Legacy di titania76 (/viewuser.php?uid=106066)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXIX ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXX ***
Capitolo 32: *** Capitolo XXXI ***
Capitolo 33: *** Capitolo XXXII ***
Capitolo 34: *** Capitolo XXXIII ***
Capitolo 35: *** Capitolo XXXIV ***
Capitolo 36: *** Capitolo XXXV ***
Capitolo 37: *** Capitolo XXXVI ***
Capitolo 38: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Questa
storia è totalmente dedicata a Manichan, che da diverso
tempo
non era più in grado di leggerla, né di darmi i
suoi preziosi
consigli e opinioni, o anche solo allietarmi con le sue battute, nel
corso della stesura degli ultimi capitoli.
Purtroppo,
non ha potuto vedere la conclusione di questa lunga storia.
*****
Autunno
1983
Una fastidiosa foschia stava scendendo, veloce e silenziosa, a formare
il solito velo di triste grigiore che la faceva da padrone in
quell'autunno. Sembrava un'entità superiore che si divertiva
ad
avviluppare ogni cosa con il suo sottile e impalpabile manto,
rendendosi a tratti più densa e a tratti più
lieve e
mistica. Cortine biancastre rendevano ancora più lugubre
quel
luogo tanto inconsueto per un appuntamento.
Il deposito dei treni non era nulla di più che un tratto di
stazione in disuso e isolato dal resto, con tronconi di binari
arrugginiti sui quali erano state dimenticate locomotive obsolete e
vagoni inutilizzabili. In breve tempo, quel luogo era divenuto il
territori di gang locali per lo spaccio e qualche resa dei conti.
Non erano ancora le quattro del pomeriggio e quella giornata stava
già virando verso la notte, pesate e dall'atmosfera
mortifera,
con tutto quel biancore che aleggiava immobile. Fra le sue pieghe, un
lontano eco di passi si stava facendo strada. Come colonna sonora,
cigolii metallici creati da sporadiche folate di vento, e il gracchiare
di un corvo, appollaiato su un vecchio traliccio ormai privo dei cavi
dell'alta tensione.
Quei passi, dapprima calmi, diventarono via via più
affrettati e
agitati. Un respiro affannoso, teso, poi ancora solo passi di una
figura misteriosa che si stringeva in un lungo cappotto grigio di lana.
Il suo viso era avvolto da una sciarpa di cashmere scura e in testa un
borsalino a celarne quasi del tutto le fattezze. I suoi occhi erano
febbrili e acuti, scrutavano tutt'attorno a lui. L'andatura era svelta,
ma resa incerta e irregolare dal pietrisco della massicciata che
scricchiolava e faceva affondare un poco i suoi piedi a ogni passo,
rendendo il tutto più faticoso.
L'uomo si guardò attorno con circospezione, girandosi spesso
a
osservare dietro di sé; il cuore gli batteva forte per la
tensione. Rimuginava in continuazione sul perché avesse
accetto
di essere lì quel giorno.
Il prolungato fischio di un treno in lontananza, che in quel momento
entrava in stazione, lo fece sobbalzare.
«Maledizione!» si lasciò sfuggire fra i
denti in un sibilo roco, ancora con il cuore in gola.
Istintivamente si mise una mano nella tasca, afferrando e stringendo un
oggetto dalla superficie fredda e metallica che gli diede un momentaneo
senso di sicurezza. Si concesse un minuto, poi rilassò i
muscoli
delle spalle e riprese il suo percorso attraverso la nebbia, fermandosi
infine nei pressi di un palo, sottile e basso, innestato nel cemento
del marciapiede, sul quale era fissata una scatola metallica, di quelle
per le chiamate di emergenza.
Si abbassò la sciarpa dal viso e scrutò i
paraggi,
strizzando gli occhi per cercare di vedere un poco attraverso la nebbia
che nel frattempo si era inspessita. Dalla tasca interna estrasse il
portasigarette in argento. Prese una sigaretta e se la mise subito in
bocca. Le sue labbra tremavano ed erano livide dal freddo pungente,
nonostante la sciarpa. Dalla tasca destra del cappotto
recuperò
l'accendino, anch'esso in argento. Provò due, o tre volte,
prima
di riuscire ad accenderla. Fece un tiro, poi un altro e un altro
ancora, fino a terminarla; senza riuscire a godere dell'effetto
calmante della nicotina. Anzi, lo rese ancora più nervoso.
«Che diavolo ci faccio ancora qui?» si chiese,
fumando
un'altra sigaretta, con la pressante idea nella testa di girare i
tacchi e tornarsene da dove era venuto.
Buttò a terra il mozzicone accanto all'altro già
schiacciato. Il tempo sembrava non passare mai.
Le istruzioni che aveva ricevuto nel suo ufficio di New York erano
state chiare: una volta arrivato al deposito dei treni avrebbe dovuto
raggiungere a piedi quel punto specifico e attendere. Ma per quanto
tempo?
Fumò nervosamente altre due sigarette, nell'attesa che
qualcuno
si facesse vivo. I suoi occhi non si fermavano mai, scrutando ogni
ombra, scattando a ogni rumore.
Rabbrividì, nonostante il pesante e caldo cappotto che
indossava. Quel freddo incipiente della sera iniziava a insinuarglisi
fin dentro le ossa; ma, ancor più del freddo, a infastidirlo
era
l'irritazione che gli attanagliava lo stomaco per quella lunga attesa.
Sussultò nel sentire alle sue spalle lo squillo del telefono
di
servizio. Fissò lo sguardo sulla scatola metallica.
Lasciò suonare diverse volte prima di decidersi ad aprire lo
sportellino ammaccato e arrugginito e afferrare la cornetta.
Titubò ancora qualche istante. Poi, se l'appoggiò
all'orecchio.
«Benarrivato. Hai avuto difficoltà a trovare il
posto?» chiese una voce all'altro capo della linea.
«Perché mi hai fatto venire in questo postaccio?
Perché proprio a Springfield?»
«Perché è a metà strada.
È un terreno
neutrale dove le loro mani non possono arrivare», rispose con
tono pacato la voce misteriosa.
«Non mi piace perdere il mio tempo in questo modo! Dove sei,
perché non ti sei presentato?» disse l'uomo in
grigio,
irritato. Si guardò attorno ancora una volta, ma non vide
nessuno.
«Non te la prendere in questo modo, fa male alla
salute»,
lo canzonò la voce. Fece una pausa. Attraverso il microfono
del
telefono si sentirono alcuni colpi di tosse e un rantolo. «Ti
ho
lasciato qualcosa nel gabbiotto di controllo, qualche metro
più
avanti. Spero apprezzerai il regalo.»
«Non voglio niente da te!» esclamò
l’uomo, pronto a concludere la conversazione.
«Mi fido di te.»
A quelle semplici parole, la rabbia dell'uomo in grigio
tentennò. Era stato un colpo a tradimento. Provò
a
replicare, ma sentì un click
dall'altra parte della linea: la comunicazione era stata interrotta.
«Pronto? Pronto?» gridò, senza ricevere
risposta.
Scagliò via la cornetta del telefono con uno scatto
rabbioso,
soffocando un'imprecazione; e rimase a fissarla penzolare dal filo, a
pochi centimetri da terra. Fece un respiro profondo, per recuperare la
calma. Gli era stato detto di guardare nel gabbiotto. La struttura era
a pochi metri da lui: fatta di ferro, legno e vetro. Vi
entrò a
passo svelto, ma a una prima occhiata non vi era nulla di strano. Poi,
abbassando lo sguardo, vide uno scatolone ficcato sotto la consolle di
controllo. Era grosso, quasi interamente occupato da una pesante
coperta di lana. Lo fissò a lungo prima di accovacciarsi e
tirarlo fuori.
«Il regalo...» mormorò sarcastico.
Era tutto il giorno che aveva una brutta sensazione. Non avrebbe dovuto
farsi immischiare in quella faccenda, ma rimanersene a New York, a
farsi gli affari suoi. Nessuno lo obbligava a continuare quella farsa.
Sarebbe stato semplice lavarsene le mani, fare finta di nulla,
perché se avesse alzato quella coperta era sicuro che la sua
vita sarebbe cambiata radicalmente.
Indugiò per qualche secondo: senza rendersene conto si
ritrovò ipnotizzato dal desiderio di scoprire cosa ci fosse
dentro. Quando alla fine si decise, sgranò gli occhi.
Uscì all'aria gelida e umida: il suo viso era tirato. La
nebbia si era fatta più scura e fitta.
Fece qualche passo, sperava che prima o poi l'altro trovasse il
coraggio di mostrarsi, ma in cuor suo non ci credeva.
Continuò a
camminare avanti e indietro per diversi minuti, a capo chino, fumando
una sigaretta dopo l'altra. Raramente si era trovato nella posizione di
non sapere cosa fare e quella sembrava proprio una di quelle. Si
guardò indietro, verso il gabbiotto. Vi rientrò
dopo aver
buttato a terra l'ultimo mozzicone. Afferrò la cornetta del
telefono della consolle e, dopo aver preso la linea esterna, fece una
breve telefonata, dal tono decisamente perentorio.
«Metti in auto quello che c'è dentro e poi
andiamocene da
qui», ordinò al suo autista, arrivato una manciata
di
minuti dopo la telefonata. Schiacciò l'ennesima sigaretta
con la
punta della scarpa. «Sul sedile posteriore. E usa molta
cautela», specificò, bloccandolo per un braccio.
Il vecchio annuì. Si tolse il cappello, adagiandolo sul
sedile davanti ed eseguì senza fare domande.
«Se posso permettermi, signore», esordì
il vecchio,
con voce pacata e paterna, una volta ripartiti. «Che
cosa...» provò a domandare, subito però
frenò la lingua, notando dallo specchietto retrovisore lo
sguardo accigliato del suo giovane padrone che fissava la strada dal
finestrino.
«È il ricordo di un'amante senza coraggio.
È questo
che diremo, una volta tornati a casa, se ci chiederanno
qualcosa», rispose Shion Hayes, togliendosi il cappello e
allentando la sciarpa.
«Strano modo di farglielo avere, se posso
permettermi»,
osservò l'autista. La conversazione non ebbe più
seguito.
Sempre dallo specchietto, osservò come l'altro si stesse
ormai
estraniando.
******
Profondi e cupi occhi verdi, velati di immensa tristezza, erano rimasti
a osservare lo svolgersi del destino. Era stata una visione difficile
da sostenere per lui, attraverso la nebbia irregolare che si divertiva
a creare ora una barriera impenetrabile, ora un velo leggero. Il suo
cuore era pesante. Rimase lì, nel suo nascondiglio, non
troppo
vicino, ma neanche troppo lontano dal punto dell'appuntamento,
finché non fu tutto tranquillo. Diede ancora qualche
violento
colpo di tosse, sputando sangue ai suoi piedi, ansimando e
appoggiandosi con la fronte alla parete del vagone merci, stringendo
nella mano il cellulare.
Sorrise amaro quando vide l'auto allontanarsi; fece un sospiro stanco e
rassegnato, ma anche liberatorio: gli era costato molto, ma sapeva di
aver preso la decisione giusta. Si tolse gli occhiali e, molto
delicatamente, pulì le lenti tonde, racchiuse da una sottile
e
sobria montatura d'oro.
Fece un altro respiro profondo, per ritrovare la determinazione che
aveva dovuto imparare a tirare fuori in quegli ultimi mesi. Distrusse
il cellulare e scese dal vagone, stringendosi nel cappotto e alzando il
bavero. Il vento gelido lo colse di sorpresa. Si girò per
un'ultima volta nella direzione presa dall'auto, mormorando fra
sé e sé poche parole incomprensibili, forse in
una lingua
straniera. Poi, si incamminò nella direzione opposta.
Note
del capitolo:
Ebbene sì, c'è una piccolissima nota. La
perplessità che potrebbe sorgere alla fine della lettura di
questo prologo è: Come è possibile che ci possano
essere
i telefoni cellulari nel 1983? Non so voi, ma a me questa
perplessità è venuta alla fine della stesura di
questo
prologo. Ebbene, sono andata a controllare e guarda la fortuna, proprio
nel 1983 la Motorola ha prodotto il suo primo modello di telefono
cellulare, anche se non era per così dire molto discreto
nelle
sue dimensioni, se lo paragoniamo a quelli di oggi.
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
I
Ci vollero più di due ore e mezzo da Springfield, luogo
dell'appuntamento, sul confine col Connecticut, a Winchester, piccolo
centro abitato alle porte di Boston, nel Massachusetts. Il viaggio si
rivelò decisamente più lungo del previsto e
scomodo,
troppo scomodo. La nebbia era stata una compagna costante che non li
aveva abbandonati sin da quando avevano lasciato il deposito dei treni.
Li aveva seguiti, circondati, nascosti alla vista di occhi indiscreti,
per proteggerli e farli arrivare a destinazione nella sicurezza
dell'anonimato. Ma era stata anche una compagna inquietante, che
portava con sé ombre e inganni.
Per buona parte del tragitto, il vecchio Fernando Morales, il fedele
autista della famiglia Hayes, aveva rivolto discretamente lo sguardo a
osservare il suo giovane padrone. Lo aveva visto sempre più
teso
e nervoso a ogni telefonata che faceva. Fin quando non aveva appoggiato
la testa al finestrino, chiudendo gli occhi e cedendo a un leggero
sonno. Il vecchio sorrise nostalgico al ricordo di quel ragazzino
sempre all'inseguimento dell'approvazione del padre che era dovuto
crescere in fretta e caricarsi sulle spalle responsabilità
troppo grandi per un animo sensibile qual era stato. Scosse la testa,
rivolgendo poi l'attenzione al carico che stavano portando. Si
grattò la fronte, mormorando che una volta arrivati a casa
sarebbe toccato a lui dare parecchie spiegazione.
Erano passate le sette di sera quando l'auto lasciò la
statale
per immettersi sulla strada privata che attraversava l'immensa
proprietà della famiglia Hayes. Rallentò, una
volta
imboccato il viale ghiaioso e si arrestò di fronte
all'ingresso
della villa.
Villa Hayes era una vecchia costruzione di tre piani in stile Liberty,
risalente agli anni '30, appena fuori Winchester e si affacciava
direttamente sulle sponde del lago Mystic.
Shion Hayes aprì gli occhi non appena sentì il
crepitio
della ghiaia sotto le ruote dell'auto. Il suo viso era tirato per il
sonno scomodo e la giornata così stancante per lui. Si
sentiva
indolenzito. Col dorso della mano nascose uno sbadiglio; poi,
scostò per un momento la coperta che celava il contenuto
dello
scatolone, assicurandosi che tutto fosse in ordine. In quel momento
sentì dentro di sé una moltitudine di sensazioni
che non
riusciva a comprendere.
Aprì la portiera senza attendere che lo facesse l'autista
per
lui e scese. Non badò ai grossi fiocchi di neve che avevano
preso a cadere da qualche minuto e che ora imbiancavano le sue spalle.
La nebbia, che era stata tanto amica nella prima parte del viaggio, era
diventata un lontano ricordo, sostituita dalle candide mani di un'altra
amica, silenziosa e più rassicurante, che con la sua coltre
copriva ogni traccia, ogni colpa e ogni dolore passato.
Si guardò attorno, stringendo il borsalino nella mano.
L'aria
era pungente. Rabbrividì. Poi, senza altro indugio,
entrò
in casa.
«Shura! Nanny!» tuonò, secco e
impaziente, avvicinandosi allo scalone principale.
Si sentiva un leone in gabbia ogni volta che rientrava in quella casa,
che viveva come il reliquiario del padre. Fece qualche passo
nell'atrio, spolverando la neve dal cappotto con la mano.
«Shura! Nanny! Dove diavolo vi siete cacciati?»
chiamò ancora, più irritato di prima, camminando
impaziente. «Ma non c'è nessuno in questa
casa?»
«Cosa succede, Shion? Perché urli in questo
modo?»
chiese un giovane moro, affacciandosi nell'ampio atrio già
addobbato per Natale. Era alto e longilineo, poco più che
ventenne, con uno spiccato accento spagnolo e dall'atteggiamento fin
troppo confidente e disinvolto verso il padrone di casa.
Stretto fra le labbra penzolava il mezzo corpo di un omino di pan di
zenzero, mentre altri due o tre erano malamente avvolti in un
tovagliolino di carta rosso e oro, che teneva in mano.
Forse era ancora troppo presto per iniziare a preparare i dolci
natalizi, del resto il Ringraziamento era passato da appena una
settimana, ma Nanny amava avere tutto già bello e pronto,
per
non trovarsi in seguito impreparata. Quel giorno in particolare poi,
più del solito la donna aveva sentito la
necessità di
tenersi occupata.
«Dai una mano a tuo padre», ordinò Shion
Hayes,
spolverandosi ancora una volta il cappotto dalla neve, nonostante non
ce ne fosse ormai più traccia. «Portali da Nanny,
che se
ne occupi immediatamente! Ma che fine ha fatto quella donna?»
borbottò, posando un piede sul primo gradino dello scalone e
guardando su, verso il piano superiore.
Sospirò e tornò sui suoi passi. Posò
il borsalino
su una poltroncina dorata Luigi XVI, appoggiata alla parete e, alzando
lo sguardo, i suoi occhi indugiarono sullo specchio antico.
Ciò
che esso gli rimandava non gli piacque affatto. Era la figura di un
uomo d'affari con lo sguardo cinico e arido, nonostante la sua giovane
età, senza veri legami e senza una famiglia, con il solo
lavoro
come ragione di vita.
«Quando hai fatto, vieni in biblioteca», si rivolse
ancora
a Shura, abbandonando la contemplazione del suo riflesso e slacciandosi
il cappotto scuro. «E chiama il vecchio Doc! Fallo venire il
prima possibile. E mi raccomando, metti in chiaro che non deve fare
parola con nessuno di questa visita!» terminò,
prima di
chiudersi in biblioteca.
*****
Rimase per qualche secondo di fronte alla doppia porta di legno
massiccio della biblioteca, con la mano appoggiata sulla pesante
maniglia di ottone lucido, senza riuscire ad aprirla. Poi,
entrò
nella stanza come un uragano, dirigendosi verso il monumentale camino
di marmo rosso. Riattizzò il fuoco che languiva e si sedette
sulla poltrona.
Di nuovo si concesse il lusso di chiudere gli occhi, scivolando piano
in una rilassatezza pericolosa, che lo stava avvolgendo nel torpore. La
stanchezza di quella giornata gli pesava addosso. I suoi respiri si
fecero lenti e profondi, finalmente calmi, ma non si
addormentò.
Avvertiva l'odore familiare e nostalgico dei libri riposti sugli
scaffali di mogano pregiato delle librerie che occupavano per intero
ogni parete della stanza. Gli sembrava di riconoscere il lieve odore
della muffa che gli riportava alla mente il vecchio e antiquato padre.
E c'era anche l'odore acre della legna che bruciava nel camino, che di
tanto in tanto scoppietava, facendo zampillare scintille e piccoli
pezzetti di brace oltre il parascintille. Trovava confortate il calore
che si diffondeva nella stanza, anche se non era sufficiente a
dissolvere il freddo che si era insinuato nelle sue ossa in quel
pomeriggio nebbioso.
«Shion, ma si può sapere cos'hai
combinato?» chiese
Shura, entrando nella biblioteca dopo pochi minuti, sfregandosi le
braccia per il freddo.
L'uomo non parve dar peso a quella domanda, borbottando invece fra
sé, con lo sguardo ora fisso sulle fiamme nel camino.
«Quel bastardo lo ha fatto ancora. Mi ha fregato un'altra
volta.»
«Di chi stai parlando? Chi ti ha fregato?» gli
chiese
nuovamente il giovane, avvicinandosi al camino. Ancora una volta
però, era stato ignorato dal padrone di casa, troppo
concentrato
sui suoi pensieri, ma che Shura immaginava dovessero riguardare il
lavoro.
L'uomo infatti, Shion William Hayes, era l'unico erede della Hayes
Corporation e, nonostante avesse solo ventotto anni, già da
tempo era a capo del gruppo finanziario di famiglia che controllava ben
dodici fra aziende, società ed enti di beneficienza.
Shion si alzò con molta lentezza dalla poltrona, si
sfilò
il cappotto e la giacca grigia e abbandonò entrambi
sull'altra
poltrona lì vicino. Si avvicinò al camino, vi
gettò un ciocco di legno e rimase appoggiato con il braccio
alla
cornice di marmo rosso, illuminato da quelle fiamme rinvigorite.
Era innegabilmente un uomo attraente, uno scapolo molto ambito
nell'alta società di Boston, anche in quella parte
più
tradizionalista e bigotta. “Dal fascino esotico”,
dicevano
di lui le donne che lo frequentavano, per via dei leggeri tratti
orientali ereditati dalla madre. E forse era anche per quella sua
caratteristica che si mostravano interessate. A vederlo, il suo corpo
poteva sembrare esile; in realtà era atletico e ben
proporzionato. Un altro pregio che gli veniva sempre riconosciuto era
l'impeccabile eleganza; la stessa che sfoggiava anche quel giorno:
camicia celeste con colletto e polsini bianchi, cravatta blu scuro
perfettamente annodata e gilet dal taglio classico in gessato grigio.
La sua storia non era diversa da quella di tanti altri rampolli delle
famiglie più blasonate del New England, non solo di Boston.
Figlio di Abraham Harrison Hayes, era nato dal secondo matrimonio del
ricco imprenditore, un uomo che si era costruito la sua fortuna tutto
da solo, con una giovane orientale. Ad appena ventidue anni, costretto
a rinunciare ai propri sogni – ritenuti troppo poco ambiziosi
dal
padre – subentrò suo malgrado al genitore nella
gestione
degli affari di famiglia quando il vecchio Hayes, ormai settantaduenne,
aveva dovuto “forzatamente” lasciare il mondo degli
affari
per concedersi una duratura vacanza in un paese senza accordi di
estradizione. In realtà, com'era facilmente intuibile, quel
suo
repentino ritiro fu solo una scaltra misura d'emergenza per sfuggire
alle affabili cure della Giustizia e del Fisco statunitense.
«Shion, in che traffici ti sei immischiato?»
provò a
scuoterlo ancora una volta Shura, ricordando come alcuni mesi addietro
si erano presentati alla porta di casa della residenza principale in
città, alcuni poliziotti per interrogarli.
Il giovane era il figlio di Fernando Morales senior, l'autista di
famiglia e, quando era ancora vivo Abraham Hayes, confidente e braccio
destro del vecchio. Nessuno però lo chiamava con il suo nome
di
battesimo, persino i suoi genitori. Fin dall'adolescenza preferiva
farsi chiamare con il suo nome di battaglia, datogli dai suoi compagni
della gang, ovvero Shura, come i feroci e litigiosi demoni della
tradizione buddista giapponese. Era sempre stato un grande appassionato
di tutto quello che riguardava il Giappone, soprattutto il kendo, tanto
da riuscire a partecipare alle finali di Stato dei campionati
scolastici per tutti gli anni delle superiori. Ed ora, proprio com'era
accaduto per i loro padri, Shura era diventato, oltre che amico
fraterno, anche confidente e uomo di fiducia di Shion.
«Shion, ti senti bene?» gli domandò
Shura, ora un poco preoccupato dal silenzio dell'altro.
«Come?» si riscosse all'improvviso l'uomo, ma
ancora con
un'espressione imbambolata sul volto. «Niente,
niente»,
scrollò lentamente la testa, per rassicurarlo. Si
passò
una mano sugli occhi e fece una sorta di sospiro silenzioso,
ricomponendosi. «Hai fatto come ti ho chiesto?» si
informò distrattamente, avvicinandosi al mobile bar.
«Il dottore è di sopra già da
mezzogiorno.
Georgie...» risposte Shura, esprimendo con un'eloquente
smorfia
ciò che aveva volutamente lasciato sottinteso.
«Quella
ragazzina è una gran scocciatura. Si è lamentata
per
tutto il giorno che non ne poteva più, ma con quel dannato
campanello ci ha dato dentro! Eccome se ci ha dato dentro! Pare che il
momento sia ormai imminente», sbuffò.
Rimase ancora qualche secondo vicino al camino, sfregandosi per bene le
braccia e poi si avvicinò anche lui al mobile bar. Quei
pochi
minuti che era stato fuori lo avevano raggelato neanche avesse fatto il
bagno nel lago.
«A proposito, bello il regalo che ci hai portato a casa dal
tuo
viaggetto fuori programma. Anche se a Natale manca ancora un
mese», scherzò, nonostante il momento non fosse
dei
più adatti. Poi, si fece un poco più serio.
«Siamo
rimasti tutti allibiti nel vedere cosa c'era nel
“pacco”.
Nanny non sembrava affatto contenta. Anzi, era a dir poco furibonda.
Già non sta prendendo bene quello che la figlia le sta
scodellando sul letto. Quando scenderà, preparati al
finimondo.»
Per un momento, Shura si voltò verso la porta della
biblioteca,
pensando di aver udito delle voci – le urla della giovane
–
provenire da una delle camere degli ospiti. Si aspettava di
sentire anche il vagito del neonato, ma c'era solo il crepitio delle
fiamme nel camino. Sbuffò di nuovo, grattandosi la testa.
«Prima che me ne dimentichi e me lo porti in giro tutta la
notte,
c'era questo nascosto nella coperta, sul fondo dello
scatolone.»
Dalla tasca posteriore dei jeans prese una cartelletta di cuoio, lunga
e stretta, tenuta legata con un cordoncino nero, e la porse a Shion
senza fare domande.
*****
«È nato! È nato!»
Le urla giubilanti di Nanny riecheggiarono per tutta la casa, in quel
momento avvolta da una strana quiete d'attesa, amplificata dalla grande
nevicata che in quelle ore stava imbiancando tutta la zona del lago.
Poi, arrivarono i potenti vagiti di un bimbo, sano e forte, che si fece
sentire a pieni polmoni, sovrastando gli ansimi della giovane madre,
che invece si sciolse in un pianto di gioia e di sollievo, per aver
portato a termine il proprio compito e perché tutto era
andato
per il meglio.
Scapicollandosi giù per le scale, ancora euforica, la donna
fece
irruzione nella biblioteca, spalancando i due battenti e sostando
lì, per qualche secondo, con il fiatone e il viso sconvolto
dalla felicità.
«Il mio nipotino è nato! Sano, robusto e bello
come il
sole!» annunciò, con tutto l'orgoglio di donna,
madre e
ora anche nonna.
Era raggiante. Entrò e, a passo di carica, si diresse verso
Shion, che in quel momento la fissava impietrito con un bicchiere di
scotch in mano già vicino alla bocca. Gli prese il viso fra
le
mani e gli schioccò un bacio sulle labbra, lasciandolo
ancora
più di stucco. Poi, gli prese il bicchiere e bevve tutto
d'un
fiato, posandolo infine con veemenza sul piano del mobile bar,
chiudendo gli occhi e barcollando un poco, aggrappandosi a lui.
La donna era mrs Angelina Foster. Al secolo Angelina Potter, prima di
sposare, a ventidue anni, un cameriere suo coetaneo: Franklin Foster.
Oggi, Nanny si presentava come una robusta e vigorosa signora di
quarantacinque anni, forte nel corpo e nello spirito. Caratteristiche
che l'avevano distinta anche in gioventù, tanto da cacciare
il
marito dal talamo nuziale – e da casa – dopo
quattro anni
di turbolenta vita coniugale fatta di tradimenti e occasioni sprecate.
Ma nonostante tutto, era stata troppo buona d'animo da perdonarlo e
riprenderlo ogni volta, nei successivi quattro anni, provando a
recuperare il matrimonio. Da una di quelle che lei aveva definito come
“scappatelle”, proprio per la natura occasionale
delle loro
riconciliazioni, era poi arrivata Georgina, che all'inizio era sembrata
il giusto collante per tenere insieme il matrimonio. Non era stato
destino e lei si era ritrovata divorziata, con il giovane adolescente
Shion da accudire e una figlia a carico.
A dispetto dei dispiaceri familiari che l'avevano segnata, Nanny aveva
ancora un aspetto decisamente giovanile e dinamico; era discretamente
attraente nonostante iniziasse a intravedersi sul suo viso qualche
timido segno del duro lavoro che da quasi trent'anni svolgeva in quella
casa: dapprima come semplice cameriera – appena arrivata da
un
paesino del sud dell'Inghilterra – passando con gli anni al
ruolo
di tata di Shion, e successivamente di Fernando jr. Il suo ruolo nella
famiglia Hayes si era fatto poi sempre più fondamentale
quando,
con l'avanzare dell'età di Concita Morales, la madre di
Shura,
ne aveva preso il posto come governante della casa.
Sciaff!
Un improvviso ceffone si stampò con forza sulla guancia
pallida
del giovane padrone di casa, facendole prendere subito colore. Dopo
l'euforia adrenalinica dimostrata poco prima, l'espressione della donna
mutò in una più severa, da sergente di ferro.
«E questo per cosa sarebbe?» domandò un
esterrefatto
Shion, massaggiandosi la guancia dolorante con la mano, mentre un poco
compassionevole sogghigno gli faceva eco alle sue spalle.
«Incosciente!» esclamò la donna, per
tutta risposta.
E il tono usato in quel momento non ammetteva repliche. Anche se un
attimo prima lo aveva abbracciato e baciato, non si era certo lasciata
sfuggire l'odore dell'alcool che aveva sentito venire da lui.
«Bere così alla tua giovane età! Vuoi
forse
diventare in tutto e per tutto come tuo padre? E poi, adesso che ci
sono dei bambini in casa hai delle
responsabilità!» lo
rimproverò aspramente.
«Ma se ho quasi trent'anni! Non sono certo un bambino e un
bicchiere ogni tanto non mi farà certo diventare un
ubriacone», obiettò Shion con voce contrita,
continuando a
massaggiarsi la guancia. Non era il tipo da farsi mettere i piedi in
testa da nessuno, ma di fronte a Nanny, l'unico riferimento materno che
avesse mai avuto nella sua vita, si sentiva ridimensionato e insicuro.
La donna però non stava già più
ascoltando,
intenta a passare ai fatti anche con il mascalzone che si nascondeva
alle sue spalle.
Sciaff!
Un altro poderoso ceffone scosse l'atmosfera quasi sacrale della
biblioteca e fece sparire all'istante il sorrisetto beffardo sul volto
imberbe del giovane. Ma questa volta, lo schiocco risuonò
addirittura più pungente del precedente.
«E questo è per te, Fernando Morales
jr!»
esclamò. E quando usava il suo nome completo voleva dire che
era
davvero arrabbiata.
«E io cosa c'entro?» domandò Shura,
massaggiandosi
anch'esso la guancia offesa. Era stato il suo turno di assumere
un'espressione instupidita.
«Visto che quel tuo amico, responsabile della situazione su,
al
piano di sopra, se n'è scappato in Europa con la coda fra le
gambe per evitare le conseguenze e le responsabilità, sarai
tu a
farne le veci!» lo apostrofò con veemenza la
donna. Al
solo ripensare a quel disgraziato che aveva messo incinta sua figlia
ancora minorenne, le ribolliva il sangue. Se avesse potuto lo avrebbe
ucciso con le sue stesse mani. Era stato un bene per lui scappare il
più lontano possibile dalle sue grinfie.
«Non è scappato in Europa. Si è
arruolato nei
Marines, quell'idiota», precisò Shura, lanciando
mentalmente una lunga sequela di maledizioni all'indirizzo dell'ex
compagno di corsi, reo di quel pasticcio e di aver scansato la
punizione di Nanny.
Dopo un respiro profondo, per recuperare un po' di calma, la governante
di casa Hayes si girò di nuovo verso Shion, trovandolo di
nuovo
con il bicchiere in mano, intento a portarselo alla bocca. Questa volta
glielo tolse con un gesto più calmo, ricompensandolo con una
carezza affettuosa e uno sguardo che si stava velando di lacrime.
«Mio dolcissimo tesoro», gli disse, con la voce
rotta dalla
commozione. Si prese ancora qualche secondo e lo abbracciò;
ma
lo fece con tale trasporto che si sentirono distintamente le vertebre
del giovane scricchiolare. «Finalmente la casa è
piena di
pargoli. Quei due piccoli... sono così belli e delicati, due
angioletti biondi. Ormai non ci speravo più,
perché se
aspettavo che tu ti decidessi a fare sul serio con almeno una di quelle
donne che frequenti... ma il Signore ha esaudito le mie
preghiere», terminò in un sospiro. Gli fece
un'altra
carezza e lo guardò con orgoglio materno.
L'espressione sul volto dei due giovani era a dir poco interdetta,
soprattutto per i repentini cambi di atteggiamento della donna. Non era
mai successa una cosa del genere. Entrambi si chiesero tacitamente cosa
avesse fatto accettare tanto facilmente la situazione a Nanny, invece
di trasformarla in una bomba pronta a esplodere. Forse era dovuta alla
tensione di quella giornata, strana per tutti; forse era stata la gioia
nel vedere nascere il nipotino, che le aveva aperto il cuore e fatto
accettare quelle due nuove presenze in casa. E pensare che per tutti i
nove mesi della gravidanza della figlia era stata un continuo
borbottare su come sarebbe stato duro e impegnativo per lei, con tutto
quello che aveva da fare, crescere un bambino. Perché una
cosa
era certa, e lo andava ripetendo ormai da settimane, intanto che il
parto si avvicinava: non avrebbe lasciato quella piccola creatura
innocente nelle mani di quell'irresponsabile della figlia se prima non
le avesse dimostrato di essere in grado di badare a se stessa,
cominciando con il prendere il diploma delle superiori e poi trovandosi
un lavoro.
Ora invece... tutto sembrava cambiato. Aveva accolto con entisiasmo
quella nuova vita e anzi, ne aveva accolte ben tre.
«E ora dimmi, Shion Hayes», riprese Nanny, puntando
il dito
accusatore contro il petto del giovane padrone di casa.
«È
questo il modo di trattare quei due bimbi? Come dei pacchi postali? Chi
è quella madre snaturata che si disfa così delle
sue
creature? Forse quella Janette, che fa solo finta di essere una
filantropa? Non mi è mai piaciuta... Oppure è
quella
Sarah, erede dei grandi magazzini Mainor? No, decisamente no!
È
troppo concentrata sulle sfilate di moda, le feste e a mantenere la sua
“perfetta” linea scheletrica, per pensare di fare
figli.
Allora deve essere...»
Nel riversare quel fiume di parole, gli occhi Nanny non smisero di
esprimere il suo disappunto e il suo dispiacere per quello che avevano
passato quei due bimbi.
«Non è nessuna di cui tu ti debba preoccupare,
Nanny. I
miei figli sono solo miei», la interruppe Shion, dandole un
bacio
sulla guancia.
*****
«Ma questo bambino è enorme!»
esclamò Shion,
strabuzzando gli occhi, quando la giovane madre glielo
mostrò,
avvolto con cura nella copertina calda e soffice di lana bianca che
Nanny aveva confezionato a maglia apposta per lui.
Era rimasto sorpreso dalle dimensioni del neonato, soprattutto se messo
a confronto con i due gemelli che in quel momento erano stati sistemati
sul letto, accanto a Georgina.
Ora erano svegli, con i loro grandi occhi verdi ben aperti, ma
sembravano un po' spaesati. Indossavano due pigiamini azzurri, uguali,
mentre le tutine imbottite e i cappellini di lana – con i
quali
erano stati vestiti quel giorno – erano stati ripiegati con
cura
e messi sul comodino libero, dall'altra parte del letto.
La giovane mamma, comprensibilmente stravolta, in quel momento sembrava
tutto fuorché felice di quell'invasione di uomini nella sua
camera e soprattutto del commento del padrone di casa sul suo bambino.
«Si chiama Aiolos, signore. E non è affatto
enorme!» rispose piccata.
Georgie, come veniva chiama in famiglia, era una scapestrata
adolescente di quindici anni compiuti da poco, ma dentro un corpo di
donna già ben sviluppato e che attirava non poco le
attenzioni
degli uomini. Era il ritratto della madre Angelina, ma di carattere era
fin troppo simile a suo padre, ovvero un'inguaribile romantica che
crede che la vita sia un eterno gioco, e dal quale aveva ereditato
anche l'indole da artista. Infatti, alla vita agiata e più
conformista che le offriva la madre – e la
generosità
degli Hayes – aveva preferito quella precaria e bohémien
del padre, fatta di arte, divertimento e spensieratezza.
«No, no, mr Hayes», intervenne una voce maschile,
roca e
dal tono professionale, nella quale però si avvertiva tutta
la
fatica e la stanchezza dell'anziano medico per quella giornata.
«La nostra Georgina è stata molto brava e ha dato
alla
luce un bambino perfettamente normale. Più o meno
sarà
sui tre chili e mezzo, forse poco più»,
rassicurò i
presenti, mentre terminava di risistemare le ultime cose nella sua
vecchia borsa di pelle. «Sono gli altri due bimbi, i gemelli
che
avete portato, che sono troppo piccoli per il tempo che hanno. E...
credo che siamo attorno ai cinque o sei mesi, dico bene?»
disse,
guardando in tralice il padrone di casa. Fece un respiro profondo,
srotolando le maniche della camicia e risistemandosi a dovere i
polsini, prima di proseguire. «A una visita preliminare sono
disidratati e molto sottopeso, ma potrò fare una diagnosi
più precisa quando li visiterò in
ospedale»,
terminò, prendendo la giacca dalla sedia lì
vicino.
Facendo piano, per non spaventarli, Nanny si avvicinò ai
gemelli
e ne prese uno in braccio. Dopo averlo cullato per qualche momento,
intanto che si avvicinava a Shion, senza dire nulla glielo mise
davanti, limitandosi a sorridere indulgente. L'uomo fu preso totalmente
alla sprovvista e il forte imbarazzo dipinto sul suo volto ne era la
prova evidente. Con movimenti goffi, Shion lo prese sotto le ascelle,
tenendolo scostato da sé e guardandolo come un animale
strano.
Era chiaro a tutti che non aveva mai avuto a che fare con i neonati, ma
nessuno dei presenti accennò una parola in proposito.
Con pazienza materna, Nanny lo corresse, mostrandogli il modo migliore
per tenere in braccio il pargolo. Poi, diede una carezza a entrambi. La
stessa cosa fece col fratellino che mise in mano a Shura, imbarazzato
almeno quanto Shion, soprattutto quando il bimbo – un poco
più reattivo del suo gemello – gli
afferrò il naso,
gorgogliando felice.
«Due bimbi innocenti, mezzi assiderati, narcotizzati;
lasciati
per strada con il clima di questi giorni...»
borbottò con
rabbia il dottore, nell'osservare quella scena tanto tenera attraverso
lo specchio del comò, mentre faceva scattare la chiusura
della
sua borsa. Fece un respiro profondo, scrollando la testa.
«Bene, adesso però tutti via da qui.
Sciò!
Sciò! Georgie e i piccoli hanno bisogno di calma e di tanto
riposo!» ordinò Nanny, riprendendo in mano la
situazione e
scacciando gli uomini dalla stanza.
Poi, sistemò meglio i gemelli sul lettone. Con cura e
attenzione
li coprì – quasi li infagottò
– con una
coperta calda, lasciandoli accanto alla giovane mamma che
già
era intenta ad allattare il piccolo Aiolos che poppava felice. Quindi
rivolse tutta la sua attenzione a sua figlia e al suo nipotino. Si
sedette sul bordo del letto e per qualche momento li osservò
con
affetto, prima di tornare a darsi da fare e risolvere il problema che
era venuto a crearsi: non erano preparati per ospitare tre neonati in
quella casa.
*****
Gli uomini si ritirarono in biblioteca, dove il vecchio Doc fu fatto
accomodare sulla poltrona vicino al camino e Shion Hayes gli
offrì del buon whisky, preso dalla riserva speciale di suo
padre. Occupando l'altra poltrona, il padrone di casa offrì
all'uomo anche un prezioso cubano: per festeggiare la nascita di Aiolos.
«Come stanno veramente, dottore?»
domandò in tono
serio Shion, mentre Shura alimentava il fuoco con un altro ciocco di
legno.
«Tutto sommato stanno bene», confermò il
dottore,
sbuffando fuori dalla bocca una nuvoletta di fumo azzurrognola. Poi, ci
fu qualche momento di silenzio, nel quale assaporò anche un
sorso di whisky. «Come ho detto anche di sopra, sono
disidratati,
denutriti e presentano una strana letargia, dovuta sicuramente alla
somministrazione di qualche leggero sonnifero. Forse per farli stare
tranquilli. Dove li avete trovati, mr Hayes?»
domandò,
portandosi di nuovo il sigaro alla bocca.
«Questo non la riguarda, dottore.»
L'anziano Doc ribatté con uno sbuffo di protesta, ma non
insistette troppo. D'altronde, era abituato ad avere a che fare con
vicende che si potevano definire “nebulose”: sapeva
quando
fare domande e quando no.
«Come preferisce», sospirò.
Da quasi quarant'anni, Arthur Mitchell era il medico di casa Hayes.
Stimato primario di chirurgia al Boston Medical Center, negli ultimi
anni aveva diradato i suoi interventi in sala operatoria per dedicarsi
all'ambulatorio gratuito che aveva aperto in uno dei quartieri
più disagiati della città.
«Dottore, hanno subito... abusi?» chiese con un
certo
disagio Shura, sentendosi subito immensamente stupido per aver posto
una domanda del genere.
«Giovanotto, se per abusi intendi affamarli, drogarli e
lasciarli
morire assiderati... allora sì!» lo
rimbrottò il
dottore, tossicchiando poi per qualche secondo. «Ma
riflettendoci, erano ben vestiti, puliti, e non avevano alcun segno di
maltrattamenti fisici. Erano sicuramente amati»,
sospirò
in ultimo, svuotando il bicchiere.
Ancora una volta, nella biblioteca si fece tutto silenzio, lasciando
spazio al crepitio del fuoco nel camino.
«Bisognerà comunque portarli in ospedale per fare
le
analisi e degli esami più approfonditi», riprese
il
vecchio.
«No! Niente ospedali», dissentì Shion,
con un tono di voce intriso di un nervosismo stonato.
«Ma, mr Hayes, è necessario! Non si può
fare
altrimenti, i bambini devono essere visitati»,
obiettò il
dottore.
Con un sorriso conciliante, da bravo affarista qual era, Shion Hayes
offrì al dottore un altro bicchiere di quell'ottimo whisky,
quindi lasciò la bottiglia sul tavolino lì
vicino, a
portata di mano, affinché il suo graditissimo ospite se ne
servisse ancora, se ne avesse avuto voglia. Si accomodò
meglio
sulla poltrona e rilassò le braccia sui braccioli,
tamburellando
distrattamente le dita sul tessuto di broccato verde. Il suo respiro si
fece più calmo, mentre fissava il fuoco nel camino.
«Va bene, Doc. Ha vinto lei. Ma li porteremo al suo
ambulatorio», acconsentì il padrone di casa.
«Ho
però bisogno di un favore da lei. Dovrà
provvedere a
preparare due certificati di nascita per quei bambini: sono nati oggi,
mercoledì 30 novembre. Siamo intesi?»
Non spostò lo sguardo di un millimetro, sempre concentrato
su
quelle fiamme scoppiettanti, nonostante sentisse su di sé
due
paia di occhi carichi di stupore e perplessità che lo
stavano
fissano con insistenza.
«Naturalmente sarà ben ricompensato per il suo
lavoro», aggiunse Shion Hayes, anticipando con un gesto della
mano l'obiezione che sicuramente l'integerrimo Dr. Mitchell avrebbe
sollevato.
Tutti sapevano che la reputazione di Arthur Mitchell era solida e
cristallina. Non si parlava quindi di bustarelle, ciò che
Shion
Hayes intendeva era una ricompensa di ben altra natura, forse meno
discreta, ma più legale.
«Se le può rendere più facile prendere
la decisione
giusta, posso farle avere un defibrillatore per l'ambulatorio e una
fornitura di attrezzature e medicinali generici per almeno un paio di
mesi. E il prossimo anno, tramite una delle mie imprese edili, si
potrebbe intervenire dove lei riterrà necessario.»
Il vecchio Doc tossicchiò per qualche secondo; poi si
bagnò la gola con il whisky e ci riflettè
seriamente.
«Beh, se la mette su questo piano...» Il dottore si
prese
un altro minuto per pensarci, portandosi il sigaro alla bocca.
«Dovrò riscuotere parecchi favori, ma non
è
impossibile arrangiare la cosa», cedette alla fine.
Con non poco sforzo, a causa degli acciacchi dell'età, si
alzò dalla poltrona e si chinò a prendere la sua
borsa di
pelle che per tutto il tempo aveva tenuto ai suoi piedi. Si
soffermò per un momento con lo sguardo sul ritratto del suo
vecchio amico, Abraham Hayes, appeso alla parete. Gli rivolse un vago
pensiero, considerando che ora sarebbe stato fiero e orgoglioso del
figlio, della persona importante che era diventato e di come sapesse
condurre in modo vantaggioso gli affari, anche quelli privati. Poi,
zoppicando un poco, accennò ad avvicinarsi alla porta della
biblioteca.
«Non si affanni a riprendere la via di casa, dottore. Le
strade
per Boston sono impraticabili per la neve che è caduta in
queste
ore e anche tornare adesso alla sua casa di Winchester è
quasi
impossibile. Per questa notte lei sarà mio graditissimo
ospite.
E domani mattina la farò accompagnare da Shura.»
Shion Hayes non si mosse dalla poltrona, né
spostò lo
sguardo. Avvicinò il bicchiere di whisky – che
ancora non
aveva assaggiato in quell'occasione – e bevve un piccolo
sorso,
assaporandolo con grande piacere.
Note
del capitolo:
- Nel 1983 il Thanksgiving Day, ovvero il giorno del Ringraziamento,
(che solitamente si festeggia il quarto giovedì di Novembre)
cadeva il 24 di Novembre.
Dalle ricerche che ho fatto, pare che non ci siano vere e proprie
tradizioni tipiche americane, per quel che riguarda la preparazione al
Natale, come da noi che invece in quasi la totalità della
penisola iniziamo a preparare gli addobbi l’8 Dicembre.
Almeno,
dalle mie parti è così! E da voi?
Le tradizioni americane sono quindi “affidate” alle
singole
famiglie (o gruppi etnici, o città, ecc...), ovvero ognuna
ha le
proprie, considerando che l’America è multi etnica.
Dunque, facendo riferimento ai tanti film di genere, ho notato che si
tende ad iniziare ad addobbare le case e le strade già per
il
Ringraziamento. Quindi ho preferito anch’io appoggiarmi a
questa
“tradizione” cinematografica.
- L’omino di pan di zenzero è un classico dolce
natalizio
della tradizione anglosassone, a forma appunto di omino, decorato con
glassa bianca e marrone per simulare i tratti del viso e altri
dettagli, ma arricchito anche con palline di zucchero colorate,
bottoncini di cioccolato confettati (tipo gli smarties) e chi
più ne ha, più ne metta!
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
II
Winchester,
Massachusetts, Natale 1998
Shion Hayes
terminò la telefonata di lavoro non appena la macchina ebbe
lasciato i confini della città. Chiuse la ventiquattrore,
lasciandola ancora per un momento sulle sue gambe, quindi la
spostò accanto a sé e si passò le mani
sul volto
in un gesto di rilassatezza. Al suo fianco, il bambino aveva ripreso
ancora una volta a dare calci allo schienale del sedile davanti. Prima
con un piede, poi con l’altro, guardandosi attorno e
sbuffando
annoiato.
«Smettila», lo rimproverò
l’uomo, con voce piatta e senza prestargli davvero attenzione.
«Scusi,
signore», biascicò con la sua vocina il piccolo
Aiolia,
continuando a ruminare energicamente il chewing gum. Creò
una
grande bolla azzurrognola, soffiandoci dentro fino a farsela scoppiare
in faccia; ripulendosi poi con la mano e rimettendola in bocca, per
ricominciare da capo.
Shion si massaggiò
la base del naso, sospirando per l’ennesima volta, ormai
quasi al
limite dell’esasperazione: non aveva mai avuto troppa
pazienza
con i bambini e ringraziava il cielo che i suoi figli avessero
già passato quella fase irritante che ora stava
attraversando
Aiolia e stessero crescendo senza dargli troppi problemi.
Mancava poco
all’arrivo, ma era sicuro che non sarebbe riuscito a
resistere
oltre, con quel bambino seduto a fianco. Si chinò in avanti
e
frugò nello zainetto che gli aveva sequestrato poco dopo
l’inizio del viaggio, prendendo di nuovo il Game boy e
consegnandoglielo.
«Te lo lascio usare
solo se questa volta fai il bravo», disse, sperando di
trascorrere nella tranquillità quelle poche miglia di strada
che
li separavano dalla loro meta.
«Signore…»
richiamò la sua attenzione l’autista della
società,
dopo qualche minuto. «Vuole che faccia una deviazione per il
Country Club?»
«No, James, andiamo
direttamente alla villa. A quest’ora i ragazzi dovrebbero
essere
già tornati a casa», rispose con tono stanco
Shion.
«Aiolia, ora ritira il gioco e mettiti il
cappotto», si
rivolse poi al bimbo, quando l'auto svoltò per imboccare la
strada privata che attraversava parte del boschetto che circondava la
proprietà.
Fra gli alberi, completamente coperti di neve, si poteva intravedere la
villa addobbata con festose luci colorate.
Giusto ancora un paio di
minuti di strada e l'auto si fermò di fronte al portico
della
villa. L'autista scese e aprì la portiera al padrone.
«Grazie, James. Non avrò bisogno di te nei
prossimi giorni. Puoi andare.»
«Sì,
signore. Buon Natale, signore», salutò il giovane,
portandosi la mano al cappello. Risalì subito in auto e si
avviò verso il cancello.
«Vieni.» Shion Hayes tese la mano al bambino,
richiamandolo all’ordine.
Il giovanotto non aveva
perso tempo e si era avventato sui cumuli bianchi, ammonticchiati
vicino ai muretti delle aiuole, per fare piccole palle di neve, pronto
a lanciarle contro le ombre del giardino. Ne aveva già
raggruppate due o tre, belle tonde, e aveva affondato le mani in mezzo
a quelle miriadi di cristalli ghiacciati per formarne
un’altra,
quando era stato richiamato.
L’uomo
sospirò e scrollò la testa nel momento in cui il
piccolo
guanto di lana arancione pieno di neve strinse la sua mano.
Shion Hayes guardò
per un momento l'esterno della villa, concedendosi un respiro profondo
per prepararsi a ciò che sapeva lo avrebbe atteso oltre
quella
porta. Già prima di varcarla provava la sgradevole
sensazione di
essere finito in un altro mondo.
Le due colonne del
portico erano avviluppate in spirali di festoni di rami d'abete
intrecciate a fili di lucine intermittenti, grappoli di bacche rosse e
rametti di agrifoglio. I sempreverdi nani, posti al centro delle aiuole
rialzate, erano addobbati come piccoli alberi di Natale multicolore.
Altre luminarie seguivano i profili dei muretti bassi e parte del
vialetto ghiaioso, mentre sagome di animali stilizzati sbucavano qua e
là nel prato, fra cespugli e siepi innevate. Alla porta
d'ingresso, appensa al centro del battente destro, era appesa
un'elaborata e profumata ghirlanda di vimini in tipico stile
Biedermeier.
Quando mise piede in
casa, subito fu investito da un'ondata di odori che gli fecero
arricciare il naso, tra frutta candita, noci, cannella, arance e
mandarini, castagne arrosto e biscotti allo zenzero appena sfornati,
che provenivano dalla cucina: tutta quella dolcezza era decisamente
troppo per lui.
Ma fu l'impatto visivo a
disorientarlo con maggiore intensità, dandogli la conferma
di
non trovarsi più nella villa di famiglia, ma di essere stato
catapultato in una delle celeberrime vetrine a tema dei grandi magazzi
di New York che in quei giorni erano prese d'assalto da curiosi e
turisti; o peggio ancora, di essere finito sul set fotografico di una
rivista di arredamento allestito per il servizio speciale di Natale.
Villa Hayes, sul lago
Mystic, alle porte di Boston, che per la maggior parte dell'anno
manteneva una veste di pomposa serietà, per quel periodo di
festa era stata completamente trasformata: i riflessi cangianti delle
luci dei lampadari di cristallo facevano risaltare gli addobbi
raffinati che spiccavano a contrasto coi pannelli di legno alle pareti
e il marmo del pavimento. Il verde intenso e il rosso sontuoso delle
poinsettie, sapientemente assemblate in composizioni in vaso,
riempivano ogni angolo dell'ambiente, creando giochi di colori e
gradazioni che spezzavano la monocromia dei marroni-rossicci degli
elementi architettonici tipici degli anni '30 dell'atrio.
Il corrimano in legno di
noce dello scalone principale era stato avvolto con un lungo e ricco
festone di rametti d'abete, abbellito con nastri di velluto, sfere
dorate e altri fiori di poinsettia, questa volta in seta rosso
scarlatto. Ma, a farla da padrona, in quell'ambiente di sfarzosa
opulenza quasi fiabesca, era il grande abete argentato, posto
strategicamente nella rientranza che formava lo scalone a vista che
portava al piano superiore: rigorosamente vero, alto più di
tre
metri e tutto decorato con luci gialle e adobbi preziosi in vetro
soffiato, con riflessi rossi e oro.
«Ehi Nanny!»
gridò Kanon, affacciandosi da dietro l’arco che
separava
il salotto principale dall’atrio. «La
best…»
Si interruppe di colpo, incentivato da una gomitata al petto
rifilatagli da Aiolos, sempre al suo fianco. «La
calamità...» riprovò, mormorando un
“così va meglio?” all’altro e
sogghignando
allo sbuffo di risposta. «è arrivata! Nascondi i
dolcetti!» Sghignazzò di nuovo nel vedere il
piccolo
Aiolia sgranare gli occhi e fare un'espressione impaziente, mentre
Shion faticava a contenerlo per sfilargli il cappotto.
«I dolci! I
dolci!» cantilenò tutto eccitato il bambino; una
volta
libero, filò dritto come un razzo verso la cucina, passando
accanto ai due adolescenti senza guardarli, con l'unico pensiero di
abbuffarsi di biscotti.
