e persino alberi da frutto. Il parquet in quella parte era più chiaro e c'erano qua e là delle specie di aiuole sassose, incorniciate da altri listelli di parquet a formare dei quadrati.
Gli parve di udire il debole scrosciare dell'acqua, come di una fontanella o di un muro d'acqua. In un angolo, accanto a un limone carico di frutti, c'era lo stesso tavolino del concorso – forse un prototipo – ma realizzato in legno di bambù e corredato da quattro pouf sagomati e rivestiti di stoffe color pastello.
Poco più in là c'era un tavolo da disegno in grande disordine e con un progetto ancora sul piano rialzato. Era un angolo perfetto per lavorare prendendo spunto dalla natura e al tempo stesso rilassarsi.
«È una bella casa», dovette ammettere lui.
«Ti ringrazio.»
Caroline si diresse verso il suo giardino interno e accarezzò le foglie di un ciliegio nano orientale, fermandosi proprio nella traiettoria di un raggio di sole. Stava osservando il panorama.
Sorrise, immaginando che quello scorcio di mare fosse il lago Mystic e lei immersa nel verde dell'immenso giardino di villa Hayes. Il rumore dell'acqua era rilassante.
Agli occhi di Saga lei sembrava una persona che aveva trovato la propria strada, indipendente, soddisfatta della sua vita, realizzata; che ora guardava al futuro e non al passato.
Così non poteva dire di se stesso.
Durante la sua convalescenza aveva scoperto dentro di sé una grande rabbia repressa che una volta risvegliata aveva faticato a controllare; ogni cosa che lo contrariava risvegliava il desiderio di vendetta. Persino con i Taylor, con i quali aveva creduto di aver messo le cose in chiaro con quell'unico incontro di persona, gliel'aveva fatta pagare. Aveva atteso che il professore spirasse e poi li aveva rovinati, uno alla volta, senza pietà. Ci aveva messo tre anni, un tempo che gli era parso adeguato, e alla fine si era preso le sue soddisfazioni.
Ritrovare il suo equilibrio interiore era stata una lotta più ardua; l'ira, la rabbia, erano emozioni forti che non sapeva come gestire. Il riappropriarsi della sua vita, il dedicarla solamente al lavoro, lo aveva aiutato, ma gli aveva lasciato un vuoto dentro che difficilmente avrebbe colmato. Era convinto che allontanare Caroline da sé l'avrebbe tenuta al sicuro. Seguirne poi a distanza i successi era stato un modo per illudersi di stare ancora con lei. E quando aveva avuto la possibilità di incontrarla, e si era presentato alla sua porta, aveva sperato in un nuovo inizio, ma la realtà che stava trovando, gli avrebbe chiuso ogni possibilità. Non le aveva raccontato che da più di due anni viveva in un mega appartamento sopra gli uffici dirigenziali della corporation, da solo, per non dover ammettere che la sua vita era un fallimento. I soldi e il successo nel lavoro non potevano compensare un una casa vuota e un letto freddo.
Bevve il suo caffè corretto in un unico sorso e allontanò la tazzina. Si alzò e prese l'impermeabile e il cappello, con i tratti del viso che sentiva mutare in una maschera d'ira. Doveva andarsene da lì; eppure si soffermò ancora un momento a guardarla, mentre si avvicinava alla vetrata, dandogli sempre le spalle.
La scoperta del vero se stesso e delle sue origini aveva fatto sì che gli scappasse via la cosa più bella che gli era mai capitata, con tutte le sue incongruenze e i difetti che si portava dietro; e quella vita semplice che gli piaceva. Ora era troppo tardi.
«È meglio che vada.»
Caroline aveva lo sguardo fisso sulla strada; mormorò un “stanno arrivando” e si girò con un gran sorriso disegnato sulle labbra verso la porta. Vi andò di corsa passando davanti a Saga come se neanche fosse presente, lasciandolo senza parole e con una immensa tristezza e un senso di mortificazione nel cuore. Spalancò la porta, come se attendesse qualcuno di importante e, quando l'uomo le si affiancò per uscire di scena, lei gli chiese di restare ancora un po'; e lo fece con un tono e una convinzione tali che Saga non poté che acconsentire.