Shion si limitò a scrollare la testa e fare un grosso
sospiro.
«Mi dispiace se mio
fratello le ha creato dei fastidi, signor Hayes. Grazie per essere
andato a prenderlo a scuola», disse Aiolos, tutto impettito,
avvicinandosi all’uomo e liberandolo subito dall'impiccio
dello
zainetto e del cappotto del fratellino, raggiungendo poi anche lui la
cucina.
Subito si sentirono dei
brevi ma concitati schiamazzi e i rimproveri del ragazzo nei confronti
del bambino. Ma a sovrastare entrambe le voci si fece sentire quella
della nonna, che rimise entrambi in riga.
Shion rimase nell'atrio
per diversi secondi, osservando il figlio che gli sorrise in modo un
po' sfacciato. Ricambiò soddisfatto. Lo vide fare un cenno
con
la testa, anticipando la domanda che gli avrebbe fatto e, poco dopo,
sparire anche lui per raggiungere gli altri in cucina per una merenda
tardiva. Di riflesso guardò nella direzione dello scalone e
poi
su, dove c'erano le camere da letto.
Scrollò di nuovo
la testa, corrugando la fronte per un momento. Si diresse in biblioteca
per posare la ventiquattrore carica di documenti e bozze di contratti
che si era ripromesso di studiare in quei giorni.
Con il passare degli
anni, l'austerità di quella stanza era diventata un calmante
per
lui e Dio solo sapeva quanto ne aveva bisogno, da quando la casa era
continuamente infestata da ragazzini urlanti. Si rammaricava il non
aver potuto passare quelle due settimane a New York,
nell’attico
della 94ª strada, nell’Upper East Side, come gli
anni
precedenti. Si sarebbe certamente trovato più a suo agio fra
impegni mondani, party d'affari e raccolte di beneficienza. Invece,
quell'anno, anche a causa di forza maggiore, era stato deciso di
passare le vacanze alla villa, con tutta la famiglia riunita e al gran
completo.
Posò la borsa
sulla scrivania, si sbottonò il cappotto e si
servì un
bicchiere di whisky, allentandosi un poco la cravatta.
Inspirò
per un momento l'aroma di quel liquido ambrato, ma non lo bevve.
Lasciò il bicchiere sulla scrivania e uscì.
Con il cappotto ripiegato
sul braccio, salì al piano superiore, concedendosi un
sospiro di
sollievo: le voci dei ragazzi arrivavano molto attutite e questo faceva
bene ai suoi nervi. Con le nocche bussò un paio di volte, in
modo discreto, a una delle porte, aprendola senza attendere il
permesso; ed entrò. La stanza era completamente al buio. Le
tende scure coprivano la finestra senza lasciare passare alcuno
spiraglio. Con il solo riverbero che arrivava dal corridoio riusciva a
stento a intravedere le sagome dei mobili. Non se la sentiva di
accendere la luce, per non disturbarlo più del necessario.
Appoggiò il cappotto sulla cassapanca ai piedi del letto e
sedette sul bordo del materasso per qualche secondo, respirando
lentamente. Infine, accese la abat-jour, che era stata coperta da un
panno per smorzarne ulteriormente la luce.
Da sotto il piumone, con
movimenti incerti, sbucò lenta una mano pallida. Poi, fece
capolino una testa bionda tutta arruffata e, poco alla volta, divenne
visibile anche il viso del giovane ammalato, arrossato, sudato e dallo
sguardo un po' vacuo.
«Come ti senti
oggi?» gli domandò con voce pacata, lisciandogli i
capelli
lunghi e ribelli, mostrandogli un raro sorriso affettuoso, mentre il
giovanotto assonnato si stropicciava gli occhi con il dorso della mano.
*****
«No, Aiolia, questi non si devono mangiare!»
Kanon faticò non
poco a strappare dalle piccole mani paffute del bambino la ciotola con
i popcorn speciali che Francine, la cuoca che da qualche mese aveva
iniziato a lavorare in quella casa, aveva preparato per quello scopo
preciso.
«Ma…»
obiettò il piccolo con labbra tremanti, mettendo il broncio.
Era
troppo abituato a casa sua a ottenere ciò che voleva.
«Dammeli! Dammeli! Li voglio!» si lanciò
di nuovo su
Kanon che lo teneva a distanza con un braccio.
«Non li puoi avere! Sono quelli colorati che servono per
decorare l’albero!» lo rimproverò il
giovane.
«Piantala di fare
tutti questi capricci!» intervenne Aiolos, che nel frattempo
aveva terminato di annodare l’ultimo nastrino nel foro della
testa dell’omino di pan di zenzero.
Una volta posato il
biscotto nel cestino lì accanto, si alzò da terra
e prese
l'altra ciotola di popcorn, quelli al caramello, che emanavano un
profumino davvero invitante. Se ne prese un paio, subito spariti in
bocca, e mise la ciotola nelle mani del fratello pestifero.
«Quelli da mangiare
sono questi. Ma non tutti subito, hai capito? Solo un paio!»
gli
raccomandò, sospingendolo verso una delle sedie del tavolo,
il
più lontano possibile da lui e dal lavoro che lui e Kanon
stavano facendo. Lo guardò per qualche secondo e gli
agitò il dito sotto in naso, intimandogli di rimanersene
lì seduto buono. Alla fine però gli
scompigliò i
capelli, sospirando con pazienza. Quel tormento era pur sempre suo
fratello e in fondo, alla sua età anche lui era stato
così insopportabile.
Aiolia Cooper era
più giovane di Aiolos di poco più di sette anni
e, al
contrario del maggiore, aveva avuto la fortuna di godere di una
famiglia unita, almeno sulla carta. Il padre, Thomas, dopo aver passato
alcuni anni all’estero – fra una base militare e
un’altra – era tornato a casa per far fronte alle
proprie
responsabilità. Si era scontrato con la sua futura suocera
Angelina, ma era riuscito a sposare Georgina, con la quale era sempre
rimasto in contatto. Poi, nel 1993, si era congedato definitivamente
dai Marines ed era entrato a far parte dei vigili del fuoco di Boston,
per riunire finalmente la sua famiglia, anche se si era dovuto
arrendere al fatto che il suo primogenito non ne aveva voluto sapere di
lasciare la nonna.
Aiolos si
stiracchiò a lungo la schiena, la sentiva tutta indolenzita
per
il lungo tempo che aveva passato nella stessa posizione, ma forse,
anche la caduta sul ghiaccio di quel pomeriggio, in uno scontro di
gioco con Kanon, aveva contribuito in una certa maniera a quel
fastidio; contemporaneamente si lasciò sfuggire anche uno
sbadiglio da fame.
«Dovrebbe andare un
po’ più in alto e a sinistra»,
commentò
Aiolos, girandosi a osservare come stava venendo il lavoro. Dalla
ciotola che stringeva al petto il fratellino prese una piccola manciata
di popcorn caramellati e se li mise tutti in bocca: le sue guance si
gonfiarono come quelle di un criceto goloso.
«Tu dici?» rispose Kanon, indietreggiando di un
passo.
Incrociò le
braccia al petto, piegando la testa prima a destra e poi a sinistra,
per studiare l'albero da diverse angolazioni, rimuginando. Eppure, a
parer suo, quel filo di popcorn rosso brillante era messo giusto.
«Nanny, tu che ne
pensi?» interpellò la donna, seduta un po' in
disparte,
intenta a lavorare alacremente all’uncinetto.
«State facendo un
ottimo lavoro», rispose lei, alzando per un attimo lo sguardo
e
sorridendo, tornando poi al suo pizzo che pian piano, punto dopo punto,
stava prendendo forma dalle sue mani esperte.
Aiolos prese dalla cesta
uno degli omini di pan di zenzero e lo appese allo stesso ramo dove
passava il filo di popcorn. Quindi aggiunse una sfera dorata, una dai
riflessi verdi, un’altra con figure stampate e ancora un
biscotto.
«Credo che dopo
questo», disse, prendendo in mano l’ultimo filo di
popcorn.
«dovremmo aver finito.»
Si affiancò a
Kanon che nel frattempo se n’era stato qualche passo indietro
e
osservò nel suo complesso quell’albero di Natale
“privato”, che nulla aveva da invidiare a quello
più
appariscente e maestoso collocato nell’atrio della villa. Ma
questo di albero, tutto loro, era un vero tripudio di colori, con i
micro pacchettini di carta lucida alternati alle sfere monocromatiche e
bicromatiche, agli addobbi in legno, ai fiori e ai fiocchi di stoffa,
senza dimenticare i fili di popcorn e i biscotti, che profumavano tutto
il salotto. Infine, a dare un tocco di luce in più e
rimanere
sempre nella più classica delle tradizioni, qua e
là
sbucavano dei campanellini di ottone.
I due ragazzi annuirono
gravemente all'unisono nel contemplare il loro lavoro, il braccio
dell’uno sulla spalla dell’altro, dandosi grandi
pacche di
approvazione.
«E tu che ne dici, peste?» gli domandò
Kanon, voltandosi verso Aiolia.
«A casa l’abbiamo già fatto da un
pezzo», biascicò il bambino, con la bocca tutta
impastata.
Kanon avrebbe voluto
spiegargli che quell’anno erano in ritardo perché
avevano
voluto aspettare che Saga si fosse sentito meglio, anche se poi il
gemello non era riuscito a unirsi a loro per condividere quella
tradizione, ma rimase ammutolito e con gli occhi sgranati nel vederlo
intento a leccarsi con grande gusto le dita appiccicose, il viso
paffuto imbrattato di briciole bianche, granella tostata e sottili
filamenti marroncini, soprattutto attorno alla bocca. Stava per dire
qualcosa, ma ci rinunciò, notando l’espressione
sconsolata
di Aiolos che si era persino messo una mano sugli occhi per non vedere
il fratellino che dondolava la testa contento, lo sguardo in estasi per
quell’ammasso di bontà nelle sue mani e che
masticava a
tutte mascelle, aprendo di tanto in tanto la bocca a scatti
perché il troppo caramello gli si attaccava ai denti.
*****
Subito dopo il termine di
quella cena molto animata, alla quale si erano aggiunti come da
programma Georgina e Thomas, Shion Hayes si era rintanato di nuovo in
biblioteca, sprofondato comodo sulla sua poltrona di fronte al camino e
con il consueto bicchiere di whisky in mano.
D'abitudine l'avrebbe
sorseggiato con calma, assaporandone ogni goccia, ma quella sera non vi
stava riuscendo. Sulle gambe teneva appoggiata una cartellina di cuoio,
dalla quale spuntavano fuori dei documenti. Nell'altra mano teneva una
fotografia, vecchia e malridotta. La sua espressione era difficile da
decifrare, mentre la fissava. Rabbia, tristezza, rimpianto... forse
ancora voglia di vendicarsi. Tante volte, nel corso degli anni, aveva
accartocciato e scagliato quella fotografia per terra, o gettata nel
cestino della carta straccia, riprendendola; però ogni volta
e
provando a rimediare al danno. Ma per quanta cura ci mettesse per
eliminare le pieghe, il danno ormai era irrimediabile: il volto del
giovane uomo ritratto accanto a lui era quasi del tutto scomparso,
corroso da tutti quei maltrattamenti. Maggiore fortuna era toccata
all’uomo al centro – che con grande orgoglio posava
assieme
a loro – e alla giovane ragazza che completava il gruppetto.
I
loro volti erano ancora distinguibili ed erano sorridenti e compiaciuti.
Sbuffò fuori
l'aria dalla bocca in un forte sospiro, nel ritornare con la mente a
quel passato. Gli occhi gli si stavano velando di lacrime, ma
chissà se erano dovute ai ricordi o all'effetto del whisky
che
aveva bevuto quella sera. Sul tavolino basso, fra le due poltrone, era
posata una bottiglia ormai quasi vuota. Dalla cartelletta prese una
lettera: erano solo poche righe scritte a mano, con una scrittura
ordinata ed elegante. Sorrise impercettibilmente.
«Ancora una
volta... mi conoscevi più di quanto io potrò mai
conoscere me stesso. E sei riuscito a fregarmi, amico mio»,
mormorò.
Dalla cartelletta presa
anche due articoli di giornale, ritagliati diversi anni prima e che lui
stesso aveva aggiunto. Il primo era un mezzo trafiletto anonimo,
l’altro invece era un articolo che aveva avuto maggiore
risalto,
forse perché si parlava di un nome che aveva un certo peso a
Boston. Li fissò per diversi minuti: li aveva letti e
riletti
così tante volte che ne conosceva a memoria ogni singola
parola,
ma sapeva cosa c'era di non scritto in quelle righe.
Chiuse gli occhi,
appoggiando la testa all'indietro, sullo schienale morbido della
poltrona. Per anni aveva convissuto con un grave senso di colpa nel
cuore, ma forse, dopo quindici anni, poteva pensare che il debito fosse
ormai ripagato.
Si alzò e ripose
la cartelletta nella cassaforte a parete, collocata dietro il grande
ritratto del vecchio mr Hayes. Quando rimise a posto il quadro, si
soffermò a fissare impassibile quella figura austera: seduto
su
quella stessa poltrona di broccato verde, con il suo completo in
gessato, l'orologio da taschino e la catena d'oro agganciata a uno dei
bottoni del panciotto e i capelli bianchi leccati all'indietro, in
ordine impeccabile. Scrollò la testa. Poi, i suoi occhi
incrociarono il suo riflesso nello specchio appeso sopra il camino di
marmo rosso e corrugò la fronte; ciò che vedeva
era un
uomo di quarantatré anni che assomigliava sempre
più
all'austero genitore. Dentro invece... dentro si sentiva a volte
smarrito e a volte arido.
Si servì un altro
bicchiere di whisky e, con un sorriso ambiguo sulle labbra sottili,
brindò alla salute del padre.
*****
Gli schiamazzi dei
ragazzi, uniti ai richiami esasperati degli adulti, si sentivano per
tutta casa. Ancora più forti erano arrivati alle orecchie di
un
cupo Shion Hayes dietro alla scrivania quando Shura aprì le
porte della biblioteca, divertito da quell'allegra masnada che animava
la casa e che invece metteva a dura prova i nervi del capofamiglia.
Shion si era dovuto
sobbarcare entrambi i fratelli Foster-Cooper e tutto quel disagio
cercava di sopportarlo solo per la serenità di Nanny. In fin
dei
conti, erano gli unici nipoti della donna e lui le voleva bene come a
una madre e le doveva molto. Angelina Foster lo aveva praticamente
cresciuto al posto di un padre troppo impegnato a edificare palazzi,
centri commerciali e quant’altro, in giro per lo Stato e
totalmente incapace di provare – o dimostrare –
affetto per
il proprio unico figlio, e di una madre che era letteralmente sparita
dalla sua vita quando lui era ancora molto piccolo. Le rare volte in
cui Shion Hayes ripensava alla sua infanzia, si diceva che non era
stata una gran perdita.
Quando lui aveva solo
cinque anni, la madre se n’era andata di casa e dagli Stati
Uniti
per correre dietro al suo sogno: diventare famosa e sfilare per i
più grandi nomi della moda di Parigi e di Milano. E
così
era stato per i primi anni, ma senza mai sfondare sul serio. Allora, si
era stabilita a Montecarlo, abbordando un altro riccone e trovando
infine il modo di fare la bella vita. Quella sua fuga,
l’anziano
marito non gliel’aveva mai perdonata. Era un uomo
all’antica lui: le donne dovevano rimanere a casa a curare i
figli e non avere grilli per la testa. Ma il vecchio Hayes aveva
commesso l’errore di scegliersela troppo giovane, avvenente e
con
troppa iniziativa. Alla fine l’aveva liquidata con un poco
generoso assegno e se n’era lavato le mani.
*****
«Aiolia!» lo
richiamò con tono perentorio il fratello maggiore.
«Torna
subito qui! Non puoi sbirciare i regali prima del tempo!»
continuò a sgridarlo, faticando a stargli dietro mentre il
piccolo correva su per lo scalone principale, scorrazzando poi lungo il
corridoio del piano superiore.
Aiolos riuscì ad
agguantarlo solo perché il bambino ebbe
un’indecisione,
davanti a quelle porte tutte uguali. Aveva creduto alle parole di Kanon
che, nella sua sceneggiata, si era lasciato sfuggire che i regali di
Natale erano stati riposti in una delle camere per gli ospiti.
«Anche se stasera
non puoi farlo, cosa ti costa aspettare fino a domani
mattina?»
gli domandò un poco ansimante, girandolo verso di
sé.
«Dai, fratellone!
Guardalo, come si fa a dire di no a questo musetto?» si
intromise
il colpevole di tale tentativo di spionaggio e sicuro trafugamento. Era
salito di corsa dalle scale di servizio e aveva preso alle spalle il
piccolo, iniziando a tirargli le guanciotte paffute e facendogli fare,
suo malgrado, improponibili smorfie. «Accontenta questa
pulce!»
«Per favore, Kanon,
non ti ci mettere anche tu. Lo sai che se ci scoprono passeremo dei
guai, vero?» sbuffò Aiolos, sentendosi in
minoranza. Si
grattò la testa di fronte a quello spettacolo, faticando a
nascondere le risate. «E lasciagli stare la faccia! Ha
già
la bocca fin troppo larga, di questo passo gli diventerà
come
quella dello Stregatto!» rimbrottò il
“fratellastro”, schiaffeggiandogli le mani moleste.
«Paura di mammina,
eh?» ribattè invece il provocatore di famiglia,
che nel
frattempo aveva mollato la presa sul piccolo, il quale ne aveva subito
approfittato per scappare via come in furetto.
Il bambino però,
si fermò proprio di fronte allo scalone e, girandosi verso i
due
adolescenti, si esibì in una linguaccia impertinente.
Kanon scoppiò in
una risata divertita, commentando che quella peste prometteva bene, poi
si mise le mani nelle tasche dei jeans, sorridendo malizioso nei
confronti dell'altro.
«Lo sai che quella
per certe cose è più infantile di tutti noi messi
assieme», rispose con fastidio Aiolos. «Anzi, se
non
sapessi che ora sta discutendo con la nonna, probabilmente sarebbe
già lì a frugare tra i pacchetti! E poi, chi
credi che mi
abbia insegnato la tecnica per rimpacchettare i regali in modo
perfetto?» gli disse, gonfiando il petto e mettendosi in
posa.
«No, purtroppo il problema è la nonna. Lo sai bene
anche
tu che lei ci tiene molto a queste cose e se ci dovesse beccare, questa
volta passeremmo dei guai ben peggiori di quelli che abbiamo passato
per il nostro ultimo compleanno», gli ricordò,
appoggiandosi con le spalle alla parete del corridoio. «Per
colpa
del tuo stupido scherzo ci siamo presi un sacco di scapaccioni; e la
torta ce la siamo scordata!»
Aiolos non nascose
l’evidente fastidio che provava nel ripensare ancora a
quell’episodio e poco gli importava se l'amico avesse
condiviso
la medesima sorte con lui.
Kanon si avvicinò
a lui e gli diede qualche pacca compassionevole sulla spalla. Le sue
labbra erano incurvate in un sorriso mesto che ben presto si
trasformò in uno più sfrontato e che poco aveva
di
solidale.
«Tu e...
Saga», disse piano, ma c'era tanto di canzonatorio nella sua
voce. «Devo dire che a Nanny quest'anno la torta è
venuta
proprio bene! Pere e cioccolato...» mugulò di
piacere,
leccandosi anche le labbra. Diede le spalle all'altro e
iniziò a
incamminarsi verso le scale, ma sbagliò a sentirsi troppo
sicuro
di sé, poiché doveva intuire che Aiolos non
avrebbe
accettato sportivamente la verità su quell'episodio. E
infatti,
come una belva assetata di vendetta, il ragazzo si avventò
su di
lui, buttandolo a terra e sedendosi sopra di lui, bloccandolo per le
spalle.
«Imbroglione!»
gli gridò in faccia. «Ecco perché
sembravi fin
troppo calmo durante la punizione. Sapevi bene che quella è
la
mia torta preferita! A Saga invece neanche piace.»
«Che vuoi
farci», rise divertito Kanon, cercando di ripararsi dai colpi
che
l’altro gli sferrava. «È la fortuna di
avere un
gemello che è la mia copia perfetta e che mi vuole bene! E
soprattutto…» sogghignò ancor
più malizioso,
incurante della posizione di svantaggio e approfittando di un momento
di pausa dell’altro. «che mi è complice!
E
poi… cavolo, Aiolos, sei un fesso di prima categoria! Come
hai
fatto a non riconoscere mio fratello?»
Aiolos neanche lo stava
più ascoltando, riprese a colpirlo sulle braccia per fare
breccia nelle sue difese. Il pensiero che anche l'altro gemello se la
stesse magari ridendo ancora adesso lo faceva impazzire di rabbia e
vergogna.
«Smettila!
Piantala, brutto ciccione, togliti di dosso!»
protestò a
un certo punto Kanon, alzando forse un po' troppo la voce, messo di
nuovo in svantaggio.
«Non sono un
ciccione!» ribattè l’altro.
«La tua è
tutta invidia perché sono più grande e forte di
te!»
«Ho capito! Ho
capito! Basta! Finiscila una buona volta!» si
agitò Kanon,
sempre più schiacciato sul parquet, cercando in ogni modo di
liberarsi.
Quel baccano stava
durando da diversi minuti e nessuno dei due si accorse che la porta di
una delle camere da letto si era aperta lentamente e un ragazzo, uguale
a Kanon, ma dall'aria decisamente più dimessa, si era
affacciato
nel corridoio.
«Cosa sta
succedendo? Perché fate tutto questo rumore davanti alla mia
porta?» biascicò stancamente Saga, passandosi il
dorso
della mano sugli occhi.
Nonostante la luce del
corridoio fosse soffusa, quel riverbero feriva gli occhi già
pesanti del giovane e lo costrinse a strizzarli e schermarli con una
mano.
«Niente, niente,
fratellino. Torna in camera», rispose il gemello. Con uno
strattone deciso si liberò della pesante presenza di Aiolos
e
con destrezza si rimise in piedi, mettendosi al suo fianco,
poiché lo vedeva poco stabile sulle gambe.
«Ma stavate
litigando», cercò di insistere Saga, con voce
debole e
assonnata. Con la punta delle dita accarezzò la guancia del
gemello, sfiorando un piccolo graffio che si stava già
arrossando.
«Ma no, stavamo
giocando come nostro solito!» esclamò con un
sorriso
Kanon. «Non è vero, Aiolos?» si rivolse
poi
all'altro che era ancora a terra, per ottenere una conferma alla sua
affermazione e smorzare le successive proteste del fratello.
«Mi
dispiace se ti abbiamo disturbato. Vieni, ti riaccompagno a
letto.» Con eccessiva premura lo sorresse per un braccio e lo
fece rientrare nella camera.
Nessuno, a vederli
adesso, avrebbe mai pensato che quei due fossero davvero gemelli. Kanon
era bello e solare, dall’incarnato leggermente abbronzato e
un
fisico asciutto e ben proporzionato, grazie anche al tanto sport che
praticava, soprattutto basket e hockey su ghiaccio: passione che
condivideva con Aiolos. Il carattere deciso e lo sguardo intenso, quasi
indagatore – e allo stesso tempo sfrontato – lo
facevano
apparire sempre pieno di energie.
Saga invece, che fino a
un mese prima esprimeva le medesime qualità del gemello, a
causa
del lungo periodo in cui era rimasto confinato in casa, era diventato
più pallido, sciupato e remissivo. I lineamenti del suo
volto,
già di per sé delicati, ora lo erano diventati
ancora di
più, facendolo sembrare stranamente più giovane,
nonostante la malattia; e chiunque, a vederlo in quelle condizioni, lo
avrebbe potuto scambiare addirittura per una ragazza. I capelli, che
amava tenere sempre un po’ lunghi, contribuivano ad
alimentare
quell’equivoco imbarazzante. Qualche volta era accaduto anche
a
Kanon di essere schernito a scuola ed era proprio per quel motivo che
aveva deciso di tenerli più corti rispetto al gemello.
«Aiolos, non stare
seduto lì per terra, dammi una mano!» lo
richiamò
Kanon, girandosi indietro e trovando l'altro ancora fermo e imbambolato.
«Come al solito!
Appena arriva il guastafeste il divertimento finisce e io non
esisto», sibilò il ragazzo, sentendosi
fastidiosamente il
terzo incomodo. Si alzò di mala voglia e seguì i
due
nella camera di Saga, rimanendo però in disparte, fermandosi
accanto alla porta a guardarli.
«Sei di nuovo caldo
e sei anche tutto sudato», sospirò Kanon, tastando
una
guancia del fratello con il palmo della mano. «Questa febbre
continua ad andare e venire.» Gli scostò i capelli
umidi e
gli liberò la fronte, posandovi poi le labbra, per fare
un'ulteriore misurazione come faceva sempre Nanny quando da bambini
stavano male. «Ti aiuto a rimetterti a letto e vado a
chiamare
Nanny per farti dare qualcosa. Penso che sia quasi ora
dell’iniezione di antibiotico, vero? Intanto Aiolos
rimarrà a farti un po’ di compagnia»,
cercò
di rassicurarlo.
Saga sedeva stancamente
sul bordo del letto, con le spalle incurvate e la testa un poco bassa e
pesante; lo sguardo che si confondeva nella confortevole penombra di
quella stanza. «No, per favore»,
farfugliò
sonnolento, mentre l’altro lo incoraggiava a sdraiarsi e lo
copriva col piumone, lisciando per bene anche il lenzuolo.
«Rimani un po’ con me», pregò
il fratello,
trattenendolo per il maglione.
Kanon lo guardò
con lieve stupore: la richiesta di Saga era stata tanto accorata,
nonostante quel filo voce, che gli si strinse il cuore. Non
poté
fare altro che acconsentire e si sdraiò anche lui sotto il
piumone, stringendolo in un abbraccio.
Mentre lo vedeva
appoggiarsi al fratello, lo sguardo di Aiolos si incrociò
con
quello di Saga e, a quel fugace contatto, notò come i suoi
occhi
scintillassero di una strana luce. Erano occhi stanchi e appesantiti da
quelle poche e dispettose linee di febbre che lo intontivano. In quello
stesso istante, nel vederlo così indifeso fra le braccia di
Kanon, per un attimo dimenticò l'offesa dell'essere stato
messo
da parte per l'ennesima volta. Sentì un lieve imbarazzo nel
soffermarsi sulle sue gote arrossate e così stranamente
seducenti. Strinse le labbra e distolse lo sguardo. Il vedere con
quanto affetto e con quanta cura Kanon assisteva il malato, gli
facevano rodere il fegato. Invidia, gelosia, per quelle attenzioni
tanto premurose da sembrare asfissianti.
«Solo per una
banale influenza!» borbottò a denti stretti. Fino
a pochi
momenti prima, lui e Kanon erano assieme che bisticciavano, ma si
divertivano; mentre ora era diventato completamente invisibile, un
estraneo, spettatore di quel rapporto esclusivo che neanche un mese
prima comprendeva anche lui stesso. «Lo sai che se ne sta
approfittando, vero? E non stargli troppo appiccicato, altrimenti te la
prendi anche tu l’influenza!» sbottò con
tono acido.
Sembrava però che stesse parlando al vento. L'altro infatti
non
gli rispose per niente, intento com’era a lisciare dolcemente
i
capelli del gemello.
«Com’è
venuto l’albero?» chiese a voce molto bassa Saga.
«E
i regali, li avete aperti? Cosa ti hanno regalato? E la
cena?»
domandò di nuovo. Quelle parole uscirono dalla sua bocca
quasi
incomprensibili.
«L’albero
è venuto molto bene, fratellino. Un vero capolavoro, anche
se
non c'eri tu a dirigere i lavori come ogni anno. E i regali li apriamo
domani mattina, così lo faremo tutti assieme e sarai bello
pimpante e in piena forma», gli sussurrò Kanon.
Sorrise
nell'accomodargli meglio il piumone addosso, evidentemente era stato
troppo solo e isolato in quella stanza tutta buia da perdere la
cognizione del tempo.
C’erano voluti
pochi momenti affinché Saga si riaddormentasse sereno,
coccolato
dalla presenza rassicurante del fratello. Da diverse settimane il
giovane era prigioniero di una coriacea influenza che senza volerlo gli
aveva passato proprio Kanon e ancora non accennava a volersi risolvere.
In un certo senso si sentiva responsabile delle condizioni del gemello,
poiché il fisico di Saga era ulteriormente debilitato dalle
conseguenze del ricovero in ospedale avvenuto poco dopo il loro
quindicesimo compleanno, a causa di un misterioso incidente.
*****
“Quel giorno era
ancora avvolto nel più fitto dei misteri: nessuno sapeva
cosa
fosse accaduto veramente. Nemmeno Saga, il protagonista di quella
brutta avventura, che ne aveva rimosso ogni ricordo.
Tutto ciò che era
stato possibile ricostruire di quella giornata, risaliva solamente alle
prime ore del pomeriggio. I gemelli e Aiolos avevano passato
l’intera mattinata al Country Club assieme a Nanny. Quando la
donna era poi tornata alla villa, Kanon e Aiolos avevano deciso di
scatenarsi un po' e provare il ghiaccio della pista di hockey. Saga era
rimasto a osservarli per una mezz'ora, ma si era annoiato presto di
quel gioco troppo di contatto e delle schermaglie nelle quali si
esibivano e aveva preferito tornarsene a casa anche lui.
Era il primo di dicembre,
ma quel pomeriggio c'era un bel sole che sembrava quasi primavera.
Fernando Jr. era appena rientrato da una commissione ed era stato il
primo a trovarlo. Aveva raccontato che lo aveva visto camminare con
passo incerto, intontito, verso l’ingresso principale della
villa. A prima vista non si era preoccupato, ma aveva capito che
qualcosa non andava nel momento in cui lo aveva visto appoggiarsi al
muretto di una delle aiuole, sedendovisi poco dopo, piegandosi in
avanti e reggendosi la testa con le mani. Ulteriore preoccupazione
l’aveva avvertita quando lo aveva visto vomitare per terra ai
suoi piedi. Quando lo aveva raggiunto di corsa, lasciando quasi cadere
a terra le due grosse buste di carta che portava con sé,
aveva
trovato la conferma alle sue preoccupazioni, ma nonostante le
insistenti domande con le quali aveva subissato il ragazzo, non aveva
ottenuto alcuna risposta esauriente che spiegasse lo stato pietoso in
cui lo aveva trovato.
Saga aveva i vestiti
sgualciti e sporchi di fango e foglie secche; il maglione bianco panna
era strappato sullo scollo e lasciava intravedere un brutto graffio che
scendeva verso la scapola sinistra, ed era imbrattato da alcune grosse
gocce di sangue, soprattutto sulla parte davanti. Quello che
però aveva destato maggiore preoccupazione nell'uomo era
stato
un taglio sul lato destro della fronte del giovane, vicino alla tempia:
la ferita era aperta e leggermente gonfia.
Dopo una veloce
medicazione, fra le tante rassicurazioni che Saga aveva continuato a
fargli, nel dire che stava bene – rifiutando gli inviti ad
andare
al pronto soccorso – il giovane si era ritirato nella sua
stanza,
rimanendoci per tutto il resto della giornata, saltando la merenda che
Nanny aveva preparato per lui e per gli altri due ragazzi che nel
frattempo erano tornati dal Country Club con i bastoni da hockey e i
pattini sulle spalle, continuando a spintonarsi a vicenda, e saltando
persino la cena. Anche il mattino seguente Saga non si era presentato
per la colazione, facendo preoccupare tutti, soprattutto il gemello
che, dopo aver invaso la sua camera da letto, era corso in cucina a
chiamare aiuto con le lacrime agli occhi. Nessuno era riuscito a
svegliarlo. E la stessa cosa era avvenuta anche per i due giorni
successivi, quando era stato ricoverato al Boston Medical Center, dove
gli avevano diagnosticato una commozione cerebrale e un trauma cranico.
Dopo quanto accaduto in
sua assenza, ogni giorno Shion Hayes si era rammaricato di aver diviso
i due fratelli, acconsentendo che un ragazzo così giovane
– seppur serio e responsabile come Saga – vivesse
praticamente da solo alla villa, anche se era seguito da Nanny e Shura;
e lasciando che Kanon e Aiolos abitassero invece con lui nella casa in
città e lo seguissero di tanto in tanto anche a New
York.”
*****
«Anche la sera
della vigilia di Natale sei rintanato qui a fare compagnia agli affari
e agli spauracchi del passato, invece di stare con i tuoi
figli?»
Shura entrò in biblioteca sbottonandosi il cappotto fradicio
di
pioggia, avvicinandosi senza invito al camino per scaldarsi.
«Nanny ha proprio ragione a chiamarti Scrooge!» Con
la coda
dell'occhio notò l’espressione contrariata di
Shion nel
sentirsi paragonato per l’ennesima volta a quel personaggio:
un
vecchio scorbutico, un piccolo uomo solo, patetico e taccagno.
Con movimenti lenti e
misurati il padrone di casa chiuse i fascicoli davanti a sé
e si
appoggiò allo schienale della poltrona, dietro la scrivania
di
mogano, dondolandosi un poco e osservando l’amico scaldarsi
al
fuoco.
«Allora,
com’è finita la cena?» chiese Shura,
tanto per fare
della conversazione, anche se aveva la netta impressione che
l’altro preferisse il silenzio. Del resto, come biasimarlo?
Appena era rientrato alla villa aveva sentito una tale baraonda che
aveva considerato di fare dietrofront e rintanarsi nella dependance a
bere birra davanti alla televisione.
La risposta di Shion
Hayes fu un prevedibile sbuffo. Si alzò e preparò
due
bicchieri di whisky, uno per sé e l'altro per Shura,
poiché era visibile quanto ne avesse bisogno.
«Dovresti stare un
po’ di più con i ragazzi», gli disse
Shura, con un
tono strano. Nei suoi occhi c'era un'ombra di preoccupazione.
«Shion, non sprecare quest’occasione. Questo
potrebbe
essere l’ultimo Natale che potresti passare assieme a
loro», insistette.
«Tu credi?»
Shura rimase in silenzio
per qualche secondo, quasi soppesando le parole da dire. «Il
prossimo anno avranno sedici anni. Vorranno la macchina, vorranno
andare fuori a divertirsi e inizieranno a pensare seriamente alle
ragazze. Sicuramente non vorranno stare a casa con due vecchi
scapoli!»
Terminò il drink
tutto d’un fiato, posando il bicchiere sul mobile bar, e si
incamminò verso la porta della biblioteca. Passando davanti
alla
scrivania gli cadde l’occhio su un particolare: da sotto uno
dei
report spuntava per metà una fotografia.
«Ancora a pensare a loro», disse atono,
riconoscendola.
Subito spostò lo
sguardo verso un mobile consolle col piano di marmo rosso, sul quale
erano state incorniciate diverse foto dei gemelli. Una in particolare
li ritraeva assieme ad Aiolos: era stata scattata l'estate di quello
stesso anno, sul pontile privato, e i ragazzi erano in posa con le
braccia sulle spalle l’uno dell’altro. Bagnati
fradici e
sorridenti, dopo essere usciti dall’acqua; ed erano tutti e
tre
sani e forti.
«Era inevitabile
che prima o poi la somiglianza diventasse più evidente e non
parlo solo dell’aspetto fisico. La situazione attuale ha
accentuato ancora di più questa somiglianza»,
commentò, prendendo in mano quella foto per qualche secondo
e
rimettendola poco dopo al suo posto. «Non sono mai riuscito a
capire chi dei due amassi di più.»
«Questa è la
classica domanda da un milione di dollari», rispose Shion,
con
tono quasi rassegnato, appoggiandosi con un braccio alla mensola del
camino e fissando le fiamme ardenti. «Li ho amati
entrambi… e li ho persi», ammise con amarezza.
«Ho
perso entrambi», ripeté, mormorando quelle parole
fra
sé e sé, incupendosi ancora di più.
Si riportò alla
scrivania, appoggiando il bicchiere davanti a sé e si rimise
di
nuovo seduto sulla poltrona in pelle.
«Mai legarsi
davvero alle persone. Alla fine ti tradiscono… nei modi
più diversi», aggiunse, alzando lo sguardo verso
quella
fotografia che poco prima Shura aveva preso in mano. «Shura,
dimmi, sei riuscito a sistemare quella faccenda?» domando
poi,
ricordando come il suo braccio destro e confidente si fosse dovuto
assentare a metà della cena, dopo aver ricevuto una strana
telefonata.
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
In questo capitolo si passerà temporaneamente su
un altro
fronte della storia, quindi non preoccupatevi se non troverete i nostri
soliti protagonisti, qui saranno tutti personaggi originali. Stesso
anno, stesso Natale, differente...
Non so che altro dire se non...
...Buona lettura!
III
Boston, Natale 1998
Natale è sempre stato per antonomasia il
periodo
dell’anno preferito da grandi e piccini. È simbolo
di
gioia e di famiglia, di buoni sentimenti, di condivisione e…
vacanze e regali! Tutti, ragazzi e adulti, sono in trepida attesa della
mattina del santo giorno per scartare i pacchetti che attendono
pazienti sotto l’albero tutto addobbato, o che giacciono
nascosti
nell’armadio fino all’ultimo minuto, al riparo da
mani
troppo leste e intraprendenti e occhi curiosi. Ma quello del Natale
è sempre stato anche un periodo pericolosamente convulso.
Soprattutto il giorno della vigilia che si trasforma in una vera e
propria corsa contro il tempo per i regali dell’ultimo
minuto, o
dimenticati, per esaudire gli improvvisi capricci di figli, consorti o
fidanzati.
Come per ogni famiglia media americana, quelli dovevano essere i giorni
dell’anno più felici in assoluto anche per
Caroline Miller
e la sua famiglia. Quell’anno invece, sembrava che le cose in
casa non dovessero andare propriamente bene. Non che ci fossero
problemi economici in arrivo. Anzi, da quel punto di vista andava a
gonfie vele, ma era nel rapporto fra i genitori della giovane dodicenne
che iniziavano a intravedersi le prime serie incrinature. O
così
poteva sembrare a occhi estranei e bocche pettegole.
La madre, Teresa Costantini Miller, italiana di nascita ma trasferitasi
con la sua famiglia negli Stati Uniti quando era poco più
che
una bambina, era una casalinga di trentacinque anni con la passione per
la scrittura. Tre anni prima, quasi per caso, aveva visto coronarsi il
suo sogno con la pubblicazione del suo primo racconto. Dapprima,
apparso sul giornalino parrocchiale – fra gli articoli delle
feste di quartiere, la raccolta di beneficenza e gli annunci economici
– e, grazie a un poco conosciuto editore indipendente, era
stato
poi pubblicato all’interno di una raccolta di autori
emergenti
vari e distribuito in alcune piccole librerie della zona. La
provvidenza però non aveva ancora terminato con lei. Un
editore
con maggiore distribuzione, pochi mesi dopo, ne aveva comprato i
diritti e aveva stipulato con lei un vero e proprio contratto.
Gregory Miller, il padre della giovane Caroline, era di un anno
più vecchio della moglie. Era un infaticabile lavoratore
dalla
promettente carriera di poliziotto, la quale proprio in quell'anno era
stata gratificata con la promozione a tenente. Era sempre stato
l’orgoglio della sua famiglia. Ultimo di tre fratelli
– che
avevano scelto strade molto diverse – Gregory aveva mantenuto
viva la tradizione di casa Miller, seguendo le orme del padre e del
nonno nelle forze dell’ordine. L’uomo
però, anche se
responsabile e ligio ai suoi doveri, non era propriamente un pragmatico
come i suoi. Era più un sognatore e celava dentro di
sé
il desiderio, forse troppo ambizioso, di entrare a far parte
dell’FBI.
Gregory era una persona squisita nei modi e nel carattere. Quando si
parlava di lui, tutti erano concordi nel dire che era troppo buono per
fare il poliziotto, non aveva la tempra del duro uomo di legge. Spesso
aveva affiancato il capitano Burton quando questi si muoveva in prima
persona per prendere parte a certe indagini delicate o di alto profilo.
Però, le sue migliori qualità le dimostrava
nell’organizzazione e nelle ricerche; e, per il suo
temperamento
conciliante e affabile, era spesso chiamato a fare da collegamento con
la procura e l'ufficio del sindaco. Per queste sue competenze
aggiuntive, aveva scoperto dentro di sé una certa attitudine
per
le materie giuridiche che lo avevano convinto a frequentare dei corsi
serali presso l’Università di Harvard. Ma era
apprezzato
anche per la grande sollecitudine che dimostrava sul lavoro. Questo
però lo portava troppo spesso ad accondiscendere a ogni
richiesta di colleghi e superiori, finendo poi quasi sempre incastrato
in questo o quel favore. Ed era proprio quest’ultimo aspetto
del
suo carattere la fonte principale delle divergenze che, durante quel
Natale, erano diventate più frequenti in casa. Ogni volta,
Teresa gli rimproverava la mancanza di polso e, quando
l’esasperazione arrivava oltre misura, lo accusarlo di farsi
mettere i piedi in testa da tutti.
Teresa, dal canto suo, era una donna dal carattere un po’
complesso. Era tanto forte e risoluta, quando si trovava nel conforto
delle mura domestiche, quanto timida e insicura, quando doveva
interagire con gli estranei; e, talvolta, dava la marcata impressione
di poter essere facilmente influenzabile nelle sue decisioni. Era una
buona moglie e una buona madre, attenta e scrupolosa nel curare la
propria famiglia, ma le capitava di eccedere nel suo ruolo, imponendosi
forse un po’ troppo con i suoi cari.
Teresa era orgogliosa della grande considerazione della quale il marito
godeva presso i colleghi e i superiori, che lui ricambiava con sincera
disponibilità, ma anche lei avrebbe voluto, per
sé e per
la figlia, almeno una piccola porzione di quella stessa
disponibilità. Troppo intenta a vedere al di fuori, non si
accorgeva invece dell’amore e della devozione che Greg
dimostrava
in ogni momento verso la propria famiglia: a volte con piccole
attenzioni che si davano per scontate, a volte facendo dei veri e
propri salti mortali, come l'assistere alle gare sportive della figlia.
Quell’anno comunque, ci sarebbero state tutte le premesse per
un
Natale da ricordare, se la buona sorte fosse stata dello stesso avviso.
Gregory aveva dovuto rinunciare ad alcuni giorni delle sue ferie
– vigilia compresa – per sopperire all'improvvisa
carenza
di personale nel distretto di polizia nel quale prestava servizio.
Defezioni dovute in parte a un’epidemia di influenza che
girava
da qualche settimana, ma tutti sapevano che la maggior parte erano
invece dovute a un’agitazione sindacale interna alla polizia
stessa.
La famiglia Miller era stata quindi costretta a rinunciare alla breve
vacanza alle Cascate del Niagara che era stata programmata fin
dall'estate passata e questa situazione aveva creato un po’
di
attrito fra i due coniugi, sfociando quella mattina stessa in una
troppo vivace discussione, mentre Greg si preparava per andare in
centrale.
Avrebbero dovuto trascorrerla assieme, quella mattina, Greg e Teresa:
per ultimare i preparativi del pranzo di Natale a casa dei genitori di
lui, sistemare i regali sotto l’albero e passare un
po’ di
tempo fra loro. Non ultimo, organizzare al meglio anche il cenone, al
quale ci sarebbe stato come ospite il capitano Phillip Burton, amico di
famiglia e padrino di Caroline, che avrebbe portato con sé
la
nuova fidanzata. Era un’occasione nella quale Teresa non
voleva
assolutamente sfigurare.
La donna aveva passato tutta la mattina a rimuginare sulle sue parole
troppo dure nei confronti del marito e l’occasione per
chiarirsi
si era presentata durante la pausa pranzo, quando lui aveva chiamato
casa. Potevano litigare, ma si amavano tanto e trovavano sempre il modo
di fare la pace.
*****
«Mammina, io ho fame! Non è ancora pronta la
cena?»
si lamentò la bambina, nel vedere come alle sette della sera
la
tavola era ancora vuota e non c’era nulla neanche sui
fornelli.
«Sì, sì, tesoro. Adesso
arrivo», rispose
distrattamente la madre, mentre Caroline sbucava fuori dalla cucina e
si avvicinava a lei con il volto visibilmente deluso.
«Ma sei ancora davanti al computer!»
protestò la
piccola, puntando i pugni sui fianchi e facendo seguire un sbuffo
offeso, neanche fosse stata lei l'adulta.
«Ho quasi terminato, Caroline, riesci a pazientare ancora
qualche
minuto, eh?» disse Teresa, interrompendosi per un momento e
sorridendole con affetto. «Dai che per cena
c’è il
tuo piatto preferito!» la blandì, per poi
immergersi
ancora in ciò che stava facendo.
«Uffa! Io però ho fame adesso!» si
lagnò la
figlia, rientrando in cucina per cercare qualcosa da mettere sotto i
denti. «Allora mi mangio una merendina!»
«No, non puoi!» esclamò con voce agitata
Teresa,
alzando la testa di scatto e bloccandosi a metà di una lunga
frase che stava scrivendo.
Sapeva bene che quella golosona della figlia sarebbe stata davvero
capace di farlo. Così come sarebbe stata capace di finire
un’intera confezione di merendine e poi mangiare
tranquillamente
anche la cena.
«Ti ricordi cos’ha detto il tuo allenatore di
nuoto? Se non
perdi quei due chili di troppo, ti rimette nella vasca delle riserve! E
tu questo non lo vuoi, vero?» provò a pungolarla
facendo
leva sui suoi due talloni d’Achille: la gola e l'orgoglio.
Sorrise sorniona nel sentire i successivi mugugni di Caroline. Spesso
la doveva rimettere in riga, ma lo faceva per il suo bene e mai con
eccessiva autorità, almeno per quelle cose,
perché
Caroline era una brava figlia.
«E soprattutto, non vuoi che papà ci resti male,
no?» rincarò la dose, sicurissima che
quell’ultima
frase avrebbe fatto maggiore presa.
Caroline aveva un’adorazione particolare per il padre. Solo
per
lui aveva continuato nel nuoto, impegnandosi duramente negli
allenamenti fino a riuscire a far parte del gruppo migliore, quello
dove c'erano le ragazze più grandi; e lo scrigno del tesoro
– una scatola laccata dove il padre conservava tutte le
medaglie
vinte da lei – era la miglior testimonianza di quanto gli
volesse
bene e lo rendesse orgoglioso.
“…
e la macchina sbucò improvvisa dall’oscuro e
nebbioso
vicolo laterale, annunciata dallo stridore delle ruote
sull’asfalto bagnato, travolgendo la sua vittima designata.
Incurante dei testimoni che stavano assistendo, aveva puntato
l’ignaro uomo, lo aveva seguito nella sua disperata corsa
verso
la salvezza, accompagnandolo nella sua prematura fine. Lo
lasciò
riverso a terra, nel mezzo di una grande pozzanghera, nella quale
l’acqua inquinata dallo smog dei fumosi bassifondi della
città si mischiava al suo sangue e al Bourbon scadente della
bottiglia che l'uomo aveva appena acquistato. Con gli occhi sbarrati,
nei quali era rimasta impressa solamente l’abbagliante luce
dei
fari della macchina, il corpo della vittima lentamente si
irrigidì, circondato da una moltitudine di persone accorse
lì più incuriosite dell’accaduto che
per prestare
soccorso.
Quella
fredda messaggera di morte riparì a tutta
velocità,
imboccando la strada principale, zigzagando fra le macchine che lente
si avviavano ad attraversare l’incrocio, accompagnata dal
suono
impazzito dei clacson che si sovrastavano gli uni sugli altri. Infine,
si dileguò, confondendosi nel convulso traffico della
sera…”
«È il nuovo libro?» chiese Caroline, da
dietro le spalle della madre, masticando rumorosamente.
Teresa non l’aveva neanche sentita arrivare, tanto era
concentrata su quel particolare paragrafo che già
più
volte aveva riscritto ma ancora non la soddisfaceva appieno. La bambina
si sporse un poco più avanti per riuscire a leggere meglio,
continuando a sgranocchiare con noncuranza un pezzetto di carota
trafugata da una delle ciotole in cucina, dove tutti gli ingredienti
erano stati disposti con cura e ordine sul piano di lavoro, pronti per
essere trasformati in un delizioso stufato di pollo.
«Ehi! Ma che fai? Non puoi leggere! Via, sciò!
Sciò! Questa non è roba adatta a te. Sei ancora
troppo
piccola!»
«Ma se praticamente tutti i miei compagni leggono i tuoi
libri! E
persino la biblioteca della scuola ha una copia dei tuoi
racconti», ribatté la bambina con uno sbuffo.
«Sono
io l’unica che ancora non li conosce.»
«Davvero?» si sorprese Teresa. «La
biblioteca
scolastica ha… Oh, cielo! Non me lo aspettavo
proprio»,
farfugliò imbarazzata. Nonostante fosse diventata famosa con
i
suoi libri, non era ancora abituata alla notorietà e questo
la
metteva a disagio. «Comunque li leggerai quando sarai
più
grande! E non provare a chiederli in prestito, perché lo
verrei
a sapere!» terminò, riprendendo di nuovo in mano
le redini
della situazione. «Piuttosto, hai terminato i compiti per
oggi?» le domandò, salvando e chiudendo il file di
word,
alzandosi infine dalla sedia. Avrebbe continuato più tardi a
scrivere quel capitolo.
Caroline trattenne il fiato per qualche secondo, colta in flagrante. I
compiti li aveva fatti quasi tutti, le mancavano giusto un paio di
problemi di matematica, che proprio non riusciva a risolvere, e
scrivere il commento su un capitolo di storia, ma quel pomeriggio aveva
fatto di tutto per scansarli.
«Ti va di darmi una mano a cucinare?» le propose la
madre,
sorridendole e sospingendola piano verso la cucina. Poi, si mise il
grembiule e spostò sul fuoco la pentola dello stufato, per
iniziare a far rosolare i pezzi del pollo.
*****
Erano ormai passate le dieci di sera e Caroline si era rifugiata da
tempo nel confortevole tepore del suo letto. Anche se le vacanze di
scuola erano già iniziate, la sua giornata era stata
ugualmente
impegnativa. Da quando era rientrata a casa dall’ultimo
allenamento dell’anno, accompagnata dal suo allenatore a
metà pomeriggio – ovvero prima del solito
– non
aveva fatto altro che correre qua e là per il giardino
assieme
ad alcuni amici del vicinato e giocare come un maschiaccio. Se l'era
potuto permettere, poiché aveva sfruttato l'intera mattina
per
fare la maggior parte dei compiti di scuola che il padre le aveva
programmato per quel giorno: fin da subito infatti, Gregory le aveva
suddiviso la montagna di compiti in modo che lei non arrivasse a
doverli fare tutti all'ultimo momento, com'era capitato l'anno
precedente. E si aspetta da lei che rispettasse l'impegno.
Quella sera, Teresa tradiva una finta tranquillità. Stava
rassettando la cucina, ma continuava a volgere lo sguardo verso
l'orologio a parete, sospirando delusa, o si fermava a fissare quello
sul display del microonde, domandandosi come mai Greg fosse
così
tanto in ritardo. Si concesse un piccolo sbuffo nel passare lo
strofinaccio sulla maniglia del frigorifero, pensando che era stata
costretta a ritirarvi la cena del marito. Era davvero inusuale che lui
tardasse in quel modo, soprattutto senza avvertire, né con
una
telefonata, né con un messaggio sul cellulare. Lei era certa
che
quella sera Greg non fosse di pattuglia. Poteva dunque non aver trovato
il tempo o l’occasione per avvisarla?
A un tratto sentì una strana sensazione di disagio, come un
lieve formicolio allo stomaco che si faceva largo fra
l’improvvisa voglia di sottaceti e quella di crostata ai
lamponi.
Non era la prima volta che capitava, in quegli ultimi tempi. Allora,
quando si presentava, così tangibile come quella sera, lei
interrompeva ciò che stava facendo e iniziava a fare dei
respiri
profondi, accarezzandosi il ventre che iniziava a mostrare i primi
rigonfiamenti. E, quando si concentrava sul pensiero del maschietto che
stava crescendo dentro di lei, l'apprensione si calmava fino a sparire.
Pochi gesti, per un rituale tutto suo che aveva il potere di scacciare
le sue paure.
«Quattro mesi», sussurrò, nel silenzio
della cucina.
Quando ci pensava, diceva a se stessa di essere stata fortunata. Le
nausee erano meno forti rispetto a quando aspettava Caroline e anche le
prime voglie si erano manifestate più
“normali”. Un
altro pensiero la fece sorridere: il lieto evento sarebbe avvenuto in
primavera, nella seconda metà di maggio. Forse, sognava,
nello
stesso giorno suo e di Caroline. Stava esagerando con la fantasia?
Eppure, a Teresa piaceva perdersi in quel tipo di fantasticherie, la
rilassava e la faceva sentire più ottimista. Poter
festeggiare
tre complenni come fossero uno sarebbe stato un evento unico e ancor
più speciale.
Fece un respiro profondo, prendendo un sorso d'acqua dal rubinetto,
riprendendo a riordinare. La sua fiducia nei confronti del marito era
solida: lui non avrebbe tardato ancora molto e lei lo avrebbe accolto
con un sorriso. Ma la sua mente viaggiava rapida da un pensiero
all'altro, incastrandosi fra le righe di un turbolento capitolo che
aveva lasciato in sospeso per preparare la cena e che non voleva
saperne di vedere la luce. Più ci pensava, meno la
soddisfaceva
come l'aveva scritto.
La casa era immersa in una tranquillà soave. In sottofondo
si
sentiva il lieve ronzio delle lucette intermittenti dell'albero di
Natale che campeggiava nel salotto di casa e sotto il quale, poco
prima, aveva provveduto a sistemare i regali: ce n'era uno anche per
Phillip.
Seduta finalmente di nuovo al computer, poteva provare a dare forma a
tutte quelle mezze idee che affollavano la sua testa. Con cautela
aprì il cassetto della scrivania, strapieno di dolci vari,
caramelle, tavolette di cioccolato bianco, biscotti e cracker.
Pescò la sua prima vittima, mentre con lo sguardo era
concentrata sul foglio bianco del word e quel cursore che lampeggiava
impaziente. Mise in bocca un cioccolatino al latte e diede uno sguardo
all'orologio sul desktop. Poi, senza rendersene, si distrasse nel
fissare la lettera del suo editore, appoggiata lì vicino. La
prese in mano, con il cuore che aveva iniziato a battere emozionato,
proprio com'era stato quando la lesse la prima volta. La lettera non
era una di quelle precompilate e firmate dalla solita assistente, che
mandava le comunicazioni standard o gli auguri di Natale ai dipendenti
e agli scrittori sotto contratto. Era scritta a mano, da lui in
persona, come si faceva una volta, nella quale le comunicava che la
casa editrice le offriva, come premio per il successo delle vendite
degli ultimi libri, una settimana a New York per lei e tutta la
famiglia. Ed era per giunta la settimana di Capodanno!
«Il Capodanno a Time Square. Un sogno...»
sospirò.
Era stato un regalo sorprendente e inaspettato, del quale non ne aveva
ancora parlato a Caroline, ma sicuramente ne sarebbe stata entusiasta
anche lei. Un'occasione sulla quale contava per poter avere la famiglia
riunita per qualche giorno. Tutto stava andando bene. Cosa mai avrebbe
potuto rovinare i suoi programmi?
Si mise al lavoro, più carica che mai; non prima
però di
infilarsi gli auricolari e attivare la playlist preferita dal media
player. Le piaceva tenere la musica molto alta, l'aiutava a mantenere
la concentrazione.
Il cane iniziò ad abbaiare con insistenza. Era un pastore
tedesco di cinque anni, che Greg aveva voluto a tutti i costi e che
adorava, buono e docile con i membri della famiglia e diffidente con
gli estranei; quella sera sembrava essere molto nervoso. Il suo abbiare
era convulso, forte e senza tregua, quasi rabbioso. Era riuscito a
sovrastare il volume della musica, inducendo la donna a togliersi per
un momento gli auricolari e accertarsi di cosa stesse accadendo fuori.
Con un sonoro sbadiglio, vista anche l'ora ormai tarda, Teresa si
decise ad andare a controllare, ma tutto era tornato silenzio.
Sbuffò: il filo dei pensieri si era ormai spezzato. Si
alzò ugualmente, anche se il cane si era ormai chetato.
Uscì dalla porta d'ingresso stringendosi il maglione addosso
e
rimase per qualche minuto nel porticato a osservare la strada. Il
giardino anteriore era illuminato solo dalle luminarie e dai lampioni
per strada. Davanti al cancellino c’era la sagoma di un uomo,
semi confusa nell’oscurità e poco riconoscibile,
perché chinato ad accarezzare la testa
dell’animale, che
ora emetteva dei leggeri guaiti. Teresa si sentì sollevata.
Il
cane faceva così solo con Greg e con pochi altri:
solitamente
poliziotti, poiché aveva fatto parte dell'unità
K9 della
polizia. La donna fece un passo in avanti, scendendo il primo gradino,
ma si fermò subito dopo, notando che anche l’uomo
nel
frattempo si era mosso: riconobbe il capitano Burton.
Con passo cauto e lo sguardo basso, seguito dal cane ancora festante,
l’uomo si avvicinò all'ingresso. Di slancio
abbracciò la donna, che mai si sarebbe aspettata in tale
gesto
quando non era presente anche il marito, facendola preoccupare.
«Teresa», disse, con il viso stravolto e la voce
spezzata
dal dolore, staccandosi da lei. «Per favore…
entriamo in
casa.»
Le mise una mano sulla schiena, accompagnandola dentro, nel tiepido
conforto della sua casa, nella quale l’uomo sperava
– forse
ingenuamente – che la notizia che era venuto a darle sarebbe
stata accolta con minor trauma.
*****
Teresa rimase sul divano del salotto: assente, catatonica, totalmente
inerme. Era cullata dalle rassicuranti braccia di Phillip che la teneva
stretta a sé, con la testa appoggiata al proprio petto. La
notizia l’aveva travolta in pieno, facendola precipitare in
un
assoluto blackout. E ora, non riusciva a sentire più nulla
attorno a sé: nessuna parola, nessun rumore, nessun pensiero.
Il tempo sembrava essere passato in un attimo, fra la veglia e il sonno
leggero; sempre lì, sempre sostenuta dalla preziosa presenza
dell’amico. Fuori stava già iniziando ad
albeggiare e il
cane di famiglia aveva ripreso ad abbaiare. Non era il suo solito tono
rabbioso di chi difende il proprio territorio, era più
lamentoso, triste, come se anche lui fosse consapevole della
situazione. Ma Teresa non riusciva ad accorgersene di quel cambiamento,
completamente straniata.
Tempo addietro, quando tutto era ancora bello e il futuro roseo e pieno
di promesse, Teresa aveva deriso – nella privacy della sua
casa,
accoccolata fra le braccia del marito –
quell’iniziativa
del comitato delle mogli dei poliziotti che avevano insistito per
formare un gruppo di sostegno per le famiglie dei caduti in servizio. A
lei non sarebbe mai capitato, si ripeteva sempre. Il suo Greg faceva
soprattutto lavoro d’ufficio, non aveva mai sparato a
nessuno,
neanche portava la pistola con sé. Quale pericolo avrebbe
potuto
correre?
E ora…
Ora le sembrava di essere diventata suo malgrado la protagonista di uno
di quei vecchi film polizieschi, nel quale l’agente di turno
arriva a casa della moglie del collega per annunciarle la morte del
marito. Casi che accadevano spesso nella finzione, ma che accadevano
anche nella realtà.
Era dunque per quel fatidico momento che serviva quello stupido gruppo
di sostegno? Ma lei si era sempre ritenuta abbastanza forte da poter
far fronte a ogni evenienza. In cuor suo ne era sicura. Si credeva
pronta. Ma non lo era affatto.
L’ultimo ricordo che avrebbe portato nel cuore sarebbe stata
una
futile discussione avuta proprio quella mattina, nella quale lo
rimproverava per l’ennesima volta di aver ceduto alle
richieste
dei colleghi e coprire un turno non suo, invece di restare con la
propria famiglia. Questo era ciò che aveva fatto e detto,
mentre
lo accompagnava alla porta di casa per l’ultima volta. Poco
importava se poi si erano riappacificati per telefono. Ora non lo
avrebbe rivisto mai più.
E Caroline? Come l’avrebbe presa lei? Come avrebbe potuto
darle la notizia proprio il giorno di Natale?
Teresa iniziò a singhiozzare, sempre stretta fra le braccia
di Phillip.
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Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
IV
Winchester,
1999
Il nuovo anno
esordì nel migliore dei modi per Shion W. Hayes e le sue
imprese. Da ormai quasi un ventennio i suoi interessi si erano
diversificati: non solo quindi nell’edilizia –
trampolino
di lancio e base solidissima delle sue fortune – e tutti i
suoi
derivati, come lo sviluppo energetico, ma aveva puntato anche su
investimenti prettamente finanziari, con partecipazioni azionarie in
diverse compagnie di vari settori. Negli ultimi anni aveva iniziato a
guardare con maggiore interesse anche oltreoceano, puntando su
possibili investimenti in alcune grandi compagnie del settore
tecnologico e dell’energia. In quel mese di gennaio, Shion
Hayes
aveva instaurato buoni rapporti – e concluso un paio di
contratti
molto vantaggiosi – con alcuni esponenti di spicco del mondo
finanziario e politico del Sol Levante. Grazie a conoscenze trasversali
aveva allacciato rapporti d’affari con Mitsumasa Kido,
presidente
delle industrie Kido e Ministro del governo giapponese, con
l’incarico anche di presidente del comitato governativo per
lo
sviluppo energetico. I due uomini fin da subito si erano capiti alla
perfezione, nonostante le differenze culturali.
Gli occhi di Shion
si animarono di un’avida luce quando comunicò al
suo
braccio destro l’esito che aveva dato la teleconferenza con
il
magnate nipponico. Non solo in quell’occasione si era
assicurato
la conferma di una partnership importante, battendo sul tempo i suoi
diretti concorrenti arabi e cinesi, ma aveva contrattato –
nel
vero senso della parola – il suo stesso nome e parte del
futuro
della sua famiglia, legandoli fin da subito al nome Kido, almeno in
terra straniera.
«Ma sei
impazzito, Shion?» sbottò incredulo Shura,
paonazzo in
volto per le parole insensate che aveva udito uscire dalla bocca
dell’amico. «Non ti pare di esagerare,
ora?»
«E
perché mai? Lo sai anche tu com’è fatto
il mondo
degli affari», rispose l’altro, serafico,
ritornando alla
scrivania dopo aver attizzato il fuoco nel camino. Sciolse il nodo
della cravatta e se la sfilò, sbottonandosi anche il primo
bottone del colletto della camicia bianca. Poi, riunì alcuni
documenti, battendoli sul tavolo per riordinarli e li ripose nella
ventiquattrore.
«Forse un
tempo si faceva così, ma al giorno d’oggi chi
è
quel pazzo che combina ancora i matrimoni?» Shura si sedette
sull’angolo della scrivania, scrollando la testa e
sospirando.
«Più passano gli anni e più ti stai
avvicinando
all’esempio che non volevi seguire.»
«Si tratta di
accordi di base per più di cinquanta milioni di dollari, con
la
possibilità di decuplicarne il valore già nei
prossimi
cinque anni», gli rispose con voce inflessibile Shion,
sedendosi
sulla poltrona di pelle dietro la scrivania.
«Soldi!
È solo questo che ti preme? Soldi e potere!»
esclamò Shura, alzandosi e fronteggiando l’altro,
sbattendo violentemente le mani sulla scrivania di mogano.
«Stai
vendendo uno dei tuoi figli per denaro! Come se tutti i milioni che
già hai non fossero sufficienti!»
Ancor più che
la pazzesca situazione che aveva prospettato Shion, a scatenare la
reazione furibonda del sempre compassato Shura era
l’atteggiamento troppo calmo dell’amico. Si stava
parlando
del futuro di una persona, eppure Shion Hayes trattava la cosa come una
semplice compravendita.
«Ricordo
ancora la lite furibonda che avesti col tuo vecchio. Le vostre urla si
erano sentite per tutta casa. Le parole che vi diceste erano talmente
forti e cariche di cattiveria che mia madre ne rimase sconvolta. E
ricordo bene anche quando poi ti rifugiasti di corsa da noi. In lacrime
le raccontasti che il vecchio aveva minacciato di farti arruolare a
forza per il Vietnam, se tu non avessi accettato le sue
decisioni.»
«Già.
È stato un momento di debolezza»,
confermò Shion,
dondolandosi un poco sulla poltrona. «Avevo solamente un paio
di
anni in più dei ragazzi…» disse, mentre
sul suo
volto maturo e al tempo stesso giovanile si formava un mezzo ghigno,
nel far riaffiorare alla mente quell'episodio. D’istinto si
portò una mano a massaggiare la guancia, che aveva iniziato
a
pizzicargli, rendendo quel ricordo di nuovo vivido e attuale.
«La
situazione era diversa. Feci l’errore di confidarmi con lui,
di
svelargli i miei desideri e ciò che provavo, pensando che
avrebbe capito. E per tutta risposta il vecchio se ne uscì
con
quell’ultimatum: o accettavo un matrimonio combinato oppure
il
mattino dopo avrebbe firmato lui stesso per il mio
arruolamento.»
«Appunto! Come puoi fare ora lo stesso
errore di tuo padre?» ribadì con forza Shura,
agitando le braccia.
«Non è
la stessa cosa!» insistette Shion, perdendo per un attimo la
sua
flemma. «E comunque, sono sicuro che non avrà
obiezioni.
Lui è abbastanza ambizioso per accettare una cosa del
genere. Ce
l’ha nel sangue!»
«Sono ancora
praticamente dei bambini, cosa ti fa essere così sicuro che
chiunque di essi sceglierai, sarà in grado di convivere con
questa decisione?» domandò l'altro, ora
più calmo.
«È
sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni, quando si sfidano a basket, o
a hockey; in qualsiasi cosa facciano», spiegò
Shion,
sorridendo orgoglioso. «Lui è competitivo. E gli
affari...
beh, quelli sono pura competizione!»
Shura si morse il
labbro, riflettendo sulle parole dell'amico. Come poteva accomunare
sport e affari? Come poteva usare quelle sfide infantili come metro di
giudizio per una cosa tanto importante che avrebbe segnato il prescelto
per gran parte della sua vita?
«E sentiamo,
chi sarà la fortunata e chi invece lo sfortunato?»
inquisì Shura, incrociando le braccia al petto.
«La nipote di Kido, la giovane Saori,
l’ultima nata.»
«Questo mi
sorprende molto! Pensi davvero che il vecchio Kido, che si vanta di
discendere da un ramo cadetto della famiglia imperiale e
così
attaccato alle antiche tradizioni del suo paese, permetterà
a un
gaijin di
sposare sua nipote?»
«Fosse stata
purosangue non avrebbe mai acconsentito; ma la bambina è un
sangue misto, un’illegittima. Una bastarda! La figlia
ultimogenita di Kido l’ha avuta da una relazione
extraconiugale
con un europeo, un avvocato mi pare, che si è ben guardato
dal
riconoscerne la paternità. O forse lo hanno dissuaso dal
farlo,
ciò comunque per me è irrilevante.»
Shion fece una
pausa, sogghignando a quell’ultima considerazione.
«Dopo la
morte della donna, suo marito non ne ha voluto sapere della bambina e
il vecchio ha dovuto prendersene carico. Ma stai certo che anche lui
non vede l’ora di liberarsene. L’hai detto tu
stesso,
Shura, quell’uomo è molto all'antica ed
è attaccato
alle tradizioni più conservatrici del suo paese; e quella
bambina, che ora ha poco più di cinque anni, la considera
solamente un’onta, una macchia per il suo buon nome,
nonostante
l’abbia adottata ufficialmente.»
Shion Hayes si
alzò e si avvicinò alla consolle di marmo, dando
le
spalle a Shura. «Quell’uomo è stato
davvero
sfortunato con i figli», considerò ad alta voce,
prendendo
in mano una delle fotografie dei gemelli. Il suo sguardo era pieno di
orgoglio, misto però a tristezza. «Di tre figli
che ha
avuto, gli sono morti tutti in giovane età e ora sono
rimasti
solamente due nipoti maschi e quella bambina.»
Si voltò
verso Shura, guardandolo negli occhi e continuando a parlare, incurante
di quanto potesse risultare cinico. «Gli affari a volte
contano
più del sangue e delle tradizioni. È stato Kido
stesso a
proporre questo accordo, dicendosi ben lieto di poter unire le nostre
due famiglie e creare un duraturo e proficuo rapporto di amicizia e di
affari.»
«Ti prego,
Shion, ripensaci. Vorresti davvero svendere così uno dei
tuoi
figli solo per degli affari? Obbligare chiunque sceglierai dei due a
una vita che non vuole, solo per dare ancora più prestigio
al
nome della tua famiglia? È questa
l’eredità che ti
ha lasciato tuo padre e che vorrai lasciare ai tuoi figli in futuro? La
smania di potere?»
Era diventata
palpabile la preoccupazione nella voce di Shura, nel tentare di far
ragionare il suo vecchio amico. Lo sguardo di Shion invece era risoluto
nel voler portare avanti quella folle situazione. Shura sapeva che
poteva fidarsi dell’altro, eppure questa volta sentiva che
non
sarebbe stato facile.
«Sono ancora
dei ragazzi, praticamente dei bambini», ripetè in
un
sussurro. «E su chi cadrà la scelta? Chi hai
intenzione di
sacrificare per gli affari? Forse… Saga?»
domandò,
pronunciando quel nome temendo di aver azzeccato la risposta.
Un lieve rumore
– forse un breve e sommesso cigolio – e un respiro
ansioso,
arrivarono da oltre la porta della biblioteca, rimasta incautamente
socchiusa. A quell’ora di pomeriggio non ci doveva essere
nessuno
in casa, a parte proprio il giovane Saga, ancora convalescente, che
riposava in camera sua al piano superiore; e probabilmente per questo
motivo il padrone di casa aveva abbassato la guardia. Shion fece uno
scatto verso la porta, spalancandola e guardando con occhi attenti
nelle vicinanze. Sembrava tutto tranquillo lì fuori.
«Che succede?» chiese Shura.
«Un rumore.
Non è niente», rispose l’altro,
scrollando la testa
e rientrando, chiudendosi per bene la porta alle spalle.
«È una vecchia casa…»
mormorò, poi.
Alle volte si preoccupava troppo, mantenendo un atteggiamento
eccessivamente cauto, quasi da cospiratore. «Bene, non
c’è altro, Shura. Puoi andare», disse,
tornando alla
sua calma serafica, sedendosi alla scrivania.
«Hai glissato
di nuovo sulla domanda», lo rimbrottò
l’altro, ma
accettò la decisione del suo capo e uscì dalla
biblioteca.
*****
Febbraio stava
arrivando agli sgoccioli e la vita alla villa era tornata alla consueta
sua quiete e normalità. Kanon e Aiolos, anche se
continuavano ad
abitare alla villa di Mystic Lake, avevano ripreso a frequentare la
scuola privata a Boston, Aiolia veniva alla villa nei week-end per
stare con la nonna e il fratello, e Saga… lui era ancora
inchiodato a letto, più per volere degli adulti che per vera
necessità.
Anche Shion Hayes
aveva ripreso la sua solita routine lavorativa, adattandola
però
alla nuova situazione. Aveva infatti privilegiato l’ufficio
in
città, dirottandovi la maggior parte dei suoi impegni di New
York e affidando la gestione della sede nella Grande Mela ai suoi
collaboratori più fidati, ma rimanendo costantemente in
contatto
tramite videoconferenze, e-mail e chat.
Le giornate si
facevano via via più luminose e la primavera, nonostante le
temperature ancora troppo basse, sembrava proprio dietro
l’angolo. Il giovane Saga sbirciò da dietro le
tende della
finestra l’immenso giardino della proprietà; poco
più in là, le placide acque del lago
scintillavano ai
raggi del sole. Sospirò, stringendo con la mano la stoffa
del
tendaggio, mentre con l’altra si tormentava il bordo della
giacca
del pigiama, sgualcendolo ancor più che dopo una notte di
sonno
agitato. I suoi occhi erano lucidi di invidia repressa: lui era ancora
costretto in quella stanza, controllato a vista da Nanny e Shura,
mentre il gemello e Aiolos erano liberi di fare ciò che
volevano. Vide arrivare un'auto scura fermarsi sul vialetto e scendervi
di corsa il gemello. Sgranò gli occhi e, con uno scatto
improvviso, si ributtò sotto il piumone, cercando di
nascondere
il fiatone che quella piccola corsa gli aveva causato.
«Ehi,
fratellino!» esclamò Kanon, sbucando neanche un
minuto
dopo dalla porta del guardaroba comunicante ed entrando come un uragano
nella sua camera. «Come va oggi?» gli chiese tutto
entusiasta, buttandosi di peso sul lettone del fratello. Con un dito
abbassò il libro che l'altro teneva davanti a sé,
mostrandogli un viso ancora paonazzo dal freddo e dalla corsa che aveva
fatto, ma raggiante. «Ci sono grandi
novità!» disse.
Accantonò il
cappotto in fondo al letto e si sedette vicino al gemello, fissandolo
negli occhi. Quel pomeriggio non era stato particolarmente diverso dai
soliti, per Kanon: dopo le lezioni aveva partecipato agli allenamenti
di hockey con la squadra della scuola, ma l’evento
straordinario
era stato che il padre era andato a prenderlo al posto di Shura.
Lo sguardo di Saga
invece esprimeva tutt’altro, così come le sue
guance
bianche come un lenzuolo erano l’opposto di quelle del
fratello.
«Mi annoio a
morte, Kanon. Voglio uscire di qui», sbuffò
stancamente,
chiudendo il libro ma usando il dito per segnare la pagina.
«E allora
fallo! Che aspetti? Dai, prendi la vestaglia e andiamo giù a
guardare un po’ di tv!» gli propose, sdraiandosi
accanto a
lui come se il letto fosse suo, portandosi le braccia dietro la testa e
incrociando i piedi.
«Ci ho
provato», ribattè mestamente Saga. «Ma
sembra che
tutti in questa casa non facciano altro che riportarmi qui
dentro», terminò in un sospiro pesante.
«Non esagerare! Scendi da questo
letto, piccolo Colin.»
«Non prendermi
in giro. Questa mattina volevo andare nella biblioteca a prendere altri
libri, ma Nanny non me l’ha permesso. Mi ha riportato qui
dentro
quasi di peso!»
«Ma
davvero?» Kanon sgranò gli occhi dallo stupore. Si
girò sul fianco e fissò il gemello che se ne
stava
appoggiato con la schiena a una vera e propria montagna di cuscini.
«E dimmi, ti ha caricato in spalla come un sacco di patate,
oppure ti ha trascinato per un orecchio fino al letto e messo in
castigo?» lo canzonò, ridendo fra sé e
sé
nel visualizzare entrambi gli scenari che la sua mente vulcanica aveva
ideato.
Gli strappò
il libro di mano e lesse il titolo – stampato a caratteri
dorati
sulla copertina monocroma – rigirandoselo per benino per
esaminarlo meglio. Senza sopracopertina, assomigliava molto agli altri
libri accatastati sul comodino lì vicino.
«Un saggio sul
diritto economico e la contrattualistica internazionale?»
domandò, meravigliato. «Da quando ti interessi a
queste
cose?»
«L’ho
preso per sbaglio l’altro ieri, quando sono riuscito a
sfuggire
al controllo di Nanny, con la complicità di Shura. Che
è
durata poco però, visto che anche lui mi ha rispedito qui.
Mi ha
concesso giusto il tempo di prendere qualche libro, senza neanche farmi
controllare e, al primo starnuto…»
Sbuffò,
aggiustandosi il piumone addosso e girandosi verso il fratello.
«Lo credevo un amico», borbottò
sottovoce.
«È solo un adulto, Saga,
non un amico», ribattè comprensivo, Kanon.
Saga sospirò ancora una volta,
guardando il gemello con occhi tristi. Iniziava a sentirsi caldo.
Kanon si
avvicinò di più al fratello e gli
liberò la fronte
dai capelli sudati, pettinandoglieli con le dita. Poi, si mise fronte a
fronte, adagiandosi anch'egli alla montagna di cuscini, per stargli
più vicino.
«Avevi detto
che ci sono novità», gli ricordò, Saga.
Il ragazzo
chiuse gli occhi, accarezzando la guancia del gemello: sotto quel suo
tocco sentì distintamente il sorriso dell'altro.
«Papà
ha detto che sto lavorando bene. È soddisfatto del mio
rendimento scolastico. Ha detto anche che mi darà qualche
lezione supplementare e presto mi portà in ufficio con lui e
mi
farà fare pratica negli affari; e lo stesso farà
anche
con Aiolos!»
Saga rispose con uno
sbuffo deluso, cercando di girarsi dall’altra parte, ma il
suo
viso fu subito catturato dalle mani del fratello.
«Non
preoccuparti, Saga», gli sorrise lui. Aveva capito alla
perfezione quello che stava passando nella mente dell’altro.
«Papà è contento anche di te. Sa quanto
sei bravo
negli studi. Vedrai, ci metterai poco a recuperare le lezioni perse e
allora ti unirai a noi», provò a blandirlo. Poi
gli diede
un bacio sulla fronte.
«Ehi, voi
due!» li richiamò la voce perentoria di Nanny,
entrata
energicamente nella camera di Saga per annunciargli l’arrivo
del
dottore, facendo sobbalzare i gemelli, colti di nuovo in flagrante.
«Ogni volta che arrivo qui vi trovo sempre abbracciati,
neanche
foste attaccati come due siamesi!»
La donna si
avvicinò al letto a grandi passi e, con un ampio gesto del
braccio, diede una forte pacca sul sedere all’intruso.
«Giù dal letto, Kanon, che fra poco arriva il
dottor
Dalton per visitare tuo fratello!»
Alzò di nuovo
il braccio per dargli una seconda sculacciata, ma il ragazzo fu
più lesto, sgusciando fuori dall’altro lato
– non
senza però aver travolto nella sua capriola il povero Saga
– mettendosi in piedi e facendole la linguaccia.
«Sei troppo
manesca, Nanny», si lamentò, massaggiandosi il
fondoschiena. «Non abbiamo fatto nulla di male!»
«Non mi piace
il dottor Dalton», disse Saga facendo sentire la sua voce un
poco
vattata dal piumone sotto il quale si era rintanato.
«È
strano, fa cose strane», mormorò, imbarazzato.
«Non mi vorrai
far credere che hai paura del dottore, vero? Non dopo tutte le volte
che è venuto a visitarti in questi ultimi mesi!»
Nanny si
sedette sul bordo del letto, con la mano scostò il piumone
dal
viso del ragazzo e gli fece una carezza sulla guancia.
«Ma…
lui mi tocca in modo strano», confessò il ragazzo
con un
filo di voce, tentando di nascondersi di nuovo, mentre il suo viso
prendeva una lieve sfumatura rossa, per la vergogna.
«Lo so che sei
stanco, tesoro. Ma non dovresti dire cose del genere», lo
riprese
la donna con tono materno e affettuoso, facendolo uscire ancora una
volta allo scoperto. «Non crederai davvero che possa avere
cattive intenzioni, vero? È un dottore! Ti esamina
solamente.»
Il dottor Jason
Dalton, un atletico e giovanile cinquantenne afroamericano, era stato
per molti anni il pupillo del vecchio medico di famiglia degli Hayes,
il dottor Mitchell. Molto stimato da quest’ultimo, si era
fatto
carico di tutte le attività del suo mentore, ereditando la
direzione dell'ambulatorio che, nel corso degli anni – grazie
al
generoso contributo della famiglia Hayes – si era trasformato
in
una piccola ma rinomata clinica, che aveva mantenuto la sua natura
gratuita.
«Saga!»
esclamò Kanon, avventandosi sul letto. «Dove ti
tocca?
Dove ti tocca?» cantilenò, martoriando il povero
corpo
dell'altro, ridendo divertito e facendo ridere, sotto quelle torture,
anche il fratello.
«Lascialo
stare, scalmanato!» lo rimproverò Nanny, tirando
Kanon a
sé. Anche la donna stava però ridendo di cuore
alla
complicità e all’affiatamento di quei due. Si
alzò
dal letto e alzò di peso anche Kanon; poi,
risistemò con
cura il piumone sul malato.
«Dopo la
visita mi permetterai di alzarmi, vero Nanny?» le
domandò
Saga, con il viso arrossato e il respiro affannoso per la lotta.
«Solo se lo
dirà il dottore. L’influenza pare ormai passata e
di
febbre già da qualche giorno non ne hai più, ma
non ti
sei ancora rimesso», gli spiegò lei, tornando ad
accudirlo
come una mamma troppo apprensiva, appoggiando il dorso della mano sulla
fronte leggermente sudata del ragazzo. Poi, scrollò la
testa,
verificando la presenza di qualche linea.
«Certo
però che sei stato davvero sfortunato, fratellino: prendersi
tre
volte di seguito l’influenza è da guinness dei
primati!» si intromise Kanon, ridendo ancora più
forte
allo sguardo truce e al seguente sbuffo del gemello.
«Non starlo a
sentire. Piuttosto, hai ancora le vertigini e le emicranie?»
domandò la donna, facendogli un’altra carezza
sulla
guancia imporporata.
«Ma sono quasi
tre mesi!» piagnucolò il ragazzo, allontanando la
mano e
girandosi sul fianco, dando così le spalle a entrambi.
«Non mi farai
mica i capricci adesso, vero? E poi, come pensi di poter star bene se
non mangi quello che ti faccio preparare? Anche oggi hai lasciato il
pranzo a metà, per la disperazione della povera Francine che
non
sa più cosa prepararti; e la merenda?» disse,
indicando il
vassoio sul quale c'era il piattino con un sandwich al burro di
arachidi, una ciotolina di macedonia di frutta fresca e un bicchiere di
latte al cioccolato, che era stato accantonato sulla scrivania.
«È ancora tutta lì! Mi stai diventando
di gusti
difficili?»
«Beh,
nonna», intervenne Aiolos, presentatosi alla porta della
camera
di Saga con ancora lo zaino in spalla e il bastone da hockey in mano.
«se la principessina si muovesse un po’, forse
“le” tornerebbe l’appetito, oltre che un
po’ di
colore, naturalmente. È così
“bianca” che la
neve sui rami degli alberi sfigura al suo confronto!»
Entrò nella stanza senza fare tanti complimenti e si
avvicinò al letto per salutare la nonna con un bacio sulla
guancia. «Scommetto che se fa due passi, si accascia a terra
come
uno straccio usato.»
Come niente fosse si
avvicinò alla scrivania e afferrò il sandwich,
addentandolo con un gran morso. Il ragazzo era appena rientrato alla
villa con Shura e Aiolia al seguito. Anche quel week-end il fratello
l’avrebbe passato con loro.
«Vieni,
Kanon», chiamò l’amico, con la bocca
ancora piena.
«La peste vuole sfidarti a Tekken 3! Ha detto che questa
volta
userà Yoshimitsu, che non ti darà nemmeno il
tempo di
rimetterti in piedi e che ti farà piangere chiedendo
pietà!»
«Aiolos, non parlare in questo modo di
tuo fratello!» lo rimbrottò, Nanny.
«Ma è la verità,
nonna!» rispose il nipote, alzando le spalle e dando un altro
morso al sandwich.
«Ah sì?
Ma guarda un po’ che piccolo impertinente!»
commentò
Kanon, alzando un sopracciglio e facendo un ghigno degno del miglior
Joker di Jack Nicholson. Già la sua mente aveva iniziato a
elaborare la punizione più adatta da infliggere al piccolo
di
casa, per lesa maestà.
«Cerca di non
sporcarmi la camera di sangue!» lo avvisò Aiolos,
ben
sapendo cosa potesse passare per la testa dell’altro.
«Anch’io voglio
giocare», azzardò Saga, strattonando il gemello
per il maglione.
«Tu? Ma se non
ci sai nemmeno giocare! E poi, alla prima sconfitta ti lagneresti
subito», rispose acido Aiolos, gesticolando con il mezzo
sandwich
ancora in mano, attirandosi lo sguardo severo della nonna.
«Fratellino,
Aiolos ha ragione», intervenne il gemello, per placare subito
le
timide proteste di Saga. «È un gioco nel quale ci
vogliono
riflessi e abilità manuale e tu, beh, non ci sei molto
portato», gli disse, prendendogli la mano. Il giovane non
aveva
affatto torto, le dita di Saga erano irrigidite e fiacche a causa del
lungo riposo forzato. «Quando il dottore sarà
andato via,
ti prometto che tornerò a farti compagnia e se vuoi mi
aiuterai
a fare i compiti, va bene?» gli propose, sorridendo e
dandogli un
altro bacio sulla fronte.
«Dai, Kanon,
non facciamolo aspettare oltre. Non voglio che mi devasti la camera!
Quando eravamo in auto stava ruminando un chewing gum, se non lo
teniamo d'occhio chissà dove me lo attacca!» lo
richiamò di nuovo Aiolos con voce scocciata, girandosi e
uscendo
dalla stanza senza attenderlo oltre.
Kanon rivolse ancora
una volta l’attenzione al gemello, gli sorrise –
questa
volta in modo più malizioso – e, prima di uscire,
agguantò il bicchiere di latte al cioccolato dal vassoio,
precipitandosi a impartire una lezione alla peste.
La delusione era
più che evidente sul volto di Saga. Quando il gemello lo
lasciò da solo i suoi occhi diventarono subito lucidi.
«Hai visto
cosa succede a non mangiare quando ti si porta la merenda?»
gli
disse Nanny, con un sorriso. «Ti hanno preso le cose
più
golose e ti hanno lasciato solo la frutta.» La donna si
alzò, prese la ciotolina di macedonia e la porse al malato.
Saga non badò
alle parole della sua tata. Invece, si girò di nuovo
dall'altra
parte, nervoso e arrabbiato. Con quel movimento si scoprì
involontariamente la schiena e svelò agli occhi della donna
un'enorme macchia scura quasi all'altezza dei reni.
«Piccolo mio,
come ti sei fatto questo brutto livido?» chiese Nanny,
precipitandosi a controllare la schiena del ragazzo.
Saga si
risistemò il pigiama senza rispondere, tirando poi il
piumone
fin sul naso, nonostante sentisse caldo ed era sudato.
«Ti fa
male?» provò ancora la donna, senza ottenere
alcuna
risposta. «Saga, per favore…» insistette
lei,
accarezzandogli la testa e facendolo finalmente voltare.
«Sono caduto dalle scale e ho battuto
la schiena sui gradini.»
«Sei sicuro di
essere caduto, oppure hai avuto un altro mancamento?»
inquisì lei, ricevendo stavolta un’alzata di
spalle.
«Quando è successo?»
«Due settimane
fa, credo. Ero sceso per…» Saga fece una pausa,
mordendosi
il labbro, pensando a cosa fosse meglio rispondere. «Per fare
due
passi. Mi annoiavo», dovette ammettere, sperando di essere
abbastanza convincente e di poter finalmente porre termine a
quell’interrogatorio.
«Dovremo farlo
vedere al dottore appena salirà in camera. Quando
l’ho
lasciato per venire da te era in biblioteca che parlava con tuo
padre.»
Nanny sorrise
materna allo sbuffo del ragazzo, si chinò su di lui e gli
diede
un bacio. Poi, iniziò a mettere un po’
d’ordine
nella camera.
*****
Boston,
1999
«Non sono
passati neanche due mesi e già avete intenzione di chiudere
le
indagini? Perché non andate avanti? Perché non
insistete?» gridò furibonda Teresa. Aveva invaso
l’ufficio del capitano Burton pochi minuti prima, dopo aver
saputo che il caso stava per essere ufficialmente archiviato e
sarebbero stati rilasciati i permessi per poter celebrare il funerale
del marito.
«Non
c’è più niente che possiamo fare,
Teresa. Non sono
stati trovati testimoni attendibili, le prove raccolte sono compromesse
e inutilizzabili per un eventuale processo, non c’erano
telecamere di sorveglianza che coprivano quel punto e neppure quella
dell'ATM che sta quasi di fronte è servita a molto. Non
abbiamo
nulla di nulla!»
L’uomo
distolse lo sguardo da lei, cercando una qualsiasi cosa su cui
concentrare la propria attenzione per tentare di mantenere un minimo di
controllo. Lui per primo aveva una gran voglia di sfogare tutta la sua
rabbia repressa, per ciò che riteneva un vero e proprio
affronto
alla memoria del collega e amico.
«Sono davvero mortificato, ma non si
può fare molto di più»
Si sentiva in colpa nei confronti della moglie
di Greg, per la situazione che lo vedeva purtroppo con le mani legate.
«Dunque
finisce così, con un nulla di fatto? Sarà un caso
irrisolto come un altro? Una semplice scatola bianca dimenticata in
mezzo a chissà quante altre scatole identiche e
contrassegnata
da una serie di numeri?»
La donna si
lasciò cadere sul divanetto dell’ufficio,
facendosi
sfuggire quelle ultime parole in un sussurro colmo di amarezza. Il suo
sguardo, prima tanto battagliero, divenne in un attimo spento e
rassegnato. Si portò le mani sul pancione già
preminente
e lo accarezzò con indolenza, neanche avesse avuto la forza
per
rassicurare la creatura che stava portando dentro di sé.
«Per favore, Teresa, non fare
così.»
Phillip accorse
vicino alla donna; la vide completamente svuotata della
volontà
e temette per la sua salute e per quella del bambino in arrivo. Si
sedette accanto a lei e la strinse in un abbraccio, cercando di
confortarla.
«Credimi, ho
cercato di tenerlo aperto il più possibile, ma non posso
fare di
più. Non sono stati trovati elementi sufficienti che
facessero
sperare in una svolta. Mi sono battuto con le alte sfere per farmi
affidare questo caso. Ma sai come vanno queste cose, sono troppo
coinvolto. Tutto quello che ho potuto fare è stato seguire
gli
sviluppi da dietro questa stupida scrivania e prendere visione dei
rapporti degli agenti incaricati.»
L’uomo si
alzò lentamente e si avvicinò alla scrivania.
Prese in
mano la cartellina gialla che conteneva i vari rapporti sul caso, i
risultati dell’autopsia che riportava come causa della morte
un
non precisato “incidente” e “trauma
causato da forte
impatto” e le analisi scientifiche preliminari sui pochi
reperti
raccolti sulla scena del crimine.
«Incidente»,
mormorò, stringendo quei fogli in un impeto di rabbia
soppresso
malamente. Era scandaloso che le conclusioni finali catalogassero la
morte del tenente di polizia Gregory Miller come un semplice incidente.
«Ti prego,
Phil, non ti arrendere! Continua le indagini, fallo per
Greg!» lo
supplicò la donna; la sua voce era rotta dalla commozione.
Si
alzò con una certa fatica e si accostò
all’uomo,
appoggiandogli la mano sul braccio.
«Ma cosa
pretendi che si possa fare con i pochi elementi che abbiamo in mano? Se
almeno sapessimo perché si trovava lì…
o se ci
fosse un testimone decente…» sospirò
Phillip. Non
aveva il coraggio di fissare gli occhi supplichevoli di Teresa.
«Come sarebbe
a dire “cosa pretendi che si possa fare”? Che
continuiate
le indagini!» urlò di nuovo la donna,
riconquistando tutto
il suo spirito battagliero. «Greg era uno di voi!
È
così che viene ripagata la sua devozione verso la polizia,
la
devozione verso di te?» Batté disperatamente i
pugni sul
petto dell'uomo, che li incassò senza scomporsi, come se
sentisse di meritarseli tutti quanti.
«Per quanto
vorrei farlo, non posso. Cerca di capire, quelli della procura hanno
ordinato di chiuderlo», provò a spiegarle ancora
una
volta, con voce pacata. Ma dentro di sé anche lui era
furioso;
soprattutto perché aveva saputo che gli affari interni
avevano
aperto un’inchiesta parallela sulla morte di Greg e lo
avevano
escluso del tutto. E quando si muovevano gli affari interni, voleva
dire che indagavano sul poliziotto. Ma questo non lo poteva rivelare a
Teresa, che era già fin troppo provata.
«No! No! No!
Tu lo stai abbandonando!» insistette la donna. La sua voce
era
alterata dalla collera e dalla disperazione. «Non mi
interessa
cosa dice qualche avvocatucolo della Procura appena uscito
dall’Università! Voglio che tu mi dica
cos’è
successo e perché il mio Greg è morto! Voglio il
colpevole! Voglio che paghi!»
«Stai
straparlando, Teresa.» Phillip l'afferrò per le
braccia,
cercando di calmarla. «Non sei in te.»
Per alcuni secondi,
la donna lo fissò con occhi sgranati e la bocca tremante; le
lacrime scendevano a rigare il suo viso sconvolto.
«Sì»,
ammise con tono fioco. «Hai ragione, Phil. Non so
più
quello che dico.» Abbassò lo sguardo e si
portò una
mano alla bocca, mentre l’altro allentava la presa.
«È comprensibile quello che
stai passando.»
Phillip Burton era
profondamente amareggiato per la prostrazione della donna. Sapeva
quanto fosse sempre stata forte di spirito, benché lei
stessa lo
negasse; e vederla in quello stato lo rattristava. Nella sua
preoccupazione però non si dimenticava della piccola
Caroline,
che era in quell'età in cui perdere la figura paterna poteva
risultare devastante. E poi, c'era quella creatura non ancora nata, che
sarebbe cresciuta senza mai poter conoscere il proprio padre.
Teresa si
appoggiò all'uomo, la sua ancora di salvezza, e si
sentì
stringere in un abbraccio: era davvero grata a Phillip per quella
vicinanza. Si sentiva spaurita e sola. Posò
involontariamente lo
sguardo su una scatola di cartone bianco, un poco nascosta dallo
schedario di ferro. Era uno di quei contenitori che solitamente
venivano usati per archiviare i reperti di prova. Nonostante fosse
chiusa con il coperchio, non faticò a intuire cosa potesse
contenere e strinse la mano sul braccio di Phil in una contrazione
involontaria. La fissò a lungo, in silenzio.
«Sono gli
effetti personali di Greg», le disse lui, accorgendosi che la
donna stava fissando la scatola. «Li ho raccolti il giorno
dopo
la sua morte e li ho tenuti qui per tutto il tempo. Ora però
è tempo che te li restituisca.»
La donna rimase immobile, come irrigidita.
«Non li voglio», rispose con voce atona.
«Sei sicura?»
«Se li
portassi a casa con me sarebbe come ammettere che è tutto
finito. Quegli oggetti sono sempre stati sulla scrivania di Greg.
Averli ora con me vorrebbe dire che lui… no, non potrei
sopportarlo.» Chiuse gli occhi e si portò le mani
al volto.
Il Capitano Burton
la sorresse di nuovo; la vide così fragile e debole che
temette
da un momento all’altro potesse svenire.
«Ora voglio
tornare a casa», disse Teresa, tentando di fare un respiro
profondo. «Grazie per quello che hai fatto.»
La donna
provò ad abbozzare un sorriso di gratitudine, ma era
difficile
nelle sue condizioni. Si voltò e, dal divanetto, riprese la
borsa, uscendo poi dall’ufficio.
Phillip non
trovò la forza di trattenerla. Non poteva permetterselo: non
in
quel momento, non in quel luogo, non davanti ai suoi uomini.
Poté solo accompagnarla con lo sguardo finchè lei
non
raggiunse le scale e le scese. Il dolore che lui stava provando era
molto simile a quello che provava la donna. Quella notte di vigilia di
Natale aveva perso un caro amico. Si avvicinò a uno degli
schedari di metallo e vi si appoggiò con il braccio,
trattenendo
il respiro per un tempo indefinito. Poi, all’improvviso, vi
assestò un tremendo pugno.
*****
Il clima che si
stava assaporando nel febbraio di quell’anno era davvero
insolito. I capricci del tempo, che si stavano registrando nelle ultime
due settimane del mese – soprattutto in città
–
stavano regalando un incredibile anticipo di primavera. Giornate serene
e piacevolmente tiepide avevano risvegliato la natura e tutto respirava
di nuova vita. Anche quel giorno, il cielo era sereno. Il sole, fiero e
amorevole, scaldava e illuminava ogni cosa con i suoi carezzevoli
raggi. La rugiada del mattino, che luccicava sui fili d’erba,
inumidiva dispettosa le scarpe di chi camminava sul soffice e curato
manto erboso del cimitero cittadino.
Le giovani
foglioline dei cespugli, di un delicato e vivido verde, erano
rinvigorite di nuova linfa; le piante che delimitavano naturalmente i
confini e che, grazie al lavoro di persone dall’animo
sensibile,
rallegravano le lapidi di un grigiore monotono, offrivano uno
spettacolo meraviglioso coi loro teneri boccioli che, coraggiosi, si
nutrivano avidamente di quel tepore benedetto. Piano avevano iniziato a
vivacizzare con i loro gentili colori i rami ancora spogli.
Tutto pulsava di vita.
Un piccolo
capannello di persone, vestite di un rigoroso e austero lutto,
dall’animo prostrato dalla tristezza e dal dolore, si era
riunito
nei pressi di una semplice lapide di pietra, posta sopra una buca
scavata nella nuda terra che ancora per poco sarebbe rimasta vuota.
Sembrava così ironica quella giornata. Intorno a loro vi era
un’esplosione di colori, soffusi cinguettii e versi di
piccoli
animali, che intonavano canti armoniosi. Eppure, tutto ciò
che
quelle persone vedevano e udivano, erano una scura e fredda bara di
legno dinanzi a loro e la voce solenne e severa del sacerdote, intento
a recitare le preghiere rituali che avrebbero accompagnato il defunto
nel regno del Signore.
Al termine di quella
mesta cerimonia, con ammirevole compostezza i colleghi e gli amici si
concessero un ultimo saluto, camminando in lenta processione, facendo
le loro condoglianze a Teresa e ai membri della famiglia Miller.
La piccola Caroline
– impettita e orgogliosa nei suoi quasi tredici anni di
età – che per tutta la durata della cerimonia era
rimasta
seduta accanto alla madre, si allontanò di qualche passo,
isolandosi dal resto della gente. Alzò lo sguardo verso la
madre
e, nonostante fosse circondata dalle persone, la vide completamente
sola. Alle sue orecchie arrivavano i sussurri di qualcuno che diceva
sembrasse troppo indifferente, che evidentemente non amava abbastanza
il marito, se neanche riusciva a farsi vedere addolorata.
«Sono solo
delle malelingue», le disse Phillip Burton, avvicinandosi
alla
bambina e stringendole la mano. Le si accovacciò di fronte e
le
sorrise.
«Vai dalla mamma, zio Phil,
è sola.»
La ragazzina non si
rendeva ancora davvero conto di ciò che avrebbe significato
per
lei quella giornata particolare. Soprattutto, non riusciva a immaginare
come sarebbe stata la sua vita da lì in avanti, senza la
presenza del suo papà. Fino a poco prima era stata
attorniata
dagli zii e dal nonno, ma li aveva sentiti freddi e distaccati, come se
quel filo che li teneva uniti – e tutti appartenenti alla
stessa
famiglia – fosse stato reciso e la madre e lei fossero
diventate
tutto d’un tratto delle complete estranee.
«Anche tu hai bisogno di
conforto», le rispose l’uomo, abbracciandola.
Caroline
sentì quell'abbraccio così forte e vigoroso, ma
allo
stesso tempo gentile e protettivo, proprio com'era sempre stato quello
del suo papà. Anche il profumo di Phillip era molto simile a
quello che usava Gregory; le era così familiare. Nascose il
viso
nel petto dell'uomo e iniziò a singhiozzare. Quell'uomo, che
lei
era abituata a chiamare zio, non l'aveva scrutata come invece avevano
fatto tutti gli altri fino a un attimo prima, non l'aveva giudicata,
né compatita, perché ora era diventata orfana. Si
sentiva
al sicuro con lui, fra le sue braccia. A lui, poteva affidare le sue
lacrime.
Note
del capitolo:
Gaijin:
in giapponese significa straniero, usato nella sua accezione
dispregiativa.
La citazione del personaggio di Colin
è preso dal romanzo
"Il giardino segreto". Il paragone viene usato da Kanon come presa in
giro verso il gemello, in quanto, il personaggio letterario vive
praticamente confinato nel suo letto perché ritenuto troppo
debole e malato per sopravvivere a lungo; allo stesso modo, Saga viene
trattato con eccessivo riguardo e costretto a stare a letto anche se
non ne necessiterebbe più.
Tekken
3: videogioco della
casa produttrice NAMCO per la piattaforma Playstation. Rilasciato (in
Italia) nel 1997 per la playstation 1. Il capitolo successivo ovvero
Tekken Tag Tournament, invece è stato rilasciato in America
nell'Ottobre 2000 per playstation 2. Yoshimitsu è un
personaggio
del videogioco della serie Tekken.
ATM:
ovvero Automated Teller Machine, sono il corrispettivo americano dei
nostri bancomat.
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Capitolo 6 *** Capitolo V ***
V
Philadelphia, 2010
Erano da poco passate le undici e trenta di
giovedì 25
febbraio. Era già mattina tarda e un manto grigio soffocava
ancora la città. Una fine pioggerellina, iniziata quando
ancora
l’alba non era spuntata, rincarava la dose di malinconia di
quella giornata, rendendo ogni cosa viscida e fredda.
Per molti era una giornata come un’altra, ma per quella
giovane
invece, aveva una valenza speciale; e poco importava se era triste e
grigia, per lei era radiosa e liberatoria come l’ultimo
giorno di
scuola prima delle vacanze estive, nonostante si stesse affrettando
perché era terribilmente in ritardo per il suo appuntamento.
Infatti avrebbe dovuto presentarsi davanti al capo della sicurezza,
Robert Thompson, alle nove e trenta del mattino – prima
dell’orario di apertura del museo al pubblico – per
consegnare dei documenti. Invece, era ormai quasi mezzogiorno e lei era
ancora per strada. Stava correndo a perdifiato, incurante di quella
fastidiosa pioggerellina che l’aveva infradiciata tutta e
delle
pozzanghere che le imbrattavano i jeans e le scarpe.
L’ombrello
era ben chiuso con il suo laccetto e stretto nella mano; le sarebbe
stato altrimenti impossibile correre come un maschiaccio.
L’entrata est del Museum of Art era la più vicina
nel suo
percorso e anche la solita che usava per quel tipo di commissioni. E
come usava fare in quelle occasioni, scalava tutta d’un fiato
la
Rocky Steps: la scalinata resa celebre dal cinema, che attirava ogni
anno centinaia di migliaia di turisti, tutti desiderosi di cimentarsi
nelle medesime gesta del famoso pugile.
Con un piccolo saltello a piedi uniti, Cora si fermò pochi
centimetri oltre l’ultimo gradino, quasi rischiando di
perdere
l’equilibrio e capitombolare all’indietro.
Lasciò
cadere ai suoi piedi la borsa a tracolla e si piegò in
avanti,
appoggiando le mani alle ginocchia per riprendere fiato. Il cuore le
batteva forte nel petto, la gola le bruciava per l’aria
gelida
che aveva inspirato e i polmoni faticavano a riempirsi, costretti nella
morsa delle costole; il fianco destro pulsava come non aveva mai fatto
prima, ma lei sorrideva di soddisfazione: ancora una volta ce
l’aveva fatta! Il suo viso, incorniciato da riccioli castani
disordinati e inzuppati di pioggia, era diventato pallido come la neve,
ma ravvivato sulle guance da chiazze di un rosso deciso che la facevano
assomigliare a una Heidi troppo cresciuta.
Nonostante una vita passata a fare sport e un corpo ancora
discretamente allenato, non aveva mai avuto molta resistenza per la
corsa. Poteva nuotare tutto il giorno, poteva giocare interminabili
partite a pallavolo o a tennis, poteva persino giocare a soccer, nel
ruolo del portiere naturalmente – ed era per questo che a
scuola,
soprattutto l’ultimo anno, era diventata popolare e aveva
vinto
una borsa di studio – ma correre… no grazie!
Con il sorriso sulle labbra, ansimando e allentandosi la sciarpa che
teneva al collo, Cora si volse ad ammirare il panorama che quella
scalinata offriva.
«E ora, da Cerbero!»
Con le gambe che sentiva un po' tremanti dalla fatica, riprese la borsa
da terra e si incamminò verso il museo, per portare a
termine il
proprio compito.
*****
Per più di due ore era rimasta nell'ufficio della sicurezza
del
museo. Quando ci si metteva, mr Thompson – irreprensibile
capo
della vigilanza del museo e suo personale incubo – sapeva
essere
pignolo come pochi altri. Aveva preteso di verificare parola per parola
l’intero dossier e il rapporto della simulazione di
intervento
d’emergenza che lei gli aveva consegnato. L’aveva
tenuta
lì, sull’attenti, alzando di tanto in tanto la
testa da
quei fogli per scrutarla con il suo solito sguardo accigliato e severo.
E Cora, durante tutto quel tempo aveva sentito lo stomaco iniziare a
reclamare con ruggiti simili a quelli di un leone affamato. Del resto,
aveva dovuto saltare la colazione.
Quando finalmente riuscì a uscire dall'ufficio di Thompson,
si
ritrovò catapultata in un'altra realtà: il sole
era
tornato unico protagonista in quel cielo azzurro così terso
che
sembrava da fiaba. Si stupì di tale piacevole cambiamento.
Respirò a pieni polmoni quell'arietta frizzante
così
rigenerante e si stiracchiò, lasciandosi andare anche a uno
sbadiglio, prontamente coperto con la mano. Non le pareva vero di
essere libera.
Trattenne un altro sbadiglio.
Nonostante le temperature ancora decisamente fredde, che le davano una
sferzata di energia, iniziava a sentire il peso della bravata della
notte precedente. Tante volte si era ripromessa di non cedere
più alla “serata playstation”, nella
quale finiva
irrimediabilmente per perdere il controllo della situazione e dei
nervi; eppure, quella sera non aveva resistito alla tentazione di
rispolverare un vecchio videogioco e di sfidare Chris un'ultima volta.
Loro due si erano conosciuti alle superiori. Era stato il classico
colpo di fulmine, almeno per lei, ma per quasi tutto il primo anno non
si erano mai rivolti la parola, nonostante avessero gli armadietti
vicini e un paio di corsi in comune. In classe, lei lo fissava sempre,
ma senza trovare il coraggio di avvicinarlo. Ma una volta rotto il
ghiaccio, non ci misero molto a trovarsi affiatati e a iniziare a
frequentarsi con regolarità anche fuori dalla scuola.
Infine,
come succede nelle fiabe moderne, lui le aveva fatto la dichiarazione
alla serata del ballo dell'ultimo anno. Poco importava che avesse
scelto proprio il momento in cui tutti erano raccolti sotto il palco
per la proclamazione di Roy, un tipo snob ma dal promettente futuro da
DJ, e Shirley, la sua migliore amica, come re e la reginetta del ballo.
Quella dichiarazione, per Cora era stata la più bella ed
emozionante del mondo. In seguito, dopo il diploma, nonostante i pareri
contrari di tutti – dei genitori di lui soprattutto
– erano
andati a convivere, senza però rinunciare a continuare gli
studi.
Quella era stata la condizione imprescindibile imposta da Teresa
affinché desse il suo benestare ai due giovani;
acquistò
per loro un appartamento, ma pretese che si trovassero un lavoro
part-time per mantenerlo.
Cora chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, sorridendo felice.
Era consapevole che stava per aprirsi un nuovo capitolo della sua vita.
Iniziò a scendere i gradini uno alla volta, guardandosi
attorno:
sembrava tutto uguale a come era sempre stato, eppure ai suoi occhi
tutto era diverso, più bello. Imboccò uno dei
vialetti
del giardino che costeggiava l'ala sinistra del museo e
passò
davanti alle statue di bronzo. Sorrise quando arrivò di
fronte a
quella dedicata a Rocky.