Rimasero sulla soglia di casa per due, forse tre minuti, ma a Saga parve che il tempo si fermasse, accanto a lei. Voleva fare chiarezza sui propri sentimenti, invece era più confuso di prima. Si sentiva a disagio, in imbarazzo, insicuro, vicino a lei. Deviò lo sguardo attorno a sé e, sul piano del mobile accano alla porta d'ingresso, notò alcune lettere ancora chiuse indirizzate al vecchio domicilio di Caroline. Riconobbe la calligrafia di Shura. Ne prese in mano una: non c'era alcun timbro postale, indice che l'aveva recapitata di persona. Si chiese quale interesse avresse mai potuto avere Shura nei confronti di Caroline. Rinunciò a trovare un motivo e rimise la lettera assieme alle altre, ma ricordò che poco prima lei aveva chiesto notizie di tutti tranne che di Shura.
Poi, spostò la sua attenzione al pacchetto che lui stesso le aveva spedito la settimana prima del Natale del 2010. Anche quello non era stato aperto. Se ne dispiacque, perché conteneva il quadernetto di suo padre, Gregory Miller, che lei credeva perduto. Forse, leggendolo, avrebbe scoperto ciò che li legava a un destino comune ancor prima della sua nascita.
«Non ha mai scoperto la verità», mormorò.
Il montacarichi arrivò al piano e si fermò con un fastidioso cigolio e un sobbalzo finale, ridestandolo dai suoi pensieri.
Si sentì un urletto divertito e la voce di Aiolos che rimproverava qualcuno. Poi, il cancello di sicurezza venne alzato e un bimbetto di quasi quattro anni, coi riccioli biondo scuro e lo sguardo vispo, schizzò fuori di corsa, verso Caroline che lo attendeva e lo incoraggiava a raggiungerla. Di slancio lo prese in braccio.
«Ehi, birbantello! Come mai così in ritardo? Mi avete fatto preoccupare, dove siete stati finora?»
«Lo zio Aiolos ha litigato con il suo nuovo fidanzato», disse il bimbo. «Era tanto giù e per consolarlo gli ho offerto un gelato.»
«E come mai hai la faccia sporca di cioccolato?» chiese lei, con tono di finta disapprovazione, passandogli il pollice sull'angolo della bocca.
«Non potevo lasciarlo mangiare da solo», si giustificò lui, con un'espressione seria seria.
«E io che ti avevo preparato la Boston cream pie al limone.»
Nel sentir nominare la sua torta preferita gli occhi verdi del bambino si illuminaro  e la sua boccuccia si spalancò in un'espressione di sorpresa, pronto a protestare nel caso gliela volesse negare.
Caroline gli chiuse la bocca con le dita a mo' di paperotto e gli diede un bacio sul nasino. «Ora fai il bravo, entra e vai a lavarti le mani e la faccia.» Lo fece scendere e lo guardò correre dentro casa con la commozione negli occhi, come ogni volta che lo vedeva ritornare dall'asilo. Era il suo miracolo. Poi, alzò lo sguardo verso Saga e non poté non sorridere alla sorpresa dipinta sul suo volto. Immaginava cosa stesse pensando.
Aiolos sopraggiunse in quel momento, misurando i passi sgranocchiando la punta del cono; in spalla portava lo zainetto del bambino. Quando arrivò di fronte alla giovane, intravide Saga che se ne stava immobile poco dietro di lei e lo fissava con durezza. Ricambiò con altrettanto sentimento, ma il suo cuore – più sincero – prese a battere veloce.
«E così avete discusso ancora, eh?» disse Caroline, distraendolo e salvandolo da quella sfida di sguardi.
Aiolos alzò le spalle senza risponderle. Ammettere apertamente che non riusciva a far funzionare una relazione per più di un mese era umiliante. Le passò lo zainetto e fece per andarsene, ma Caroline lo trattenne con un sorriso, dicendogli che la vita era troppo breve e preziosa per sprecarla a tenere il muso con gli altri. Poi, lo incoraggiò a entrare in casa riferendogli che erano arrivati dei contratti e delle fatture che doveva controllare. Dovette vincere le sue ritrosie per convincerlo e sospirò divertita nel sentirlo mugugnare che si divertiva troppo a sfruttarlo.