«Ciao, sfigato!» salutò, facendo anche
un cenno col
capo, come una bulletta di strada. «Non fare quella faccia
triste, non ti hanno mica gonfiato come un sacco! Almeno non negli
ultimi giorni, giusto? Dai, sorridi un po’!» lo
esortò, girandogli attorno un paio di volte e ridendo
apertamente. In quel momento nei paraggi non c'erano turisti e lei
poteva parlargli senza problemi. «Oggi credo che
sarà
l’ultimo giorno che tu e io ci vedremo.»
Per Caroline “Cora” Miller quel luogo aveva
rappresentato
una parte importante della sua vita fin dalle prime settimane dal suo
arrivo a Philadelphia. Si era sentita spaesata e abbandonata, in quella
nuova città a lei del tutto sconosciuta, quando con la madre
e
il fratellino si era trasferita per ricominciare da capo. In quella
figura statica aveva trovato una persona silenziosa che era disposta ad
ascoltare i suoi turbamenti di adolescente in crisi. E lei…
lei
aveva sfogato tutto il peso che a quel tempo si portava addosso: la
cupezza che regnava nella sua famiglia, monca della sua colonna portate
e la mancanza di attenzioni della madre, che nel suo dolore legittimo
di vedova pensava solamente al nuovo membro della famiglia. Quel
fratellino nato nel giorno tanto sognato dalla madre, quello stesso 30
maggio che accomunava ora tutti e tre. La piccola Caroline, un tempo al
centro dell’attenzione di tutti, si era ritrovata sola e
messa da
parte. E doveva imparare a essere indipendente e responsabile, per non
pesare sulla madre. Ma a quel tempo era troppo per lei.
Cora abbassò la testa, per nascondere gli occhi lucidi che
le
stavano venendo nel ricordare il suo primo incontro con il suo
“amico”.
Era stata una giornata in cui tutto era andato storto. Aveva preso lo
zaino ed era scappata di casa. Aveva girovagato per le strade di
quartieri che non conosceva; si era avventurata fra i sottopassaggi
della metropolitana; aveva preso un paio di treni, senza avere una meta
precisa e, infine, una volta tornata in superficie, aveva camminato
ancora, ritrovandosi per caso di fronte a “lui”. Lo
aveva
scrutato per diversi minuti, con gli occhi gonfi di lacrime. Sapeva di
averlo già visto da qualche parte, ma era troppo stanca
perché la sua mente riuscisse a ricordare dove e quando.
Aveva
lasciato cadere lo zaino a terra e si era seduta ai suoi piedi,
appoggiando la schiena al basamento, iniziando a piangere e a parlare,
a sfogarsi, fin quando non si era addormentata. Quella fu anche la
volta in cui incontrò per la prima volta Robert
“Cerbero” Thompson, quando una delle guardie
giurate, che
stava entrando per iniziare il turno di notte, la vide e la
portò nel suo ufficio.
Il suo periodo di ribelle terminò poco dopo, quando verso la
fine dell'anno, Phillip Burton fece domanda anticipata di pensionamento
e si trasferì anche lui a Philadelphia, per mantenere la
promessa che aveva fatto a Greg e adempiere ai suoi doveri di padrino
di Caroline.
Ora Cora era cresciuta, era diventata donna e da tempo aveva lasciato
la casa materna per vivere la sua vita. Cosa più importante
però, aveva scacciato da sé quel senso di
solitudine e
incomprensione che l’aveva attanagliata da ragazzina,
recuperando
l’amore della madre e imparando ad amare il fratellino. Tutto
questo era avvenuto anche grazie al sostegno di Phillip che, con la sua
sola presenza – che voleva essere autoritaria e di guida, ma
che
tradiva la benevolenza di un vero zio – aveva riunito e reso
più forti i legami della famiglia, restituendo loro un
confortante senso di sicurezza.
Cora tirò su col naso. Le era difficile frenare la
commozione
nel ripercorrere con la mente quegli anni difficili. «Sono
libera, adesso», disse, guardando dritto negli occhi il suo
“amico”. «Ho assolto l’ultimo
impegno e posso
partire. Posso tornare a casa… finalmente.»
Si rattristò nel pronunciare quelle ultime parole: non era
mai
riuscita a considerare Philadelphia come una possibile casa, il suo
chiodo fisso era sempre stato quello di tornare a Boston. E ora stava
per realizzare quel desiderio. Sapeva che quello era il momento giusto.
Si passò rapida una mano sugli occhi, per intercettare una
lacrima che voleva scappare via. Fece un respiro profondo con la bocca
aperta, sforzandosi poi di sorridere, perché il futuro era
incerto e meraviglioso allo stesso tempo, pieno di
possibilità
che lei doveva solo cogliere. Rivolse un altro cenno di saluto alla
statua di bronzo di Rocky e si allontanò con l'animo
più
sereno. La prossima tappa sarebbe stato l'ufficio dello zio Phil e
lì sarebbero stati guai. Ma prima... prima aveva bisogno di
mettere a tacere i crampi allo stomaco che si stavano facendo sentire
di nuovo.
Percorse quel vialetto a passo spedito. Davanti a sé, a
poche
decine di metri, già si intravedeva l'incrocio e le strisce
pedonali che doveva attraversare. Si distrasse un momento abbassando la
testa e sfregandosi gli occhi sotto le lenti scure, quando dalla curva
incrociò, quasi all'improvviso, due ragazzi. Quello che
sembrava
il più giovane – anche lui distratto –
le
urtò il braccio, proseguendo senza scomporsi, né
voltarsi
o fermarsi per scusarsi. Pochi passi più indietro invece,
l'altro abbozzò un sorriso e fece un lieve cenno del capo.
«Aiolos! Eccolo, è qui!» lo
chiamò il
giovane, gesticolando col braccio verso un punto preciso. La voce
entusiasta di Aiolia risuonò nell’aria, vivace e
un
po’ infantile.
Percorse quegli ultimi metri che lo separavano dalla statua di bronzo
di Rocky accelerando il passo sempre di più; e, quando
infine vi
si fermò di fronte, si girò verso il fratello con
gli
occhi luccicanti di gioia.
«Che delusione però…»
mormorò, una
volta scemato l’entusiasmo. «Non vedevo
l’ora di fare
la scalinata e alzare le braccia al cielo accanto al mio eroe. Invece
hanno relegato la statua qui, praticamente nascosta.» Si
avvicinò di più per studiarne meglio i dettagli
«Ha
un qualcosa di strano. È diversa da come me l’ero
immaginata e da come appare nelle foto», commentò,
mentre
ci girava attorno.
«Ma dai, Aiolia, quello che dici tu era solo finzione
scenica,
era un film. Sai bene che sullo schermo appare tutto più
grande,
diverso. E poi, la corsa su per la scalinata la potevi fare
ugualmente», rispose con estrema calma Aiolos, che non
condivideva affatto lo stesso entusiasmo del fratello, né
gli
piaceva dare di sé l’immagine di un turista
fanatico.
«Sì, ma… sarei sembrato un
cretino»,
ribattè mestamente il primo, trovando conferma
nell’espressione del fratello, che gli stava sorridendo
malizioso.
«Anche a correre in quel modo per le strade, agitandoti come
un
ossesso, fai la figura del cretino. Per non parlare del fatto che vai
addosso alle persone e neanche ti scusi. Comunque sia, alla fine
l’abbiamo trovata lo stesso, no? Non è questo
l’importante?»
«Però non è la stessa cosa trovarla in
questo
parchetto invece che al suo posto», insistette Aiolia, non
ancora
convinto e sempre più deluso.
«Ma te l’ha spiegato la guida del museo: la
collocazione
abituale della statua è questa! Solamente in occasioni
particolari viene spostata in cima alla scalinata.»
Aiolos lo guardò con esasperazione, sbuffando stancamente.
Sapeva che far capire le cose al fratello, quando si metteva in testa
un’idea tutta sua, era un’impresa ardua e ci voleva
tanta
pazienza.
«Dai, mettiti in posa che scatto questa benedetta foto,
così possiamo riprendere i nostri affari», gli
disse, non
troppo gentilmente, controllando l'ora e valutando quanto tempo ancora
poteva permettersi di perdere appresso a quelle stupidate.
«L’appuntamento con il direttore del museo
è fra
meno di venti minuti», gli ricordò. Si tolse il
guanto di
pelle e tirò fuori dalla tasca del cappotto
l’iPhone 3GS,
selezionando la funzione di fotocamera. Poi, inquadrò il
fratello e scattatò la foto.
«Aspetta! Un’altra ancora. Facciamoci un
selfie!» lo
trattenne Aiolia, dopo che l'altro, avvicinatosi a lui per mostrargli
il risultato, stava per riporre l'apparecchio in tasca, pronto a
ritornare sui suoi passi.
Il giovane gli prese di mano l’iPhone e gli mise un braccio
sulle
spalle, sballottandolo un poco per metterlo in posa accanto a
sé. «Sorridi!» lo incitò con
la bocca
già tirata in un sorriso esagerato. Lo scatto fu rapido e,
subito senza pensarci due volte, iniziò a smanettare.
«Che stai combinando?» chiese Aiolos,
risistemandosi il cappotto.
«Sto mandando la foto a mamma e papà!»
rispose
Aiolia, tutto contento. «E poi la posto sul mio profilo
facebook!
Così la vedranno anche i miei amici.»
Aiolos si limitò a sbuffare e, senza aspettare oltre, si
incamminò verso l'entrata del museo.
*****
Cora rientrò in ufficio rilassata e di buon umore, dopo una
lunga passeggiata, durante la quale aveva soddisfatto le esigenze del
suo stomaco. Ad attenderla, sulla scrivania c’era
ciò che
si poteva definire “la consueta montagna di
scartoffie” se
non fosse stato che, nei giorni precedenti, aveva programmato tutto
affinché non le rimanessero arretrati. E invece, eccoli
lì: appunti sparsi su qualsiasi cosa potesse essere usata
per
scrivere che andavano riordinati, trascritti al computer e inseriti nei
fascicoli dei rispettivi casi; cartellette di casi aperti mischiati a
quelli già chiusi e da archiviare per la centesima volta; e
materiale di vario genere da visionare, catalogare, etichettare e
smistare.
Nessuno aveva ancora capito come il suo capo riuscisse a raccogliere
tanto materiale in così breve tempo; e altrettanto mistero
era
come ancora non vi fossero rimasti seppelliti, visto che in
quell'ufficio la tecnologia sembrava bandita, se non si contavano i due
computer vecchi di cinque anni, comprati a un discount e che servivano
giusto per svolgere qualche semplice operazione, come: ricerche
superficiali, trovare indirizzi, ordinare la cena in qualche locale che
faceva servizio da asporto, scrivere lettere e rapporti per i clienti e
mandare email. Phillip Burton era affezionato ai metodi tradizionali,
per quel che riguardava le indagini, ovvero scarpinate per le strade,
appostamenti a ogni ora del giorno e della notte – se
necessario
–, macchina fotografica sempre a portata di mano, scorte di
rullini e contatti di persona con informatori di ogni tipo. Insomma,
l'abc della vecchia scuola!
Cora fissò sconfortata quella massa informe che giaceva
lì, in sua attesa. In mano reggeva un enorme bicchiere di
tè verde ghiacciato – nonostante fosse febbraio
– e
nell’altra stringeva l’ombrello e la tracolla della
borsa.
In bocca invece, reggeva un sacchettino di carta con dentro due
ciambelle glassate, comprate al chiosco in fondo alla strada,
all’incrocio con una via molto trafficata.
Fece vagare i suoi occhi a ispezionare quel marasma, arrendendosi poco
dopo all’evidenza dei fatti: non c’era il ben che
minimo
spiraglio per poter appoggiare uno spillo, figurarsi la sua roba.
«Ma quell’uomo lo fa apposta a riempirmi di lavoro
per non
farmi più partire?» biascicò con il
sacchetto fra i
denti. «Ieri pomeriggio non c’era un foglietto
fuori posto,
se pensa che così facendo io cambi idea… si
sbaglia di
grosso!»
Col piede spostò più indietro la sedia e vi
appoggiò la borsa e l’ombrello. Poi, con una
sbracciata
attenta fece spazio fra vhs, cd-rom e dvd vari, riuscendo a recuperare
un angolino per poter posare i “rifornimenti”.
Non aveva però ancora appeso il cappotto e la sciarpa
quando,
sostando un attimo di troppo davanti alla porta di vetro
dell’ufficio privato di Phillip, le giunsero alle orecchie
strani
mugolii e rumori non proprio discreti, che poco si confacevano a un
ambito lavorativo professionale. Scrollò la testa, volgendo
lo
sguardo verso Mickey, che se ne stava seduto tranquillo sul divanetto
in fondo alla stanza, con gli auricolari alle orecchie e impegnato a
fare i compiti di scuola.
Stava provando a tenersi impegnata a mettere ordine in quel caos, per
non dover pensare a ciò che succedeva nell'altra stanza, ma
un
orecchio era sempre ben teso. Era una situazione così
surreale e
anche imbarazzante. Dall’altra parte di quella porta
c’erano due adulti che si stavano comportando come dei
ragazzini
con gli ormoni impazziti.
Cora alzò lo sguardo sul bambino: Micheal Gregory Miller, il
suo
fratellino ormai quasi undicenne. Era l’ultimo nato nella
famiglia Miller ed era il ritratto vivente del suo defunto padre;
almeno di come lei lo ricordava con gli occhi di bambina e di come
appariva nelle vecchie fotografie scattate durante le vacanze estive.
Ciò che del padre era maggiormente impresso nella sua mente
erano i morbidi riccioli neri e gli occhi castano scuro, profondi e
scrutatori, ma anche vivaci, curiosi e fiduciosi: esattamente gli
stessi di Mickey. Tutto aveva ereditato dal padre, dalla forma
armoniosa degli occhi, a quella delle orecchie, sottili e ben
proporzionate. Anche il particolare modo che aveva di sorridere
–
lo stesso che la madre le aveva confidato che l’aveva fatta
innamorare a prima vista – era in tutto e per tutto simile a
quello del padre. Perfino nel carattere del bambino si poteva ritrovare
quello del genitore scomparso, nonostante lui non avesse avuto la
possibilità di prenderlo a modello perché non
l’aveva mai conosciuto: gentile, disponibile, socievole con
tutti, semplice, eppure maturo e responsabile. Mickey riusciva a
trovarsi a suo agio sia con i ragazzi della sua età, sia con
gli
adulti, grazie all'innata capacità di farsi voler bene da
tutti.
Con le ragazze poi, era un vero rubacuori. Negli anni passati, ma
qualche volta capitava anche ora, Cora si soffermava a guardare il suo
fratellino e provava una certa invidia: per lui tutto sembrava facile.
Quando era bambina, anche per lei era stato così, poi c'era
stato il lutto; e tutto divenne complicato. La spontaneità e
l'entusiasmo si erano tramutati in diffidenza e distacco, mentre negli
ultimi due anni era sopraggiunta un bel po' di incoscienza.
Si girò di nuovo verso la porta dell'ufficio di Phillip, da
dove
arrivavano mugolii e risate divertite. Come poteva lavorare in quelle
condizioni?
Sbuffò, mormorando che era meglio se controllava le email.
Però quei “rumori” si facevano
più forti e
indiscreti. Si massaggiò le tempie per qualche secondo; poi,
dopo essersi alzata con cautela, spalancò la porta
beccandoli in
flagrante.
«Ancora a tubare come due colombi in amore? Vi prego, almeno
non
in ufficio!» esclamò, a metà fra lo
scandalizzato e
lo scocciato. «Siete fortunati che Mickey è di
là,
tranquillo, con la musica nelle orecchie e non vi sente. Ma se fosse
entrato qui che razza di spettacolo avreste offerto a quel povero
bambino? Avreste potuto traumatizzarlo!» li
rimproverò,
dando loro le spalle e socchiudendo la porta, così da
nascondere
l'imbarazzo che provava nel vederli avvinghiati in quel modo.
Sua madre era una donna ancora molto attraente e, nonostante le due
gravidanze – e nessuna frequentazione assidua di palestre di
alcun genere – era riuscita a mantenere un fisico
invidiabile;
addirittura sembrava più in forma che in passato. Non
dimostrava
affatto i suoi quarantasei anni di età; anzi, quelle volte
che
uscivano assieme per fare shopping, o pranzavano da qualche parte, o
magari facevano anche solo una passeggiata, venivano facilmente
scambiate per sorelle.
Quando si girò di nuovo, Cora dovette distogliere lo
sguardo:
proprio non riusciva a vederli abbracciati e farsi le coccole
teneramente, ma non perché disapprovasse che la madre si
fosse
rifatta una vita, né la scelta del compagno, solo... era sua
madre!
I due avevano ormai una relazione più o meno esplicita da
circa
otto anni e Cora aveva sempre voluto bene a Phillip Burton: era un
secondo padre per lei e aveva cresciuto Mickey come fosse stato suo
figlio. Praticamente erano diventati una famiglia anche senza una vera
e propria ufficializzazione legale.
«Se proprio volete fare certe cose, la porta alla vostra
destra
conduce dritta al vecchio bilocale. Varcatela e buon
divertimento!» Cora alzò involontariamente la
voce, il suo
livello di imbarazzo era arrivato alle stelle.
«Che succede, sorellona?»
Mickey sbucò fuori dal nulla, curioso di sapere il motivo
della discussione e di tanta agitazione da parte della sorella.
La giovane si voltò di colpo, colta alla sprovvista e rossa
in
viso. «Niente, non è niente, sono cose da adulti.
Torna di
là a finire i compiti oppure gioca al computer.»
Sospinse il fratellino fuori e chiuse di nuovo la porta. Per qualche
secondo rimase appoggiata con la fronte al vetro, sbuffando per lo
scampato pericolo. Poi, si girò verso i due adulti e si
avvicinò alla scrivania. «Allora, vi decidete a
formalizzare la cosa una volta per tutte e comportarvi come persone
della vostra età oppure…»
iniziò a dire,
incrociando le braccia al petto e fissandoli per diversi secondi.
«oppure volete continuare a chiudervi in questo ufficio a
fare… quelle… quelle… Oh cielo, avete
capito,
vero?» terminò, con l'imbarazzo che ormai aveva
preso il
controllo, facendola addirittura balbettare.
«Ma di cosa stai parlando?» chiese Teresa,
scendendo con
estrema calma dalle gambe dell’uomo, che a quel punto
sembrava
imbarazzato almeno quanto Cora, anche se per motivi diversi.
«Ti
prego di non essere così teatrale», le disse la
madre,
risistemandosi i vestiti. «Invece di dire tutte queste
sciocchezze da bacchettona perbenista, perché non torni a
casa
più spesso e stai attenta ai discorsi che si fanno?
Così
sapresti che il matrimonio è stato fissato per settembre e
che
Mickey è a dir poco entusiasta! Si è anche
proposto come
testimone, il mio piccolo caro.»
La donna addolcì il tono di voce nel riportare alla mente
con
quanto fervore il bambino avesse dato la sua approvazione e si fosse
auto nominato testimone, nonostante l’età glielo
impedisse.
«Ma in fondo, che ne puoi sapere tu che vieni a trovarci
sì e no una volta ogni sei mesi? Quando ti ricordi,
naturalmente. E sì che abitiamo proprio sopra
l’agenzia!
Piuttosto, Caroline», cambiò argomento la donna,
fissando
la figlia con piglio severo. «dove sei stata fino a
quest’ora? Sono le quattro passate e tu dovevi essere in
ufficio
dalle undici di questa mattina!»
«Cora, mamma, mi chiamo Cora!» sbuffò la
ragazza, tornando alla sua scrivania.
«Ancora con questa storia? Il tuo nome è Caroline!
Questo
è quello che ho scelto assieme a tuo padre per te e questo
hai!» la rimbrottò Teresa, seguendola a grandi
falcate,
lasciando così modo a Phillip di
“rilassarsi” e
rimettersi in ordine.
«Sì, sì, il solito
ritornello»,
borbottò Cora, accovacciandosi davanti alla cassettiera
della
scrivania e iniziando ad armeggiare con uno dei cassetti che non voleva
saperne di aprirsi. «E comunque, papà non ci
badava a
queste cose.»
«No! Tuo padre ti assecondava in questo tuo gioco infantile
di
cambiare il nome, solo per farti felice. La questione è
diversa!
E dimmi, quanti ne hai cambiati finora di nomi? Cinque? Sei? Uno
più strambo dell’altro, oltretutto.»
«E tu invece, quante volte li hai usati per i tuoi
personaggi?
Eh? Ogni volta che ne trovavo uno che mi piaceva, tu me lo rubavi per
uno dei tuoi racconti!» rispose per le rime la giovane,
distogliendo per un attimo la sua attenzione dal suo lavoro di
scassinatrice in erba.
«Beh, puoi stare tranquilla che questo non te lo rubo di
certo.
Santo cielo, sembra il nome di un cane!» E con quella
stoccata
finale Teresa attese la reazione seccata della figlia.
Cora dal canto suo non ribatté, ma si vedeva che si stava
innervosendo. Ciò che agli occhi della madre non era
però
chiaro era se lo fosse con lei, oppure con il cassetto che continuava a
maltrattare. Dopo qualche secondo, la donna uscì dalla sala
d'attesa dell'agenzia investigativa portando con sé il
figlio,
visto che era l'ora della merenda.
«A papà sarebbe piaciuto…» si
lasciò
sfuggire sottovoce Cora, mettendo il broncio come una ragazzina.
«Ah, a proposito, mamma, più tardi passo a
prendere un
paio di cose che voglio portarmi via!» urlò, prima
di
arrendersi e mandare al diavolo quel cassetto che proprio non voleva
saperne di cedere.
«Potresti almeno darle una piccola soddisfazione»,
la
rimproverò Phil, appoggiato con la spalla allo stipite della
porta del suo ufficio, rivolgendole uno sguardo triste e paterno.
Cora sbuffò: sapeva che l'uomo aveva ragione. Certe volte le
era
più facile escludere la madre, piuttosto che darle la
possibilità di lasciarsi avvicinare. «Te la
caverai qui in
ufficio senza di me?» gli chiese con tono mogio, senza
guardarlo
in faccia. Poi, gli fece indendere che ci avrebbe provato a darle una
chance.
*****
Lo aveva promesso, ma ora non ne era più molto sicura;
soprattutto non voleva discutere ancora una volta con lei. Cora rimase
ferma di fronte alla porta dell’appartamento per qualche
minuto,
strusciando nervosamente le suole delle scarpe sullo zerbino nuovo.
Quando era stata l’ultima volta che era entrata in quella
casa?
Si portò le mani a nascondere il viso per la vergogna: era
stato
per il pranzo di Capodanno.
Non aveva tutti i torti la madre a rinfacciarle che poteva farsi vedere
più spesso: erano davvero pochi i gradini che dividevano
l’ufficio dell’agenzia investigativa dalla casa
della sua
adolescenza.
Tutto il suo mondo era racchiuso in una piccola palazzina di tre piani,
collocata in una zona molto tranquilla di Philadelphia, in un quartiere
con i viali alberati, le case dai classici mattoni a vista e le
cancellate in ferro battuto, scure ed eleganti. E l’agenzia
investigativa di Phillip Burton si trovava al secondo piano.
Cora non sapeva bene cosa la tratteneva dal varcare più
spesso
quella porta, non erano certo gli attriti con la madre e non era
neanche la tanto desiderata indipendenza dal nido materno. Fece un
sospiro profondo e aprì la porta. Era esattamente come se la
ricordava, con quella sua rassicurante e nostalgica atmosfera
familiare, sempre uguale a se stessa in qualsiasi tempo e in qualsiasi
luogo; con gli stessi mobili, le stesse cianfrusaglie disposte nello
stesso modo, gli stessi quadri alle pareti, sempre dello stesso colore.
Poteva sembrare che la vecchia casa di Boston avesse preso il posto di
quella di Philly, anche l'odore era lo stesso, ma in realtà
non
lo era.
«Alla buon’ora! La cena sarà pronta fra
mezz’ora.» La voce di Teresa risuonò
forte e allegra
dalla cucina, come se quel pomeriggio non fosse accaduto nulla fra loro
due. «Vieni ad apparecchiare la tavola e non ammetto un
“no” come risposta, Caroline!» aggiunse,
per smorzare
subito le eventuali proteste della figlia.
«Ma come hai fatto a capire che ero io?» le
domandò, affacciandosi in cucina.
«Perché sei l’unica che chiude piano la
porta
d’ingresso e lo fai per non dare
nell’occhio.»
«Comunque sia», riprese lei, con leggero imbarazzo
per la
disponibilità della madre, «sono venuta solo per
prendere
alcune cose, non posso fermarmi», disse, avviandosi verso lo
studio.
«Caroline, per piacere… Almeno per questa sera,
resta a
mangiare con noi.» Lo sguardo della donna si
intristì
subito, mentre si asciugava le mani con lo strofinaccio. Sapeva bene
cosa la figlia era venuta a prendere: quel momento l'aveva sempre
temuto. «Anche se non sono d’accordo con la tua
decisione
di tornare a Boston, non vuol dire che tu debba evitarmi in questo
modo», le disse, fermandosi sulla soglia del suo studio.
«Eccolo qui. Finalmente è arrivato il
momento»,
mormorò Cora, afferrando il vecchio e polveroso scatolone
bianco, che per anni era rimasto in cima a quella libreria. Barcollando
un poco, scese dalla sedia con lo scatolone fra le mani. I suoi occhi
non vedevano che quello, sulle sue labbra era stampato un sorriso
emozionato.
«Caroline...» la pregò di nuovo la madre.
«Non ti sto evitando, mamma, lo sai bene. Ma devo
attraversare
mezza città per tornare a casa e voglio terminare di
inscatolare
le mie cose.»
«Peccato, avevo preparato la torta al limone che ti piace
tanto.
Saremo costretti a mangiarla tutta noi», sospirò
la donna,
facendo dietrofront e tornando in cucina.
«No! Non è giusto!» esclamò,
Cora.
«Questo è un ricatto morale bello e buono! Non
puoi fare
il mio dolce preferito e non darmene neanche un
pezzetto…»
Ancora scalza, a passo svelto seguì la madre fino in cucina,
dove la trovò intenta a togliere il dolce dalla tortiera. Lo
fissò con occhi languidi, mentre il suo stomaco
iniziò a
farsi sentire.
«Devi solo rimanere a cena.»
*****
«Oh merda!» urlò Caroline, dalla camera
da letto, rompendo l'armonia di quella tranquilla serata in famiglia.
Subito dopo cena, con il piattino del dolce in mano, Caroline si era
riappropriata per un paio di ore della sua vecchia camera. Il suo letto
a una piazza e mezza era pieno di fogli di giornali vecchi, tanti
oggettini che attendevano solo di essere imballati, libri, quaderni e
un paio di fotografie incorniciate.
«Tesoro, modera il linguaggio!» la
rimproverò la
madre dalla cucina, impegnata a finire di sistemare. La donna non aveva
mai tollerato tali volgarità, soprattutto se uscivano dalla
bocca della figlia. Se da ragazzina poteva tenerla a bada e punirla,
ora che era diventata adulta poteva solo riprenderla a voce e sperare
che, in cuor suo, almeno il figlio più piccolo non ne
venisse
influenzato.
La ragazza uscì dalla camera come un uragano e si
precipitò nel salotto, dove Phillip, seduto comodamente in
poltrona, stava leggendo il giornale. Si avvicinò a lui a
grandi
passi e, con un impeto dettato dalla rabbia e dal terrore, gli
sventolò sotto il naso un’edizione vecchia di
alcuni
giorni del Philadelphia Inquirer che stava usando per imballare le sue
cose.
«Zio Phil, che… che…»
balbettò,
iniziando a respirare a fatica. «Che significa questa
storia?»
L’uomo alzò lo sguardo dall'articolo che stava
leggendo,
rimanendo per qualche secondo inebetito dallo stato di agitazione della
giovane. Prese dalla sua mano tremante il giornale e diede una scorsa,
aggrottando poi la fronte nell'individuare cosa stesse sconvolgendo la
figlioccia.
«Lo hanno scarcerato!» gridò ancora una
volta lei,
furibonda. «Ma ti rendi conto? Saranno passati quanto,
neanche
due anni! E lo hanno già scarcerato!» Cora si
avvicinò a lui e col dito iniziò a battere
insistentemente sulla carta spiegazzata.
«A quanto pare il suo avvocato ha ottenuto
l’invalidamento
dell’arresto e il conseguente annullamento del processo e
della
condanna», commentò con voce pacata
l’uomo,
nascondendo molto bene la rabbia che ribolliva furiosamente anche in
lui. Sapeva che era importante mantenere calma e lucidità,
soprattutto in casa. «Non possiamo farci nulla, questa
è
la legge.»
Con molta lentezza si tolse gli occhiali da lettura, li
appoggiò
sul tavolino lì accanto e si massaggiò la base
del naso,
insistendo molto nel punto dove i poggia naso avevano lasciato un segno
profondo. Si alzò e diede le spalle alla ragazza.
«È inconcepibile una cosa del genere!»
inveì
di nuovo Cora, riprendendo in mano quel giornale e stringendolo tanto
forte da strapparlo in alcuni punti. «Dopo tutto quello che
quel
mostro ha fatto… e loro lo hanno lasciato andare in questo
modo,
per un cavillo!» continuò, accalorata dalla
collera che
aumentava sempre di più.
Tanta indignazione in Cora era giustificata dalle sofferenze che aveva
patito per riuscire a far arrestare e condannare quello squilibrato.
Eppure, adesso che pensava fosse tutto passato e che finalmente aveva
rimesso in piedi la propria vita, le sembrava dovesse di nuovo andare
in pezzi.
«Non si è fatto neppure due anni di
galera»,
mormorò, camminando irrequieta avanti e indietro: le sue
braccia
si erano strette allo stomaco che aveva iniziato a farle male. Poi,
dopo qualche minuto di silenzio, alzò lo sguardo sull'uomo
che
ancora le dava le spalle. «Tu lo sapevi, non è
vero?» gli chiese, ora con una strana calma nella voce, ma
nei
suoi occhi c'era già la voglia di piangere.
Non attese la risposta della persona di cui si era sempre fidata
ciecamente. Sbatté con violenza il giornale sul tavolino e,
con
passi pesanti, si rifugiò di nuovo nella sua vecchia stanza,
dalla quale però ne uscì poco dopo. Non rivolse
più la parola a nessuno, prese uno degli scatoloni che si
era
preparata e infine uscì, sbattendo la porta.
Quel giornale, tutto spiegazzato, sembrava ora giacere dimenticato sul
tavolino del salotto, con quel maledetto articolo di cronaca ben in
vista.
*****
Accusato
di cinque aggressioni e un omicidio, ora è libero. Arresto
invalidato, pena sospesa
Scarcerato
Johnson Deline, il "maniaco di Philly"
Una
decisione che non mancherà di suscitare accese polemiche
Edward Jenkins,
Philadelphia.
Una nuova controversia giudiziaria dai contorni
poco chiari sta
attualmente suscitando scalpore tra l’opinione pubblica:
oggi, 15
febbraio 2010, Johnson Deline, meglio conosciuto come "Il maniaco di
Philly" è stato scarcerato. Arrestato e processato nel 2007,
era
stato dichiarato dall’allora giuria colpevole di cinque
aggressioni di natura sessuale e un omicidio. In risposta
all’indignazione dei legali delle vittime di Deline, il
giudice
Samuel Lee Richardson ha giustificato con fermezza la sua decisione
spiegando come la sentenza fosse da ritenersi invalida,
poiché
caratterizzata da un’irregolarità procedurale. Un
piccolo
e insignificante cavillo, al quale tuttavia l’avvocato
difensore
di Deline – Frank Goletti – ha fatto lungamente
leva sin
dal primo verdetto. Appena uscito dal carcere, Deline è
stato
preso d'assalto dai giornalisti che hanno cercato di strappargli una
dichiarazione per ricevere invece nient’altro se non un
sorriso
disteso – ma c'è chi sostiene fosse di scherno
– e
una frase enigmatica quanto la vicenda che l'ha visto protagonista.
"Sono felice che la giustizia abbia fatto il proprio corso", ha
affermato tranquillo Deline, circondato dal suo avvocato e dal fratello
minore.
Le zone d'ombra, tuttavia, non mancano. Chi è realmente
Deline?
Trent'anni, altezza decisamente sopra la media, atteggiamento composto
da bravo ragazzo, sottolineato dalla sua chioma riccioluta che sembra
portare una nota sbarazzina in una figura altrimenti indecifrabile. Il
prototipo del “ragazzo della porta accanto”,
riassumendo.
Eppure, malgrado l’apparenza insospettabile, tra il 2006 e il
2007 la metropolitana era divenuta il palcoscenico ideale per le sue
efferate aggressioni ai danni di giovani donne, perlopiù
studentesse universitarie di età compresa fra i 19 e i 25
anni,
l'ultima delle quali, Cecily Gibson – nipote del giudice
della
corte suprema, ora in pensione, Jack Gibson – era stata
trovata
strangolata vicino all’uscita della metropolitana
all’interno della stazione ferroviaria. Fu grazie alla
preziosa
collaborazione nelle indagini dell'investigatore privato Phillip Burton
– ex capitano di polizia di Boston – se nel 2007 fu
possibile l’arresto di Johnson Deline, da lui identificato
come
il "maniaco di Philly": ad incastrarlo fu il risultato del riscontro
dei campioni di DNA in possesso della polizia con quelli trovati
durante la perquisizione nell'abitazione dell'uomo. Il processo, che lo
vedeva imputato per cinque aggressioni sessuali e un omicidio,
terminò con una condanna a 45 anni di carcere. Sentenza che
ovviamente aveva scontentato le vittime e i familiari che avevano fino
all’ultimo sperato nel carcere a vita.
L’unica consolazione era che almeno Deline fosse destinato a
scontarla interamente finché, qualche giorno fa, mr Goletti,
dopo innumerevoli ricorsi, riuscì a far invalidare l'arresto
per
un vizio di procedura, chiedendo l'annullamento del processo e
l'immediata scarcerazione del suo assistito. Richiesta incredibilmente
accolta: il riesame del caso ha fatto decadere tutte le accuse a suo
carico e rese inammissibili le prove raccolte. Rimangono forti le
perplessità in merito alle motivazioni emerse, laddove la
legge
– e chi trae guadagno da essa – appare
più intenta a
raggiungere la perfezione formale che non a tutelare i cittadini.
Permangono forti dubbi sul mantenimento della sicurezza pubblica, ora
che questo personaggio è tornato a circolare libero.
Note
del capitolo:
Rocky's Steps:
letteralmente gli scalini di Rocky; quelli apparsi nella pellicola
cinematografica del primo film della serie di Rocky e che appunto
portano all'entrata est del Museum of Art.
Penn Law:
è la
facoltà di giurisprudenza dell'università della
Pennsylvania, ubicata a Philadelphia, è una delle
più
antiche e prestigiose università degli Stati Uniti.
Selfie: praticamente
sono
degli auto scatti fatti con i cellulari, smartphone e simili. Anche se
pare che questa moda si stia diffondendo in modo esponenziale solo in
questi ultimi anni, questo tipo di foto è stato reso celebre
dal
film Thelma e Louise del 1991, nel quale proprio le protagoniste si
prestano ad un autoscatto.
Philly: è
il nome con cui familiarmente viene chiamata la città di
Philadelphia dai suoi abitanti.
The
Philadelphia Inquirer: è il quotidiano più
diffuso nella città di Philadelphia;
Per
l'articolo, ringrazio in mio cronista d'assalto Edward Jenkins
e per l'ultima revisione finale, ringrazio il mio correttore di bozze
"anonimo" (spedito oltremanica a farsi le ossa) che gli ha dato gli
ultimi ritocchi per renderlo più in stile "anglosassone".
Per
quel che riguarda il contenuto dell'articolo invece, la condanna
comminata è volutamente inferiore all'effettiva pena che
andrebbe comminata per un omicidio, ovvero l'ergastolo o in casi
estremi anche la pena capitale.
(Le
persone e i fatti riferiti all'interno dell'articolo non sono reali.)
|
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Capitolo 7 *** Capitolo VI ***
VI
«Uffa! Ma perché siamo finiti qui?»
chiese Aiolia,
camminando qualche passo dietro al fratello. «Non potevamo
prendere l'auto che avevamo oggi pomeriggio?»
sbuffò,
continuando nella sua andatura un po’ ciondolante,
borbottando
altre lamentele che arrivavano alle orecchie del fratello come un
ronzio fastidioso.
«Forse, se qualcuno di mia conoscenza non avesse tanto
insistito
per assistere alla mostra dedicata al cinema, perdendosi poi
più
e più volte in contemplazione per ogni oggetto di scena
presente…» intervenne Aiolos, «per non
parlare che
sempre quella stessa persona», e alla parola
“persona” diede un’inflessione
particolarmente
sarcastica, «si è comportato come un fanatico
dodicenne,
nella sezione privata dedicata a Rocky Balboa, attirando gli sguardi di
tutti gli invitati su di noi, facendomi di conseguenza
vergognare…» continuò con noncuranza,
guardando
distrattamente davanti a sé. «E, non contento, a
mia
insaputa ha pure licenziato il nostro autista dicendo che non serviva
più la sua presenza… non ci troveremmo in questa
situazione!»
«Perché devi rigirare il coltello nella piaga in
questo
modo?» sospirò Aiolia, in tono colpevole.
«Non
pensavo certo di attardarmi così tanto e... non immaginavo
che
tu alla fine avessi rifiutato l’invito a cena del direttore
del
museo», sbuffò di nuovo.
L’andatura del ragazzo si fece più lenta e
svogliata,
aumentando il divario con l'altro. «Però,
perché
non ne hai chiamata un’altra? Se avessi fatto il nome degli
Hayes
te l’avrebbero mandata in un attimo!»
«Non ce n’erano altre disponibili con
autista», fu la
semplice e diretta risposta del fratello maggiore. «E il nome
degli Hayes, benché influente anche fuori dai confini del
Massachusetts, non apre tutte le porte. Non qui almeno!»
continuò, ma questa volta, con un'inclinazione di fastidio.
«E non potevamo prendere almeno un taxi, per tornare in
albergo? Perché proprio la metropolitana?»
A volte, Aiolia sapeva essere petulante come un bambino, soprattutto
quando vedeva che non gli si dava soddisfazione; ma in
quell’occasione era difficile che potesse accadere e le sue
parole assumevano via via l’aspetto di strazianti miagolii
alle
orecchie del fratello maggiore.
«Ma di che ti lamenti? Sei abituato a usare la metropolitana,
no?
Boston, New York o Philadelphia… che differenza vuoi che
faccia?» rispose Aiolos, portato quasi
all’esasperazione.
Lui voleva solo tornarsene in albergo per farsi una doccia calda e
controllare le email in santa calma, prima di coricarsi. «E
poi,
non eri tu che volevi fare il turista e vivere la città?
Quella
vera, hai detto! Quale occasione migliore di questa?»
Si girò di tre quarti e lo osservò con un mezzo
sorrisino
sulle labbra. Le mani ben ficcate nelle tasche del lungo cappotto scuro
di cashmere; la destra impegnata a far tintinnare alcuni spiccioli.
«Non è per questo», rispose con tono
sottomesso
Aiolia, guardando il fratello dal basso in alto, tenendosi a debita
distanza, procedendo lungo il passaggio sotterraneo poco illuminato
della metropolitana. «È che…»
«Non mi verrai a dire che sei già stanco,
vero?»
inquisì allora il maggiore, sempre con tono sarcastico.
«Forse, passi troppo tempo appiccicato a Saga e ti stai
impigrendo», affermò con una punta di veleno nella
voce.
Si girò completamente verso Aiolia, fermandosi e lasciandosi
superare, per gustarsi appieno l'espressione offesa sul volto del
più giovane. La sua attenzione però si rivolse
quasi
subito al distributore automatico di snack poco più avanti.
«Non è vero! Non sono pigro!»
esclamò
indignato Aiolia, raggiungendolo di corsa davanti alla macchinetta.
«Ti ricordo che faccio parte a pieno titolo della squadra di
atletica dell’Università! Sono in perfetta forma
fisica!»
Aiolos però non lo stava ascoltando, intento a inserire le
monetine nella fessura del distributore, concentrando poi la sua
attenzione a valutare l’ampia offerta di merendine e dolci
vari
disposti in maniera ordinata nei vari scomparti.
«E per quel che riguarda Saga, lui…»
riprese Aiolia,
pronunciando la parolina magica che fece drizzare le orecchie al
fratello, ottenendo di nuovo la sua attenzione. «Credo che tu
non
lo conosca così bene come pensi, se credi che sia
pigro»,
ribattè con soddisfazione nel vedere l’espressione
incuriosita di Aiolos; e i suoi occhi, per la prima volta in quella
lunga giornata, si animarono di spavalderia, cancellando in un solo
colpo le tante sciocchezze che aveva combinato durante il loro
soggiorno a Philadelphia.
«Oh, ma davvero? E allora sentiamo, cosa mai potrebbe fare un
tipo come lui che sono anni che non mette fuori il naso dalla villa di
Mystic Lake?» disse Aiolos, guardandolo con una smorfia
eloquente
sulle labbra. «Anzi, è da quando lo conosco che
praticamente non ha mai messo piede fuori dalla proprietà!
Le
rare occasioni in cui ha seguito il padre a New York, o da qualsiasi
altra parte, si contano sulle dita di una mano»,
continuò,
anticipando qualsiasi cosa potesse dire il fratello in difesa
dell’oggetto della discussione, tornando a guardare la
vetrina
del distributore di snack.
Ci furono alcuni secondi di silenzio: uno era impegnato nella delicata
scelta, mentre l’altro invece non sapeva cosa ribattere.
«Credo proprio che per lui il mondo inizi e finisca entro i
confini di quella proprietà; ne ha fatto un vero e proprio
santuario. Servito e riverito di tutto punto neanche fosse un re! E so
bene cosa dico. La nonna non fa altro che parlare di lui, Shura non la
smette di fare paragoni con lui, persino Shion Hayes, quando ne parla,
lo tratta come se fosse una cosa santa!» concluse Aiolos, con
un
certo disprezzo nella voce.
«Ti sbagli! Lui…» Aiolia si trattenne a
stento dal parlare troppo.
Si morse nervosamente il labbro per alcuni secondi, vedendo come la
bocca di Aiolos, giratosi verso di lui, si stesse inesorabilmente
piegando in un ghigno, mentre il suo sguardo diventava sempre
più canzonatorio. Cosa doveva fare ora? Aveva forse rivelato
troppo per salvare il segreto dell’amico? Aiolos era molto
bravo
a estorcergli anche le cose più imbarazzanti senza neanche
farsene accorgere. In un attimo la sua mente andò a qualche
giorno prima.
«Perché
non vuoi che si
sappia?» gli aveva domandato Aiolia con genuino stupore,
spezzando un rametto secco da una delle siepi basse che contornavano il
vialetto secondario.
«Perché
non me lo
lascerebbero fare», aveva risposto Saga, sospirando e
guardando
la strada che si intravedeva fra gli alberi del boschetto.
«Io continuo a
non capire. Cosa
c’è di male? In fondo non sei mica un bambino e
quello che
fai non è illegale, giusto?» aveva insistito il
giovane,
continuando a camminare a fianco del più grande.
«Lo sai come
sono fatti in
famiglia», aveva iniziato a spiegare Saga, facendo subito un
altro sospiro, quasi penoso. Poi avevano iniziato a incamminarsi sulla
stradina che portava al pontile del lago. «Papà e
Shura
sicuramente direbbero che è una perdita di tempo, che non
è qualcosa di adatto a me, che dovrei concentrarmi su altro.
Kanon, a lui penso che l'idea piacerebbe e forse vorrebbe anche
partecipare, ma poi… so che in qualche modo rovinerebbe le
cose.»
Saga aveva tenuto lo
sguardo basso
nel lasciarsi andare a quella confidenza sul gemello e Aiolia aveva
visto come all’altro non sarebbe stato affatto dispiaciuto
condividere quella cosa con il fratello. Negli anni aveva visto quanto
fossero sempre in sintonia e soprattutto quanto Kanon avesse sempre
fatto di tutto per renderlo felice. Per questo non riusciva a
comprendere le reticenze dell’amico. Fra le tante fortune di
cui
godeva, aveva un fratello che lo riempiva di attenzioni, quando le
occasioni lo permettevano; non come lui che invece vedeva
nell’atteggiamento di Aiolos perlopiù una persona
scocciata e sempre troppo calata nel suo ruolo di manager.
«E
poi», aveva continuato
Saga, «si porterebbe dietro tuo fratello», aveva
detto con
una punta di delusione nella voce che Aiolia purtroppo ben comprendeva:
non era quasi mai divertente fare le cose con Aiolos. «E
questa
cosa è solo mia. Mi capisci, Aiolia, vero?» gli
aveva
detto con voce accorata, fermandosi e prendendolo per un braccio.
«Quindi, per favore, non dire nulla. Promettimelo!»
In quegli occhi verdi
c’era
tutta la disperazione del ragazzo che, sebbene ormai adulto al pari di
Kanon e Aiolos, manteneva ancora l’entusiasmo e la repentina
demoralizzazione dell’adolescente; e Aiolia, ogni volta che
lo
vedeva in quello stato, si chiedeva come fosse stato possibile per Saga
rimanere così “indietro”. Alla fine non
aveva potuto
sottrarsi a quella promessa.
«Vedrai, sarai
ben
ricompensato. E comunque, ora che tu l’hai scoperto, sei
diventato mio complice!» aveva esclamato Saga, con un sorriso
birbante sul viso tornato sereno e disteso.
Per darsi coraggio e togliersi da quell’impiccio, Aiolia
sfoderò il suo sguardo più determinato, il
medesimo che
lo contraddistingueva nelle gare di atletica e che intimoriva i suoi
avversari. «Che vuoi che ti dica…»
disse, facendo
spallucce con finta aria innocentina. «La
proprietà
è vasta! E poi, che ne puoi sapere tu! Saranno…
quanti,
quattro anni che non mostri il tuo brutto muso alla villa, se non per
qualche visita furtiva? Scommetto che ti sorprenderesti nel sapere
che…» si bloccò di colpo: di nuovo
stava parlando
troppo.
Tentennò. Se il suo scopo era quello di attirare
l'attenzione
del fratello, ci era riuscito fin troppo bene. Aiolos infatti era
visibilmente incuriosito dalla faccenda, tanto da dimenticarsi della
barretta al caramello che nel frattempo era scesa nello scomparto basso
del distributore automatico.
«No! Non ti dico più nulla! Lo vedrai da te quando
torneremo a casa», terminò tutto impettito, ma
pronto a
fuggire al minimo accenno di insistenza da parte dell'altro. Poi
riprese la strada per i binari del treno della metropolitana, lasciando
indietro il fratello.
«Non da quella parte, Aiolia! Quella è la
direzione
sbagliata!» tentò di richiamarlo Aiolos, ma
sembrava che
il giovane non lo avesse sentito e fu costretto a rincorrerlo di corsa
e a salire sul treno, giusto in tempo per evitare che la chiusura delle
porte lo lasciasse fuori.
*****
Cora era decisamente nervosa, mentre camminava a passo veloce per le
strade semideserte del quartiere residenziale, allontanandosi dalla
casa di sua madre. Non si era voltata indietro nemmeno una volta per
dare un ultimo sguardo alle finestre illuminate di quella casa che
l’aveva vista trascorrere la sua turbolenta adolescenza.
Aveva
proceduto spedita verso la fermata dell’autobus che
l’avrebbe riportata a casa sua e del fidanzato Chris.
Quell’articolo aveva fatto riaffiorare un passato scomodo e
doloroso per lei, per tanti motivi; e la discussione avuta con lo zio
Phil, nella quale si era accalorata troppo, l’aveva lasciata
più scossa di quel che avrebbe pensato. Le fitte allo
stomaco
non erano cessate con il passare del tempo, costringendola a fermarsi
almeno un paio di volte e ad appoggiarsi a qualcosa per riprendersi. La
nausea era diventata tanto forte da farle sentire la
necessità
di rimettere, ma si era fatta forza e l’aveva ricacciata
giù. Era stato così per tutto il tragitto e anche
per il
tempo che aveva poi atteso alla fermata.
Da ormai dieci minuti era passato l’orario
dell’autobus e
lei se ne stava ancora lì seduta su quella scomoda panca di
cemento, con lo scatolone appoggiato sulle gambe, aggrappandocisi come
una specie di ancora di salvezza. Continuava a rimuginare,
giocherellando con l’anello sotto il guanto, in quella lunga
attesa che diventava sempre più vana. Solo dopo altri cinque
minuti si ricordò che quello stesso pomeriggio era iniziata
l’agitazione del sindacato degli autisti dei mezzi di
superficie
e il servizio era stato sospeso. Si alzò lentamente, con
poca
voglia e, con un grosso sbuffo, si incamminò verso la
stazione
della metropolitana più vicina, che distava un paio di
isolati.
Forse non avrebbe fatto in tempo a prendere neanche l’ultimo
treno, ma non le andava di ritornare sui suoi passi e chiedere allo zio
Phil di accompagnarla a casa in macchina. A rifletterci, la soluzione
migliore sarebbe stata quella di chiamare Chris e poi attenderlo da
qualche parte, magari in un bar. Poco più in là
di dove
si trovava in quel momento, ce n'era uno che conosceva bene,
frequentato spesso da poliziotti.
Accelerò il passo, ma all'improvviso sentì uno
strano timore crescerle dentro.
*****
«Era Caroline, quella che è appena uscita,
vero?»
disse con apprensione Teresa, guardando il compagno fermo sulla soglia
della cucina.
La donna aveva terminato di rassettare diversi minuti prima e, sentendo
la discussione, aveva preferito rimanere in disparte, seduta al tavolo
da pranzo. Si era rattristata molto per la reazione della figlia,
sapeva come la giovane si sentisse in quel momento e ne era turbata e
preoccupata. Quegli ultimi anni non erano stati difficili solo per
Caroline, tutta la famiglia aveva sofferto.
«Sì, cara. Se n’è andata come
una furia senza
lasciarmi il tempo di dire o fare nulla», rispose Phillip, in
tono mortificato.
Sospirò.
Conosceva il carattere della figlioccia e voleva darle qualche minuto
per calmarsi un poco, perché sapeva che in quello stato
niente
sarebbe riuscito a farla ragionare.
«Provo a parlarle e a riportarla qui. Sicuramente non
sarà nelle condizioni per tornare a casa da sola.»
«Avrei dovuto far sparire quel giornale giorni fa.
È colpa
mia se ora vivrà di nuovo nella paura», ammise la
donna,
portandosi le mani al volto e iniziando a singhiozzare.
«Dimmi,
Phil», disse poi, alzando nuovamente lo sguardo
sull’uomo
che si era accovacciato di fronte a lei per confortarla.
«C’è davvero pericolo che quel mostro
possa farle
del male? Pensi che attuerà le sue minacce su
Caroline?»
«Non ti dare la colpa di quanto è accaduto
stasera. Sono
io che avrei dovuto informarla. Ma stai tranquilla, non credo che
quello sia così stupido da provare nemmeno ad avvicinarsi a
lei.
Non gli conviene torcerle neanche un capello, non dopo che tanti
testimoni hanno udito le minacce che ha urlato in tribunale. E
comunque, subito dopo la notizia della sua scarcerazione, ho ottenuto
un ordine restrittivo dal giudice. Quel bastardo non può
avvicinarsi a Caroline a meno di cento metri; a lei e a nessun altro
membro della nostra famiglia!» le spiegò Phillip,
stringendole le mani per rassicurarla.
Lasciò la donna in cucina e uscì di casa; vi
rientrò solo pochi minuti dopo e, dal mobiletto
dell'ingresso,
prese le chiavi dell'auto e la pistola.
«Perché quella?» domandò
Teresa, col volto pallido e la voce agitata.
«Non ti preoccupare, è solo una
precauzione», le
rispose l’uomo, con un sorriso tirato, dal pianerottolo di
casa.
Phillip rientrò di corsa per sostenerla, vedendo che la
donna
stava tremando e rischiava di svenire da un momento
all’altro. La
riportò in cucina e le diede un bicchiere d’acqua.
«Voi siete le persone più importanti della mia
vita», le disse con tono affettuoso. «Tu, Caroline,
Mike… non permetterò a nessuno di farvi del male.
Non
esiterò un istante a usarla, se sarà necessario,
per
proteggere la mia famiglia.»
*****
Era davvero strano trovare la metropolitana così poco
frequentata, visto lo sciopero; ma ormai tutto in quella serata
sembrava fuori dalla solita routine. Cora iniziò a camminare
circospetta; vecchi ricordi e sensazioni amare si accavallavano nella
sua mente. Strani brividi le correvano lungo la schiena e non erano
certo dovuti agli spifferi che soffiavano nei sottopassaggi. Erano
carezze gelide che si insinuavano direttamente nelle ossa: fredde,
umide, spiacevoli. La nausea non aveva accennato ad attenuarsi e ora
anche un forte mal di testa, pulsante alle tempie, ampliava la gamma di
malessere che le si era rovesciato addosso. Respirava con la bocca. A
ogni passo si guardava attorno e, quando sentiva un rumore, anche
minimo, l’ansia le saliva alla gola e si girava indietro in
tutta
fretta. I suoi occhi si piantavano su qualsiasi persona incrociasse il
suo cammino, controllandone anche il più piccolo movimento,
fin
quando non si allontanava da lei; a ogni passo la sua tracolla sbatteva
ritmicamente sul suo fianco; stringeva a sé lo scatolone,
come a
proteggersi e al tempo stesso a farsi coraggio.
Man mano che si inoltrava in quei sottopassaggi sempre più
desolati – e con l’eco dei suoi stessi passi che le
rimbombava cavernoso nelle orecchie – vedeva ombre
dappertutto,
reali o finte che fossero. Muoveva di scatto la testa a captare ogni
rumore, ogni sussurro portato da quell’aria puzzolente di
carburante e pessimi detergenti, persino ogni respiro che sentiva
l’allarmava.
In alcuni punti l’illuminazione delle lampade al neon era
fioca,
insufficiente, a causa delle vernici spray che ne coprivano gran parte,
oppure vibravano instabili. Il suono macabro che producevano era come
il ronzio di grossi insetti. Quando ci passò vicino, le si
accapponò la pelle. Le sembrò di essere la
protagonista
di un thriller, ma a differenza della finzione cinematografica,
sentì distintamente la paura strisciarle addosso subdola,
distorcendo la realtà.
Continuò a camminare, sempre più di fretta,
guardandosi insistentemente alle spalle.
«Suggestione, solamente suggestione»,
mormorò fra
sé, per rassicurarsi. «Tutta colpa di quel dannato
articolo!»
Il suo respiro divenne affannoso e non era dovuto solo per la fatica di
portarsi appresso quel peso fra le mani. I ricordi che non voleva
riesumare, avanzavano imperterriti nella sua mente, oscurando il tempo
presente per catapultarla di nuovo nel suo calvario passato. Aveva
trascorso mesi d’inferno dopo la conclusione di quel
terribile
caso. Si era data della stupida per essersi offerta così
impulsivamente – e con grande insistenza – come
esca per
cogliere sul fatto quel criminale. Indignata e furiosa per la sorte
della sua migliore amica, aveva sentito il dovere di fare qualcosa.
Nessuno sembrava voler rendere giustizia a Shirley, uscita a pezzi dopo
la violenza subita. Non erano state trovate prove sufficienti, non
c’erano stati altri testimoni: Shirley non era stata una
testimone attendibile, perché quel bicchiere di troppo che
aveva
bevuto quel giorno e le medicine per il raffreddore che aveva preso,
l’avevano alterata un poco. Eppure, lei era stata la terza
vittima di quel maniaco e, durante il confronto, l'aveva riconosciuto
con molta sicurezza.
Sfruttando le competenze dello zio Phil, si era buttata a capofitto
nelle indagini, coinvolgendo il suo padrino e costringendolo a seguirla
in quell’impresa. Lo aveva fatto senza pensare alle possibili
conseguenze che avrebbero potuto causare anche a se stessa, arrecando
alla fine un grosso dispiacere alla madre. Era sempre stata convinta di
agire nel giusto. Lo zio Phil l’aveva appoggiata come aveva
potuto e, quando tutto sembrava doversi concludere per il meglio,
grazie al lavoro della polizia e dell’ufficio della procura,
era
finita invece nel peggiore dei modi: dopo che l'uomo aveva tentato la
fuga, era sopraggiunto uno scontro a fuoco durante il quale era rimasta
ferita al ventre da un colpo di rimbalzo, lasciandola in fin di vita.
Quell’episodio causò un’immensa angoscia
nella
madre, terrorizzata all’idea di perdere anche lei dopo che
anni
addietro aveva perso il marito; ma da quella terribile prova erano
uscite più unite e più forti che mai.
Le mancavano ancora poche decine di metri da percorrere. Intravedeva
davanti a sé parte dell’ampia banchina della
fermata del
treno. Avrebbe finalmente abbandonato il claustrofobico tunnel del
sottopassaggio che le provocava una tensione angosciosa. Di sicuro
sarebbe stata confortata dalla presenza di altre persone, estranee e di
certo indifferenti, ma non l’avrebbero fatta sentire
intrappolata
nelle sue asfissianti paure.
Quando arrivò alla tanto agognata meta, un getto di aria
fredda
la investì all’improvviso, portando con
sé gli
sgradevoli odori di gas di scarico, carburanti e aria pesante.
Arrivavano a zaffate alle sue narici, con un effetto narcotizzante che
aumentava in lei un senso di straniamento.
Si sedette sulla prima panchina libera, posando lo scatolone di fianco
a sé. Si sentiva fiacca, esausta. Si appoggiò con
le
braccia alle ginocchia, massaggiandosi lentamente le tempie. Di solito
l'aiutava a far passare il mal di testa. Faticava a tenere gli occhi
aperti, sentiva le palpebre pensati. Tutte quelle reminiscenze
l’avevano stancata più di quanto avesse pensato e
poi
c'era il sonno arretrato della notte precedente.
Chiuse gli occhi per qualche secondo, la sua testa era diventata un
unico formicolio. Era conscia che l'assopimento nel quale si stava
abbandonando stava diventando troppo difficile da combattere, ma non
poteva farci nulla: i suoni, gli odori, tutte le sensazioni che provava
in quel momento, arrivavano a lei ovattate e confuse; nonostante la
tensione crescente, che le acuiva i crampi allo stomaco, la serata
sembrava paradossalmente calma.
Anche quella volta c'era stata una calma simile:
all’apparenza priva di pericoli, eppure così
minacciosa.
Cora si era guardata
attorno con
insofferenza: due giovani, sicuramente un po’ brilli,
amoreggiavano in modo troppo sfacciato, seduti su una panchina a
qualche metro di distanza da lei. Le risatine della ragazza erano
civettuole e i bisbigli che si scambiavano, fra un bacio e
l’altro, erano volgari. Se non avesse avuto altro a cui
pensare
in quel momento, di certo li avrebbe trovati disgustosi e imbarazzanti.
La sua attenzione era stata distolta da un improvviso scoppio: una
ragazza, alta e molto magra, quasi scheletrica, camminava avanti e
indietro lungo la linea gialla, calpestandola, un piede avanti
all’altro, come se stesse procedendo sulla trave
d'equilibrio.
Aveva un look bizzarro per i suoi gusti: un pessimo esempio di punk
underground che donava alla giovane un’aura macabra e
malsana:
troppo finta con tutto quel trucco pesante addosso, quasi una maschera
di Halloween. Ultimamente se ne vedevano spesso di adolescenti conciati
in quel modo. Tutta colpa della televisione e delle mode estreme, si
era detta.
Un altro scoppio, anche
se questa
volta era stato più debole. Con un movimento celere della
lingua, quella finta punk aveva recuperato il chewing gum che si era
appiccicato al viso e aveva ripreso a masticare.
Da un’altra
parte, un gruppetto
di impiegati di mezza età aveva guardato con sospetto quella
ragazza, tornando poi a chiacchierare dei loro affari.
Cora aveva provato a
concentrarsi
sullo scopo per il quale si trovava lì, per tentare di
frenare
l’ansia che quella situazione le stava creando. Un respiro
profondo, poi un altro. Aveva chiuso gli occhi per alcuni momenti.
Il treno si era fermato
sulla
banchina e i pochi passeggeri a bordo stavano scendendo in modo
ordinato, senza fretta, lasciando il posto a chi era in attesa. Dalla
sua posizione un po’ defilata, quella concordata con gli
agenti,
riusciva ad avere una buona visuale di tutte le persone presenti e
dell’intero spiazzo. Era rimasta appoggiata al muro, non era
ancora arrivato il momento per lei di andare. Aveva controllato
l’ora sul cellulare: lui era in ritardo. Da diversi giorni
aveva
iniziato a fare quel percorso, a prendere quel particolare treno, a
fermarsi in un punto abbastanza isolato da poter essere una preda
appetibile. Si era anche vestita in modo sufficientemente disinvolto,
come quelle che piacevano a lui, per attirare la sua attenzione.
Che fosse tutto troppo
facile?
Forse, questa volta lui
avrebbe scelto un’altra stazione; forse, per questa volta,
non avrebbe rischiato.
Era tutto pronto per
prenderlo sul fatto.
D’un colpo
aveva sentito
l’ansia tornare a tormentarla in maniera sempre
più
crescente. Aveva stretto al petto lo zainetto. Alle orecchie aveva gli
auricolari del lettore mp3. Erano particolari: dal sinistro ascoltava
musica, mentre dal destro le arrivavano le istruzioni degli agenti e la
voce di zio Phil che le parlava per rassicurarla. Si era guardata
attorno con attenzione. Aveva osservato le persone che imboccavano il
tunnel che portava alle scale per uscire in strada, le persone che
prendevano i passaggi per cambiare linea e quelle che invece si
raggruppavano lì per attendere il treno. Alcuni ricambiavano
il
suo sguardo, forse giudicandola, la maggior parte invece era
indifferente e si faceva gli affari propri.
Era tutto nella norma.
Aveva tirato
un sospiro di sollievo, concedendosi un momento per perdersi nei suoi
pensieri. Di come si rammaricava di aver lasciato in quel modo la sua
amica, nonostante lei avesse ammiccato, sottintendendo che sarebbe
andato tutto bene; di non aver insistito, di non essere rimasta con
lei, solo perché non aveva voglia di fare da terza incomoda;
di
come avesse avuto tanta fretta di tornare a casa e farsi un bel bagno
caldo dopo quella pessima giornata a lezione. E poi, quel ragazzo aveva
un sorriso così rassicurante e uno sguardo sincero. Non
avrebbe
mai immaginato un epilogo di quel genere.
Il tocco gentile di una
mano sul suo
braccio l’aveva riportata alla realtà. Era stato
un
giovane dall’aspetto curato e dal sorriso un po’
impacciato
a richiamare la sua attenzione. Le si era avvicinato piano, quasi di
soppiatto; o almeno, lei non si era accorta di nulla. Aveva provato a
chiederle un’informazione. Probabilmente le aveva ripetuto
quella
richiesta più volte, senza desistere. Avrebbe dovuto capirlo
allora. Invece, si era tolta l'auricolare con la musica.
«Mi scusi,
signorina», le aveva detto con voce affabile. Non le era
sembrato l’accento tipico di Philly.
Lui le aveva sorriso
ancora ed era
diventato più sicuro, pur rimanendo educato. Cora era
rimasta
imbambolata, non si era subito resa conto di chi avesse davanti. Non lo
aveva riconosciuto. Forse per via di quegli abiti così
formali
che indossava quella sera.
«Non sono
pratico della zona, potrebbe indicarmi la direzione da prendere
per…»
Aveva parlato proprio
nel momento in
cui il treno era sferragliato davanti a loro e, quando lei aveva fatto
cenno di non aver sentito, lui ne aveva approfittato. Si era avvicinato
ancora di più e le aveva sussurrato qualche parola
all'orecchio.
Con una mano le aveva strattonato il braccio, mentre con l'altra le
aveva fatto sentire la punta di un coltello sul fianco, intimandole di
rimanere calma e di fare ciò che le ordinava.
L’aveva
trascinata di peso in un angolo nascosto, lontano da possibili occhi
indiscreti, un punto cieco che non aveva la copertura delle telecamere
di sorveglianza. Poi, una volta che la banchina si era svuotata di
nuovo, avevano imboccato un passaggio in quei giorni in manutenzione.
Aveva iniziato a strattonarla con maggiore insistenza, quasi
impazienza, per farla camminare più velocemente, non le
aveva
rivolto che poche altre parole con voce dura; il suo sorriso si era
trasformato in una smorfia subdola, lo sguardo era diventato
agghiacciante. Era stato appena un attimo. Cora si era lasciata
sorprendere invece di essere pronta; troppo sicura del microfono che le
avevano messo addosso e di alcuni agenti che controllavano a distanza,
nascosti anche alla sua vista. Il rischio c’era ugualmente ed
era
grande, zio Phil glielo aveva detto: bastava un imprevisto e sarebbero
potuti non arrivare in tempo.
L’improvviso frastuono dello sferragliare del treno, che in
quel
momento stava sfrecciando veloce davanti a lei, la ridestò
da
quella visione del passato, riportandola bruscamente alla sua
realtà. Alzò la testa di scatto. I suoi occhi
erano umidi
di lacrime. Uno spasmo nervoso alle gambe le fece scivolare a terra la
borsa a tracolla che teneva in grembo, spargendo il suo contenuto ai
suoi piedi. Il suo respiro si fece accelerato e ansioso; il suo cuore
iniziò a battere con un ritmo frenetico e assordante,
furioso,
tanto da farle dolere il petto.
Si passò le mani sul volto per scacciare quella sensazione
di
oppressione e paura. Poi, si chinò a raccogliere le sue
cose,
mentre lentamente cercava di riprendersi dalla confusione che regnava
nella sua testa.
Due colpi secchi, improvvisi, erano rimbombati in rapida successione
nell’aria gelida di quella stazione sotterranea.
Sobbalzò
ancora una volta. Erano stati così simili a due spari che
inconsciamente si strinse le mani al petto, girandosi nella direzione
della fonte del rumore, anche se era difficile individuarla a causa
dell’eco. Lo scatto le fece perdere l’equilibrio e
cadde a
terra. In quell’istante, una lacrima scese sulla sua guancia.
Altri colpi.
Questa volta meno forti e meno spaventosi, eppure Cora si
rannicchiò per terra, coprendosi le orecchie con le mani.
Poi,
ancora colpi, in rapida successione, provenienti dal fondo della
banchina; e imprecazioni pronunciate con tono maleducato. Due teppisti
avevano iniziato a prendere a calci il distributore automatico delle
bibite, arrivando a scuoterlo fino a ottenere il bottino agognato,
allontanandosi infine fra risate sguaiate e insulti ai malcapitati
testimoni.
«Idioti!» mormorò lei a denti stretti.
Era tesa come una corda di violino. Si passò la mano ad
asciugare la guancia umida di lacrime e riprese a raccogliere le sue
cose ancora sparpagliate a terra, ma questa volta con stizza e
nervosismo. Sbuffò. Alle sue spalle il treno si era fermato
e i
pochi passeggeri stavano già scendendo.
«Tutto a posto, signorina? Ha bisogno di aiuto?»
Una mano, coperta da un elegante guanto di pelle nera, si
avvicinò a Cora, sfiorandola sulla spalla.
La voce, educata e dal tono affabile, provocò un nuovo
scatto
nella giovane; e questa volta, nel voltarsi si aggrappò al
bordo
dello scatolone sulla panchina, trascinandoselo a terra con
sé.
Sgranò gli occhi pieni di terrore, il suo respiro si fece
asmatico, fino ad accelerare e rasentare l’apnea. Un grido
uscì dalla sua gola, non appena riuscì a mettere
a fuoco
la figura di quel ragazzo comparso praticamente dal nulla. Era giovane,
alto, castano di capelli e di occhi. Distinto e garbato nei modi. Il
classico viso da bravo ragazzo.
Cora non ci poteva credere, proprio di fronte a lei si era
materializzato il suo peggior incubo. Provò a
indietreggiare,
senza riuscirci. Lo vide chino su di lei, con lo sguardo profondo e un
sorriso troppo sicuro di sé. Il suo respiro si fece ancora
più precario e accelerato, il cuore riprese a battere
all’impazzata nel petto: forte e veloce, doloroso. La sua
bocca
non era in grado di emettere alcun suono, muovendosi muta, sconnessa.
Era paralizzata dalla paura. Vedeva quel tipo farsi sempre
più
vicino, fissarla e parlarle, ma lei non comprendeva le sue parole.
«Si calmi, signorina.»
Cora si guardò attorno con disperazione, arrancando
all’indietro in cerca di una via di fuga, provando a scorgere
qualcuno a cui implorare aiuto. Nessuno pareva essere rimasto sulla
banchina. I suoi occhi terrorizzati non riuscivano a vedere altri
all’infuori di quel viso e… dietro di lui,
un’ombra.
Anch’essa era comparsa all’improvviso: la
somiglianza fra i
due era agghiacciante.
«Signorina…» provò di nuovo
lo sconosciuto.
Allungò le braccia e provò a trattenere la
ragazza che si
divincolava con forza. «Va tutto bene. Non voglio farle del
male», continuò, abbozzando un sorriso per
rassicurarla.
Era così uguale a quello dell’altro.
«Lasciami stare. Ti prego…»
singhiozzò lei,
con voce lamentosa e gli occhi pieni di lacrime, provando ad
allontanarsi da lì. «No… no…
ti
prego», balbettò, scansando le mani del ragazzo,
completamente terrorizzata.
Lui la guardò confuso, non sapeva spiegarsi cosa nel suo
comportamento la potesse spaventare in quel modo. Provò a
sorriderle più gentilmente, sfiorandole la guancia con la
mano,
ma sembrava solo peggiorare la situazione. Nei suoi goffi tentativi di
tranquillizzarla non si rendeva conto che, qualsiasi cosa facesse,
nella giovane cresceva la disperazione. Incautamente infilò
la
mano nella tasca del cappotto scuro, frugandovi per alcuni secondi.
«Calmati», le sorrise di nuovo.
«Credo che tu la stia spaventando ancora di
più», intervenne l’altro con tono
preoccupato.
«Non ti faccio nulla», si rivolse ancora a lei il
maggiore
dei due, provando a darle più confidenza, sperando
così
di riuscire a guadagnare un poco la sua fiducia, mentre estraeva
qualcosa di bianco dalla tasca, avvicinandola al viso ragazza.
«No! Lontano da me! Stai lontano da me!»
gridò Cora,
divincolandosi e protendendosi verso la sua borsa lì vicino.
Riuscì a raggiungerla e a frugare al suo interno. La mano le
tremava incontrollata e il guanto di lana rendeva i suoi tentativi di
afferrare la bomboletta anti stupro ancora più difficoltosi.
Più volte arrivò a sfiorarla, senza
però
afferrarla del tutto. Ci riuscì con la forza della
disperazione,
girandosi e spruzzandone l'intero contenuto sul volto del suo
aggressore.
«Attento, Aiolos!» gridò Aiolia, troppo
tardi però perché questi potesse proteggersi.
«Dannazione!» urlò di dolore il ragazzo,
portandosi
le mani al volto. D’istinto si sbilanciò e cadde a
terra.
Sentiva gli occhi e il volto andargli a fuoco. «Pazza!
Perché diavolo l’hai fatto?»
continuò a
gridare, rialzandosi di scatto, nonostante stesse lacrimando
copiosamente.
A fatica riusciva ad aprire gli occhi in un piccolo spiraglio. Con una
mano si sfregava il viso mentre con l’altra provò
ad
afferrare la ragazza; il suo viso, prima pacifico e gentile, era
diventato una maschera di rabbia e dolore.
«Aiolos!» lo chiamò di nuovo il
fratello, nella
desolazione della banchina della metropolitana. La sua voce era
risuonata allarmata, spaventato lui stesso per le ulteriori
complicazioni che si erano aggiunte.
Aiolos provò a girarsi, ma avvertì qualcosa di
duro
premere contro la sua testa e, alle spalle, sentì la
presenza di
un’altra persona.
«Resta fermo dove sei», gli intimò una
voce profonda
che celava una grande collera. «Non pensare di muovere un
solo
muscolo o ti ritroverai quel poco cervello che hai, sparso per il
pavimento e le pareti della stazione.»
Quelle parole furono pronunciate con estrema freddezza
dall’uomo,
sopraggiunto in quel momento. Non aveva esitato un solo istante: aveva
estratto la Beretta dalla fondina e l’aveva fatta sentire
sulla
nuca del giovane accovacciato per terra.
«Cosa… che cosa vuole da me?» chiese
Aiolos, in tono
confuso e teso. «Non è come può
sembrare…
non ho fatto niente…» La sicurezza che aveva
dimostrato
fino a pochi istanti prima, ora gli stava scivolando via; non riusciva
a capire come quella serata tutto sommato tranquilla fosse potuta
degenerare a tal punto.
Era diventata una situazione davvero paradossale: scambiato per un
aggressore solo per aver voluto aiutare qualcuno e ora si ritrovava con
una pistola alla testa. Il dolore al viso poi, stava diventando quasi
insopportabile; la sua vista era sfocata e confusa, le palpebre pesanti
e continuava a lacrimare.
“Aiolia!”
D’un tratto i suoi pensieri si rivolsero al fratello. Era
ancora
così giovane e impulsivo, se avesse fatto qualcosa di
avventato
sarebbe potuto succedere l’irreparabile.
«Zitto, Deline!» gli intimò ancora una
volta Phillip
Burton. «Ti porti dietro anche il fratellino, adesso? Lo stai
iniziando al mestiere di stupratore, oppure vuoi riunire la famigliola
in carcere?» gli disse con disprezzo, facendo ancora
più
pressione con la Beretta semi automatica. «Non ti facevo
così stupido, Deline. Stavolta non ci arriverai al
processo!»
Con un movimento deciso del pollice, Phillip Burton caricò
il
cane e spinse in maniera più decisa la canna contro la testa
del
ragazzo, costringendolo ad appoggiare le mani a terra. «Prima
un
proiettile in testa e poi, “accidentalmente”, il
tuo corpo
finirà sui binari, così da essere smembrato dal
prossimo
treno. Solo col test del DNA potranno riconoscerti.»
«Deline?» mormorò Aiolos. «No!
No! Non mi
chiamo in quel modo. Io mi chiamo Foster! Aiolos Foster!»
esclamò con voce disperata, scandendo il suo nome meglio che
poté.
Nonostante fosse figlio di un ex ufficiale dei Marines e non gli fosse
sconosciuto il mondo delle armi da fuoco, sentirsi sotto la gelida
minaccia di una pistola puntata alla testa e, il ritrovarsi in una
posizione tanto sottomessa e umiliante, gli stava provocando paura e
rabbia. Lentamente e con estrema cautela provò a girarsi
verso
l’uomo, per guardare negli occhi colui che, con molta
probabilità, sarebbe stato il suo giustiziere. La sorte sua
e
del fratello erano appese a un filo. Anche se non poteva vederlo,
sentiva quanto il giovane fosse spaventato; e in lui cresceva la
frustrazione di non poter fare nulla, nemmeno tentare, per tenerlo al
sicuro. Come sottofondo a quel momento di tensione si udivano chiari i
singhiozzi di Cora, ancora rannicchiata a terra e con il viso nascosto
fra le mani.
«Non capisco perché ce l’abbia con
me»,
azzardò Aiolos, rompendo quel silenzio snervante.
«Non ho
fatto niente di sbagliato. Ho solo cercato di aiutare la
ragazza.»
«È vero! È vero!»
esclamò Aiolia,
sperando di aiutare in quel modo il fratello. «Noi non le
abbiamo
fatto niente! È lei che si è messa a gridare
e…»
«Stai zitto, Aiolia!» lo interruppe il maggiore.
La sua voce stava tornando via via più sicura e determinata.
Mostrava una risolutezza che iniziava a far sorgere dei dubbi in
Phillip. L’ex poliziotto sapeva bene che criminali della
risma di
Deline, una volta messi alle strette, si mostravano per quelli che
erano veramente: solamente dei vigliacchi. Ricordava bene come durante
l’arresto, il maniaco di Philly si fosse fatto scudo con Cora
e
che, una volta con le manette ai polsi, si fosse messo a piangere e a
gridare rabbioso. Quel ragazzo di fronte a lui invece, nonostante la
legittima paura, non mostrava affatto segni di vigliaccheria.
«Foster hai detto? Fammi vedere un documento! Ma fai
attenzione a
non commettere imprudenze», gli ordinò Burton,
concedendogli una chance. Il suo istinto di poliziotto gli diceva che
forse quel giovane poteva anche dire la verità.
Con mano tremante Aiolos prese dalla tasca interna del cappotto il
portafoglio, lanciandolo all’uomo.
Burton lo prese al volo e controllò con attenzione.
Più
volte spostò lo sguardo dalla foto della patente al volto
del
giovane ora di fronte a lui, sempre inginocchiato a terra. Fece un
respiro profondo, mentre glielo restituiva, gettandoglielo contro il
petto. Con ancora una certa diffidenza, ripose la pistola nella fondina
a tracolla, che teneva ben nascosta sotto la giacca pesante. Si
avvicinò quindi a Cora e, chinandosi con cautela su di lei,
le
accarezzò il braccio.
«Caroline…»
«No… no… no…»
mormorò lei,
ritraendosi d’istinto a quel tocco, incatenata dalla sua
angoscia.
«Caroline», la chiamò di nuovo, Phillip.
«È tutto finito. Caroline, guardami. Per
favore.» La
voce dell'uomo si fece più rassicurante, affettuosa,
familiare.
L'aiutò a mettersi seduta e l'abbracciò,
accarezzandole
la testa e la schiena, sussurrandole che andava tutto bene.
«Zio... Phil? Sei tu? Mi dispiace. Mi dispiace, zio
Phil»,
pianse lei, col viso nascosto contro il petto dell'uomo e stringendosi
le braccia al ventre. «Fa male…» si
lamentò,
piegandosi e gemendo di dolore.
«Tranquilla, Caroline. Tranquilla. È tutto finito.
Vieni, ti riporto a casa.»
«No! Non voglio che la mamma mi veda
così!»
Phillip annuì paterno, accogliendo quella richiesta
accorata,
continuando ad accarezzarle la schiena per calmarla e rassicurarla.
«Ce la fai a rimetterti in piedi?» le chiese,
provando a
farla alzare, restituendole poi la borsa che lei subito strinse al
petto.
Anche se non era obbligato, Aiolia approfittò di quei
momenti di
calma per raccogliere le cose sparse per terra, rimettendole nello
scatolone. Si avvicinò quindi alla ragazza e
all’uomo,
timoroso e impacciato. «Non era nostra intenzione spaventare
a
quel modo la signorina», esordì, tenendo lo
sguardo basso.
Una volta restituito lo scatolone, si allontanò di qualche
passo
dai due, convinto soprattutto dall'occhiataccia che gli
lanciò
l'uomo.
«Aiolos, tutto bene?» chiese al fratello, una volta
rimasti
soli. Con preoccupazione lo vide tremare mentre si rimetteva in piedi.
Il suo sguardo sembrava perso nel vuoto.
«Stammi lontano!» gli rispose con stizza Aiolos,
scacciandolo con un gesto del braccio, passandosi poi la mano sul volto
ancora teso e arrossato dallo spray al peperoncino.
Barcollò nell'avvicinarsi alla panchina, lasciandosi cadere
sopra. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Si
passò
con furia le mani fra i capelli, provando a sfogare in quel modo la
frustrazione e la rabbia che lo stavano divorando, ma qualunque cosa
facesse non serviva a nulla; anzi, sentiva entrambe crescere ancora di
più. I suoi occhi bruciavano: gli facevano dannatamente male.
Aiolia lo guardò con compatimento. Quella brutta esperienza,
sebbene fosse stata traumatica per entrambi, gli stava facendo vedere
il fratello sotto una luce diversa. E ora, per la prima volta, lo
vedeva fragile e in preda alle emozioni.
*****
All’interno dell'auto di Phillip regnava un silenzio
mortifero.
Cora aveva smesso di singhiozzare, ma le lacrime non si erano fermate
del tutto. Continuava a stringere quello scatolone malconcio come
un’ancora di salvezza. Il dolore fisico che aveva provato
tanto
intensamente fino a una mezz’ora prima, ora sembrava svanito.
Le
rimaneva dentro solo un’immensa vergogna per essersi lasciata
trascinare da una paura incontenibile e irrazionale.
Phil era lì accanto a lei, sul sedile del guidatore; le mani
riposavano stancamente sulla parte bassa del volante e lo sguardo era
fisso su un punto lontano, ben oltre le auto parcheggiate davanti alla
palazzina dov’era ubicato l’appartamento della
figlioccia.
«Vengo a prenderti verso mezzogiorno e ti accompagno
all’aeroporto», le disse, voltandosi verso di lei,
provando
a sorriderle.
Cora si limitò ad annuire con la testa, passandosi una mano
sugli occhi per asciugare le lacrime.
«Forse, per te è davvero un bene partire, cambiare
aria e
ricominciare.» Sembrava che le parole di Phillip si fossero
perse
nel vuoto, anche se la ragazza continuava a fare di sì con
la
testa. «Dopo questa sera, penso che anche tua madre non
avrà più da ridire. Sarà
però ugualmente
preoccupata, perché non potrà starti
vicina.»
«Non dirle niente», sussurrò Cora,
continuando a tenere la testa bassa sullo scatolone.
«Lo sai che non ho segreti con lei, non posso evitare di
dirle
quello che è capitato questa sera. Su, su, andrà
tutto
bene», la rincuorò, accarezzandole il viso e
stringendola
in un abbraccio.
Phillip l’accompagnò fino al portone
d’ingresso
dello stabile, dove già la stava attendendo Christopher,
consegnando al ragazzo lo scatolone.
«Per quanto riguarda l’alloggio a
Boston…»
introdusse l’argomento «ho contattato una mia
vecchia
conoscenza e mi sono messo d’accordo perché tu sia
sistemata per i primi tempi. Quindi, stai tranquilla», le
disse,
vedendo l’espressione titubante di Cora.
«È un
tipino strano, ma innocuo; e poi mi deve diversi favori. Mi ha detto
che ha un piccolo bilocale libero nella casa dello studente che
gestisce. Purtroppo l’ambiente non è proprio dei
migliori,
la zona è caotica e sempre piena di movimento.
Però mi ha
assicurato che potrai stare per tutto il tempo che ti serve.»
Prima di lasciarla sola, Phillip l'abbracciò forte,
cullandola
ancora e ancora, staccandosi da lei solo nel momento in cui Chris si
riaffacciò al portone, dopo aver portato lo scatolone
nell’appartamento.
«Mi raccomando, prenditene cura, per questa notte»,
si
rivolse al ragazzo, prima di lasciarli soli e risalire in auto.
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Capitolo 8 *** Capitolo VII ***
VII
25
febbraio…
«Vecchio
bastardo! Stai ridendo
di me? Ancora una volta stai ridendo di me, vero?» aveva
esclamato con sguardo pieno di odio, barcollando vistosamente.
«Mi guardi ancora e ancora e ancora con quel tuo dannato
cipiglio
e mi giudichi dall’alto della tua moralità
bigotta.»
Aveva agitato il
bicchiere di whisky davanti a lui, rovesciandone sulla sua mano e a
terra buona parte del contenuto.
«Osserva a
cosa hanno portato
le tue macchinazioni!» Il tono della sua voce si era tinto di
un’ira sarcastica, mentre continuava nelle sue invettive.
«Ancora adesso, dopo più di cinque anni, le tue
parole e
le tue azioni influenzano la mia vita», aveva biascicato,
impacciato dai troppi bicchieri già bevuti. «Sono
solo.
Solo come lo sei sempre stato tu. Spero tu sia soddisfatto!»
gli
aveva urlato in faccia, paonazzo in volto per la rabbia.
Stava in piedi a fatica,
gesticolando
in modo scomposto e continuando a sbraitare cose senza senso, per chi
non conosceva la situazione. La bevanda, dall’odore intenso e
ubriacante, si agitava tempestosa nel bicchiere. A ogni movimento,
grosse gocce e schizzi incontrollati cadevano a terra e colavano sulla
sua mano, stretta attorno a quel cristallo trasparente.
«Me lo avevi
detto che sarebbe
finita così…» Le sue parole erano
uscite fra i
singhiozzi. Aveva preso un lungo sorso, la sua gola chiedeva avida
qualcosa con cui dissetarsi. «Oh sì, ne eri
sicuro. Ne eri
proprio sicuro. Perché sei stato tu a fare in modo che
accadesse!»
Shion gli aveva puntato
il dito
contro, il bicchiere vuoto ancora stretto in mano. Lo agitava con furia
verso quell’immagine indelebile del ritratto del padre. Gli
occhi
erano appannati dai fumi dell’alcool, brucianti di rancore e
di
lacrime; i sensi erano ormai anestetizzati.
«Hai sempre
detto che voleva
farmi le scarpe, che voleva quello che spettava a me, a cui aspiravo; e
quando davvero è successo e tu mi hai guardato…
quel
sorriso di soddisfazione nascosto dietro il tuo solito cipiglio
severo…» Faceva pause come a cercare di
concentrarsi.
«Mi hai indotto a odiarlo. E io l’ho fatto, l'ho
odiato!
Dannato bastardo, ti ho dato retta e l’ho odiato!»
aveva
continuato a sbraitare con un vigore inatteso.
Si era sbilanciato ed
era inciampato
nel prezioso tappeto iraniano, abbattendosi contro lo spigolo della
scrivania. Il bicchiere era andato a infrangersi poco più in
là, contro i pannelli di legno della parete, vicino alla
poltrona. Era rimasto semi riverso sulla scrivania, con le lacrime che
gli scendevano sulle guance, fino alla bocca e poi lungo il mento,
cadendo in grosse gocce sulla superficie di legno di mogano.
«E
io… per anni
l’ho odiato, quando aveva più bisogno di me,
perché
avevo creduto alle tue parole», aveva mormorato.
Aveva iniziato a
singhiozzare come un
bambino, con le mani tremanti si era coperto il volto per schermarsi
alla vista del vecchio Hayes.
«Ora…
è tutto perduto…» aveva mormorato
ancora. Infine, lentamente, era crollato a terra.
*****
«Hai detto che è in questo stato da questo
pomeriggio?» domandò Shura, dopo essere uscito
dalla
camera da letto di Shion Hayes, chiudendo piano la porta alle sue
spalle.
L'anziana donna rispose con un cenno del capo. Le sue mani ancora
tremanti stringevano un fazzoletto stropicciato e umido di lacrime; e
nei suoi occhi gonfi e stanchi si poteva leggere il grande spavento che
si era presa.
«Non era previsto che tornasse, oggi. Non ha avvertito
nessuno», farfugliò con la voce incrinata dalla
preoccupazione che provava per quell'uomo che aveva cresciuto come un
figlio.
«Come lo hai trovato?» domandò ancora
una volta Shura.
«Quando è venuto a salutarmi, l'ho visto un
po’
pensieroso, ma ho creduto fosse solo per questioni di lavoro. Sembrava
abbastanza normale. Poi, all’improvviso… Dio mio!
Non so
cosa gli sia preso!» disse disperata, portandosi le mani al
volto
al pensiero di ciò che era accaduto solo poche ore prima. Lo
choc era ancora forte ed era stato un miracolo che il suo cuore
malandato non avesse ceduto.
L’uomo, il braccio destro, amico e confidente del capo
famiglia
Hayes, la guardò perplesso. Non che dubitasse delle parole
di
Nanny, era però strano un comportamento del genere da parte
di
Shion: era dai tempi dell'Università che si era lasciato
alle
spalle comportamenti sopra le righe come quello.
«Un attimo prima era sulla terrazza, tranquillo; poi... come
una
furia, si è precipitato in biblioteca e vi si è
chiuso
dentro. È a quel punto che deve aver iniziato a
bere»,
raccontò la donna, passandosi il fazzoletto sugli occhi
arrossati. «Quando sono andata da lui… Mio Dio,
mio Dio!
È stato terribile! È stato tutto come
l’altra
volta! Lui urlava e imprecava contro il ritratto del padre.»
«Su, su, Nanny, ora è tutto passato», la
rassicuò Shura, abbracciandola.
Il pensiero era però rivolto a Shion e a quanto gli era
appena
stato raccontato dall'anziana governante. Nella sua testa rimuginava
per tentare di trovare un collegamento, un qualcosa che avesse potuto
scatenare una reazione del genere nell'amico, ma non gli veniva in
mente nulla: apparentemente in quel giorno non cadeva alcuna
ricorrenza, né sapeva fosse successo qualcosa di
particolare.
Sospirò, scrollando un poco la testa.
«Riverso a terra… tutto quel caos…
è stato orribile!» continuò a ripetere
Nanny.
«C’era qualcun altro in casa? Chi lo ha portato in
camera?» le chiese lui.
«A parte le due cameriere, ero sola in quel
momento.»
«Neanche i gemelli?» domandò stupito
Shura. Sapeva
infatti che in quei giorni entrambi i figli di Shion erano alla villa.
«Sì, sì! Kanon! È rientrato
poco dopo.
Povero ragazzo…» disse Nanny, soffiandosi il naso;
la sua
voce sembrava ora aver ritrovato una certa calma. «Quel
ragazzo
è tanto forte, ma deve essere stato terribile per lui vedere
il
padre in quelle condizioni. Con molta fatica è riuscito a
metterlo a letto.»
«E Saga? Lui non c’era?»
inquisì di nuovo Shura.
«Oh, il mio dolce Saga. No, è uscito questa
mattina molto
presto. Aveva detto che voleva far incordare le racchette da tennis, la
sua e quella del fratello, ed è andato al Country Club, come
fa
di solito. O almeno così credevo.
Però…» La
donna fece una pausa, riflettendo per un momento. «Quando
Francine è arrivata, mi ha riferito che lo ha visto in
paese, in
piedi alla fermata dell’autobus per Boston. Benedetto
ragazzo…» sospirò, asciugandosi di
nuovo il viso
col fazzoletto, anche se di lacrime non ce n’erano
più.
«Si comporta come se avesse dei segreti. Arriva addirittura a
stare fuori giornate intere. Il mio Saga, il mio
Saga…»
ripeté in un sussurro, scrollando la testa, sempre
più
preoccupata.
«Beh, non mi sembra un gran dramma», rispose
l'altro, abbozzando un sorriso.
«Ma…»
«Nanny, Saga ormai è grande. È giusto
che abbia un
po’ di libertà! Anzi, sarebbe strano il contrario,
non
trovi? Quei brutti giorni sono passati, cara Nanny e lui ora sta
bene.»
«Bisognerà avvertirlo!»
«No, no, non è necessario allarmarlo. Per quando
sarà rincasato, Shion si sarà certamente ripreso.
Non
serve che anche Saga si preoccupi per una cosa da nulla come questa. E
poi, sai com’è fatto, no? Ti ricordi come ha
reagito
quando ti sei slogata la caviglia, l’anno scorso? Aveva quasi
le
lacrime agli occhi quando ti abbiamo riportata dall’ospedale
e
durante i primi giorni non ti ha lasciata per un solo
minuto!» le
ricordò in tono divertito, ridendo e facendo ridere anche la
donna. «E tu, per l’esasperazione lo hai minacciato
con la
stampella, per avere un po’ di tregua!»
«Caro ragazzo… si era spaventato tanto quando mi
ha vista
cadere sul pontile, vicino alla rimessa delle barche», disse
Nanny, ritornando con la mente a quel giorno.
«E cosa c’eri andata a fare lì? Sbaglio
o hai paura
dell’acqua? Perché ti eri spinta fin
lì?» le
chiese l’uomo, manifestando interesse.
«A dire il vero ero lì per cercarlo. Ma non
ricordo
più per che cosa. Poi l’ho visto seduto sul
parapetto del
pontile, che si dondolava, sporgendosi verso l'acqua. Mi ha fatta
spaventare e devo aver messo un piede in fallo. Il mio
ragazzo…
Ehi!» D’un tratto la donna si ridestò da
quei
ricordi e diede una pacca sul braccio di Shura. «Non sviare
il
discorso! So accorgermi quando qualcuno cerca di distrarmi per
nascondermi qualcosa!» lo rimproverò, puntandogli
il dito
contro il petto, punzecchiandolo ripetutamente. «Lo sento che
qualcosa non va! Il mio Shion in quest’ultimo periodo
è
più stressato del solito e si comporta in modo strano. E
quello
che è avvenuto oggi… tu lo sai che sono in
un’altra
occasione si è ridotto in quello stato e ci sono voluti
giorni
affinché si riprendesse! Quindi, parla!» gli
intimò
lei, nuovamente battagliera com’era sempre stata.
«Non chiedermi nulla, Nanny», alzò le
mani in segno
di resa Shura. «Ci sono cose che neppure io conosco. Accetto
solamente la situazione e cerco di aiutarlo per quanto mi è
possibile», disse in un sospiro. «Dai, non dartene
pena in
questo modo. Quel testone si sarà stancato più
del dovuto
e senza rendersene conto avrà alzato un po’ troppo
il
gomito. E poi lo sai, è sempre stato prodigo di
“buone
parole” verso il padre», le disse con tono ironico,
cercando di essere il più convincente possibile.
«Vista
l’ora, che ne dici se noi due ci prendiamo un bel
caffè?» le propose, iniziando a sospingerla verso
le
scale, per allontanarla da lì.
«Sei sicuro che starà bene?» chiese di
nuovo
preoccupata la donna. «Non dovremmo chiamare il
medico?»
«E disturbarlo per una cosa da niente come questa? No,
tranquilla, Shion deve solo riposare e smaltire la sbornia. Ma se vuoi
fare qualcosa per lui, perché non prepari anche a lui un
buon
caffè? Uno molto forte, uno di quelli che sai fare tu e che
gli
piacciono tanto!»
*****
Il tramonto arrivò quasi senza farsene accorgere e
così
la sera; tutto nella casa sembrava tornato nella sua
normalità,
dopo l’uragano Shion che si era manifestato
all’improvviso.
Shura passò di fronte alla biblioteca, trovando le porte
socchiuse e la luce accesa. Da dentro provenivano rumori sospetti e
parlottii vari.
«Saga!» chiamò l’uomo,
entrando deciso nella
stanza. «Ma che fine hai fatto tutto il giorno?»
gli
domandò, avvicinandosi alla scrivania, sotto la quale
spuntava
il ragazzo. Le sue parole non erano un’accusa, ma avevano
comunque un tono duro di rimprovero.
«Ahi!» Contemporaneamente si sentì un
colpo sotto la
scrivania. «Ma ti sei ubriacato anche tu stasera, Shura? Sono
io,
Kanon! Ma cos’è oggi, la giornata degli scambi di
persona?» si lagnò il giovane, muovendosi un poco
a
carponi sotto la scrivania, dove finalmente era riuscito a ritrovare la
pen drive.
«E come faccio a riconoscerti se ti si vede solo il
sedere?» disse l’altro, alzando le spalle. Il suo
sguardo
però si era soffermato in maniera insistita sul fondoschiena
del
giovane.
«Credevo avessi l’occhio fino per queste
cose!»
ribattè Kanon, muovendosi in modo provocatorio e ottenendo,
da
parte dell'uomo, dei mugolii di approvazione. «Ah!
Dannazione!» imprecò poi fra i denti:
nell’indietreggiare ancora per uscire da sotto la scrivania
il
ragazzo aveva appoggiato la mano su un pezzo di vetro.
Una volta di nuovo in piedi si guardò la mano sanguinante;
fece
una smorfia e con due dita estrasse il pezzetto di vetro dal palmo.
Poi, con rapidi movimenti dell’indice, lo ripulì
da altre
piccole schegge e dalla sporcizia. Prese il fazzoletto dalla tasca e
bendò la mano con un paio di giri stretti, chiudendola a
pugno.
Quindi, si sedette sulla poltrona, sbuffando.
«Ma che diavolo gli è preso a papà,
oggi? Sembrava
davvero indemoniato! Se bere qualche bicchiere gli fa questo effetto,
sarebbe opportuno mettere in salvo le bottiglie e chiamare gli
alcolisti anonimi!»
Con la mano sana radunò i vari documenti, spiegazzati e
macchiati di ottimo whisky, impilandoli e mettendoli da parte,
lasciandosi andare a un debole sospiro.
«Dovresti mostrare un po’ più di
rispetto verso tuo
padre», lo ammonì Shura, piazzandosi di fronte
alla
scrivania.
«Ma guarda qua!» esclamò il giovane,
agitando in
aria dei fogli. «La relazione che mi aveva preparato Aiolos
per
l’assemblea degli azionisti di lunedì prossimo
è
tutta rovinata! È praticamente illeggibile!» Li
ributtò sulla scrivania e si passò la mano sulla
fronte.
«Chissà dove ha salvato il file originale. Spero
non in
qualche cartella con password, altrimenti mi toccherà
attendere
fino al suo ritorno. Non ho proprio voglia di ridurmi
all’ultimo
secondo per studiare questi dati», mormorò
stancamente.
«Hai ascoltato quello che ti ho detto?»
sbottò Shura.
«No! Non mi interessa sentire anche le lagne della prozia
zitella
Shura! Ne ho già avute abbastanza con quello di
sopra!»
scattò iracondo il giovane, battendo il pugno fasciato sulla
scrivania. Per diversi secondi si sfidarono con gli occhi. Poi, Kanon
si arrese, sbuffando e sprofondando di nuovo nella poltrona.
«Che
cavolo! Prima mi riempie di baci e carezze, travolgendomi come un fiume
in piena di cose delle quali non ho capito neanche la metà.
Non
contento, attenta alla mia vita abbracciandomi quasi fino a
stritolarmi! Immagino che mi abbia scambiato per Saga, tanto per
cambiare», brontolò a mezza voce. «E
poi, mi
chiama... Tony. No, Anthony! E si mette a piagnucolare ancora! Ma chi
cavolo è questo Anthony? Ho forse un altro gemello e nessuno
me
l’ha mai detto? E infine, perché lo spettacolo non
aveva
ancora raggiunto il culmine, mentre cerco di calmarlo e stupidamente
assecondo i suoi vaneggiamenti, fra un pianto e un insulto, lui mi
prende a sberle!»
Si alzò e prese a camminare nervosamente avanti e indietro
per
la stanza, tormentandosi la mano ferita, non facendo caso al fazzoletto
che si stava impregnando di sangue.
«Non ce l'ho certo con lui», ammise il giovane
Hayes,
avvicinandosi al mobile bar e servendosi un whisky liscio.
«L’ultima volta che mi sono ubriacato assieme ad
Aiolos,
questo Capodanno, ne abbiamo fatte anche di peggio... Bah, fa
niente», sbuffò, grattandosi la testa.
«Non mi resta
che rimediare a questo pasticcio. Se almeno ci fosse Saga…
Ma
dove si è cacciato a quest’ora?»
Si riaccomodò sulla poltrona e, appoggiando i piedi
sull'angolo
della scrivania, dalla tasca dei jeans prese il cellulare, componendo
subito il numero del gemello. Digrignò i denti nel sentire
la
segreteria telefonica. Riprovò ancora e ancora. Quella sera,
non
si poteva dire che la pazienza fosse la sua qualità
migliore.
Cambiò strategia e iniziò a digitare sms su sms,
dai toni
l'uno più drammatico dell'altro, sghignazzando nel pensare a
che
punto l'altro avrebbe dato segni di vita. Una volta soddisfatto,
lanciò il cellulare sulla scrivania e chiuse gli occhi, in
attesa di raccogliere i frutti del suo operato.
«Lascia perdere il lavoro per questa sera, vai a medicarti
quella
mano come si deve e fatti anche tu una bella dormita», gli
consigliò Shura, uscendo dalla biblioteca.
*****
Non c’era stata una sola domenica mattina, da quando aveva
iniziato a frequentare le middle school a Philadelphia, che Cora non
sgattaiolasse alla stazione ferroviaria e si piantasse davanti al
grande tabellone delle partenze, per controllare gli orari dei treni
che l’avrebbero riportata a casa sua, a Boston. In tasca
aveva
sempre i soldi per il biglietto di sola andata – o di
ritorno,
dal suo punto di vista –, ma non aveva mai avuto il coraggio
di
comprarlo. Rimaneva col naso all’insù, sotto quel
tabellone che si aggiornava continuamente, fissandolo per ore intere.
Poi, quando era stanca, ritornava mesta dalla madre, inventando scuse
diverse per non farla preoccupare.
E ora, di nuovo era col naso all’insù a guardare
il monitor delle partenze, questa volta per cercare il suo volo.
«Non sarà la stessa atmosfera della 30th Street
Station,
ma la situazione è piuttosto simile, non trovi?»
disse
Teresa, come se avesse letto nei pensieri della figlia, stringendola a
sé e dandole un bacio sulla tempia. «Ti aspetto di
là, assieme agli altri.»
Mancava ancora un’ora al check-in.
Nonostante l’emozione e il sollievo che provava per
l’imminente partenza, Cora sentiva una certa tristezza nel
doversi separare dalla sua famiglia. La decisione però era
stata
presa e la brutta esperienza della notte precedente, della quale
sentiva ancora gli effetti negativi su di sé, era un buon
incentivo per cambiare aria. Dalla sua posizione li poteva vedere,
tutti lì, raccolti in gruppetto, a una ventina di metri da
dove
si trovava lei: sembravano una comitiva di turisti. Sorrise nel vederli
sereni, anche se sapeva essere solo apparenza. La madre chiacchierava
con il suo compagno, lo zio Phil; Mickey se ne stava un po’
sulle
sue, ma Chris provava in ogni modo a distrarlo e a coinvolgerlo,
facendolo infine sorridere.
«Chissà cosa gli ha promesso»,
mormorò lei,
sorridendo a sua volta. Si passò la mano sugli occhi per
fermare
sul nascere le lacrime. Non voleva ritrovarsi con gli occhi arrossati
al momento dei saluti.
«Perché dobbiamo cambiare i programmi e tornare
subito a
Boston? Mi avevi promesso che saremmo andati a New York!» si
lamentò Aiolia, camminando con le spalle curve e le mani in
tasca.
«Hai per caso qualche appuntamento del quale non sono a
conoscenza?» domandò con sarcasmo
l’altro, sperando
di placare in quel modo le sue lagne.
«Appuntamento? No, no! Dico solo che…»
Il giovane sbuffò, rinunciando a terminare quel pensiero che
gli
ronzava in mente da tutta la mattina, prima di sentirsi dire di nuovo
dal fratello che si comportava in modo troppo infantile. Con la coda
dell'occhio lo osservò aggiustarsi gli occhiali da sole,
anche
se all'interno dell'aeroporto non erano necessari.
Aiolos tirò mentalmente uno sbuffo. Anche a lui scocciava
parecchio dover rinunciare alla tappa di New York. Aveva sperato che,
con un giorno in più a disposizione, magari rilassandosi
nell'attico degli Hayes, quell’irritazione sul viso sarebbe
diminuita quel tanto che bastava da non farci più caso.
Invece...
Dalla tasca interna del cappotto prese i documenti d’imbarco.
Li
esaminò facendo una smorfia, prima di rimetterli a posto.
Tanto
per aggiungere un'altra scocciatura a quel loro viaggio già
pieno di inconvenienti, erano stati costretti a un repentino cambio di
programma per il rientro. Si erano già sistemati sul jet
privato
della società quando il pilota li aveva informati di un
guasto
tecnico che li costringeva a rimanere a terra. Si erano quindi dovuti
accontentare di un banale e scomodo volo di linea in business class.
Guardò l'orologio: mancava poco meno di un’ora
all’imbarco, avevano quindi tutto il tempo per fare una
deviazione verso il bar dell’aeroporto per prendersi qualcosa.
Cora uscì dalla toilette delle signore, asciugando il
cappotto
che teneva piegato sul braccio da alcune goccioline d'acqua. In quella
operazione la tracolla della borsa le scivolò dalla spalla,
distraendola e mandandola quasi a scontrarsi con qualcuno.
«Mi scusi», disse, continuando a camminare senza
guardare
avanti; ma fu subito trattenuta per un braccio e contemporaneamente
sentì una voce lamentarsi. Alzò la testa per
protestare,
ma si bloccò, ritrovandosi di fronte a quei due.
Per diversi secondi rimase a fissarli, ammutolita e scioccata, con il
cuore che aveva preso a battere forte. Poi, un improvviso imbarazzo le
fece distogliere lo sguardo e balbettare delle altre timide scuse.
Anche se il ragazzo contro il quale era andata involontariamente
addosso non aveva mostrato troppo fastidio, ma quegli occhiali da sole
– e quelle macchie rosse sulla pelle – erano
riusciti a
intimorirla; la presenza dell’altro poi, con lo sguardo
ostile e
accusatorio puntato su di lei, completava la situazione.
«Ci incontriamo di nuovo!» esordì
Aiolia,
digrignando i denti e mettendosi in mezzo fra lei e il fratello. Non
aveva dimenticato lo spavento della sera precedente e non voleva una
replica del finale. «Hai intenzione di fare come ieri,
oppure…»
«Mi… mi dispiace per…»
provò a
scusarsi di nuovo Cora, sopraffatta dall'ostilità dell'altro.
L’atteggiamento del giovane la fece indietreggiare di un
altro
passo e, non riuscendo più a sostenere i loro sguardi,
accennò a girarsi per andarsene.
«Ehi! Finisce così?» Aiolia le
afferrò ancora
una volta il braccio, impedendole così la fuga.
«Non
meritiamo neppure delle scuse decenti, dopo quanto è
accaduto?»
«Ma che diavolo vuoi tu. Lasciami andare!» rispose
lei,
strattonando il braccio per liberarsi. «Devo forse mettermi a
gridare “al maniaco”?» lo
minacciò, non
riconoscendo nei due i protagonisti della disavventura nella
metropolitana.
«Non oseresti farlo davvero», ringhiò
Aiolia, che a quelle parole si irrigidì.
«Basta così, Aiolia. Lasciala stare»,
intervenne
Aiolos che invece non si era scomposto minimamente nel seguire quella
specie di scenata.
«Ma non è giusto!» provò a
protestare il
primo, perdendo un poco dell’arroganza riservata a Cora.
«Ci deve delle scuse, a te soprattutto!»
«Se ti poni in modo così aggressivo, sarai tu a
doverti
scusare con lei», rispose con tono pacato Aiolos; il suo
volto
sempre inespressivo, rigido, indifferente. «E comunque, a
questo
punto non è necessario: non voglio attirare
l’attenzione
della gente più del dovuto, per una questione già
risolta.»
Aiolia abbassò lo sguardo e lasciò andare la
ragazza.
«Signorina…» si rivolse a lei Aiolos.
«Spero
voglia dimenticare lo spiacevole malinteso di ieri, così
come il
comportamento poco educato di mio fratello.»
La giovane non sapeva di cosa lui stesse parlando, ma annuì
titubante, mentre si stringeva il cappotto al petto e indietreggiava di
un passo. Quella persona le metteva addosso una strana inquietudine.
Una volta sicura di essere fuori dalla portata del giovane, quello
più impulsivo, si allontanò correndo via.
«La lasci andare via in questo modo?» si
lamentò Aiolia.
«Dovresti cercare di riflettere meglio, prima di parlare e
agire», ribatté Aiolos, riprendendo a camminare
verso
l’area di ristoro.
*****
«E quello da dove salta fuori?» domandò
Aiolos,
indicando con un cenno del capo il quadernetto nero che spuntava dalla
tasca esterna dello zaino del fratello. Attese la risposta da parte
dell'altro che invece sembrava nascondersi dietro alla lista delle
consumazioni. Si chinò e lo prese, studiandolo per qualche
secondo.
«Oh, quello… accidenti!»
saltò in piedi come
una molla Aiolia. «Ho dimenticato di restituirlo a quella
ragazza!» esclamò, voltandosi verso l'entrata del
bar.
«Direi che ora è troppo tardi.»