Due anni prima, Aiolos aveva passato a pieni voti l'esame di abilitazione, diventando a tutti gli effetti un avvocato iscritto all'albo del Massachusetts e di fatto l'avvocato di famiglia di Caroline.
Il giovane osservò di sottecchi Saga, nel passargli davanti. Quei due non si parlavano da anni, ma l'imbarazzo che provava Aiolos era palpabile. Raggiunse in silenzio il divano e ci si lasciò cadere, accavallando le gambe e incrociando le braccia al petto come un bambino messo in castigo.
Il bimbo tornò di corsa verso la porta d'ingresso, chiamando “Mamma! Mamma!” e si aggrappò alle gambe di Caroline, mostrandole le mani e faccia pulite. Lei gli passò una mano fra i riccioli biondi scompigliati e si complimentò per essere stato tanto bravo; poi lo invitò ad andare a giocare, ma lui scrollò la testa e si girò verso lo sconosciuto: dalla sua prospettiva era così alto che doveva piegare la testa all'indietro per guardarlo in faccia.
Diede un paio di strattoni ai pantaloni della madre e questa si accovacciò. «Chi è?» chiese in un bisbiglio.
Caroline trattenne a stento una risatina. Alzò lo sguardo verso Saga e sorrise, nel vederlo immobile e con gli occhi nervosi, che si muovevano frenetici passando da lei al bambino.
«Questo signore è il tuo papà», bisbigliò lei in risposta. Quelle parole però erano state udite anche da Saga.
«Papà...» ripeté. Fece un passo indietro, trattenendo il respiro. I suoi occhi erano pieni di incredulità. «Un figlio... mio figlio... Perché non me lo hai detto?»
Non aveva bisogno di dubitare dell'affermazione di Caroline; la somiglianza con il bambino era sconcertante.
Un tempo, la giovane avrebbe abbassato lo sguardo colmo di lacrime, schiacciata dal senso di colpa, ma ora era diverso, lei era una persona diversa. «Tu mi hai mandata via, Saga. Mi hai scacciata dalla tua vita senza una spiegazione, senza una possibilità, senza niente. Avresti cambiato la tua decisione se ti avessi detto che aspettavo un bambino?»
«Ti ho lasciato la casa. Ti ho dato abbastanza per vivere una vita agiata, senza bisogno di lavorare.»
«Non ho mai preso un solo centesimo di quello che avevi predisposto per me. Non ne avevo bisogno. Era di te che avevo bisogno», disse.
Nella sua voce, mentre pronunciava quelle parole così risolute, non c'era ombra di rimprovero o astio. Invece, le sue labbra erano piegate in un sorriso delicato e i suoi occhi erano colmi di serenità e amore.
Fece un respiro profondo e si raddrizzò un poco, posando la mano sulla schiena del figlio.
«Lui è Anthony Saga Miller. Il mio signor Miller.»
«Anthony», mormorò Saga, incredulo. «Perché proprio questo nome?»
Caroline gli tese la mano, ma lui si scansò, fissandola con occhi sgranati. Ritrovò la stessa espressione spaventata che vide in lui al loro primo incontro e, proprio come allora, il suo cuore palpitò di rinnovata emozione.
«Perché era il nome di tuo padre. Il tuo vero padre.» Lo vide ancora più sconvolto, mentre in lei non c'era alcun segno di incertezza, né di risentimento, per quel passato comune che univa le loro famiglie. «Aiolos mi ha raccontato tutto quanto. Sai, quando si ubriaca si lascia andare alle confidenze; anche a quelle piuttosto intime, come confessare di amare qualcuno pur sapendo di non essere ricambiato», disse, accarezzando ancora una volta la testa bionda del figlio, che si nascondeva dietro di lei.
Saga corrugò la fronte, sentendo un'ondata di gelosia tentare di prendere il sopravvento. «Perché è rimasto con te?»
«Perché amare qualcuno, qualche volta vuol dire prendersi cura di chi lui ama.»
Lei gli tese di nuovo la mano.
«Non deve andare come l'ultima volta, Saga. Vieni. Vieni a conoscere tuo figlio e a farti conoscere da lui.»



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