Aiolos iniziò a sfogliarlo velocemente. Dalla copertina
sembrava
uno di quei taccuini in dotazione alla polizia, almeno per quello che
si vedeva in tv, mentre all’interno dava più
l’impressione di essere un quadernetto vero e proprio, con
rilegatura a brossura e copertina in cartoncino leggero, telato.
«Non hai risposto alla mia domanda»
«Ecco… ieri sera, dopo che…»
provò a
spiegarsi Aiolia, abbassando il volume della voce e osservando la
reazione dell'altro. «Beh, credevo di aver raccolto tutte le
cose
della ragazza, quando le ho consegnate a quel tipo. Poi, quando mi sono
accorto che questo era finito sotto la panchina, vicino al tuo piede,
volevo provare a raggiungerli ma non ci tenevo a ritrovarmi con la
pistola puntata addosso.»
Aiolos fece un mezzo grugnito, continuando a sfogliare il quadernetto.
Per deformazione professionale era abituato a sfruttare ogni cosa e
trasformarla in informazioni utili, anche se dubitava di incontrare in
futuro quella ragazza – e di conseguenza non gli importava
nulla
di fare indagini su di lei – per una volta avrebbe utilizzato
le
sue qualità per svagarsi durante il viaggio di ritorno.
«Se me lo ridai, provo a raggiungerla e glielo
restituisco», si propose Aiolia, anche se lui stesso non era
molto convinto delle sue stesse parole.
«Dopo il tranquillo incontro che abbiamo avuto poco fa?
Penserà che tu la voglia aggredire di nuovo», gli
rispose
Aiolos, facendo un mezzo ghigno. «E se non fosse sola? Se
quel
pazzo fosse di nuovo con lei? Non sia mai che permetta al mio
fratellino di esporsi a tale pericolo», concluse in tono
sarcastico, il quadernetto nella tasca interna del cappotto, sotto lo
sguardo sbalordito di Aiolia.
Una voce di donna, dal tono elettronico e cantilenante, si diffuse
dall’altoparlante, annunciando l’imminente apertura
del Gate e
l’inizio delle operazioni di check-in e imbarco
per il volo per Boston.
*****
Il suo volo era atterrato da almeno un paio di ore al Boston Logan,
l’aeroporto internazionale di Boston, ma ancora non aveva
potuto
mettere il piede fuori dallo scalo. Era rimasta letteralmente
incastrata nell’interminabile trafila burocratica che ormai
da
qualche anno vigeva negli aeroporti statunitensi, ma anche di tutto il
resto del mondo. Aveva aspettato pazientemente il suo turno, fra
passaggi al metal detector – senza scarpe –, body
scan e
controllo bagagli. Non le importava di essere trattata quasi da
terrorista, nella sua testa lei già pregustava il panorama
che
avrebbe visto e l’aria che avrebbe respirato al di
là di
quelle porte a vetri.
Non appena le porte automatiche si furono aperte dinanzi a lei, Cora fu
investita da una folata di aria fredda che le sferzò il
volto.
Posò a terra il suo bagaglio, un grosso borsone con lo
stretto
necessario per i primi giorni, e inspirò a pieni polmoni,
cercando di risvegliare sensazioni e ricordi sopiti dentro di
sé. Assaporò l’aria di casa,
l’odore di
quello spicchio di oceano che arrivava sin lì;
immaginò
il caos del traffico cittadino e crebbe in lei il lieve timore di non
riconoscere più nulla della sua città natale.
Quanto
doveva essere cambiata in tutti quegli anni?
Si guardò attorno, la lunga fila di taxi era presa
d’assalto e, anche se avesse avuto fortuna a trovarne uno
libero,
non aveva certo voglia di spendere un capitale per arrivare sino in
città. Poco più avanti, a una cinquantina di
metri,
c’era la fermata degli autobus: per lei sarebbe andato
più
che bene, soprattutto perché, prima di incontrare
“la
vecchia conoscenza” dello zio Phil, c’era un posto
dove
desiderava andare.
*****
«Ciao!» esordì con tono squillante,
lasciando subito
posto a un certo imbarazzo. Si guardò attorno per qualche
momento, anche se non sembrava esserci nessuno nei paraggi si
vergognava del suo comportamento un po’ infantile e... sopra
le
righe, per il luogo in cui si trovava. Era così strano per
lei
parlare a qualcuno che non c’era più.
«Sono passati tanti anni dall’ultima volta che sono
venuta
a trovarti. Beh, forse sarebbe più giusto dire
“dall’unica volta”»,
continuò, meno
impacciata di prima, ma pur sempre a disagio. La voce era rotta
dall’emozione. «Credevano che fossi troppo piccola
per
capire; non avevano voluto spiegarmi quello che era successo davvero
e… la mamma non è più riuscita a
venire da te, era
troppo difficile.»
Sentì un leggero pizzicore agli occhi e si interruppe. Si
portò la mano sul viso ad asciugarsi rapida le lacrime,
prima
che queste potessero bagnarle le guance.
«Avevo paura di dimenticarti, in questi anni. Fino a poco
tempo
fa non riuscivo a parlare di te con la mamma; neppure con Mickey. Lui
è il mio fratellino. Sai, è proprio uguale a te!
Ha
persino la tua stessa voglia di fare e di imparare», gli
raccontò, interrompendosi e trattenendo un singulto di
pianto.
«Ma lui non è te…»
mormorò, coprendosi
il viso con le mani inguantate. «Accidenti, ultimamente mi
ritrovo sempre a piangere», ammise sottovoce, strofinandosi
gli
occhi e accennando un lieve sorriso.
Fece un respiro profondo, poi un altro, e sentì che la
voglia di piangere le stava passando.
«La mamma ora è di nuovo serena e…
sì, credo
di poter dire che sia... felice! C’è lo zio Phil
con lei;
e anche con Mickey. Lui sta crescendo bene, è circondato da
tanto amore. Zio Phil è stato un buon padre anche per me.
Sono
sicura che tu non sei geloso di questo, vero? Hai sempre dato la
priorità alla felicità degli altri, della tua
famiglia,
soprattutto. Ma nessuno può sostituirti davvero.»
Si accovacciò ad accarezzare la fredda pietra della lapide.
«Perché ci hai lasciati? Perché lo hai
fatto?» disse, trattenendosi a stento dallo scoppiare a
piangere.
Si coprì di nuovo il viso con le mani e fece dei respiri
profondi per calmarsi. Poi, diede una lunga occhiata a quel settore del
cimitero. Si rattristò nel constatare che si era popolato di
nuovi ospiti. Ma era naturale, la gente moriva di continuo.
«Credevo che avrei trovato tutto in abbandono, dopo
così
tanti anni, come quella tomba là. Invece… quelle
persone
che ho visto prima…»
Si girò indietro, nella direzione presa dai due distinti
uomini
di mezza età che aveva incrociato poco prima, nella speranza
magari di riuscire a intravederli ancora. Quando le erano passati
accanto, non aveva badato molto a loro, intenta a seguire la piantina
che le aveva disegnato il custode del cimitero su un foglietto e a
guardarsi attorno per cercare la tomba del padre.
«Erano tuoi colleghi? Magari della procura?» disse,
come se
Gregory avesse potuto risponderle. «Forse no»,
sospirò poi. «Vestivano troppo bene per essere
poliziotti.
Avvocati… sì, ma non della procura. Ne sono
sicura. Non
hanno proprio l’aspetto di pubblici ufficiali»,
considerò con un mezzo sorriso. «Ti hanno portato
questi
fiori freschi. Su nessun’altra ce ne sono e poi, questa
composizione sembra anche essere costosa. Io… perdonami,
sono a
mani vuote.»
Strizzò gli occhi per tentare di fermare le ennesimi
lacrime, ma
ormai era troppo tardi, queste scorrevano libere e liberatorie. Erano
così piacevolmente calde, mentre scendevano sulla pelle del
viso
arrossata dal freddo della sera che stava calando. Erano lievi e
confortevoli come carezze.
Si rimise in piedi e fece ancora dei respiri profondi. Il suo sguardo
era tornato sereno, ma al tempo stesso determinato. «Non sono
qui
di fronte a te a giurare sulla tua tomba che troverò il
bastardo
che ti ha strappato a noi e che ti vendicherò. Non siamo in
un
film, né tantomeno in un romanzo; e io non sono certo
un’eroina tragica. Però, voglio sapere la
verità!
La cercherò. Non so ancora con quali mezzi e quanto tempo mi
ci
vorrà, ma la cercherò e la troverò! In
questi anni
ho osservato lo zio Phil nel suo lavoro, spesso l’ho anche
aiutato, quando mi è stato possibile. Ma non ti preoccupare,
mai
niente di pericoloso», gli disse con un sorriso, immaginando
in
quel momento il padre pronto a mostrare la propria preoccupazione. Ma
la sua voce uscì con meno convinzione di prima,
perché
sapeva bene di aver mentito. Si portò istintivamente una
mano al
ventre, mentre si concedeva ancora un respiro lungo e profondo.
«Non ti preoccupare per me. Ho promesso allo zio Phil, e lo
prometto anche a te, che farò attenzione e che non
rovinerò la mia vita. Andrò avanti e mi
costruirò
quella vita della quale tu saresti stato orgoglioso.»
Si accovacciò ancora una volta, allungò la mano e
accarezzò le lettere scolpite sulla lapide; lettere che
componevano quel nome a lei tanto caro. Si stava sforzando di
sorridere, perché sapeva che il padre avrebbe voluto vederla
sempre sorridente, ma le lacrime avevano già ricominciato a
scendere silenziose e irrefrenabili.
«La tua Caroline è tornata a casa,
papà.»
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Capitolo 9 *** Capitolo VIII ***
VIII
Quando Cora giunse all’indirizzo indicato sul
biglietto che
le aveva preparato lo zio Phil, si erano già fatte le otto
di
sera e tutto era tremendamente buio, nonostante i lampioni e le varie
insegne luminose. Non le piaceva più stare fuori la sera,
né vedere quell’arcobaleno di luci al neon e led a
intermittenza.
Indugiò per diversi minuti fuori dal locale, dubbiosa che
l’indirizzo fosse davvero quello giusto. Di fronte a lei non
c’era una casa dello studente, né un ostello, o un
pensionato, ma un ristorante cinese; oltretutto era anche chiuso.
Ricontrollò più volte il biglietto.
Chiamò persino
lo zio Phil al cellulare per avere un’ulteriore conferma:
nome
della strada e numero civico erano esatti.
Passò altri cinque minuti buoni a fare avanti e indietro su
quella porzione di marciapiede antistante il ristorante Fiore di Luna,
prima decidersi e provare a entrare. Ma quando si sentì
finalmente pronta, le si materializzò di fronte un
vecchietto
cinese con un sorriso talmente esagerato da sembrare finto e la pelle
tutta raggrinzita.
«Buonasera, signorina. Io sono Dohko!» si
presentò
lui, quasi cantilenando, con la classica inflessione cinese di quei
film d’importazione che solitamente passavano sulla tv via
cavo a
notte fonda. «Puoi chiamarmi nonno Dohko, come fanno tutti
nel
quartiere, oppure semplicemente Dohko!»
Le strinse la mano con vigore, come in una presentazione formale, anche
se di formale non c’era proprio nulla. Poi, la
trascinò
all’interno del ristorante, prendendola a braccetto, senza
neanche concederle il tempo di presentarsi a sua volta. Le sorrise,
mostrandole orgoglioso la dentiera in tutta la sua scintillante
presenza, mentre l’accompagnava attraverso la sala, passando
fra
i tavoli, facendo ampi gesti con il braccio.
Quando raccontò l’aneddoto che riguardava un
piccolo
arazzo appeso al muro, raffigurante un grande drago verde acciambellato
sul fondo di un lago, ai piedi di una cascata, il suo sorriso si
allargò in modo talmente esagerato che
d’improvviso la
dentiera gli cadde a terra, rotolando vicino ai piedi della giovane e
iniziando a saltellare di qua e di là come se avesse vita
propria.
Ci furono diversi secondi di silenzio imbarazzato.
«Che strano…» borbottò il
vecchio,
grattandosi il mento con la mano avvizzita. «La gag di nonno
Simpson funziona sempre», considerò, perdendo
all’improvviso il suo finto accento cinese, per
un’inflessione più bostoniana che suonava ben
più
strana e finta di quella precedente. «Di solito la gente o si
spaventa o ride, quando la vede.»
Sul suo viso rugoso comparve un'evidente delusione nel vedere come la
ragazza fosse rimasta perlopiù impassibile.
«Beh, non è che sia così tanto
spaventosa,
né divertente», rispose lei, fissando per qualche
secondo
quel coso saltellante che sbatteva contro la sua sacca. «Al
massimo fa un po’ schifo», mormorò,
scansando con il
piede quell’oggetto indemoniato.
«Bah, i giovani d’oggi!»
sbuffò l’altro.
«Un povero vecchio si impegna per fare qualcosa di simpatico
e
guarda cosa ottiene», si lamentò, chinandosi
agilmente per
raccogliere la dentiera finta. La ripulì con un fazzoletto e
se
la mise in tasca. «Immagino che non avrai ancora cenato.
Prima
mangiamo qualcosa e poi, con calma, ti accompagno nella tua nuova casa.
È proprio qui a due passi! Ti piace la cucina cinese,
vero?» le chiese, prendendola di nuovo a braccetto e
invitandola
a sedersi al tavolo. Con un gesto della mano chiamò una
ragazzina minuta e dalla lunga treccia nera, fasciata in un
appariscente cheongsam
fucsia, che aveva presentato a Cora come sua nipote. Si rivolse alla
giovane in stretto cantonese per un paio di minuti e, dopo essersi
congedata con un inchino, questa scomparve dietro la porta della cucina.
Quella cena atipica, per Cora trascorse abbastanza gradevolmente. Dohko
iniziò a raccontarle di come conobbe Burton e di come, da
una
collaborazione obbligata, si trasformò in seguito in una
sorta
di amicizia.
«Sono trascorsi più di trent’anni.
All'epoca facevo
l’amministratore condominiale di un palazzo assolutamente
rispettabile», disse, con espressione pensosa, prendendo una
boccata dalla sigaretta che teneva fra le dita magre e ossute. La
guardò di sottecchi mentre pronunciava la parola
“rispettabile”, per studiarne la reazione.
«Un giorno
ci fu una retata a causa di una telefonata anonima.
L’inquilino
di uno degli appartamenti del secondo piano aveva trasformato la casa
in un vero e proprio bazar dello spaccio.» Tirò
un’altra boccata. «Quello stupido era stato beccato
con le
mani nel sacco; ma invece di farsi arrestare, era venuto a nascondersi
da me. E io, povero erborista…»
sospirò, mettendosi
una mano sul petto, «sono stato messo in mezzo.»
La storia che il vecchio stava raccontando in realtà era
diversa
da ciò che successe. L’allora quarantenne Dohko
era stato
beccato con della “roba” non proprio legale fra le
mani, o
meglio, sotto il materasso, che lui stesso spacciava, soprattutto agli
studenti universitari e dei college che bazzicavano il quartiere. Il
cinese aveva giurato e spergiurato che quegli strani intrugli erano
innocue erbe medicinali, usate comunemente come tisane e rimedi
tradizionali. La sua dichiarazione era sembrata abbastanza convincente,
ma le analisi di laboratorio lo avevano smentito. Allora, sfruttando
l’opportunità che gli si era presentata con
quell’arresto, Burton aveva deciso di evitargli il processo e
la
conseguente galera, a patto che diventasse un suo informatore. Negli
anni seguenti, Dohko aveva saputo rendersi utile in più
occasioni, anche se il vizietto delle “medicine”
non lo
perse mai; e a quel punto però le autorità
preferirono
chiudere un occhio.
Come le aveva promesso, Dohko l'accompagnò a vedere la sua
nuova
casa. L’alloggio era situato al quarto piano della vecchia
palazzina nella quale, ancora oggi, il cinese faceva
l’amministratore. Mentre salivano le scale, lui le
raccontò che la situazione era diversa da un tempo: che ci
vivevano famiglie perbene e studenti responsabili, che non avrebbe
avuto problemi e si sarebbe trovata bene e che, per qualsiasi cosa,
avrebbe potuto contare su di lui. Poi la informò che, oltre
al
suo, vi era un altro appartamento ancora disponibile, ma che sarebbe
stato occupato a breve da alcune ragazze che venivano da New York,
blaterando qualcosa del tipo “sono sicuro che farete subito
amicizia”. Alla fine dell’ultima rampa di scale,
iniziò a decantare le qualità di quel piccolo
bilocale
che si stava apprestando a mostrarle: spazioso, tranquillo, con
un’ottima vista...
Cora fu investita da una vera e propria ondata di parole, ma la
stanchezza del viaggio e l’apprensione per quel salto nel
buio
che stava compiendo – e che si mescolavano
all’emozione di
essere tornata nella sua amata Boston –, le impedirono di
accorgersi dei troppi sorrisi melliflui che il vecchio le
elargì
per tutto il tempo. E ora, sola sulla soglia di quella che, per
chissà quanto tempo, sarebbe stata casa sua, rimase
letteralmente scioccata nel rendersi conto del vero stato delle cose.
Il locale era piccolo e sporco. La mobilia degnia di un ricovero di
tossici e le cianfrusaglie, sparse qua e là, completavano il
quadro demoralizzante di una situazione al limite. Fece qualche passo
all’interno dell’appartamento, guardandosi attorno
schifata: la mente svuotata dai castelli di sabbia che si era creata.
«Quel vecchiaccio!» sbottò con rabbia,
lasciando
cadere a terra la sua sacca da viaggio e alzando una nuvola di polvere
che la fece tossire ininterrottamente per diversi minuti.
«Altro
che amico fidato! Altro che “vedrai come ti
piacerà”! Ha tirato il bidone a zio Phil e a
me!»
esclamò in modo nervoso, trattenendo a stento la voglia di
scappare da lì a gambe levate.
Gradualmente, la rabbia scemò per lasciare spazio allo
sconforto. Si guardò attorno con un poco più di
calma.
L’espressione sul suo viso mutò in delusione: non
pretendeva certo chissà cosa, per iniziare la sua nuova vita
da
single, ma non pensava neanche potesse incominciare in modo tanto
misero. Aveva sbagliato a far correre la fantasia durante il volo,
immaginando una casa accogliente così com’era
stata quella
che lei e Chris avevano condiviso per anni: ci avevano lavorato assieme
con passione per un’intera estate, durante il loro primo anno
di
convivenza, fra studio, lavoretti part-time e distrazioni
più
piacevoli, per renderla il loro nido. La cruda realtà che si
presentava davanti ai suoi occhi infranse qualsiasi fantasticheria da
commedia romantica: una sistemazione così spartana e mal
messa
come quella era un vero incubo.
Con le luci accese, quelle poche che funzionavano, la situazione si
mostrava ancora più tragica. Le finestre erano sì
grandi
come le aveva detto Dohko – e la vista magari anche
interessante
– ma i vetri erano sporchi e ricoperti di strati di unto
mescolato a polvere e qualcosa di indefinibile; in alcuni punti erano
rimasti appiccicati brandelli di fogli di giornale, troppo cotti dal
sole. Gli infissi di legno erano tutti scrostati e piccoli mucchietti
di scaglie di vernice si erano accumulate per terra. Le tendine a
pacchetto, che completavano il quadro disastroso e che sembravano
reggersi per miracolo, avevano un aspetto poco rassicurante con quella
stoffa dai motivi anni ’70. Se la si fissava per qualche
secondo
di troppo, poteva dare effetti psichedelici. I muri erano di un
improponibile color caffellatte sbiadito; ma non ne era sicura, visto
che erano ricoperti da una patina nerastra di fumo di sigarette e
chissà che altro.
Azzardò qualche passo per esplorare la stanza, arrivando a
sbirciare oltre il muretto basso che delimitava la cucina, forse
l’unico ambiente decente, in quella catastrofe che aveva
sotto
gli occhi. Era completa di mobiletti e pensili, anche se alcune antine
erano state scardinate e appoggiate alla parete; gli elettrodomestici
invece sembravano ancora in buone condizioni e avrebbe potuto usarli,
previa una profonda disinfettata. Nella camera da letto e nel bagno non
aveva proprio voglia di avventurarsi, almeno per quella sera. Forse
l'indomani, alla luce del giorno, la situazione le sarebbe sembrata
meno disperata.
Fece un grande sospiro e si avvicinò al divano, facendo
attenzione a dove metteva i piedi: qua e là
c’erano
scatoloni pieni di bottiglie vuote, vecchi quotidiani e cianfrusaglie
varie. Tutti impolverati e coperti da ragnatele spesse come tessuti di
lino, così come quelle che pendevano dagli angoli del
soffitto:
avevano un aspetto davvero poco rassicurante. Si mosse con cautela in
mezzo a quello sfacelo, quasi con timore di trovarsi davanti a sorprese
raccapriccianti.
«L’ultimo inquilino è stato piuttosto
negligente
quando ha lasciato la casa. Non si è neanche preoccupato di
fare
le pulizie. Ben gli sta se quel vecchio imbroglione si è
tenuto
la caparra!» provò a ironizzare.
Se le parti visibili dell’appartamento erano in quello stato,
come sarebbero state le tubature e l’impianto elettrico?
Prima di lasciarla, Dohko le disse, con il suo immancabile sorrisetto
da jolly stampato in faccia, che poteva fare qualsiasi lavoro
nell’appartamento, che ogni miglioria sarebbe stata ben
accetta e
che, come ricompensa, non avrebbe pagato l’affitto.
Terminò dicendole di rivolgersi a lui per qualunque problema.
Cora continuò a rigirarsi nervosamente le chiavi nella mano,
facendole tintinnare.
«Fare qualche lavoro…»
considerò. «Per
forza, questa “cosa” è una topaia
invivibile! Solo
un disperato potrebbe accettare di stare qui. Oppure qualche criminale
latitante. Qui mi sa che dovrei chiamare la donna dei miracoli: Norma
Vally, la diva del fai da te!»
Sbuffò sonoramente. Si accostò al divano,
liberandone i
cuscini e, vincendo il ribrezzo che stava provando, si sedette,
stringendosi nelle spalle.
Se lo sentiva che quella prima notte sarebbe stata difficile: lontana
dalla sua famiglia e dai suoi amici, sola in un appartamento devastato
e con chissà quali ospiti. Dalla tasca del cappotto prese il
cellulare e si rannicchiò fra il bracciolo e lo schienale,
portandosi le ginocchia al petto. Provò a chiudere gli
occhi, ma
ogni rumore, o scricchiolio, glieli faceva riaprire e rabbrividire di
paura. Nella sua mano stringeva forte il cellulare, provò la
tentazione di telefonare di nuovo a casa, ma se lo avesse fatto, di
certo non sarebbe riuscita a mentire e dire che andava tutto bene.
Fissò lo sguardo sul display: ancora per pochi minuti
portava la
data 2/25/10.
*****
Le ci vollero circa due settimane, dal mattino presto fino a mezzanotte
inoltrata, per ristrutturare e dare una parvenza di decenza a quelle
quattro mura sgangherate. Furono giorni interminabili, nei quali usciva
solo per buttare calcinacci e robaccia nei cassonetti e comprare
materiale per stuccare buchi, ridipingere e pulire. Le
sembrò di
non fare altro da tutta una vita: grattare, scrostare, smacchiare,
lavare e ramazzare. Il budget che aveva previsto per il primo mese era
stato speso così velocemente che neanche se n’era
accorta;
e anche quello per il secondo era stato intaccato. Dopo appena quattro
giorni di lavoro aveva subìto una battuta
d’arresto per la
presenza di problemi ingestibili per lei. Era dovuta scendere a
compromessi con Dohko per poter chiamare un’impresa edile,
riuscendo a farlo partecipare alle spese per la metà
dell’ammontare. Non si era mai considerata una tirchia,
né
una spendacciona senza ritegno, ma piangeva lacrime amare ogniqualvolta
doveva aprire il portafoglio, anche solo per una spesa banale. Senza
lavoro, senza la famiglia vicina, senza Chris – al quale
solitamente faceva fare i lavori più pensati –,
era
veramente dura; e il suo conto corrente si prosciugava senza sosta.
Mancavano ancora più di due mesi e mezzo al suo fatidico
ventiquattresimo compleanno, una data importante che avrebbe segnato
un’altra svolta per lei, ma intanto doveva trovarsi un
lavoro.
Per sua fortuna ci aveva pensato lo zio Phil, che le aveva mandato una
e-mail con i recapiti di un certo Edward Price, un ex collega del suo
distretto, ora in pensione.
Approfittando della bella giornata per prendersi una pausa dai lavori,
entrò in una caffetteria che offriva anche servizio
internet.
Ordinò un tè freddo e si sedette al tavolo dove
c’era un computer libero. Le bastarono pochi secondi per
arrivare
alla biografia del titolare dell’agenzia: Edward Price,
afroamericano di sessant’anni, ex poliziotto. Dalla foto
sembrava
robusto e corpulento. Cora sorrise, ripensando allo zio Phil:
evidentemente era prassi comune per gli agenti in pensione reciclarsi
come investigatori privati. Scorrendo le informazioni lesse che
l’uomo era impegnato anche nel volontariato presso
un’associazione per il supporto delle donne maltrattate, come
istruttore di autodifesa. Sentì una leggera fitta allo
stomaco
che le fece portare inconsciamente la mano al ventre.
Riprese a navigare sul sito dell’agenzia investigativa,
scacciando i brutti pensieri che le erano riaffiorati alla mente. Lesse
che Edward Price faceva parte di un nutrito gruppo di consulenti
tecnici dei quali si avvaleva niente meno che lo studio legale
più famoso e potente di Boston, se non addirittura
dell’intero Stato del Massachusetts: il rinomato studio
“Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor e
associati”, che
vantava nomi eccellenti e di alto profilo fra i suoi clienti.
Cliccò sul link della e-mail e, dopo qualche minuto di
riflessione, scrisse alcune righe di presentazione per richiedere un
colloquio di lavoro. Poi, si avviò di nuovo verso casa.
*****
Cora osservò il risultato dei propri sforzi. Aveva la testa
piena di dubbi, ma si sentiva anche soddisfatta. Fece una panoramica
dell'intera casa. Il colpo d'occhio era eccellente. Mancavano giusto
gli ultimi ritocchi affinché tutto fosse perfetto: qualche
quadro alle pareti, un paio di lampade e una pianta, per rallegrare il
tutto.
“Non è una casa senza un po' di verde!”
dicevano le riviste di arredamento che amava leggere.
Le pareti del salotto avevano preso una tonalità luminosa e
vivace con quel giallo limone che aveva scelto; e l'effetto spugnato,
molto fitto, che aveva dato con due diverse tonalità chiare
di
corallo, ne smorzava l'eccessiva intensità, donando
all'ambiente
una sensazione di calore familiare e al tempo stesso di ricercatezza.
L'aver poi utilizzato gli stessi colori e la stessa tecnica anche per
la cucina dava un senso di continuità ai due ambienti,
divisi
solo da un tramezzo e un muretto basso al quale era stato fissato il
bancone per la colazione in laminato color caffè.
Lo stesso color caffè era poi stato ripreso per rinnovare i
pensili e i mobiletti della cucina. Cora li aveva rimessi a nuovo con
non poca fatica: stuccati, carteggiati e ridipinti; aggiungendovi
infine maniglie e pomoli nuovi, dalle linee classiche e finitura bronzo.
Anche i pochi mobili che si era dovuta procurare – una
libreria,
lo scrittoio per il computer e un paio di tavolini – erano
stati
trattati con l'avanzo del color caffè della cucina. Era
stata
fortunata a trovare ciò che le serviva a un mercatino
privato
per poche centinaia di dollari. Con una nuova tappezzeria il divano si
era trasformato; e un bel pouf tondo, trovato di una stoffa a tinta
unita, che ben si accordava con il resto, aveva completato l'arredo.
Il pezzo forte del bilocale però era la camera da letto. Di
quelle due settimane di duro lavoro ben tre giorni interi erano occorsi
solo per quella stanza.
Tolta l'inguardabile carta da parati che cadeva a pezzi, Cora aveva
deciso di tinteggiare le pareti con un sofisticato grigio perla dalla
tonalità media, vivacizzandola con dei motivi arabescati in
color avorio. Dello stesso avorio aveva dipinto anche il letto, i due
comodini, il comò e persino l'anta a persiana della cabina
armadio.
In ultimo, per dare un vezzo più femminile, aveva trovato
delle
tende di cotone pesante, di uno splendido rosa antico, che stavano a
pennello appese alla doppia finestra. E non erano costate neanche tanto!
«Ci vorrebbe qualcosa per festeggiare», disse,
dedicando all'appartamento un'altra profonda occhiata soddisfatta.
Si concesse un respiro profondo: nella casa si respirava un forte odore
di vernice fresca. Ai più poteva dare fastidio, ma per lei
era
quasi un piacevole profumo. Ora però, sentiva la
necessità di uscire e respirare davvero. Ne avrebbe
approfittato
per dare fondo agli ultimi dollari che le erano rimasti in tasca, per
fare una spesa decente, prendere le ultime cose che le mancavano e
anche per girare finalmente per le vie del quartiere che ancora
conosceva poco.
*****
Il giovane si stava apprestando a chiudere la porta del negozio, una
grossa busta di carta appoggiata a terra contro la sua gamba, quando un
raggio di sole tinto delle prime sfumature del tramonto si rifrasse su
un angolo della vecchia vetrinetta e, per qualche frazione di secondo,
lo abbagliò. Si portò una mano sugli occhi,
sfregandoli
con forza. Poi, guardò di nuovo, con maggiore attenzione,
seguendo i fasci luminosi che penetravano fra i pertugi dei vecchi
fogli di giornale appicciccati sui vetri. Sorrise nel vedere in
controluce il pulviscolo di polvere danzare nell’aria,
proprio
come quel lontano giorno, quando era entrato nel negozio per la prima
volta.
Aveva trovato
l'indirizzo di quel
luogo su internet, ne aveva memorizzato il percorso, ma ugualmente
aveva avuto qualche difficoltà e si era dovuto districare
tra
fermate dell'autobus mai viste e timide richieste a qualche passante.
Proprio lui che non andava molto d'accordo con gli estranei.
Più
volte, camminando per quelle strade, aveva dubitato di quella sua
impresa, compiuta all'insaputa della famiglia. Si potevano contare
sulla punta delle dita di una mano le volte che si era avventurato in
città da solo. E, a causa di tale inesperienza, la sua testa
era
piena di un unico pensiero: tornare a casa. Eppure aveva proseguito
fino alla sua meta.
Quando aveva varcato la
soglia di
quella piccola bottega, annunciato dallo scampanellio di una vecchia
campanella di ottone, era stato sopraffatto dalle emozioni. Il suo
cuore era in subbuglio e l'unica cosa che aveva potuto fare, per non
svenire, era stato stringersi al petto quel pacchettino che aveva
portato con sé.
L'ambiente che aveva
trovato era
scuro e polveroso. Sembrava congelato nel tempo. L'unica vetrina,
così come la porta a vetri, era ricoperta da fogli di
giornali
vecchi e ingialliti, tenuti attaccati con dei pezzetti di scotch, ormai
secchi e altrettanto ingialliti. In alcuni punti la carta era strappata
e faceva filtrare dall'esterno un sole abbagliante che accentuava il
gioco di luci e ombre all'interno. In quel momento si era sentito come
il giovane Bastian, il protagonista de “La storia
infinita”, un libro che aveva amato molto da bambino. E,
proprio
come in quella storia, un vecchio dall’aspetto burbero lo
aveva
accolto in malomodo. Saga aveva sussultato, ma aveva resistito,
poiché era lì per un motivo per lui importante.
Era
avanzato con cautela, a passi lenti, trattenendo il respiro e tenendo
ben stretto il suo pacchetto, guardandosi attorno stranito. Era
circondato da pile di libri e strani strumenti lasciati in disordine.
L'aria era impregnata di odori particolari, pungenti, di colla, pelle
lavorata, muffa, olii e grassi. Soprattutto, c'era l'odore della carta,
quella dei libri vecchi, che gli dava un minimo di conforto,
perché molto simile a quello che percepiva ogni volta che
entrava nella grande e austera biblioteca di villa Hayes.
«Mi…
mi scusi…» aveva balbettato il giovane.
«Che vuoi,
ragazzo?»
aveva tuonato il vecchio, facendo sobbalzare ancora una volta Saga.
«Qui non c’è nulla per te. Vattene e non
farmi
perdere tempo! Il negozio è chiuso!» aveva detto
minaccioso, muovendosi verso il retrobottega. «Chiuso per
sempre…» aveva poi mormorato.
Il vecchio era sicuro di
aver
spaventato a sufficienza quel ragazzotto tutto tremante, che sarebbe
scappato a gambe levate e non lo avrebbe più importunato.
«Io,
veramente…»
Saga aveva detto, facendo un gran respiro, «sono venuto
per… ecco…» Stava provando ad
articolare qualche
parola di spiegazione, ma lo sguardo severo dell’uomo lo
metteva
in grande soggezione.
«Smettila di
balbettare e
vattene! Non ho tempo da perdere dietro un moccioso come te. Ho del
lavoro da finire», gli aveva urlato senza più
guardarlo,
sparendo dietro una tendina a frange dal colore sbiadito.
Quando aveva sentito di
nuovo lo
scampanellio, l'uomo aveva accennato un sorriso. La calma e il silenzio
che erano tornati nel suo negozio lo avevano indotto a calare la
maschera del burbero, per tornare alla sua tristezza. Si era
riaffacciato nel locale principale, sicuro di non trovarci nessuno;
invece, con suo grande disappunto quel giovane era ancora
lì, in
piedi di fronte a un piccolo espositore semi nascosto in un angolo,
completamente imbambolato.
Saga era infatti rimasto
incantato da
ciò che conteneva. Davanti ai suoi occhi vi erano tanti tipi
di
carte, diverse le une dalle altre, ordinate con estrema cura. Alcune
erano sottili come la velina, altre spesse e grezze. Colorate di tante
tinte e sfumature, dalle più tenui a quelle più
accese e
appariscenti; lisce, o con piccoli elementi al loro interno, che le
rendevano uniche. Lì vicino c’era una vetrinetta
semi
coperta da un panno e molto impolverata; al suo interno vi erano
piccoli tesori: scatoline e oggetti vari, tutti creati con quelle
meravigliose carte. Aveva spostato il telo per guardare meglio; il
vetro scorrevole della vetrina era rimasto un poco aperto. Ne aveva
sfiorato la superficie lasciandovi l’impronta delle dita
nella
polvere. Poi, aveva scostato il vetro abbastanza per infilarci la mano.
«Togli quelle
tue manacce e
stai lontano da lì!» lo aveva minacciato il
vecchio,
avvicinandosi a lui con furia e incenerendolo con lo sguardo.
«Nessuno deve neanche solo sfiorare con lo sguardo quelle
cose», aveva tuonato ancora.
Le sue parole erano
intrise di
rabbia, odio e dolore. Aveva fatto sobbalzare il ragazzo e spaventare a
tal punto che nel girarsi aveva urtato contro uno scaffale e, nel
seguente impatto, erano caduti a terra diversi oggetti. Anche il
pacchetto che teneva gelosamente con sé gli era scivolato
dalle
mani tremanti, picchiando di punta sul pavimento, aprendosi e mostrando
un vecchio libro. Gli occhi di Saga si erano riempiti di lacrime per
quello spavento subìto. Aveva iniziato a respirare con
grande
affanno, stringendosi nelle spalle e cercando di trattenere i
singhiozzi. Non era abituato a vivere situazioni simili, non era
abituato ad essere aggredito in quel modo, lui che da sempre era stato
protetto da tutto e da tutti, coccolato, assecondato, trattato con
estremo riguardo. L’espressione sul suo viso imberbe era
terrorizzata. A dispetto del suo fisico, alto e atletico, sembrava
tanto fragile e indifeso in quel momento, proprio come un bambino che
aveva paura della sua stessa ombra.
«Mi dispiace,
ragazzo.»
L’uomo gli si
era avvicinato
con cautela, per non spaventarlo ulteriormente, vedendo come il giovane
aveva abbassato lo sguardo, rannicchiandosi sempre di più.
Si
era chinato con fatica, tenendosi con una mano la schiena dolorante e
piena di acciacchi, e aveva raccolto quel libro da terra, dandogli
un’occhiata.
«Eri venuto
per questo?»
gli aveva domandato, provando ad addolcire la voce ancora burbera.
«È un libro raro e prezioso. Una prima edizione di
“Uno yankee alla corte di re Artù”,
autografata da
Samuel Clemens.» Ne aveva sfogliato qualche pagina,
borbottando
nel notare che vi erano molti appunti scritti a mano sui margini delle
pagine. Non erano scritte qualunque, ma dell'autore stesso.
«La
copertina si è danneggiata ancora di più con la
caduta.
Immagino che tu l'abbia preso senza permesso. Hai voluto leggerlo e lo
hai rovinato.» Aveva sospirato, chiudendo il libro con cura.
«È un vero peccato. Sono proprio queste note a
margine che
lo rendono un pezzo davvero unico e di grande valore.»
Il vecchio aveva alzato
lo sguardo su
Saga che se ne stava tutto rigido e tremante contro lo scaffale, con
un’espressione tanto mortificata che all’uomo si
era
stretto il cuore.
«Vieni con
me», gli aveva
detto, prendendolo per il braccio. «Ci vorrà molto
lavoro,
ma lo rimetterò in sesto.»
Quel ragazzo gli aveva
fatto una
strana impressione: il maglione che indossava era di una scuola privata
molto prestigiosa di Boston, i pantaloni e le scarpe erano su misura,
si vedeva a occhio nudo, e il libro danneggiato aveva un valore che si
aggirava attorno ai sette-ottomila dollari, forse anche di
più,
in condizioni migliori. Apparteneva quindi a una famiglia benestante, o
forse addirittura ricca, eppure quel ragazzo non ostentava le sue
origini come un bulletto arrogante.
Con un gesto inusuale
per lui, il
vecchio aveva fatto accomodare Saga nel salotto di casa sua, un
appartamento più che dignitoso sopra il negozio, e gli aveva
messo davanti una tazza di caffè fumante.
«Bevi che ti
farà bene», lo aveva incoraggiato.
Saga aveva annuito
debolmente e si
era passato una mano sugli occhi per asciugare le prime lacrime che si
erano formate; poi aveva preso la tazza e aveva iniziato a sorseggiare
piano.
«Non era mia
intenzione
spaventarti in quel modo, ma vedi, quelli che volevi toccare sono
oggetti molto importanti per me. Sono l’ultimo ricordo che mi
è rimasto della mia unica nipotina, con la quale condividevo
questa attività. Era tutto ciò che
avevo…»
aveva sussurrato con gli occhi lucidi.
Ora quel vecchio non
sembrava
più così spaventoso agli occhi di Saga e, grazie
a
quell’ambiente più familiare e alla bevanda calda,
aromatizzata alla cannella, che lui non aveva mai assaggiato servita in
quel modo, aveva iniziato a rasserenarsi.
«Quanti anni
hai, ragazzo?» gli aveva chiesto il vecchio.
«Diciassette e
mezzo», aveva risposto con imbarazzo Saga.
«Sei un
po’ troppo grande
per piangere come un bambino», aveva commentato
l’uomo,
prendendo il mezzo sigaro e l’accendino che teneva nel
taschino
della camicia e accendendolo con un paio di colpi di fiamma, sbuffando
poi nell’aria un fumo molto denso.
«La mia Mina
avrebbe avuto più o meno la tua stessa
età.»
Il vecchio Josh,
così si
chiamava, era uno dei pochissimi cartai artigianali, se non
l’unico, che erano rimasti in attività
nell’intero
Stato. Era però famoso soprattutto per il suo lavoro di
restauratore. Negli anni passati, molte persone facoltose ed enti
rinomati si erano rivolti a lui per le sue abilità. Il
lavoro
non gli era mai mancato, così come la gioia e la passione
che
infondeva in ciò che faceva; ma, dopo la morte prematura
della
sua nipotina Mina, avvenuta quasi dieci anni prima assieme ai suoi
genitori, mentre facevano una gita nei cieli del Messico con un piccolo
aereo da turismo, non aveva più voluto saperne di niente.
Aveva
chiuso la bottega, rifiutato altri lavori importanti; persino uscire di
casa lo faceva solo perché costretto.
«Per quel
libro…»
aveva ripreso, «ci vorrà almeno una settimana, ma
dovresti
parlarne con tuo padre e raccontargli del danno.»
Saga aveva scrollato la
testa, continuando a fissare l’uomo.
«Il libro
è mio. Era un
regalo», gli aveva risposto con naturalezza, sorseggiando
ancora
un po’ di caffè. «Ma l’ho
rotto perché
ero arrabbiato; e ora mi dispiace averlo fatto», aveva dovuto
ammettere, abbassato di nuovo lo sguardo.
«Allora
sarà anche tua
responsabilità riparare al danno», lo aveva
rimproverato
con asprezza il vecchio, che era tornato a guardarlo con rinnovata
severità.
Saga indugiò ancora un po’ sulla porta del
negozio,
appoggiandosi con la testa allo stipite in alluminio, chiudendo gli
occhi e incurvando le labbra in un sorriso. Nella sua mente si erano
fatti così nitidi quei ricordi nostalgici. Si era rivisto
lì ancora ragazzino, spaurito e tremante, che aveva
affrontato
un orco, tanto burbero e spaventoso, quanto buono e generoso. Quello
era stato un giorno pesante per lui, pieno di paura e lacrime, che
aveva poi sfogato al sicuro nella sua camera da letto, una volta
tornato a casa. Josh gli aveva detto che avrebbe dovuto porre rimedio
al danno fatto, ma non si era aspettato che lo avrebbe dovuto fare con
le sue stesse mani, imponendogli di presentarsi da lui due volte a
settimana, dopo la scuola. Aveva iniziato a insegnargli l’abc
di
quel lavoro, facendolo esercitare su libri economici e quaderni,
passando poi a qualcosa di maggior valore.
Erano passati quasi dieci anni da quando aveva messo piede per la prima
volta in quella bottega e tutto, negli anni, era rimasto esattamente
come a quel tempo. Perché il vecchio Josh voleva mantenere
inalterato il ricordo della sua nipotina e Saga ora voleva mantenere il
ricordo del suo maestro. Aveva trascorso tanti altri pomeriggi con quel
vechio artigiano, anche oltre il tempo del restauro del suo libro. Di
settimana in settimana si erano fatti i mesi; di mese in mese si erano
fatti gli anni. E tutto quel tempo lo aveva passato ad ammirare
l’artista, a imparare le sue tecniche e i suoi segreti; ad
apprendere e far sue la pazienza e la devozione per
quell’arte
tanto antica che ormai quasi nessuno condivideva, fino a ereditarlo,
quel mestiere. Avrebbe voluto apprendere ancora tante cose da Josh, che
aveva imparato ad amare come un nonno – e l’altro,
in
quegli anni, l’aveva a sua volta amato come un vero nipote
– ma il vecchio era malato da tempo e alla sua morte, non
avendo
altri parenti in vita, gli aveva lasciato tutto quello che possedeva:
la bottega e l'appartamento con tutto quel che c'era dentro.
E allora Saga ne aveva fatto un luogo tutto suo, dove essere qualcuno
di diverso da ciò che era abituato a essere, dove poteva
essere
semplicemente Saga.
Diede uno sguardo all’ora sul cellulare: erano solamente le
cinque del pomeriggio, c’era tutto il tempo di tornare alla
villa
di Mystic Lake e riprendere il suo ruolo di rampollo della famiglia
Hayes. Con l’alibi che gli aveva fornito Aiolia aveva a
disposizione ancora due ore di libertà assoluta. Poteva
quindi
permettersi di portare di persona, alla scuola elementare del
quartiere, quella pesante busta piena di libri, tornare indietro per
cambiarsi e prendere l’autobus per Winchester.
Sbadigliò, coprendosi la bocca con la mano e si
massaggiò il collo e le spalle che sentiva intorpidite.
*****
Con la testa fra le nuvole, le spalle ancora indolenzite e le mani
nelle tasche dei jeans, scoloriti e consunti, Saga stava tornando
pigramente verso il negozio dopo la sua commissione. Si guardava
attorno in modo un po' distratto, osservando le vetrine dei negozi, i
portoni delle case, dei ragazzini seduti sui gradini
d’ingresso
di un palazzo dall'altro lato della strada. Si sentiva sereno. Chiuse
gli occhi, continuando a camminare, concentrandosi su quello che
sentiva in sottofondo. Di tanto in tanto muoveva la testa, forse per
identificare meglio un rumore. Li riaprì dopo qualche minuto
e
tutto gli sembrò diverso. Spostò lo sguardo verso
il
cielo, dove lentamente il sole stava sparendo oltre l'orizzonte. Quel
giorno il tramonto era uno vero spettacolo.
Sorrise. La sua vita era senza preoccupazioni, né problemi,
o
affanni. Così sarebbe dovuto essere per tutti, invece spesso
vedeva la gente correre qua e là, fare i salti mortali per
sbarcare il lunario, contrattare per avere uno sconto su un prezzo
già scontato, litigare per un nonnulla perché
troppo
stressata.
Girò di scatto la testa per l'improvviso latrato di un cane
randagio, al quale era seguito un gran frastuono metallico e il
miagolio isterico di un gatto. I versi venivano da un vicolo, qualche
metro più avanti rispetto a lui. Quella disputa lo stava
incuriosendo. Attraversò di corsa la carreggiata e si
fermò di fronte al vicolo. Era buio. L'unico lampione
presente
non era ancora acceso e gli ultimi raggi di sole non arrivavano
già più. Fece qualche passo in avanti: il gatto
gli
soffiò contro, inarcando la schiena, prima di saltare dal
cassonetto chiuso a una sporgenza del muro e, di slancio, arrivare al
primo pianerottolo della scala antincendio, entrando nell'appartamento
dalla finestra lasciata un poco aperta.
Saga seguì i suoi movimenti con curiosità e
ammirazione,
domandandosi come potesse avere così tanta
agilità un
gatto che era menomato a una delle zampe posteriori. Poi,
gettò
uno sguardo lì vicino e, nello spazio fra i due cassonetti,
notò alcuni scatoloni pieni di libri, buttati malamente. Si
accovacciò e iniziò a studiarli uno per uno. Ce
n’erano davvero tanti e di tutti i generi; si dispiacque nel
vederli trattati come semplice spazzatura. Il vecchio Josh gli aveva
insegnato a trattarli con riguardo e a considerarli tutti come dei
tesori, dal più raro al più comune, ma gli aveva
insegnato anche a distinguere fra quelli recuperabili e quelli invece
che purtroppo dovevano terminare la propria vita al macero.
«Che gran peccato buttare via tutti questi libri.»
Si passò il dorso della mano sulla fronte sudata, spostando
i
capelli e riportandoli sotto la bandana che teneva legata in testa. In
quasi venti minuti che era lì, aveva già fatto
una
catasta voluminosa che voleva portarsi via.
«Un paio di settimane di lavoro, forse qualcosa di
più, e
tutti questi torneranno quasi come nuovi. Potrebbero rimpinguare la
biblioteca del centro giovanile della chiesa»,
commentò
tutto soddisfatto, passandosi ancora una volta la mano sul volto e
aggiungendo nel frattempo altri due libri.
Si spostò un poco verso destra, per meglio arrivare
all'ultimo
scatolone, che era più nascosto. Con il piede
urtò il
mucchietto che si era preparato; questo crollò di lato
andando a
colpire un barattolo di metallo che a sua volta rotolò in
mezzo
al vicolo. Non si scompose più di tanto e tornò a
rovistare nell'immondizia.
«Ehi, tu! Cosa stai facendo?» urlò una
voce
femminile. La giovane fece qualche passo nel vicolo e si
fermò
per osservare meglio.
Da dove si trovava, non riusciva a distinguere bene, ma era comunque
certa di aver intravisto qualcuno rannicchiato fra i cassonetti.
Aguzzò la vista e riuscì a distinguere qualcosa
di colore
chiaro, forse una schiena. Per un attimo trattenne il respiro,
riflettendo che si stava immischiando in una situazione potenzialmente
pericolosa: se fosse stato davvero un malintenzionato come avrebbe
reagito?
Nel sacchetto che reggeva nella mano sinistra c’erano un
martello
e un paio di cacciaviti che aveva appena acquistato e che avrebbe
potuto usare come armi di difesa. Ma se invece fosse stato solo un
animale randagio... quanto si sarebbe sentita sciocca
nell’andare
nel panico?
Si decise comunque a fare ancora qualche passo nel vicolo.
Saga si girò di scatto nella direzione di quella voce. Perse
l’equilibrio e, nel cadere a terra, urtò altri
libri,
mentre con il piede colpì involontariamente una bottiglia di
birra vuota, che rotolò verso la giovane, facendola
sobbalzare
per il rumore.
In quel momento i loro sguardi si incrociarono. Gli occhi di Saga si
spalancarono di sorpresa e subito si sentì avvampare di
vergogna, come un ragazzino colto con le mani nella marmellata.
Strizzò gli occhi per mettere a fuoco quella figura che
vedeva
solo come una sagoma scura che si trovava in controluce.
Anche Cora rimase sorpresa, anche se non per lo stesso motivo. Si
aspettava di vedere un derelitto alcolizzato, o uno sbandato dallo
sguardo truce e dal viso sfregiato che sarebbe fuggito via una volta
beccato in flagrante. Invece... si ritrovò davanti a
sé
un giovane che, nonostante la miseria della condizione in cui si
mostrava, dava l'idea di essere innocuo e, doveva ammettere con molto
imbarazzo, anche carino. Si diede della stupida per quel pensiero
così frivolo, mentre le sue gambe la portavano passo dopo
passo
vicino a lui.
Sembrava un senzatetto, con il viso a sporco di grasso, polvere e
sudore. Eppure, nonostante la trascuratezza dei suoi abiti, non pareva
affatto esserlo da troppo tempo.
Cora abbassò lo sguardo, pentendosi di essersi intromessa e
di
averlo pescato in quella situazione sicuramente umiliante.
Rimuginò fra sé per alcuni secondi. Poi,
appoggiò
a terra uno dei sacchetti e si frugò in tasca, osservando
dubbiosa ciò che aveva in mano. Il suo istinto le suggeriva
di
riprendere la strada e farsi gli affari propri: non valeva la pena
andare a cercarsi guai, soprattutto in quel momento tanto precario
della sua vita e non dopo la brutta avventura occorsale nella
metropolitana a Philadelphia. Alzò di nuovo lo sguardo su
quel
ragazzo, vestito con jeans sporchi e un maglione sformato altrettanto
sporco, appoggiato con la schiena al cassonetto, che la fissava
stranito. Non le dava l'impressione di essere pericoloso. E
ciò
che aveva in mente di fare sarebbe stato solo un piccolo gesto, tanto
era sicura che non lo avrebbe più incontrato. Si
avvicinò
di più a lui, fermandosi a un passo di distanza, pronta a
scappare all’occorrenza. Lo guardò di nuovo: a
quella
distanza poteva scrutare meglio i suoi occhi, ancora belli e pieni di
voglia di vivere; e il suo viso, sporco ma ben rasato.
Allungò
la mano e, trattenendo il respiro, gli offrì una banconota
da
cinque dollari.
«Tieni, prendili!» disse, insistendo anche con un
leggero
movimento del braccio. «Però non spenderli in
alcolici o
droghe, ma comprati qualcosa di decente da mangiare: un panino, un hot
dog…»
Dopo avergli lasciato i soldi in mano, piena di imbarazzo, si
allontanò subito da lui, riprendendo il sacchetto e uscendo
dal
vicolo quasi di corsa, mentre il giovane rimase di stucco e con il
medesimo imbarazzo sul volto.
Cora non percorse che poche decine di metri, camminando a testa bassa e
continuando a ripensare a quello strano incontro. Non riusciva a
credere a come si fosse comportata. «Che cosa ti è
saltato
in mente? Non hai imparato proprio niente dall’ultima
volta!» si rimproverò ad alta voce, guadagnandosi
le
occhiate sospettose di alcuni passanti.
Si fermò di colpo, in mezzo al marciapiede, voltandosi
indietro
verso quel vicolo. Nonostante i legittimi rimproveri che si stava
facendo, in fondo non si era pentita di ciò che aveva fatto.
L’impressione che gli era arrivata da quel ragazzo era stata
tutt’altro che brutta. Si morse un labbro, continuando a
fissare
l'entrata del vicolo che ancora si poteva riconoscere. Poi, di gran
carriera tornò sui suoi passi e si stupì di
trovare il
ragazzo ancora lì, seduto contro il cassonetto e con le
ginocchia raccolte al petto. Lo osservò, un poco nascosta
dall’angolo del palazzo: le sembrava triste.
Aggrottò la
fronte, pensando di averlo offeso.
«Mi rendo conto che non è molto quello che ti ho
offerto e
che tu probabilmente avresti bisogno di ben altro», gli
disse,
presentandosi di nuovo di fronte a lui, facendogli alzare lo sguardo
ancora inebetito. «Mi dispiace», si
scusò con tono
sincero. Fece l'errore di fissarlo di nuovo negli occhi: erano
così limpidi, dolci e malinconici allo stesso tempo; il suo
cuore iniziò a battere più forte.
«Anch'io sono a
corto di soldi in questi giorni. Devo… devo tirare avanti
fino
al primo del mese…» balbettò con grande
imbarazzo.
Anche Cora, a una prima occhiata, non si presentava poi tanto
diversamente da lui, che era stato sorpreso a rovistare
nell’immondizia. Vestiva una salopette di jeans sporca di
vernice, sopra una felpa grigia in jersey con i bordi tagliuzzati e
delle vecchie scarpe da ginnastica.
«Però, ecco… questa posso dartela,
così
avrai qualcosa da bere», disse, prendendo da uno dei
sacchetti
della spesa una bottiglietta d’acqua e porgendogliela senza
aggiungere altro.
«Grazie», rispose Saga, riuscendo a malapena a
celare
l’incertezza nella sua voce. Abbassò un poco la
testa, per
nascondere gli occhi che stavano diventando lucidi.
«Ti ho offeso ancora? Mi dispiace, non era mia
intenzione»,
si scusò di nuovo la ragazza, con un filo di voce.
«Sono
una perfetta idiota. Perdonami, ti prego. Ritiro la mia
offerta!»
si affrettò a dire, raggiungendo un livello di imbarazzo
tale
che non riusciva più a ragionare.
«No! Per favore.»
Saga trattenne con inaspettato vigore quella bottiglietta, sfiorando
con le dita la mano della ragazza, che subito lasciò la
presa,
come spaventata. Era stato un attimo tanto fuggevole che lui non era
sicuro di cosa avesse provato, ma quel breve contatto lo aveva scosso.
«L’accetto volentieri», le rispose con un
timido sorriso di gratitudine.
*****
Saga percorse la strada verso il negozio totalmente in trance,
dimenticandosi persino dei libri che voleva portarsi via. Si fece una
lunga doccia calda, per togliersi tutta la sporcizia di dosso, ma quel
torpore, quelle strane sensazioni che aveva provato in quel vicolo,
erano ancora lì. Anzi, se possibile, si sentiva ancora
più stordito di prima. Per diverso tempo rimase poi seduto
al
tavolo da pranzo con lo sguardo perso nel vuoto; il cellulare,
lì a portata di mano, continuava imperterrito a suonare e a
vibrare. Meccanicamente lo prendeva e rifiutava la chiamata, oppure
lasciava che si inserisse la segreteria telefonica.
Sospirò, appoggiando la fronte al tavolo. Se anche avesse
risposto a qualcuna di quelle chiamate, di certo non avrebbe afferrato
la metà di quello che gli sarebbe stato detto.
Continuò a
rimuginare su quanto gli era successo quel pomeriggio. Non riusciva a
darsi una spiegazione. Era la cosa più assurda che avesse
mai
vissuto in tutta la sua vita. Alzò la testa e
fissò di
nuovo quei cinque dollari tutti spiegazzati. Poi sospirò e
si
riappoggiò al tavolo.
«Scambiato per un accattone.»
Non riusciva a capacitarsene: era stato fatto oggetto di elemosina e
compatimento. Lui, che apparteneva a una delle famiglie più
ricche di Boston. Si passò la mano sugli occhi e per un
secondo
sorrise: se fosse accaduto a suo fratello Kenneth... di certo avrebbe
reagito con un sorriso e si sarebbe intascato i soldi con tanto di
ringraziamenti.
«Basta! È inutile!» esclamò,
battendo la mano sul tavolo e alzandosi di scatto.
Uscì dall’appartamento in tutta fretta e le idee
ancora più confuse di prima.
Il fresco della sera gli provocò un brivido.
D’istinto si
srotolò le maniche della camicia, tirando giù
anche
quelle del maglione, stringendosi poi nelle spalle e sfregandosi
più volte le braccia infreddolite. Avrebbe dovuto prevedere
una
differenza di temperatura di quel genere, visto il periodo, ma quella
giornata era stata così particolarmente calda che non
sembrava
affatto di essere appena a metà marzo. Con la sera
però,
tutto era tornato nella norma e ora rimpiangeva di aver lasciato a casa
il cappotto. Si appuntò mentalmente di tenerne uno anche
nell'appartamento sopra il negozio, per non incorrere più in
futuro nello stesso errore.
Si incamminò sul marciapiede, le mani ben ficcate nelle
tasche
dei jeans, la testa bassa e incassata nelle spalle. La sua mente
continuava a tornare a quel pomeriggio, a quell’incontro, a
quella ragazza. Non stava guardando in quale direzione stava
procedendo, ma se avesse prestato attenzione si sarebbe accorto di aver
preso la strada sbagliata, opposta a quella che portava alla fermata
dell'autobus. Ma forse... forse, tutto sommato, aveva preso quella
giusta.
Ancora una volta, Cora ritornò sui suoi passi. Quella
giornata
bizzarra sembrava non voler proprio finire, così come i guai
che
si era andata a cercare. Le braccia iniziavano a farle male: quelle due
borse della spesa se le stava trascinando da tutto il pomeriggio. Di
tanto in tanto si affacciava nella sua mente il pensiero che la sua
spesa probabilmente non avrebbe visto il frigorifero ma sarebbe finita
direttamente nel cassonetto dei rifiuti, se non si fosse sbrigata a
rientrare a casa. Ma come poteva farlo se non trovava più le
chiavi?
Se n'era accorta solo una volta arrivata davanti al portone della
palazzina. Aveva citofonato con molta insistenza a Dohko, per
chiedergli aiuto e un duplicato delle chiavi, ma non aveva risposto
nessuno. Era persino andata al ristorante cinese e aveva parlato con la
nipote, ma anche lei non le era stata un granché d'aiuto.
«Ma proprio oggi doveva sparire quel vecchio?»
borbottò, stanca, demoralizzata e arrabbiata con se stessa.
L'unica cosa che poteva fare era ripercorrere a ritroso la strada che
aveva fatto quel giorno: tornare nei negozi dove si era fermata per gli
acquisti, fare di nuovo una sosta alla caffetteria con l'internet point
dove nel primo pomeriggio si era rilassata un paio di ore, cercare fra
gli scaffali della piccola libreria dove aveva guardato alcuni manuali.
Quel vicolo buio era l'ultimo luogo in cui era stata, prima di tornare
dritta a casa: era la sua ultima spiaggia!
Teneva lo sguardo fisso per terra, mentre camminava a piccoli passi.
Cominciava a sentire un certo bruciore agli occhi e la vista iniziava a
diventare sfocata, per il troppo insistere nella sua ricerca. Non
voleva lasciarsi sfuggire neanche un centimetro di asfalto e, con la
luce fioca del lampione, sembrava un'impresa impossibile. Era
concentrata al massimo, con le difese completamente abbassate. La sua
preoccupazione maggiore era quella di rimanere all'addiaccio, senza
soldi e con il cellulare con la batteria quasi morta.
Con la sera che era ormai calata, il vicolo era diventato
più
tetro e spaventoso. Il rumore sordo delle ventole di aspirazione che
andavano a tutto spiano, lo rendevano spettrale; gli sgocciolii delle
grondaie lo popolavano di presenze inquietanti, i toc sull'asfalto
sembravano i passi di predatori notturni. A ogni rientranza poteva
celarsi un pericolo: un barbone matto, un tossico in cerca di soldi per
una dose, un maniaco che aspettava la sua prossima vittima, o una
prostitura al lavoro, sorvegliata dal suo protettore. Ogni rumore fuori
posto poteva indicare una possibile minaccia. Chiunque poteva attendere
fra le ombre di quel passaggio tenebroso, osservando con occhi avidi e
rapaci l'ignara e incosapevole vittima. E Cora, in quel momento, era la
più facile delle prede.
Saga camminò a lungo, sempre con la testa fra le nuvole, e
quando tornò alla realtà si ritrovò
nello stesso
luogo di quell'incontro che lo aveva turbato tanto. Era stato come se
una mano invisibile lo avesse accompagnare lì per concludere
una
questione rimasta in sospeso. Si grattò la testa, osservando
quella specie di antro inospitale. Era ormai tardi per recuperare i
libri che si era lasciato indietro. Sbuffò, non gli piaceva
quel
luogo. Era pronto a girare sui tacchi e cercare un taxi che lo
riportasse a Winchester; ma, per un breve istante, gli parve di
intravedere la stessa ragazza di quel pomeriggio aggirarsi nel vicolo a
testa bassa. Le sue labbra si piegarono in un sorriso, mentre
continuava a seguire i suoi movimenti. Non sapeva spiegarsene il motivo
ma gli faceva tenerezza. Allo stesso tempo però, sentiva dei
brividi gelidi salirgli lentamente su per la schiena.
Era quel vicolo.
Gli stava mettendo addosso una strana angoscia. Per qualche secondo si
tormentò il labbro, indeciso sul da farsi. Poi, dopo un
respiro
profondo, si immerse in quell'oscurità umida e sporca.
«Scusa il ritardo!» le disse con voce dolce e
decisa,
tagliando il nervoso silenzio che aleggiava nel vicolo. Le
arrivò velocemente vicino e la strinse a sé.
«È tanto che aspetti?»
«Cos…»
Nel sentirsi bloccata, Cora si girò di scatto ma non ebbe
neanche il tempo per terminare la prima parola che fu baciata
all’improvviso. Era stato lieve, fugace, un semplice
sfiorarsi di
labbra, ma tanto bastò per farla arrossire e quasi
sciogliersi.
Completamente inebetita, si lasciò trascinare via dal
ragazzo
senza reagire.
«Vieni, andiamo a casa», le disse, prendendole
entrambe le
borse della spesa con una mano, mentre con l'altra afferrò
la
sua.
Si incamminarono velocemente fuori dal vicolo: quei brividi erano
tornati a solleticargli le ossa, facendogli sperimentare
un'inquietudine mai provata prima. Girarono subito a destra, procedendo
sempre dritti e a passo sostenuto per un lungo tratto. Passaro cinque
minuti, forse dieci. Di tanto in tanto sentiva un poco di resistenza,
ma non se ne preoccupò. Poi, gradualmente,
rallentò
l'andatura. L'urgenza di prima era scomparsa, lasciando posto a uno
strano formicolio allo stomaco.
Erano sempre mano nella mano e Cora, quella stretta, la sentiva calda e
rassicurante, ma anche gentile e decisa. Sulle labbra aveva ancora la
sensazione del bacio e più ci pensava, più il
cuore le
batteva forte nel petto. Si stava lasciando trascinare senza capire
cosa stesse succedendo. Poi, qualcosa la risvegliò.
«Ehi! Aspetta un attimo, ma tu chi sei?»
domandò,
provando a strattonare la mano, sentendo la presa di quel giovane farsi
più debole. Una volta libera, si fermò
lì, in
mezzo al marciapiede, con la gente che camminava di fianco a loro due,
volgendo lo sguardo quasi indifferente.
«Cosa succede?» domandò Saga, girandosi
verso di lei.
«Come sarebbe a dire “cosa succede”? Mi
hai baciata e
trascinata per strada con te e non so neanche chi diavolo
sei!»
ribatté lei tutto d’un fiato, arrossendo sotto lo
sguardo
dolce e genuino dello sconosciuto. «E poi… non so
neanche
dove mi stai portando!»
«A dire il vero pensavo che tu sapessi dove andare. Stavo
assecondando i tuoi passi», disse, alzando le spalle. Era
stata
una risposta tanto ingenua e lui aveva un’espressione tanto
angelica sul suo viso pulito, che Cora non trovò motivi di
dubitare della sua sincerità. «Dai, continuiamo a
camminare», le propose, con un sorriso luminoso, offrendole
di
nuovo la mano.
Cora tentennò, osservando il palmo della sua mano.
Rammentava la
sensazione che aveva provato pochi istanti prima: una stretta calda,
morbida, rassicurante… poi alzò lo sguardo su
quegli
occhi verdi, limpidi, profondi, che le trasmettevano un senso di
sicurezza, che la persuadevano a dargli completa fiducia. Sensazioni
che sapeva di aver già provato. «Sei…
sei il
barbone di questo pomeriggio?» le scappò dalla
bocca.
All'improvviso si sentì una sciocca e maleducata. Si morse
il
labbro abbassando gli occhi, dispiaciuta per quelle sue parole,
aspettando che l'altro le rispondesse per le rime. Invece da lui non
arrivò alcun reazione negativa.
Saga sorrise imbarazzato. Le tese di nuovo la mano, proponendole ancora
una volta di proseguire verso casa.
«A dire il vero era... due portoni più
indietro»,
disse Cora, indicando con il dito nella direzione opposta a quella in
cui stavano andando. «Ma non posso tornare a casa.
Ho… ho
perso le chiavi», ammise con vergogna.
«Capisco. È per questo che eri tornata in quel
vicolo?
È forse per colpa mia se le hai perse?» le
domandò
Saga, visibilmente dispiaciuto. «Hai già provato a
ripercorrere ogni strada che hai fatto oggi?» chiese ancora,
ricevendo un cenno affermativo. «E, hai provato a controllare
anche qui dentro?» le chiese, indicando i sacchetti che aveva
in
mano. «Forse, quando… beh, sì insomma,
potrebbero
esserti cadute qui, quando ti sei frugata in tasca questo
pomeriggio.»
Cora sgranò gli occhi. Sembrava una possibilità
troppo
ovvia, che lei l'aveva scartata senza neanche pensarci. E in quel
momento si diede mentalmente della sciocca. Fissò quei
sacchetti
per diversi secondi. Che figura ci avrebbe fatto se davvero le avesse
trovate lì dentro?
«Vogliamo darci un'occhiata?» le propose lui. Saga
li
posò a terra ed entrambi si accovacciarono, scrutando per
qualche momento ancora quei due sacchetti di pastica.
Cora ne avvicinò uno a sé e iniziò a
frugare al
suo interno. Con la mano toccò, tastò,
girò
attorno alla confezione di biscotti, spostò la scatola di
tonno,
ribaltò i kleenex, andò sotto il pacchetto di
wafer alla
vaniglia. Fu in quel momento che le sembrò di aver sfiorato
qualcosa di metallico. Con la punta delle dita lo toccò con
maggiore insistenza, di più non riuscì a fare a
meno di
svuotare il sacchetto. Provò diverse volte; poi, con la
punta
delle dita, riuscì ad afferrare l'anello del portachiavi,
sfilandolo da sotto un'altra scatola che non riuscì a
riconoscere. Alzò lo sguardo sul ragazzo. Era consapevole di
essere arrossita, mentre stringeva nella mano le chiavi di casa. Lui le
stava sorridendo e questo fece crescere in lei ancora più
imbarazzo.
«Eccole qui», mormorò, tenendo le chiavi
strette nel pugno, abbassando lo sguardo.
«Sono felice per te», disse Saga. Annuì
e si
rialzò in piedi, porgendo la mano a Cora per aiutarla.
«Ti
accompagno, vuoi?»
«Ecco... ti andrebbe di... sì,
insomma...»
balbettò lei, la sua mano stretta in quella del ragazzo.
«Per ringraziarti del tuo aiuto, pensavo... posso offrirti un
caffè?»
La giovane saliva qualche gradino davanti a lui, non si
voltò
mai indietro mentre lo accompagnava su per le scale fino al suo
appartamento, nonostante la tentazione fosse forte. Si fermò
di
fronte alla porta, facendo un respiro profondo. Il cuore ancora le
batteva all'impazzata per il pericolo scampato. Non appena mise piede
in casa, tutta la tensione le scivolò via. Compì
i suoi
gesti consueti: buttò le chiavi nel piattino di legno
laccato
che aveva acquistato in un negozietto e che usava come svuota tasche,
le monetine di resto della spesa le inserì nel barattolo del
“fondo risparmio per le emergenze e i vizi vari”
che teneva
sul bancone della colazione; se avesse indossato il giaccone, a quel
punto lo avrebbe buttato sul divano. Infine si tolse le scarpe,
scansandole sotto lo sgabello. Si girò verso il suo ospite
– il viso imporporato a causa dell'aria della sera e gli
occhi
lucidi per la stanchezza –, gli sorrise timidamente e lo
ringraziò ancora una volta per la gentilezza, invitandolo ad
accomodarsi, intanto che prendeva le buste della spesa dalle sue mani e
le appoggiava in cucina, vicino al lavello.
Gli diede le spalle e iniziò a togliere le cose dai
sacchetti.
«Dovrai accontentarti di quello istantaneo. La macchina del
caffè non me la posso permettere per questo mese, ma fra
qualche
settimana, chissà!» gli disse. La
verità era che
non le era mai piaciuto molto il caffè, non quello che beve
ogni
buon americano che si rispetti. Avendo una madre italiana di nascita,
era stata abituata anche lei alla moka tradizionale. Tante cose le
preferiva “all'italiana”, come la pasta cucinata a
dovere;
e detestava i maccheroni al formaggio!
Aprì l’antina del pensile e si allungò
più
che poté, mettendosi anche sulle punte dei piedi, per
riuscire a
toccare con le dita il barattolo del caffè.
Sbuffò:
più cercava di prenderlo, più lo spingeva
indietro. Ci
provò con maggiore impegno, ma l'unico effetto che ne stava
ricavando era un bello stiramento al collo. All'improvviso
sentì
una presenza alle sue spalle; poi una lieve pressione sulla schiena e
una mano che, sfiorando la sua, afferrava il barattolo per lei. Era una
sensazione rassicurante.
Lui era rimasto lì, così a contatto, per diversi
secondi.
Cora si sentì poi cingere la vita. Alle sue narici
arrivò
un profumo discreto di muschio bianco che per un attimo la
inebriò.
Saga le passò il barattolo, rimanendo però ancora
a
contatto con il suo corpo. Cora trattenne il respiro: il suo cuore
iniziò a battere rapido, mentre stringeva al petto quel
barattolo di latta.
«Grazie», balbettò. «Siediti
pure, faccio in un attimo.»
Provò a calmarsi facendo qualche respiro profondo e
impegnando la mente con altri pensieri, ma con scarsi risultati.
Il ragazzo rimase in silenzio; le posò le mani sulle spalle
e,
con una carezza delicata, le spostò alcune ciocche di
capelli
castani dalla spalla sinistra, scoprendole il collo e appoggiandovi le
labbra in un bacio leggero.
«Cosa… cosa stai facendo?» chiese lei,
con voce incerta e rotta dal respiro che si stava facendo affannoso.
A fatica riuscì a girarsi e a guardarlo negli occhi. Quegli
occhi verdi avevano qualcosa di particolare, erano così
belli e
limpidi che l’avevano ammaliata fin da subito, in quel
vicolo, ma
ora... ora erano così vicini a lei.
Saga le sorrise. Le accarezzò la guancia e le diede un altro
bacio, sulla gota imporporata. Poi un altro ancora, breve e timido,
sulla bocca appena dischiusa.
«Il tuo invito prevedeva anche altro, vero?»
Pronunciò quella frase scioccante con una
serenità
disarmante e senza alcun pudore, come se fosse la cosa più
normale di questo mondo. Era una domanda alla quale non serviva una
risposta. L’aveva già trovata negli occhi languidi
di lei,
in quel suo viso stupito e al tempo stesso imbarazzato, nel suo respiro
irregolare e nel tambureggiare del suo cuore. E, per una strana
coincidenza, erano gli stessi sintomi che anche lui sentiva di provare.
«Mi piacerebbe fosse così», le
sussurrò,
baciandola ancora. Contemporaneamente le slacciò le bretelle
della salopette di jeans e le abbassò la pettorina,
spostando
poi le mani sui suoi fianchi.
Cora era alla completa mercé di quel ragazzo, ma era
piacevole.
No, non era stata quella la sua idea iniziale, non c’era
stato
nulla di allusivo in quel suo invito. Era solo un modo per sdebitarsi.
Non aveva pensato a un “dopo”. Si stava lasciando
andare
gradualmente, sentendo le labbra morbide di lui che le accarezzavano il
labbro inferiore e i suoi baci che sapevano di dentifricio alla menta.
Senza prestare attenzione appoggiò il barattolo del
caffè
sul piano di lavoro e chiuse gli occhi. Forse, intimamente,
l’aveva proposto per rispondere alle aspettative di quella
strana
attrazione che aveva sentito fin dal primo sguardo e che cresceva
sempre di più in lei.
Gli aveva forse dato l’impressione di essere una ragazza
facile?
Eppure si presentava quasi come un maschiaccio, sciatto e trasandato.
In quelle settimane non aveva avuto tempo per sistemare i vestiti,
né di mettere ordine fra le cose del make-up. Non aveva
pensato
a soddisfare il suo lato femminile: aveva dato la precedenza ad altro.
E lui… Lui era così bello e gentile, in quella
veste di
principe azzurro. Cora se ne accorse subito di quel suo carisma
delicato e protettivo, come quello di un angelo custode.
Chissà
quante altre ragazze erano cascate ai suoi piedi proprio come stava
accadendo a lei, ammaliate da quei suoi modi semplici e diretti.
Sentiva le sue mani che le stringevano i fianchi e la attiravano di
più verso di lui.
Saga le sbottonò il primo bottone da ambo i lati, tanto
bastò a far scivolare a terra la salopette. Poi, le
accarezzò le cosce, continuando a baciarla senza un attimo
di
respiro; ma erano baci lenti, piacevoli, quasi rispettosi. Con tocchi
gentili tornò sui suoi fianchi, la strinse un poco e, con
una
spinta, la fece sedere sul bordo del lavello. Era un momento
così sensuale e romantico.
Mancava solo una canzone d'amore come sottofondo e sarebbe stato ancora
più perfetto di quanto già non fosse. Lei sarebbe
stata
solamente l’ultima conquista in ordine di tempo di quel bel
giovane?
Non le importava.
Davvero il suo invito prevedeva altro?
Perché mentire ancora a se stessa: lo aveva desiderato. Lo
stava
desiderando. Ma desiderare non l’avrebbe fatta sembrare una
ragazza facile. Ora invece non riusciva più a trattenere
quel
desiderio. Gli accarezzò il volto in una pausa da quei baci;
insinuò le dita fra quei capelli biondi, morbidi e setosi,
lavati di fresco, e lo guardò negli occhi, mentre i loro
respiri
si mescolavano. Poi, lo baciò, con passione, con voglia, con
desiderio ed eccitazione. Gli tolse il maglione, lasciandolo cadere a
terra, gli sbottonò la camicia e gli accarezzò il
petto
nudo. Si guardarono negli occhi per qualche secondo, ansimando un poco.
Lui le sorrise; lei sospirò a quella diabolica tentazione
travestita da angelo. Lo sapeva, lo sentiva. Era un’altra
ragazza
nelle sua collezione, non poteva essere altrimenti, ma in quel momento
si sentiva così bene da dimenticare la solitudine di quel
suo
nuovo principio.
Saga l'attirò a sé, facendosi cingere la vita
dalle cosce
di lei e facendo aderire i loro corpi. Riprese a baciarla,
accarezzandole la schiena e insinuando le mani sotto la felpa. Le sue
dita erano calde, il suo tocco delicato come la carezza di una piuma.
Le fece alzare le braccia e gliela sfilò, lasciandola
solamente
con l’intimo. Poi la guardò ancora.
«In camera da letto», sussurrò lei.
*****
Quella mattina sembrava proprio non volerne sapere di dormire ancora un
po’, né di alzarsi da quel letto. Dalle tende
tirate si
diffondeva una fastidiosa luce rossastra, invadente e molesta. Cora
aprì gli occhi a fatica, cercando di mettere a fuoco la
vista.
Poco prima le era sembrato di aver sentito un soffio lieve sulla
guancia, poi il letto oscillare un poco e quasi di scorgere, da sotto
le palpebre chiuse, un’ombra attraversare quella
luminosità. Era stata solo un’impressione, non
poteva
esserci nessuno. Si girò lentamente e guardò
l’ora
sul display della radiosveglia: le sette e un quarto. Era ancora
decisamente troppo presto per lei. Richiuse gli occhi, strizzandoli e
affondando il viso nel cuscino, mugugnando. Si avvolse ancora
più stretta nelle coperte, come in un bozzolo. Sentiva un
leggero cerchio alla testa e una fiacchezza in tutto il corpo; e poi,
non ne era certa, si sentiva anche un po’ calda.
Provò ad
aprire di nuovo gli occhi: ora la luce le dava già meno
fastidio. Inspirò profondamente e avvertì un
brontolio
sommesso allo stomaco. Non le pareva di ricordare di aver fatto nulla
di anomalo la sera precedente per risentire di quegli strani effetti.
Un profumo che non le apparteneva, emozioni intense che
l’avevano
fatta eccitare, una disavventura che l’aveva angosciata un
poco
ma che si era risolta bene: sembravano tutte cose che facevano parte di
un sogno strano. Allungò una mano verso l’altra
metà del letto. Era disfatta, probabilmente si era agitata
durante la notte.
Continuò a rigirarsi nel letto come un’anima in
pena, con
la voglia di dormire ancora e ancora e ancora, ma c'era quella
sensazione di qualcosa fuori posto che la tormentava. Non
c’era
nulla da fare, prolungare quello stato le avrebbe solo fatto aumentare
il mal di testa. Si rigirò un’ultima volta,
portandosi dal
lato opposto in cui dormiva di solito. Sentì un profumo
delicato
su quel cuscino, che richiamò alla sua mente, più
vivido
che mai, quel sogno, facendole provare ancora le stesse emozioni. Sulla
pelle avvertiva le carezze lievi di mani gentili, il calore e il peso
di un altro corpo sopra il suo, delle labbra morbide che la baciavano.
«Ho bisogno di un uomo…»
mormorò in un gemito.
Sospirò e sbuffò, cacciando via da sé
le coperte,
rabbrividendo per un attimo per l’aria fresca che le aveva
schiaffeggiato la pelle. Era rimasta lì, sdraiata sul letto,
a
fissare il soffitto per quasi un minuto, troppo poco lucida per
domandarsi come mai fosse completamente nuda. Con una mano si
sfiorò il ventre, insistendo su un punto in particolare.
Tutto
le sembrava normale, eppure normale non era. Cos’aveva
combinato
la sera prima?
Il crampo allo stomaco si fece sentire di nuovo: era fame. Si mise
seduta sul bordo del letto, i piedi nudi toccavano il pavimento. Il
programma della giornata prevedeva solo un impegno: il colloquio
all’agenzia investigativa di Edward Price verso la
metà
del pomeriggio. Avrebbe avuto tutto il tempo di mettersi in moto e
ritrovare le consuete energie. In più, cosa non meno
fondamentale, aveva anche la possibilità di terminare di
svuotare gli scatoloni che erano arrivati da Philadelphia qualche
giorno prima.
Camminò scalza per la camera, guardandosi attorno ancora un
po’ intontita. Dal cassetto del comò prese le
prime cose
che trovò: una canottiera aderente, un paio di mutandine,
dei
calzettoni e dei vecchi pantaloni della tuta. Li guardò per
un
attimo e sbuffò: quelli erano di Chris. Com’erano
finiti
fra la sua roba?
Poi, si diresse pigramente verso il bagno. Forse una bella doccia
l’avrebbe svegliata del tutto e schiarito per bene le idee.
Si sentiva ancora tutta sottosopra, la sua mente voleva tornare a
perdersi nei sogni di quella notte, il suo corpo rispondeva a quegli
stimoli: sentiva le farfalle nello stomaco, sorrideva da sola, il suo
cuore batteva a un ritmo strano che le pareva dovesse scoppiare da un
momento all'altro. Sospirò, mentre si frizionava i capelli
con
l’asciugamano. Non era cambiato nulla, nonostante fosse
rimasta
sotto il getto dell’acqua calda per quasi venti minuti. Il
borbottio della pancia stava diventando imbarazzante. Si
guardò
allo specchio e vide una faccia stanca. Neanche a tirarla di qua e di
là cambiava granché. Si diede un paio di
schiaffetti e si
impose un bel sorriso.
Il salotto era completamente invaso dalla luce del mattino. Ancora
mancavano le tende scure alla doppia finestra e le pareti, con quei
colori brillanti, ne amplificava l’effetto. Come un automa si
diresse subito ad accendere il computer, allungando poi la mano per
afferrare la sua mug gigante che teneva di solito lì.
Stranamente non c’era, forse l’aveva lavata la sera
precedente e riposta nello scolapiatti, ma non se lo ricordava. Si
grattò la testa: i capelli erano ancora umidi e spettinati.
Di
fronte al frigorifero aperto si lasciò sfuggire uno
sbadiglio e
si stiracchiò. Era indecisa su cosa prendere.
Fissò
vogliosa il vasetto di maionese e il sacchetto di insalata
già
pronta. Se avesse avuto in dispensa anche del tonno…
Aggrottò la fronte, lo aveva comprato ieri. Girò
la testa
di scatto: la spesa era lì, sul piano di lavoro.
«Ma che vado a pensare! Magari per pranzo»,
mormorò,
ripensando a quando, qualche anno prima, aveva sperimentato quel tipo
di pazia ed era stata male per tutto il giorno. Prese la bottiglia del
latte e chiuse il frigorifero.
Si guardò attorno, in quella piccola cucina: tutto era
ancora da
sistemare. Frugò velocemente nei sacchetti, per assicurarsi
che
non ci fosse nulla di andato a male, tirando un sospiro di sollievo.
Poi iniziò ad aprire i vari mobiletti, in cerca della sua
tazza,
lambiccandosi il cervello per ricordare dove l'avesse messa.
«Ti serve una mano?»
Cora sussultò nel sentire quella voce, calma e gentile, ma
del
tutto estranea. Si affacciò nel salotto e lo vide
lì,
seduto sul divano, pacifico, con le gambe incrociate e una rivista
aperta davanti a sé; il sacchetto di biscotti a fianco,
mentre
beveva a piccoli sorsi dalla sua mug.
«Tu?» disse, sbalordita. «Non
c’era nessuno,
prima. Da dove sei sbucato?» gli domandò,
avvicinandosi
cautamente.
«Mi sembrava maleducato andarmene via prima del tuo
risveglio», le rispose lui, pescando un biscotto dietro
l’altro.
«Ehi! Ma… quelli non sono i biscotti che ho
comprato ieri?
E quella è la mia tazza preferita!» disse,
indicandola col
dito.
«Perdonami. Ero a digiuno da ieri mattina. Avevo davvero
fame. Ne
vuoi uno?» le disse, offrendole un biscotto con un sorriso
angelico sul viso.
Senza neanche rendersene conto e senza staccargli gli occhi di dosso,
Cora si avvicinò al ragazzo, rimanendo con la bocca aperta;
e
lui colse al volo l’occasione per imboccarla.
Sentì il
viso andarle a fuoco per l’emozione e per
l’imbarazzo,
chinata in quel modo su di lui, con quella canottiera così
aderente e fasciante che il suo seno, libero dalla costrizione
dell’intimo, mostrava tutta la sua naturale
rotondità.
«Sei reale... Non sei stato un sogno»,
sussurrò.
Cora gli prese la mano, trattenendola per qualche istante, sentendone
il calore e sospirando. Poi, come riportata bruscamente alla
realtà, fece un passo indietro, sbilanciandosi e cadendo
all’indietro.
«Attenta!» esclamò Saga, alzandosi
prontamente e
afferrandole la mano per evitarle la caduta, ma non ce n’era
stato bisogno: Cora era finita dritta seduta sul pouf.
I loro visi erano così vicini che i loro respiri erano
diventati
uno. I loro corpi erano a così poca distanza che il battito
del
cuore di uno faceva eco a quello dell’altra. Il profumo di
Saga
era lo stesso che lei aveva sentito sulle lenzuola e sul cuscino.
«Sai di caffellatte», sospirò Cora,
chiudendo gli occhi, inebriata dal suo respiro caldo.
«Mi avevi offerto un caffè, ricordi?»
«Cosa abbiamo fatto questa notte…»
mormorò,
accarezzandogli la guancia. «E neanche conosco il tuo
nome.» Quando li riaprì, erano lucidi e languidi.
Con
l’altra mano accarezzò anche l’altra
guancia di
Saga, guardandolo negli occhi con dolcezza. Con la finestra alle
spalle, la sua chioma bionda risplendeva come oro alla luce del mattino.
Saga le scostò i capelli che si erano appiccicati al viso,
li
accarezzò per tutta la loro lunghezza, sfiorando la spallina
sottile della canottiera.
«No», lo fermò lei. «La nostra
avventura
l’abbiamo avuta. Credo che ora dovresti andartene»,
gli
disse, deviando lo sguardo che si stava rattristando.
La sua voce però era poco risoluta. Trovò ancora
il
coraggio di guardarlo negli occhi, nonostante l’evidente
rossore
sulle sue gote. Con la punta delle dita gli sfiorò
l’angolo della bocca, pulendola da alcune briciole di
biscotto.
Quelle labbra erano così morbide e calde al tatto.
«Già», convenne lui, con una punta di
rammarico. Con
la voce acconsentì, ma tutt’altro era
ciò che
avrebbe voluto dirle.
Note
del capitolo:
Cheongsam:
è il popolare vestito cinese femminile. Molto aderente,
lungo o corto e con il colletto alla coreana.
Norma
Vally è una
popolare conduttrice americana - nonché esperta del settore
delle ristrutturazioni domestiche - del programma "Diva del Fai da te"
che andava in onda sui canali Sky qualche anno fa. Forse, da qualche
parte, tutt'ora in programmazione.
La data indicata nel capitolo, ovvero 2/25/10
è
naturalmente scritta all'americana (gli anglosassoni usano scrivere
mese/giorno/anno) del nostro equivalente 25/2/10
Samuel
L. Clemens: vero
nome di Mark Twain. Non mi dilungo più del dovuto e lascio
ogni
spiegazione al sito di riferimento. Il libro citato, naturalmente
è "Un americano alla corte di re Artù".
|
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Capitolo 10 *** Capitolo IX ***
IX
“febbraio
‘84
… Quel ragazzo mi ha fatto davvero una strana impressione.
Non credo che riuscirò mai a dimenticare i suoi occhi.
È da poco che sono stato assegnato al quindicesimo
distretto, ma
ne ho già viste tante di cose che mi hanno disgustato. Da
reati
di poco conto trattati come casi di alto profilo, alle più
feroci aberrazione insabbiate e dimenticate. Mio Dio! Certa gente era
così indegna, eppure è stato salvaguardato ogni
diritto;
mentre quel povero ragazzo che hanno portato oggi…
sì,
non un uomo come riporta la sua scheda, ma un ragazzo fragile:
ammanettato e malconcio; trascinato in una delle salette per gli
interrogatori e lasciato lì per ore, in balìa
dell’ignoto. Non sembrava affatto una persona pericolosa, mi
è bastato vederlo di sfuggita per esserne più che
sicuro.
Ma io sono un novellino, le mie sensazioni non contano. Nonostante
ciò, gli hanno fatto un bel
“trattamento” prima di
portarlo in centrale. Sono riuscito a dare un’occhiata al suo
fascicolo. C’è scritto che ha ventotto anni. Non
li
dimostra affatto. Fra i miei colleghi c’è gente
più
giovane che invece sembra ben più vecchia di lui.
La sua scheda non riporta molti dati, non sono riuscito a sapere altro
sul suo conto tranne che è laureato in Legge e che fino a
poco
tempo fa era l’assistente personale del professor Taylor. Ci
sono
però parecchie anomalie: molti dati sono mancanti. Ho il
sospetto che siano stati omessi volontariamente o addirittura
cancellati.
febbraio ‘84
… Sono passati giorni ma non riesco ancora a togliermelo
dalla
mente. Era così magro e pallido, in uno stato pietoso. Di
sicuro
non faceva un pasto decente da settimane. Sembrava debole e affaticato,
forse era malato. Il biondo dei suoi capelli, lunghi e poco curati, era
ormai sbiadito e quegli occhi, erano di uno strano colore, non avevo
mai visto un verde così cupo. L’ho visto
così
fragile e indifeso di fronte al sergente, sembrava un bambino
dall’aria spaurita. Nei corridoi del distretto ho sentito
alcune
chiacchiere degli agenti che lo hanno fermato. Hanno detto che stava
scappando e che quando lo hanno preso ha fatto molta resistenza ed
è per quello che gli hanno dato una ripassata, prima di
leggergli i suoi diritti e condurlo qui al distretto. Se la ridevano
mentre ne parlavano. Se chiudo gli occhi posso ancora vederlo: sedeva
nervosamente su quella scomoda sedia di metallo, asciugandosi di tanto
in tanto il labbro sanguinante con il dorso della mano. Era spaesato,
forse nemmeno in sé. Chissà se si rendeva conto
dov’era o del perché era lì.
Il sergente Goodmann lo ha incalzato di domande senza dargli un attimo
di tregua. Gli urlava in faccia in continuazione e più volte
ha
sbattuto la mano sul tavolo di metallo facendolo scattare. A ogni colpo
anch’io sobbalzavo con il cuore in gola. Dio! Se ci ripenso
mi
tremano ancora le mani. Che vergogna, non dovrei parlare in questo
modo. Non è da poliziotti.
Quel giovane non ha mai risposto alle domande, non ha detto una sola
parola; neppure per chiedere un avvocato com’era suo diritto.
E
sicuramente, i suoi diritti li conosceva. Si è limitato a
tenere
gli occhi fissi sulle sue mani insanguinate, che tremavano nervose,
appoggiate sul tavolo. Le poche volte che ha alzato lo
sguardo…
Quanto erano spaventati quegli occhi! Pieni di dolore, tristezza,
rimpianto e paura. Mi chiedo cosa stessero guardando davvero. Da dietro
lo specchio finto riuscivo a vedere perfettamente il suo corpo emaciato
scosso dai tremiti. Non ha emesso un fiato neppure quando Goodmann, con
una facilità estrema, lo ha scaraventato per terra in un
angolo,
dandogli poi un paio di calci sul costato.
Non ha reagito.
Si è limitato a rannicchiarsi contro il muro per cercare di
ripararsi come poteva e quando ha alzato di nuovo lo sguardo, sul suo
volto ho potuto leggere una straziante rassegnazione e accettazione.
Goodmann ha esagerato! Lo ha rialzato di peso trascinandolo per i
capelli e lo ha rimesso a sedere in modo brutale, schiacciandogli la
faccia sul tavolo. Quelle manette ai polsi non erano necessarie, le
accuse a suo carico non erano ancora state formalizzate; a tutti gli
effetti era solamente un sospettato. Perché hanno affidato
proprio a Goodmann l’interrogatorio?
Tutti al distretto sanno che è un violento, un manesco senza
motivo; e i numerosi richiami ufficiali lo testimoniano. Dovrebbe
essere cacciato dalla polizia! È una vergogna per la divisa.
Non
riesco a capire perché quel giorno il tenente Burton non sia
intervenuto a fermare il sergente. Era lì accanto a me,
vedeva
le stesse cose che vedevo io, ma è rimasto sordo e
impassibile
anche alle mie proteste. Quell’interrogatorio era illegale,
irregolare. Doveva fermarlo. Doveva! Lui è il superiore,
è suo dovere far rispettare il regolamento. Possibile che a
nessuno dei presenti importasse nulla delle violazioni che stavano
avendo luogo lì dentro? Neanche l’avvocato della
procura.
Figuriamoci, hanno mandato uno che è più
interessato alla
carriera che alla giustizia. Guardava annoiato quell’orribile
spettacolo. Era lì solo per avere una facile confessione che
gli
permettesse di chiudere il caso. Il professor Taylor invece, era
rilassato e sicuro.
Nel suo ufficio, Burton mi ha risparmiato un richiamo ufficiale per
intemperanze. Mi ha parlato non da superiore, ma da amico. Mi ha detto
che se voglio diventare un buon poliziotto e fare carriera devo stare
al mio posto e controllare di più le mie reazioni. Queste
sono
state le parole che ha detto, con un tono calmo, quasi paterno,
nonostante la sua giovane età. Però mi sono
sembrate un
avvertimento di tutt’altro genere. È da poco tempo
che
lavoro sotto il suo comando, ancora non lo conosco bene e a volte ho
soggezione di questo suo carattere così forte.
Tutto questo mi sconvolge. È vero, un buon poliziotto deve
controllarsi ma ci sono dei limiti, delle regole da rispettare. Ma come
posso accettare una tale brutalità e mancanza di regole?
È in momenti come questo che dubito della mia scelta. Come
ha
fatto mio padre a servire nel corpo per così tanto tempo
senza
avere mai il minimo dubbio?
febbraio ‘84
… Oggi lo hanno riportato su dalla gabbia: la scusa
apparente
era che volevano sottoporlo a un confronto. Ho sentito invece che hanno
tentato di nuovo di interrogarlo. È tornato anche il
professore,
che ha voluto assistere assieme al sostituto procuratore. Certamente lo
conosce bene, avrà frequentato la sua casa. Se lo considera
implicato, perché nelle altre occasioni che ha avuto non ha
mai
provato a parlargli? Forse gli avrebbe risparmiato tutta quella
violenza. Invece è rimasto impassibile, almeno fino a oggi.
Sono
riuscito a intrufolarmi e ad assistere al nuovo interrogatorio. Non
è andato tanto diversamente dal primo. C’era di
nuovo
Goodmann e di nuovo c’è andato giù
pesante.
Però questa volta si è lasciato sfuggire una
parola di
troppo. A un tratto quel ragazzo ha guardato dritto verso di noi e nei
suoi occhi c’era una strana luce. Fierezza. Sì,
ecco
cos’ho visto. Può sembrare strano, ma stava
fissando
proprio il professore, come se sapesse esattamente dove si trovasse.
È stato in quel momento che ho visto Taylor irrigidirsi e
poi
confabulare con Burton e il sostituto procuratore. Alla fine ha chiesto
di poter parlare con lui in privato, senza telecamere, né
testimoni. Chissà cosa lo ha preoccupato a tal punto da
cambiare
atteggiamento in modo così repentino.
Che sia a conoscenza di qualcosa che possa danneggiare il
professore?”
«Mmmmh. Sembra un racconto poliziesco scritto in forma di
diario,
però non è molto lineare e le date sono
incomplete», commentò Aiolos, leggendo alcune
pagine di
quel quadernetto.
Poi le studiò più attentamente: erano scritte
fittamente,
piene di note e appunti a margine. Il tratto era fluido, chiaro, in
qualche modo elegante ma non elaborato. Certamente maschile,
considerò. Non troppo dissimile da quello di Kanon, o di
Saga,
ma solamente quando quest’ultimo scriveva in modo
più
nervoso e usando la sinistra. Già, perché lui era
capace
di scrivere con entrambe le mani. Aveva imparato per gioco ed era
dannatamente bravo.
Aiolos non aveva alcuna difficoltà a decifrare quella
calligrafia. Del resto, nel suo lavoro gli passavano sotto mano un
sacco di documenti scritti a mano dai gemelli, era logico che
conoscesse perfettamente la scrittura di entrambi.
Sbuffò annoiato, lasciando cadere quel quadernetto sul
letto,
accanto a sé, alzando lo sguardo sul soffitto che pareva
dargli
più soddisfazione. Aveva deciso di concedersi un paio di
giorni
di relax, dopo quell’ultimo intenso periodo; e passarlo nella
paradisiaca tranquillità della villa di Mystic Lake sembrava
una
buona idea. E poi, sua nonna era felice di averlo di nuovo con lei.
Invece, quella camera – che era rimasta tale e quale da
quando
era ragazzo – gli stava dando uno strano senso di
claustrofobia,
estraneità e insofferenza.
«Bah! Pensavo ci fosse scritto qualcosa di più
“scottante”.»
Si mosse scocciato, passando un braccio sotto il cuscino e girandosi
sul fianco. Il suo sguardo vagò per quel lato della stanza e
si
soffermò sul comodino, sul quale era rimasto
l’ultimo
videogioco a cui aveva giocato assieme al fratello e a Kanon: neanche
si ricordava quanto tempo fosse passato da allora. Forse avrebbe fatto
bene a fare un bel pacco di tutti i videogiochi e regalarli ad Aiolia,
che di certo ne avrebbe fatto buon uso, infantile com'era.
Si girò dall’altra parte, ancora più
infastidito;
poi, si alzò di scatto e riprese in mano il quadernetto,
fissandolo per qualche secondo. Fece uno sbadiglio annoiato e si
avvicinò alla sua vecchia scrivania. Aprì il
cassetto e
ve lo lasciò cadere dentro, richiudendolo con un colpo
secco,
senza degnare di un attimo del suo tempo gli altri oggetti che
giacevano lì dimenticati da anni. Erano ricordi di scuola e
della sua adolescenza, era un passato sereno e spensierato che ora non
si addiceva più a una persona del suo calibro.
«Ma guarda un po’ chi si è rifatto
vivo»,
commentò, gettando uno sguardo fuori dalla finestra, notando
in
quel momento il rientro tutto trafelato di Saga. Non gli
sfuggì
l’atteggiamento colpevole e con quale passo svelto, quasi di
corsa, stesse percorrendo il vialetto ghiaioso.
«Guai in vista, per il gemellino. Guai in vista!»
disse con un mezzo ghigno sulle labbra.
*****
Il rientro di Saga non passò inosservato neanche a Nanny che
subito lo intercettò e lo trascinò in cucina,
preoccupata
per il comportamento tanto strano che il ragazzo aveva da qualche
giorno a quella parte. Lo fece sedere al tavolo e, vedendolo accaldato,
gli mise davanti un bicchiere d'acqua. Poi si sedette di fronte a lui.
Gli parlò con tanta dolcezza, come una mamma,
accarezzandogli la
guancia e prendendogli la mano fra le sue. Provò a
chiedergli
dove fosse stato tutto il giorno precedente e tutta la notte, senza
avvisare nessuno. Provò allora a chiedergli se
stesse
bene. Nella sua voce non c’era ombra di rimprovero, solo
tanta
ansia e tristezza, per quel suo ragazzo che era sempre stato bravo e
ubbidiente, ma che ora mostrava tanti segreti.
Saga teneva la testa bassa, perché i suoi occhi nervosi
avrebbero rivelato la colpa. Si sentiva a disagio nell'essere
sottoposto a quelle domande, alle quali non era intenzionato a
rispondere per davvero, balbettando invece dei semplici
“scusa”, per placare quell’interrogatorio.
Nanny non insistette oltre. Comprendeva che fosse successo qualcosa, ma
si arrese all’evidenza che il suo Saga non si sarebbe
confidato
con lei, non in quel momento almeno.
«Non fare niente di cui potresti pentirti in futuro, tesoro
mio», gli disse, accarezzandogli ancora una volta il viso.
Lo abbracciò con amore, indugiando un poco di
più,
stringendolo forte, come se provasse una inconfessabile paura di
perderlo. Poi lo lasciò andare con un bacio sulla fronte,
sospirando. Lo guardò uscire dalla cucina e incrociare
Aiolos,
senza fermarsi, né rivolgergli la parola, passando oltre a
testa
bassa. Lo stesso fece il nipote di Nanny che invece stava entrando: sul
suo volto però c’era un sogghigno che alla donna
dispiacque vedere.
I passi di Saga risuonarono di nuovo affrettati. Arrivò fino
allo scalone principale, dove poi si bloccò di colpo: la
voce
del capofamiglia lo aveva chiamato in biblioteca. Il ragazzo trattenne
il respiro per qualche secondo, stringendo la presa sul corrimano di
legno della scala. Per un momento indugiò con lo sguardo
verso
il piano superiore, con il solo desiderio di raggiungere la sua camera
e ficcarsi sotto la doccia. Il richiamo da parte del padre
però
non poteva aspettare, né essere ignorato. Quando lo
raggiunse in
biblioteca, Shion Hayes era seduto dietro la scrivania di mogano, lo
sguardo su alcuni documenti, lì vicino un bicchiere di
whisky
con ghiaccio, nonostante fosse solo prima mattina.
Il sole, che penetrava dalle finestre, smorzava l’aura di
austerità che solitamente regnava in quella stanza. Non
placava
però il malumore che quel giorno aveva l'uomo. Shion lo
tenne
lì, in piedi di fronte a sé, dall’altra
parte della
scrivania, come in attesa di una sentenza, mentre continuava a
visionare documenti su documenti.
Nei quasi dieci minuti che trascorsero in quel modo, il padre non
alzò lo sguardo su di lui neanche una volta. Neppure quando
prese il bicchiere per bere un sorso di whisky.
Quel silenzio, per Saga, era più pesante di qualunque
sfuriata
gli avesse mai fatto, benché si potessero contare sulle dita
di
una mano le occasioni in cui il genitore lo avesse punito.
Quando Shion lo lasciò andare, congedandolo con un ordine
secco,
si rintanò di corsa in camera sua, chiudendosi nel bagno
privato, che comunicava anche con la camera del gemello.
Fissò a
lungo la sua immagine riflessa nello specchio: il suo viso, solitamente
sereno e disteso, aveva un leggero rossore sulle guance, ma non
riusciva a capire a cosa fosse dovuto, se alla vergogna per essere
stato punito in quel modo dal padre, oppure a un pensiero particolare
che gli faceva palpitare il cuore e lo faceva sentire fiacco. Nei suoi
occhi però c’era tristezza e delusione. Fece un
respiro
profondo e si passò il dorso della mano sugli occhi con un
gesto
rapido. Poi, si spogliò e si infilò sotto la
doccia,
lasciandosi cullare dal getto di acqua calda e dal vapore che subito
riempì tutto l’ambiente.
Preferì rimanere nella sua camera per tutto il resto della
giornata. In piedi, di fronte alla finestra che dava sul lago e sul
viale principale, vide il padre salire in auto e uscire dalla
proprietà, accompagnato da Aiolos. Tirò un
sospiro di
sollievo: almeno per qualche ora non avrebbe dovuto fingere, o
sopportare sguardi di rimprovero. Si sedette a terra, con la schiena
appoggiata alla parete. Respirava piano, tenendo gli occhi chiusi. Il
cellulare stretto nella mano e una strana apatia che cresceva in lui
con il passare del tempo e che si stava sostituendo a tutto il resto.
Quando riaprì gli occhi, i suoi capelli erano ormai asciutti
e
il cellulare giaceva a terra, accanto a lui. Compose distrattamente il
numero del fratello e lasciò squillare, inserendo il
vivavoce.
«Kanon…» lo chiamò con un
filo di voce, non appena l’altro rispose.
«Saga? Che succede fratellino, senti la mia
mancanza?» gli
chiese con tono energico e scherzoso. «È strano
che tu mi
chiami a quest’ora, visto che la pausa pranzo è
passata da
un pezzo. Aspetta, a dire il vero sono sempre io a chiamarti! Ma
sì, che importa, chi ci fa caso a queste cose»,
disse,
senza nascondere l’ironia nella sua voce e prendendosi tutta
la
soddisfazione di quella frecciatina. «Dimmi tutto!»
Quel pomeriggio non c’era molto da fare in ufficio, a New
York:
la riunione sarebbe iniziata solo una mezz’ora più
tardi e
l'unico appuntamento in agenda era saltato all’ultimo
momento.
Kanon, che in assenza del padre occupava il suo ufficio, si prese la
libertà di mettere i piedi sulla scrivania e allentarsi
ancora
di più la cravatta che già portava impropriamente
lenta,
per i canoni imposti dal regolamento amministrativo.
«Secondo te… quanto vale
l’amore?» gli
domandò il fratello. La sua voce arrivava flebile e stanca,
quasi svogliata, dall’altra parte del telefono.
«Ma che domanda assurda mi fai? È uno
scherzo?»
domandò a sua volta, Kanon. Sogghignava però a
quell’uscita tanto stramba da parte del suo sempre serioso e
compìto gemello.
«Se tu dovessi dargli un valore come a un bene materiale,
quantificandolo in denaro, a quanto ammonterebbe?» insistette
Saga, facendo un grande sospiro.
Kanon rifletté un momento sull'insistenza di Saga
nell’affrontare quell’argomento; era davvero troppo
strana,
perché sul fratello non era certo famoso per i suoi scherzi
o le
battute di spirito.
«Beh, fratellino, nel mio caso vale più o meno
cento
milioni di dollari. Sai com’è, sono un boccone
troppo
ambìto.» Il giovane scoppiò in una
fragorosa
risata. «Lasciami indovinare, sei finalmente rinsavito dopo
l’ennesimo show di quella sanguisuga troppo snob, vero? Cosa
ti
ha chiesto questa volta, Jenny? È tornata alla carica con la
questione dell’anello? Questa settimana cosa va di moda:
smeraldi
o zaffiri? No, lei preferisce andare sul classico: i diamanti!
Scommetto che sotto i tre carati neanche li guarderebbe.» La
nota
sarcastica nella sua voce aumentava vertiginosamente con l'andare
avanti a parlare di quella donna.
Con un gesto della mano bloccò e subito congedò
la
segretaria personale del padre che era appena entrata
nell’ufficio per avvertirlo che stava per iniziare la
riunione,
riprendendo la conversazione. «O forse si è
limitata a
proporre solamente per la centesima volta il famoso weekend a Miami?
Come se tu non le avessi detto, ogni singola volta, che detesti il
clima della Florida. Saga, fratellino adorato, solo perché
quella è un’ereditiera non è una buona
motivazione
per continuare con questo supplizio. Tanto lei a Boston non ci vuole
vivere. Lei vuole stare qui, a New York, dove si crede una persona
importante. Vuole un cagnolino da portare al guinzaglio e sfoggiare
davanti ai suoi amici. Del resto, lei è Jennifer Mary
Perkins,
dei Perkins di Long Island!» aggiunse, alterando la voce con
un
marcato tono nasale, scimmiottando l'inflessione di voce tipica
dell'aristocrazia inglese. Si raddrizzò di colpo, togliendo
i
piedi dalla scrivania e assunse un atteggiamento più serio e
composto.
«Saga, mi caro», disse. E quando lo chiamava in
quel modo
voleva dire che la faccenda era seria. «Quello che provi per
lei
non è amore. Ti ci sei affezionato solo perché
all’inizio ti riempiva di attenzioni, prima di iniziare con
le
richieste. Ti voleva solo accalappiare! È successa la stessa
cosa anche con le altre. Svengono ai tuoi piedi per il tuo bel faccino
e per i modi troppo gentili e ossequiosi che riservi loro, ma poi?
Quanto è durato ogni volta? Il tempo di un’estate.
Ecco
quanto! E poi, Jenny… andiamo!»
esclamò, dandosi
una spinta con i piedi e girando la poltrona verso l’enorme
vetrata che aveva alle sue spalle. «Si era capito fin
dall’inizio che mirava a ben altro; ecco perché
lei ti
gira ancora attorno. Te l’ho sempre detto: spassatela con lei
e
non pensarci.»
Dopo quel suo lungo monologo, il giovane rampollo Hayes attese per
diversi secondi la replica del gemello, ma dall'altra parte della linea
non arrivò il solito rimprovero che si beccava ogni volta
che
parlava male di Jenny. Si sentirono solo sospiri stanchi.
«Credo che questa volta ti abbia preso davvero brutta.
Papà ha fatto male a tenerti per così tanto tempo
chiuso
in una gabbia dorata. Sei troppo buono e ingenuo. Te lo dico con tutto
l’affetto che provo per te, devi smaliziarti di
più.»
Il suo istinto iniziò a mandargli segnali che qualcosa non
andava nel comportamento del gemello. Si alzò dalla poltrona
e
si avvicinò alle vetrate, dalle quali si godeva una
splendida
vista di Manhattan.
«Saga» Nella voce di Kanon non c’era
più
parvenza di scherno o gioco. «Per favore, non farmi
preoccupare.
Cosa sta succedendo?»
Attese.
«Ascolta, dovrei fermarmi qui a New York fino a tutta la
settimana prossima, ma se hai bisogno…»
Guardò
l’orologio, poi riflettè per qualche istante.
«No!
Torno stasera e ne parliamo», disse con decisione, radunando
alla
bell'e meglio i documenti sparsi sulla scrivania e ficcandoli alla
rinfusa nella ventiquattrore.
«Non fa niente… forse non puoi
aiutarmi»,
mormorò Saga, sospirando un’altra volta, come se
fosse
l'unica cosa in grado di fare.
Interruppe la telefonata e si girò verso la finestra,
appoggiandosi al vetro con la spalla e la testa, chiudendo gli occhi e
ripensando agli ultimi avvenimenti che gli erano capitati e che, se ne
stava convincendo, erano la causa del malessere che stava vivendo.
“Ti ha preso davvero brutta.”
Quella frase che gli aveva rivolto il fratello con tono compassionevole
gli ronzava in mente e sembrava calzare alla perfezione con
la
situazione che stava vivendo, anche se non ne afferrava appieno il
significato.
Aveva sentito quella
porta chiudersi
alle sue spalle con un clack appena percettibile e si era ritrovato
lì, fuori dall’appartamento, sullo stretto e
semibuio
pianerottolo di quella palazzina sconosciuta. Non sapeva cosa pensare.
Per lui quella era una situazione insolita. Non era mai stato messo
alla porta da nessuno. In quelle ultime ore si erano susseguiti
avvenimenti che non pensava gli sarebbero mai potuti capitare. Era
forse finito in un film o era diventato il protagonista di un
romanzetto rosa?
Quando aveva iniziato
quella sua
seconda vita non aveva considerato l’ipotesi di poter essere
scambiato per un barbone ed essere fatto oggetto di elemosina. Nemmeno
si era mai immaginato che solo poche ore dopo, avrebbe incontrato di
nuovo quella stessa ragazza e che avrebbero passato la notte insieme.
Perché non si era fermato un momento a riflettere, prima di
fare
una cosa del genere?
Il suo cuore batteva
forte nel petto.
Si era passato più volte le mani nei capelli, iniziando a
camminare avanti e indietro, aggrottando la fronte. Perché
era
rimasto in quell'appartamento invece di sgattaiolare via non appena si
era svegliato?
Perché era
rimasto fino al risveglio di quella ragazza?
Perché non
aveva pensato alle conseguenze del suo gesto?
Quanti
“perché”
affollavano la sua mente in quel momento. Si era portato le mani alla
bocca, nascondendo il rimorso che stava provando e che stava diventando
evidente. Poi, gli era balenata in testa una domanda: cosa avrebbe
pensato Kanon, di lui? Avrebbe iniziato a fargli la ramanzina, a tirare
in ballo ogni possibile conseguenza, ogni risvolto di quella situazione
grottesca. Perché il comportamento che aveva tenuto non era
assolutamente da lui: Saga Hayes queste cose non le fa! Saga Hayes non
agisce in modo così avventato! Saga Hayes è una
persona
seria e corretta!
Non era vero. Non
sarebbe stato da
Kanon. Era lui, Saga, che aveva sempre fatto la morale al gemello
perché cambiava una donna a settimana, se non a ogni festa;
perché si vantava in pubblico delle sue conquiste;
perché
viveva il sesso totalmente libero da ogni coinvolgimento sentimentale e
senza alcun pentimento.
Ora lui sentiva di aver
fatto la
stessa cosa. Ma ammetterlo non lo faceva stare meglio. Anzi, se
possibile, questo gli pesava ancora di più,
perché
quell’euforia provata la notte precedente ancora persisteva
in
lui.
Si era fermato davanti
alle scale,
con la mano sul corrimano tutto rovinato, guardando verso il basso. Il
cuore gli batteva forte. Aveva nascosto il volto fra le mani: non era
affatto migliore di Kanon.
Poi, si era ritrovato di
nuovo di
fronte a quella porta chiusa. Aveva alzato la mano per bussare; l'aveva
tenuta in quella posizione per diversi secondi, indeciso se provare o
rinunciare. Aveva dato un paio di colpetti con le nocche.
«Vorresti
accompagnarmi alla
fermata dell’autobus?» le aveva chiesto con voce
speranzosa, lo sguardo basso e un sorriso imbarazzato, quando lei aveva
aperto la porta.
Quando si risvegliò da quel ricordo così recente,
nascose
la testa fra le ginocchia: sentiva di nuovo tutta l’amarezza
e la
tristezza che aveva provato quando la ragazza gli aveva richiuso la
porta in faccia, senza neanche guardarlo, sentendola poi piangere.
Cos’era cambiato in quei pochi minuti che era rimasto fuori
sul
pianerottolo per farle mutare atteggiamento? Probabilmente lei si era
pentita. Che si fosse sentita in qualche modo costretta?
*****
Cora si presentò al colloquio con quasi un’ora di
anticipo. Non si stupì che l’avessero chiamata di
domenica, poiché sapeva che per gli investigatori privati
non
c'erano giorni di riposo. Uscì di casa con
l’intenzione di
prendersela con calma, di passare magari una mezz’ora al
solito
caffè e distrarsi un poco, per essere poi in splendida forma
per
l’incontro e fare buona impressione; invece, senza rendersene
conto, con la testa fra le nuvole, tirò dritto fino alla
meta.
Sedeva sulla sedia più nervosa che mai, mentre attendeva di
essere ricevuta da Edward Price, il titolare dell’agenzia, ma
quella tensione non era solo per il lavoro. Di fronte a lei, la
segretaria batteva alacremente sulla tastiera del computer, rispondendo
a corrispondenza varia o redigendo chissà quale tipo di
documento. Si portò una mano al ventre, nascondendola dietro
la
borsa a tracolla che teneva appoggiata sulle gambe. Lo stress le
provocava delle deboli fitte. E allora, per provare a non pensarci,
ripercorse con la mente i programmi che si era fatta per quella mattina
e che non era riuscita a portare a termine. Forse avrebbe dovuto
ammettere che non aveva combinato proprio nulla, ma la colpa non era
sua. No, era di quell'insidioso ragazzo dal viso d'angelo, dai modi
troppo gentili e dalla candida sfrontatezza di un bambino, che lo
rendevano impossibile da detestare. Aveva avuto il coraggio di
ripresentarsi alla sua porta con quel sorriso tanto dolce…
Possibile che non si fosse reso conto di ciò che era
successo
fra loro? Ma forse per lui era una cosa normale.
Lei si era fatta delle domande, prima di cedere a quel fascino
così puro e sensuale. Si era detta che non le importava
sembrare
l’ennesima avventura di una notte; che tanto era uno
sconosciuto
e non l’avrebbe più visto. Ma quando se
l’era
ritrovato di fronte che manifestava il desiderio di passare ancora del
tempo con lei, non aveva potuto fare altro che chiudergli la porta in
faccia. Era rimasta scombussolata per tutto il resto della mattinata e
ancora adesso lo era, con le gambe che si agitavano come in preda a un
tic nervoso e le mani che stringevano la tracolla della borsa. Sentiva
il peso del rimorso e l’imbarazzo per quella pazzia di una
notte.
E poi, ad aggiungere ansia ad altra ansia, c’era anche
l’attesa per quell’incontro di lavoro. Le sembrava
di
vivere nuovamente il patema di un esame di scuola; ma forse, un esame
lo era davvero quello che stava per affrontare. Non sapeva con
esattezza cosa attendersi, né che tipo di lavoro avrebbero
avuto
in serbo per lei, nel caso fosse stata presa.
Cosa si aspettava da lei, mr Price?
Lavorare con lo zio Phil era stato semplice, perché lui era
di
famiglia. E, anche se molto esigente, aveva creato un clima sereno
nella sua agenzia: le aveva sempre facilitato la vita. Lei di questo ne
era ben consapevole, così come era consapevole che ora
sarebbe
stata tutta un’altra cosa, un’incognita.
Si alzò per sgranchirsi le gambe e si avvicinò
incuriosita a una delle pareti dove erano appesi dei quadri strani. Era
lì, con la testa un poco piegata di lato che li fissava,
quando
finalmente la porta dell'ufficio di Edward Price si aprì.
L’uomo comparve sulla soglia e fece un cenno alla sua
segretaria
che subito si attivò per richiamare l’attenzione
di Cora,
chiamandola per nome un paio di volte, ma senza risultato. E allora, un
potente fischio risuonò nella saletta d'attesa, facendo
sobbalzare sia la ragazza che la segretaria stessa, nonostante la donna
fosse abituata a quel tipo di comportamento poco ortodosso del suo capo.
«Ragazza, mettiamo subito in chiaro un paio di cose: in primo
luogo, anche se mi sei stata raccomandata da Big Phil, non ho
intenzione di usarti un trattamento di favore. In secondo luogo, di
lavoro qui ce n’è ed è anche tanto. Ma
è
soprattutto di tipo investigativo. Senza una preparazione adeguata non
mi servi a molto.» L'uomo non badò alle
presentazioni di
rito, si rivolse a Cora come a una qualsiasi persona estranea e non
come alla figlioccia del suo vecchio amico e superiore, mostrando il
classico atteggiamento intimidente del poliziotto.
«Capisco», rispose in tono serio Cora, facendo un
cenno con il capo e stringendo le mani sulla tracolla della borsa.
«Sono affiliato a un importante studio legale e non posso
permettermi di avere dei collaboratori incompetenti che non conoscono
la Legge o la infrangono, durante lo svolgimento del proprio lavoro. Ne
andrebbe della serietà della mia agenzia e soprattutto degli
interessi dei miei clienti», continuò.
Cora annuì una seconda volta.
L’uomo si sedette dietro la sua enorme scrivania, piena di
fascicoli aperti e accatastati uno sull’altro, guardando la
giovane dritta negli occhi per diversi secondi. Ne voleva studiare le
reazioni sotto pressione. La vedeva che si sentiva a disagio, ma al
tempo stesso cercava di recuperare un minimo di sicurezza, provando a
concentrare la sua attenzione su un oggetto particolare.
Cora infatti si fissò sul portacenere che si intravedeva
appena,
sperduto fra i vari incartamenti, stracolmo di cicche di sigarette e
mozziconi di sigari. Notò che erano di marche diverse e le
sembrò una cosa alquanto strana, soprattutto per un uomo.
È risaputo che gli uomini che fumano quando scelgono una
marca
di sigarette – o sigari – sono assolutamente
fedeli. C'era
un'altra cosa che non quadrava: l'aria all'interno dell'ufficio era
sì un poco viziata, ma non era poi così
impregnata di
fumo. Guardando più attentamente notò anche che
tutte le
cicche, nonostante alcune portassero segni rossi, erano state
schiacciate nello stesso modo. Lo stesso si poteva dire per i mozziconi
dei sigari, che erano tutti leggermente masticati
all’estremità. Era evidente che l’uomo
di fronte a
lei dovesse essere un fumatore accanito, si capiva anche
dall’accendino che si intravedeva attraverso la stoffa del
taschino della camicia, ma era altrettanto vero che quel portacenere
– e soprattutto il suo contenuto – stonava in tutto
e per
tutto con l’ambiente. Cora fece una strana smorfia, quasi di
disgusto, e bofonchiò qualcosa scuotendo leggermente la
testa.
Price sorrise. Si alzò, chiudendo e raccogliendo alcuni
fascicoli sulla sua scrivania, e si diresse alla porta.
Parlò
con la segretaria e le consegnò il materiale che aveva
preparato, congedandola poco dopo.
«A me servono soprattutto collaboratori esperti per le
indagini.
Se in un prossimo futuro vorrai diventare un’investigatrice
posso
consigliarti di frequentare dei corsi parauniversitari di tecniche e
procedure d’indagine e psicologia criminale. Si svolgono ad
Harvard e sono tenuti da alcuni miei ex colleghi della polizia. E non
sarebbe una cattiva idea avere anche un’infarinatura di
Diritto», spiegò. «Ma bada che questi
corsi non
saranno una passeggiata: c'è molto da studiare e richiedono
anche tanto lavoro sul campo.»
Mr Price si fermò alle spalle della ragazza accendendosi una
sigaretta, inspirando a lungo e soffiando in alto il fumo.
«Quello che per ora ti posso offrire è un
part-time per
dei lavori di archiviazione. Il materiale da sistemare e catalogare
è sempre tanto. E, all'occorrenza, potrebbe anche servirmi
un
corriere per consegnare documenti e rapporti hai clienti
importanti.» Fece di nuovo il giro della scrivania e si
riaccomodò sulla poltrona. Con un paio di gesti nervosi
scostò alcuni fogli per liberare il portacenere, svuotandolo
con
un colpo secco nel cestino delle cartacce e lo ributtò
malamente
sulla scrivania.
Cora non aveva grosse pretese per il lavoro, né grandi
ambizioni
per il momento. Tutto quello che le si sarebbe presentato
l’avrebbe preso al volo. Quindi, annuì alla
proposta
dell’uomo.
«Molto bene, puoi iniziare mercoledì. Dalle tre
del
pomeriggio, alle sette. Tutti i giorni, tranne nel week-end: dove
verrai chiamata solo in caso di bisogno. Per qualsiasi cosa chiedi a
Susan, sarà lei a occuparsi di te.»
Senza perdere altro tempo, Edward Price la congedò,
riaprendo
uno dei fascicoli che aveva di fronte e riprendendo il suo lavoro. Dopo
pochi minuti però, si alzò e si
affacciò alla
finestra che dava sulla strada sottostante. Con lo sguardo
osservò Caroline Miller attraversare la carreggiata e
proseguire
sul marciapiede opposto, verso nord. Dalla tasca dei pantaloni estrasse
il cellulare e subito compose un numero.
«Ehilà, Big Phil! È tutto sistemato.
Sì,
sì, te la terrò d’occhio», lo
rassicurò. «Ha delle buone doti da osservatrice e
la prova
l’ha superata a pieni voti. Con il giusto addestramento
potrebbe
diventare anche più brava del padre. No, non mi sono
dimenticato
di Greg, il distretto non è stato più lo stesso
senza di
lui e anche la tua assenza si è sentita molto, quando hai
lasciato. Ma come ti ho già detto non farò
favoritismi.
Ah, quasi dimenticavo. Per quell’altra faccenda, ho parlato
con
qualche vecchio amico al distretto, loro non hanno notizie per il
momento. Se quel tipo dovesse farsi vedere da queste parti…
beh,
sai bene come trattiamo gente del genere.»
*****
La cena in casa Hayes si svolse in un clima surreale. Benché
con
motivazioni differenti e personali, Aiolos e Kanon tennero d'occhio
Saga per tutta la serata e non sfuggì loro
quell’estraniarsi e chiudersi a riccio. Lo videro distratto e
pensieroso, mentre martoriava il cibo che aveva nel piatto,
anziché mangiarlo. Ed era strano, perché Saga era
una
buona forchetta e soprattutto rispettoso del cibo. Le volte che veniva
invitato a partecipare a una conversazione, o che gli veniva rivolta
una domanda diretta, scattava sorpreso, senza poi essere in grado di
rispondere prontamente.
In più di un'occasione, Saga subì gli sguardi
severi e i
rimproveri del padre, accettandoli a capo chino, così come
non
mancarono le frecciatine del gemello, nei suoi tentativi di smorzare la
tensione, provando anche a sostituirsi a lui come bersaglio del
malumore del padre: tanto era già abituato e sicuramente non
aveva bisogno di sforzarsi troppo per riuscire a far adirare il
capofamiglia.
Ma Saga… non era mai successa una cosa del genere. Era
impossibile, fuori da ogni logica.
«Questa te la manda Nanny. “Per tirarti un
po’ su di
morale”, ha detto», riferì Kanon, quando
lo
raggiunse in camera, quasi un’ora più tardi,
appoggiando
sulla scrivania un piattino con una fetta gigante di Boston cream pie.
«Allora, che ti sta succedendo?»
Lo trovò in piedi, di fronte alla finestra e con la mano
appoggiata al vetro, come suo solito quando aveva problemi. Attraverso
il riflesso Kanon poté vedere il viso triste e abbattuto di
suo
fratello. Non ricevette alcuna risposta, né notò
in lui
alcuna reazione. Gli si avvicinò e gli mise una mano sulla
spalla, scuotendolo un poco da quel torpore, provando a rifargli la
domanda, ma con un tono più dolce.
«Al telefono eri strano, ma di persona sembri ancora peggio.
Dai, Saga, parlami.»
Kanon si rabbuiò. Era dall'adolescenza che non vedeva il
gemello
in quello stato, chiuso in un silenzio tanto caparbio e rifiutando
qualsiasi aiuto. Eppure, fra di loro si erano sempre confidati. Certo,
ora erano cresciuti e i problemi a quanto pareva erano cresciuti di
pari passo con loro. Lo abbracciò da dietro, appoggiando il
mento sulla sua spalla.
Saga si limitò a sospirare, continuando a guardare fuori
dalla
finestra, verso un punto lontano e indefinito, persistendo
nell'ignorare i tentativi del fratello di farlo aprire.
«Non mi piace questo tuo modo di comportarti»,
disse Kanon, deluso e scocciato.
Gironzolò un po' per la camera, curiosando distrattamente
sulla
scrivania e sul comodino, senza trovare alcun indizio che gli facesse
capire di cosa potesse trattarsi. Poi, annoiato, si sedette sul letto.
Attese ancora per qualche minuto un segno da parte
dell’altro, ma
del tutto inutilmente. Saga sembrava catatonico. Sbuffò,
buttandosi a peso morto sul materasso.
«Mi telefoni, mi fai una domanda assurda senza dare
spiegazioni,
mi lasci parlare all’infinito e poi, chiudi la telefonata
all’improvviso. Ho provato a richiamarti ma è
stato tutto
vano.»
«Avevo il telefono scarico.»
«Raccontala a un altro!» ribattè, questa
volta con
tono adirato. «Torno a casa e trovo una situazione
tesa.»
La voce di Kanon divenne più spazientita. «La
cena…
beh, sembrava di essere finito in un mondo alla rovescia!
Papà
era…» Fece una pausa, cercando di trovare la
definizione
più adatta, ma l’unica che gli venne in mente era
“deluso”. «Non l’ho mai visto
così!
Cos’hai combinato per farlo reagire in quel modo e per
ridurti tu
in questo stato?» Si avvicinò ancora a lui e
questa volta
lo girò di forza, per farsi guardare dritto negli occhi.
«Insomma, si può sapere che succede?»
Erano a tu per tu, Kanon respirava con un leggero affanno dopo lo
sbotto di poco prima, mentre Saga teneva lo sguardo basso, per
nascondere gli occhi lucidi.
«Parlami, Saga. Dimmi la verità! Perché
ormai
è chiaro che il casino che hai combinato deve essere davvero
grosso!»
Kanon fece dei respiri profondi per calmarsi e non peggiorare la
situazione, perché quando ci si metteva d’impegno,
suo
fratello era davvero una testa dura e riusciva a fargli perdere la
pazienza.
«Siamo solamente tu e io. Come da bambini,
com’è
sempre stato. Confidati ancora con me.» Provò a
essere
più accomodante, ma era difficile fare progressi, quando
riceveva solamente sospiri. «È Jenny, vero? Ti ha
incastrato in qualche modo? Si è fatta mettere
incinta?»
Solo con quell’ultima domanda indiscreta Saga alzò
la
testa e mostrò quanto fosse spaventato. I suoi occhi si
velarono
di lacrime.
«Stai tranquillo», lo rassicurò il
fratello,
accarezzandogli la guancia rigata da una lacrima. «Non
è
così grave come può sembrare. Chiamiamo
l’avvocato
di papà e sistemiamo le cose in un attimo, tanto lei non lo
terrà di certo. Tu però, la prossima volta
ricordati di
usare il guantino», lo schernì, sogghignando e
dandogli
una piccola pacca sul braccio in modo malizioso.
«No, no! Jenny non c’entra niente», si
affrettò a rispondere Saga, con voce incrinata. Si sedette
sul
bordo del letto e si mise le mani sul volto. «Mio Dio! Non ci
ho
pensato... non mi sono fermato a pensare a quello che stavo
facendo», mormorò, scrollando la testa.
Kanon gli si inginocchiò di fronte e gli afferrò
le mani,
scostandogliele dal volto. «E allora
cos’è successo
per sconvolgerti in questo modo e non farti più
ragionare?»
«Non so perché l’ho fatto, Kanon. Io non
sono
così. Non mi comporto in questo modo.
Però…», sospirò,
«è stato tutto
così spontaneo, così naturale. Eppure…
non riesco
a capire. Aiutami, Kanon, cosa devo fare?» Saga si
passò
il dorso della mano sugli occhi pieni di lacrime, strofinandoli come un
bambino.
«Non riesco a capire di cosa stai parlando, Saga.»
Kanon gli prese la testa fra le mani e lo guardò di nuovo
fisso
negli occhi. Vide lo smarrimento di chi non sa cosa fare e
un’insicurezza tanto straziante che, se lui non fosse
cresciuto
in quel modo, non avrebbe mai avuto. Con una mano gli scostò
i
capelli, liberandogli la fronte, sfiorando con le dita quella piccola
cicatrice appena sopra la tempia. Era quasi invisibile, ma sapeva che
c'era, tutti in famiglia sapevano che c'era.
Sospirò.
Poi, si sedette accanto al gemello, tirandolo a sé e
abbracciandolo forte, accarezzandogli la testa e i capelli, cullandolo
dolcemente. Quella disperazione gli spezzava il cuore.
*****
Era rimasto in disparte, come accadeva ogni volta in quelle occasioni,
attendendo silenzioso e paziente. Nascosto dietro la porta della camera
lasciata socchiusa, aveva osservato l'ennesimo rinnovarsi di quella
complicità che a lui era preclusa. Si era quasi divertito
nel
vedere come persino le attenzioni di Kanon, le sue carezze e i suoi
abbracci, avessero faticato a fare breccia; ma alla fine erano riusciti
nell’intento di confortarlo, anche se non più come
un
tempo. Durante quella serata si era compostamente compiaciuto nel
vedere Saga in difficoltà. Ma ciò aveva portato
malumore
e tensioni in casa, coinvolgendo tutti i membri della famiglia. Era
come se Saga fosse il termometro dell’umore
dell’intera
famiglia: se stava male lui, anche gli altri stavano male; se era
sereno, allora in casa tutto andava bene. Ne aveva avuto la riprova
praticamente ogni giorno, sin da quando era tornato da Philadelphia e
questo lo irritava. Al tempo stesso però, sentiva una punta
di
rimorso. Se quello era il tipo di soddisfazione che aveva cercato in
quegli anni, di vederlo non più il cocco di tutti ma
solamente
uno come tanti, adesso si rendeva conto che non ne valeva la pena,
perché la prima a risentirne era sua nonna Angelina.
Si ritirò in camera sua e attese che Kanon scendesse al
piano
inferiore. Poi, tornò in corridoio, affacciandosi alla
balaustra
dello scalone e tendendo le orecchie per sentire la voce
dell’amico che si rivolgeva adirato contro il padre. Un'altra
conseguenza del comportamento di quell'egoista di Saga: ora quei due
avrebbero litigato.
Si avvicinò di nuovo alla porta della camera di Saga e
l'aprì piano, entrando senza far rumore. All'interno era
tutto
in penombra. Fece qualche passo fino al letto e lo vide lì,
di
spalle, sdraiato sul fianco. Il plaid che Kanon gli aveva messo addosso
era scivolato di lato. Non era sicuro se stesse dormendo o meno. Il suo
corpo però mostrava ancora una certa tensione. Lo
osservò
per alcuni minuti, senza riuscire a darsi una spiegazione del
perché lo attirasse in quel modo. Incrociò le
braccia al
petto e continuò a osservarlo. Poi, dopo un respiro
profondo,
fece dietrofront per andarsene. Il debole fruscio che udì
provenire da dietro le sue spalle lo bloccò, facendolo
voltare
con circospezione.
Con un leggero mugolio, Saga si girò sull’altro
fianco,
rannicchiandosi un poco. Il discreto chiarore della luna che filtrava
dalla finestra, rimasta con le tende aperte, permise ad Aiolos di
poterlo vedere meglio in viso. I suoi lineamenti si erano contratti
leggermente, stava avendo un riposo agitato. Si avvicinò e
si
chinò su di lui. Alcune ciocche di capelli erano rimaste sul
viso di Saga, attaccate alla guancia; altre gli coprivano gli occhi e
la fronte. Lo vide rannicchiarsi ancora di più e poi
scuotersi
per un brivido di freddo.
“L’ho
visto così fragile e indifeso… sembrava un
bambino dall’aria spaurita.”
Aiolos aggrottò la fronte e si raddrizzò di
scatto,
mordendosi il labbro. Per un attimo temette che si stesse svegliando.
Sarebbe stato imbarazzante per lui farsi trovare lì, a
osservarlo così da vicino. Attese qualche altro secondo, poi
tirò un sospiro di sollievo: tutto sembrava tranquillo.
Allora,
con la punta delle dita gli scostò i capelli dal volto. Fu
in
quel momento che Saga aprì gli occhi, sgranandoli e
sobbalzando
dalla sorpresa.
“…quanto
erano spaventati quegli occhi! Pieni di dolore, tristezza, rimpianto e
paura.”
«Aiolos? Che ci fai qui?» domandò dopo
qualche attimo di smarrimento, alzandosi e puntellandosi col gomito.
Il ragazzo arretrò subito e gli diede le spalle. Per sua
fortuna
la scarsa luce che penetrava dalla finestra nascondeva
l’improvviso rossore comparso sul suo viso.
«È stata la nonna a chiedermi di
passare… per
controllare che stessi bene», mentì, cercando di
essere
convincente. Non sentendo alcuna risposta da parte
dell’altro,
raggiunse la porta.
«Aspetta!»
«Non era mia intenzione disturbarti», lo
anticipò
Aiolos, continuando a dargli le spalle. Nella sua voce si poteva
distinguere un tono seccato.
«Non mi hai disturbato. Solo… mi sono sorpreso nel
vederti
qui», si affrettò a giustificarsi Saga.
Abbassò lo
sguardo, rimanendo in attesa per qualche secondo. Poi, si decise a
parlare ancora. «Tu mi detesti, non è
così?»
Il giovane Hayes si aspettava una risposta affermativa, considerando
l’ostilità che l’altro aveva dimostrato
in
più occasioni in sua presenza negli ultimi tempi.
«È da tanto tempo che mi hai escluso dalla tua
vita. Ora
ti preoccupi di quello che provo nei tuoi confronti?»
ribattè in tono acido Aiolos, stringendo la presa sulla
maniglia
della porta. Fece un respiro profondo: sentiva una rabbia antica
crescere nel petto. Lentamente si girò verso
l’altro,
fissandolo con decisione. «Da dopo il tuo incidente mi sono
fatto
da parte, perché sapevo che avevi bisogno di Kanon e lui
aveva
bisogno di te. Non hai la minima idea di quanto fosse spaventato al
pensiero di perderti», gli disse, avvicinandosi al letto.
«Per te esisteva solamente Kanon. Kanon! Kanon! Kanon! Vedevi
solo lui, volevi solo lui!» continuò, buttando
fuori quel
peso che si portava dentro fin dall'adolescenza, faticando a
trattenersi dall'andare troppo oltre.
«Da così tanto tempo…»
mormorò mestamente Saga.
«Anch’io ero tuo fratello! O almeno, credevo di
esserlo
stato per i nostri primi quindici anni di vita, anche se non abbiamo lo
stesso sangue…»
Aiolos lo guardò per dei lunghi secondi, poi gli
voltò le
spalle e si passò le mani sugli occhi. La soddisfazione di
vedergli anche solo l'ombra di una lacrima non gliela voleva dare.
Saga rimase ammutolito. Abbassò lo sguardo e
sospirò. Non
sapeva cosa rispondere. Qualunque cosa avesse detto, sarebbe sembrata
solo una scusa e probabilmente avrebbe accresciuto il risentimento che
Aiolos provava nei suoi confronti. Del resto, se ci rifletteva bene,
doveva dargli ragione. Non si era reso conto che nel corso degli anni
si erano allontanati così tanto. Si coricò e si
girò di nuovo sul fianco.
Anche Aiolos non aveva nulla da aggiungere. Uscì dalla
camera da letto chiudendosi la porta alle spalle.
Rimase visibilmente turbato da quanto era accaduto lì
dentro,
dalla situazione che si era creata e da quello che aveva detto. Anche
se finalmente era riuscito a esprimere ad alta voce ciò che
provava, non era servito a farlo sentire meglio. Davanti ai suoi occhi
era rimasta indelebile l’immagine di quel suo
“fratello” che si sovrapponeva
all’immagine di
un'altra persona, di quel tipo del quale aveva letto quella mattina
stessa fra le pagine del quadernetto.
Perché era successo così tutto d'un tratto?
note
del capitolo:
La Boston
cream pie
è una splecialità della città di
Boston: è
una torta di pan di spagna farcita con crema e ricoperta di ganache
(una specie di glassa) al cioccolato. È stata
eletta come
torta ufficiale dello stato del Massachusetts.
|
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Capitolo 11 *** Capitolo X ***
X
I loro corpi, madidi di sudore, si muovevano frenetici. Le loro voci
riempivano l’aria di gemiti eccitati, nella strana calma di
quel
pomeriggio. Il sole era una presenza invadente nella camera da letto,
surriscaldava l’ambiente e infiammava le loro menti.
Godettero di
quella passione con implacabile vigoria fino al culmine, arrestandosi
immobili – ancora pieni d’adrenalina – ad
assaporare
e contemplare l’estasi che avevano provato. I loro respiri
erano
pesanti, ansanti, soverchiavano i teneri suoni della natura che
armoniosi arrivavano da fuori. Con un tonfo maldestro si ritrovarono
infine sdraiati sul letto, l’uno accanto all’altro,
concedendosi un meritato quanto necessario riposo, nella quiete
scandita dal rimbombo dei loro battiti.
«Questa situazione sta iniziando a diventare
pesante.»
L'uomo si tirò su leggermente, appoggiandosi con la testa e
le
spalle alla testata del letto, offrendo per alcuni secondi il suo corpo
nudo alla brezza primaverile che entrava dalla finestra smuovendo le
tendine. Poi, con un gesto indifferente, risistemò il
lenzuolo a
coprire le sue nudità.
«Non ne posso più di tutte le scuse che devo
inventarmi,
dei salti mortali e delle corse fra un impegno improvviso e un altro,
per riuscire a ritagliarci un po' di spazio.»
«Non capisco dove sta il problema. Finora ci siamo trovati
bene.
Cosa c’è adesso di sbagliato?» chiese
Aiolos,
sdraiato accanto a lui, fissando il soffitto. «Non mi verrai
a
dire che vuoi diventare come quei vecchi pantofolai che se ne stanno
tutto il giorno seduti in poltrona di fronte al camino con indosso una
giacca da camera, a fumare e a leggere il giornale, vero? Vorresti
davvero rinunciare all’eccitazione di essere colti sul fatto,
all’intensità dei momenti rubati, al fascino
dell’illecito? Non ti ci vedo proprio!»
sghignazzò,
girandosi sul fianco, mettendo un braccio sotto al cuscino e chiudendo
gli occhi.
«Per te che sei giovane può andare ancora bene
giocare in
questo modo. Sei libero di goderti una vita che ha ancora tutto da
offrire: senza pensieri, senza rimorsi, senza…»
Shura
sospirò, rimanendo in silenzio per alcuni secondi.
«Io mi
sto stancando. Sento il bisogno di stabilità, di qualcuno
con i
miei stessi ritmi, che qualche volta assecondi le mie
necessità», disse, portandosi le mani dietro la
nuca e
chiudendo gli occhi anche lui.
«Che palle...»
Aiolos si mise seduto e appoggiò i piedi sul parquet. Fece
qualche respiro lento e profondo. Poi, si alzò e
iniziò a
raccogliere i suoi vestiti sparsi a terra.
«Che ti prende, ora?» chiese l’altro,
riaprendo piano
gli occhi, dopo aver sentito un leggero movimento del materasso. Lo
vide muoversi in modo nervoso per la stanza, camminando e chinandosi
qua e là, continuando a borbottare. «Ti stai
comportando
come un bambino capriccioso. È forse perché non
voglio
più prestarmi al tuo gioco? Oppure perché quando
le cose
si fanno serie è più facile scappare? Ma
forse…» riflettè per un momento. Era
certo che, se
l’ipotesi fosse stata giusta, avrebbe toccato un nervo
scoperto
per il suo giovane amante. «Questa è frustrazione
da
delusione amorosa», sentenziò con tono serio,
così
come seria era l’espressione sul suo viso in quel preciso
istante.
Vide Aiolos continuare imperterrito a vestirsi, dandogli le spalle. Si
alzò anche lui dal letto avvolgendosi il lenzuolo alla vita
e si
avvicinò ad Aiolos. Lo strinse in un abbraccio gentile.
Iniziò a mordicchiargli e succhiargli il lobo
dell’orecchio in modo giocoso, mentre con le mani gli
accarezzava
il petto nudo fino alla zip dei jeans, abbassandola lentamente.
«Nervosetto?» disse sarcastico, allargando le
braccia dopo
che Aiolos lo ebbe allontanato con un movimento stizzito del gomito,
spingendolo fin quasi a inciampare contro l’angolo del letto.
«Abbiamo appena finito di scopare e mi chiedi se ho avuto una
delusione d’amore con qualcun altro?»
replicò
Aiolos, decisamente contrariato. «Lo sai che non
c’è
nessun altro che mi interessi», continuò
sforzandosi di
ritrovare un po’ del contegno perso.
«Allora dimostramelo, spogliati e facciamolo di
nuovo.»
«Un’altra volta, forse. Ora ho delle cose da
fare»,
ribattè il giovane, mentre finiva di allacciarsi la cintura.
«Bugiardo. Si vede lontano un miglio che
c’è
qualcosa che non va e tu stai scappando per non affrontare il problema.
Peggio ancora, neghi l’esistenza stessa del
problema.»
«È soltanto una giornata storta. Può
capitare a
chiunque, no?» disse con indifferenza Aiolos. Si
voltò
verso di lui e gli mostrò uno sguardo beffardo,
avvicinandosi
poi di qualche passo a lui. Gli aprì il lenzuolo.
«Però su una cosa hai ragione: potrebbe essere
arrivato
per me il momento di trovare qualcun altro. Stai invecchiando per certe
cose», disse, fissandolo per un attimo in mezzo alle gambe,
alzando infine gli occhi fino a incrociare quelli scuri dell'amante.
Gli si mise a cavalcioni sulle gambe e gli passò le mani nei
folti capelli corvini, che ancora non mostravano alcun filo d'argento,
fermandosi dietro la nuca. Con un improvviso strattone gli fece piegare
la testa all’indietro e iniziò a baciarlo con
prepotenza.
Sorrise dentro di sé, nel sentire le mani
dell’altro
stringere e massaggiare con vigore le sue natiche. Erano mani grandi e
forti, dal tocco sensuale, che passavano poi lentamente lungo le sue
cosce in carezze sempre più vogliose, fino a spingersi di
nuovo
a sfiorare e subito abbassare la zip dei jeans. Aiolos sentì
la
mano dell’altro che vi si intrufolava dentro accarezzandolo
con
delicatezza, eccitandolo e stimolandolo. E lui rispose con movimenti
lenti del bacino.
Si era passato con soddisfazione la lingua sulle labbra dopo quei
lunghi e prepotenti baci. Si rialzò soddisfatto e si
risistemò i pantaloni, tirando lentamente su la zip, in modo
provocatorio, proprio di fronte all'amante.
«Il sesso selvaggio è solo per i bambocci,
Aiolos»,
lo rimproverò Shura, per nulla infastidito da
quell’ostentazione di superiorità nella quale
credeva di
indugiare il giovane. «Divertente e appagante sul momento; ma
poi, una volta passato, ti lascia con un senso di vuoto.»
Aiolos diede uno sguardo fuori dalla finestra, mentre allungava la mano
per recuperare la maglietta, finita sulla sedia lì vicino.
Se la
infilò con gesti naturali e calmi, quindi passò a
vestire
la camicia.
«Quando ti ho detto che sarei stato felice per te se avessi
trovato qualcuno da amare veramente, lo dicevo sul serio. È
da
tempo che ho capito che sono solo un ripiego. Però devo
ammettere che mi dà fastidio lo stesso.» Shura si
avvicinò al comò e prese un cambio pulito,
adagiandolo
sul piano del mobile. «Ancora ricordo la prima volta che ti
sei
avvicinato a me e ti sei dichiarato, condividendo quel tuo primo bacio
dato a un uomo. Poi ti sei fatto più audace e senza nemmeno
rendermene conto mi hai fatto innamorare di te», disse, con
un
sorriso nostalgico sulle labbra. «Ma sono passati tanti anni
e le
cose fra noi pian piano sono mutate», mormorò con
una
punta di amarezza. Dal riflesso dello specchio notò come
Aiolos
fosse rimasto praticamente indifferente a quelle sue parole,
concentrato a guardare qualcosa fuori dalla finestra.
«Possibile che tu non abbia mai trovato nessuno della tua
età di cui innamorarti? Con tutto il tempo che passi a New
York,
sempre appresso a Kanon, avrai avuto sicuramente modo di incontrare e
conoscere gente di tutti i tipi. Com'è possibile che proprio
nessuno ti abbia colpito?» gli domandò girandosi a
guardarlo. «Ho abbastanza esperienza per riconoscere subito
certe
cose, ne ho già visti gli effetti su persone a me vicine. E
le
conseguenze spesso si riflettono anche su chi sta attorno. Dimmi
Aiolos, chi ti ha rifiutato?»
L’espressione di Shura era concentrata sul giovane a tal
punto da
sembrare corrucciata. Si chiese cosa stesse guardando l’altro
con
così grande interesse da neanche sentirlo. Poi si arrese
all’evidenza che le sue parole erano cadute nel vuoto ed
entrò nel bagno per farsi una doccia.
«Invece di perdere tempo a interessarti degli affari miei,
non
hai di meglio da fare, tipo scodinzolare dietro al vecchio
Hayes?» La voce del giovane aveva un tono acido e di rabbia
repressa. «E per rispondere alla tua domanda, così
finalmente la finirai di insinuare assurdità: nessuno mi ha
rifiutato», rispose, distogliendo lo sguardo da
ciò che
stava osservando e seguendo Shura con la coda dell’occhio.
«Il mio padrone...» ribattè l'altro con
tono
ironico, mentre apriva l’acqua calda e se la faceva scorrere
addosso, «è partito questa mattina presto per New
York.
Visto che ha lasciato Kanon a fare da angelo custode al gemello, ha
deciso di seguire lui le ultime fasi preliminari per l'acquisizione di
quelle due società che stavate tenendo
d’occhio.»
«Lui cosa? Non può fare una cosa del genere! Non
ne ha il
diritto! Quello è un nostro progetto!»
urlò Aiolos,
entrando di scatto nel bagno e piazzandosi di fronte alla parete di
vetro smerigliato del box doccia. «E Kanon, che cosa ha detto
in
proposito?»
«Bamboccio, non alzare troppo la cresta!» rispose
Shura,
uscendo dalla doccia e avvolgendosi l’asciugamano attorno
alla
vita. «Non avete ancora sufficiente esperienza per gestire da
soli queste cose. Soprattutto quando in ballo non ci sono soldi vostri,
ma dovete rendere conto al consiglio di amministrazione e agli
investitori.»
L'uomo lo scostò in malo modo per passare, ma si
fermò
subito. «E ricordati una cosa: Shion William Hayes non ha
bisogno
del consenso di nessuno, men che meno del vostro.»
Il suo sguardo si fece tagliente, tanto da far sentire in soggezione il
giovane che serrò le labbra e abbassò gli occhi,
trattenendo il respiro finché l’altro non
uscì
dalla stanza.
«Non te la prendere in questo modo. Arriverà anche
per voi l’occasione per farvi valere.»
*****
«Eccoti finalmente!» esclamò Kanon,
trovando il
gemello seduto per terra a gambe incrociate, intento a far rimbalzare
una pallina da tennis contro il muro posteriore del garage.
«Allora è qui che ti rintani quando vuoi sfuggire
alla
vista degli altri?»
«È uno dei tanti», rispose Saga, alzando
le spalle e continuando quel suo passatempo.
«Non ricordavo che qui fosse stato pavimentato, né
che ci
fosse quello», disse Kanon, fissando lo sguardo sul canestro
regolamentare appeso al muro posteriore del garage.
Eppure, proprio lì, lui aveva passato pomeriggi interi,
durante
le loro estati da adolescenti, a giocare con Aiolos, in sfide che
terminavano immancabilmente in rissa. Sul suo volto comparve un gran
sorriso. «Fantastico! Domani sfido Aiolos a un bel uno contro
uno!»
La pallina da tennis gli passò a pochi centimetri dal
braccio,
andando a colpire il muro con molta violenza, rimbalzando poi verso di
lui con ancora più forza. Il rampollo Hayes si
scansò
appena in tempo e, girandosi, vide il gemello prenderla al volo. Lo
guardò per un momento, indeciso se protestare o fargli i
complimenti per i riflessi pronti. Subito, Saga replicò il
lancio, ma questa volta Kanon, dopo aver aspettato il rimbalzo,
l'afferò al volo. Di nuovo, si girò verso il
gemello,
mostrandogliela tutto soddisfatto. Lo trovò in un
atteggiamento
d'attesa, con lo sguardo triste e le labbra piegate un poco verso il
basso.
«Ancora i crucci dell’altra sera? Oppure
è per colpa di papà che stai
così?»
Il giovane Hayes iniziò a camminare avanti e indietro per
quel
piccolo campo, facendo ribalzare a terra la pallina a ogni suo passo.
All’improvviso si fermò e, assumendo la posizione
da
lanciatore professionista della Major League, la scagliò con
forza contro il muro, scansandosi per non essere colpito dal rimbalzo.
Non da meno del fratello, Saga la prese al volo, senza scomporsi
più di tanto. Kanon sorrise. Poi, si sedette a terra,
accanto a
lui, ma in posizione contrapposta, come a formare una sorta
di Tao,
dove l'uno era lo yin
e l'altro invece era lo yang.
«Una sfuriata capita a tutti di subirla, prima o poi. Non
è la fine del mondo, Saga», disse Kanon,
allungando le
gambe e accavallando i piedi. «Anzi, essendo tu sangue del
mio
sangue, è strano che ci abbia messo così tanto!
Quasi mi
veniva da pensare che non fossi veramente mio fratello!»
esclamò con divertimento, ma che aveva più il
sapore
dello sberleffo. «Le cose fra voi si aggiusteranno presto. Lo
sai
com’è fatto papà. È sempre
stato un po'
apprensivo nei tuoi riguardi, ma dopo il tuo
incidente…»
Quell'ultima frase la pronunciò abbassando la voce: sentiva
un
po' di disagio quando doveva riportare alla mente quell'episodio. Ma al
tempo stesso, forse inconsciamente, si toccò sopra la tempia
destra con la punta delle dita. «lo è diventato
ancora di
più.»
Sospirò nel vedere Saga abbassare la testa e toccarsi anche
lui
sulla tempia destra. A distanza di quasi tredici anni dall'accaduto,
quello era ancora un argomento delicato in casa Hayes. E chi ne
soffriva maggiormente era proprio Saga, che nonostante non avesse mai
dato segni di ricordare l’accaduto, viveva quelle eccessive
preoccupazioni con grande stress; e più lui mostrava di
risentire di quelle attenzioni, più gli altri lo trattavano
con
riguardo.
«Certo, questo controllo così maniacale di questi
ultimi
tempi non lo condivido affatto, hai diritto anche tu a un po’
di
libertà, ma che ci vuoi fare?» disse Kanon,
dandogli una
pacca sulla coscia. «Ora concentrati sul lavoro e vedrai che
papà si dimenticherà presto della tua scappatella
e
tornerà a essere soddisfatto del suo figlio preferito. Non
vorrai mica farmi prendere il tuo posto, vero?»
Saga alzò ancora una volta il braccio, pronto a lanciare la
pallina, ma fu subito bloccato dal fratello.
«Ascoltami. Lo vuoi un consiglio da un esperto in questo tipo
di
pasticci? E tu sai bene che ne ho combinati tanti e tu spesso mi hai
dato una mano a coprirli. Credo che le tue preoccupazioni siano
esagerate. Lo hai detto tu stesso che anche lei era consapevole di
quello che stava facendo e che...» Fece una pausa per cerdare
le
parole più adeguate, ma rinunciando poi a terminare quella
frase. «Lascia passare qualche giorno in modo che si calmino
le
acque. Così potrai capire se è stato solo un
colpo di
testa, oppure se c'è qualcosa di più. Questo vale
per
tutte le cose: dai tempo al tempo. Se non ti passa, se senti che
è una cosa importante per te, allora rischia, torna alla
carica
e vedi come va!»
Kanon notò una volta di più lo sguardo avvilito
del
gemello, gli si avvicinò ulteriormente e lo
attirò a
sé fino a farlo sbilanciare e cadergli addosso,
abbracciandolo
forte e stritolandolo d'affetto.
«E cosa vuoi che possa fare?» disse Saga, quasi
pigolando
come un bambino. «Mi ha proibito di uscire di casa. Non posso
nemmeno arrivare al Country Club. Ci mancava solo che mi chiudesse a
chiave in camera mia, neanche avessi ancora cinque anni.»
«Probabilmente hai ragione, se Nanny si ricordasse dove ha
messo
le chiavi delle nostre porte, lui lo considererebbe seriamente per
davvero!» confermò Kanon, ridendo e
accarezzandogli la
testa. «E poi la butterebbe via!»
«In questi ultimi tempi faccio solo cose sbagliate. Deludo le
persone: tutte. Perché la vita sta diventando
così
difficile?»
Saga chiuse gli occhi, sfogando con quelle parole la sua frustrazione e
mostrando tutta la sua fragilità. Sospirò e si
abbandonò completamente alle coccole che gli stava facendo
il
fratello: l’unico che lo capiva davvero e lo faceva sentire
meglio, in quelle occasioni.
«Ma no, Saga, basta prendere le cose nel verso giusto. Non so
bene cosa fai quando stiamo lontani, la vita è tua ed
è
giusto che tu la viva come vuoi, ma sono sicuro che non è
nulla
di sbagliato. Vedrai che appena troverai un tuo equilibrio tutto
andrà meglio. Tutto diventerà più
facile.»
Sempre più spesso, in quegli ultimi due giorni, Kanon era
stato
costretto a interpretare il ruolo del fratello saggio e responsabile,
per confortare il gemello. Non gli dispiaceva quel tipo di vicinanza e
complicità, ma in qualche modo iniziava a pesargli il fatto
che
Saga si mostrasse così debole di carattere, come se fosse
rimasto indietro, mentre lui e Aiolos erano andati avanti con la loro
vita. Forse la responsabilità era da attribuire anche alla
troppa protezione che tutti si premuravano di dare a quel fratello
buono e con la testa sempre un po' fra le nuvole.
«Comunque non preoccuparti», gli disse, continuando
a
tranquillizzarlo. «Papà non ci sarà nei
prossimi
giorni. Quindi, se ce ne sarà bisogno, ti coprirò
io con
gli altri, anche per eventuali chiamate di controllo. Però,
se
proprio devi stare fuori tutta la notte, avvisami prima,
così
avrò tempo per inventarmi qualcosa!»
Con la mano gli scompigliò i capelli biondi, rincarando la
dose
prendendolo in giro perché erano troppo lunghi e lo facevano
assomigliare a una ragazza. Rise di nuovo di gusto nel sentire le
proteste dell'altro, stringendolo ancora un po' a sé.
«Io
torno dentro, c’è un sacco di lavoro che mi
aspetta.
Quando te la senti, vieni in biblioteca: mi farebbe piacere se
lavorassimo assieme.»
Lo tenne abbracciato per diversi altri secondi, quasi soffocandolo.
Poi, si rialzò e lasciò il gemello a rimuginare
su quello
che gli aveva detto, ma dopo neanche qualche passo, sentì di
nuovo il rumore sordo e ritmico della pallina che rimbalzava prima a
terra e poco dopo contro il muro del garage.
«Grazie, Kanon», disse in tono sommesso Saga,
continuando nel suo gioco.
*****
Aiolos si concesse una breve passeggiata, dopo aver lasciato la
dependance nella quale viveva Shura. Non c'era alcuna
necessità
di rientrare in fretta alla villa. Passò dalla cucina. Con
lo
sguardo a metà fra l’infastidito e lo scocciato
aprì il frigorifero e iniziò a frugarci dentro.
Aveva
fame, il suo stomaco reclamava a gran voce, ma non sapeva bene di cosa
avesse voglia. Scrollò la testa, ripensando a Shura: non
capiva
come avesse ancora energie per fare anche jogging dopo tutta
l'attività fisica che avevano fatto assieme. Con molta
probabilità, in quel preciso momento, stava facendo il giro
completo dell'immenso parco che circondava la villa.
Sbuffò annoiato. Ovunque posasse gli occhi non riusciva a
trovare nulla di soddisfacente. Purtroppo per lui erano finiti i tempi
in cui la nonna gli faceva trovare sempre dei brownies o dei cookies
appena sfornati, ma forse… provò a guardare nella
vecchia
biscottiera, lì in bella vista sul piano di lavoro: erano
rimaste solamente briciole.
Tamburellò con le dita per qualche secondo. Alla fine si
decise
per del succo d'ananas, che trangugiò direttamente dal brik,
e
un sandwich. Dal pensile alto recuperò una confezione di
pane
integrale a fette. In frigorifero trovò del bacon e prese il
formaggio spray. Si preparò tutto con precisione: le due
fette
di pane una vicino all'altra, il bacon aperto lì vicino e la
bomboletta di formaggio spray che agitava nella mano. Puntò
il
beccuccio erogatore sul pane, il dito era pronto a fare pressione. La
sua mano tremava leggermente. Provò un paio di volte, senza
riuscirci: qualcosa lo bloccava.
«Al diavolo!» imprecò. «In
fondo neanche mi piace.»
Optò allora per delle fette di pomodoro e della mostarda
piccante. Poi, con il sandwich in mano e la bocca piena,
salì in
camera sua, buttandosi sul letto per continuare la lettura di quel
quadernetto.
“…
Ero ancora nell’ufficio di Burton quando il professor Taylor
è uscito dalla saletta degli interrogatori. L’ho
visto
davvero sconvolto, mentre si passava le mani fra i capelli, quasi a
volersi rimettere in ordine per i presenti. Sembrava più
nervoso
di quanto già non lo fosse quando era entrato e quella sua
tensione era ben evidenziata dal sudore sulla fronte e dal tremore
delle mani. Forse, a pensarci ora, la definizione più
calzante
per quell’uomo, in quel momento, era “dannatamente
irritato”. Evidentemente nemmeno lui è riuscito a
persuadere il suo ex pupillo a parlare. Chissà poi cosa
voleva
ottenere.
Il
professore
si è diretto subito verso l’avvocato della
procura,
confabulando per alcuni minuti, ritornando ogni tanto con lo sguardo
verso la porta della stanzetta dove ancora era rinchiuso
l’accusato. Più quei due parlavano, più
il
professore riprendeva la sua solita aria dura e determinata.
È
un grand'uomo, ma a volte mi dà l’impressione di
strafottenza.
Alla
fine di
quella fitta conversazione, l'avvocato della procura ha chiamato il
tenente Burton dicendo che si poteva procedere con la conferma
dell’arresto. Burton ha fatto segno ai due agenti presenti di
prendere in custodia il giovane e riportarlo nella gabbia, in attesa
del trasferimento in carcere, poi ha chiamato me per consegnarmi delle
carte.
Quando
lo hanno
trascinato fuori, la sua espressione era rassegnata come se si stesse
incamminando al patibolo. Era calmo e sereno, ma ho notato qualcosa di
inquietante in lui, muoveva le labbra come se stesse pregando, o
forse... parlava con qualcuno di invisibile, lì vicino a
lui.
Che voglia giocare la carta dell'infermità mentale?
Ero
di fianco
al tenente quando quel giovane ci è passato davanti. Come se
non
fossero stati abbastanza i segni sul suo viso, ora aveva un piccolo
rivolo di sangue che gli scendeva dall’angolo della bocca e
una
guancia arrossata. Prima che gli agenti lo spintonassero fuori, per un
attimo, solo un attimo, mi ha guardato; e mi è sembrato che
mi
sorridesse. Non nascondo che sono rimasto turbato. Di nuovo ho visto in
lui la stessa fierezza di prima.
Burton
se
n’è accorto e mi ha detto che non devo cascarci in
queste
cose, non devo dar peso a ciò che è accaduto,
sono
tattiche che usano i criminali per far credere di essere innocenti e
quelli con l’aspetto angelico sono i più
pericolosi.”
«Aspetto angelico…» ripeté a
mezza voce Aiolos, distogliendosi per un attimo dalla lettura.
Sul suo volto comparve uno strano sorrisino, mentre nella sua mente si
formava di nuovo l’immagine del viso spaventato di Saga che
aveva
visto la notte precedente. Chiuse il quadernetto e lo fissò
per
qualche momento, mordendosi l'unghia del pollice. Era un brutto vizio
che si trascinava fin dalla giovane età e veniva fuori
quando
aveva qualche pensiero che lo turbava.
«Che sciocchezze. Sto perdendo tempo!»
borbottò,
richiudendo il quadernetto nel cassetto della scrivania con un colpo
secco. Poi, ci rifletté su. Lo riprese e se lo mise nella
tasca
posteriore dei jeans, prima di raggiungere Kanon in biblioteca.
*****
Trovò Kanon seduto alla scrivania, dietro una montagna di
scartoffie, che sbuffava come un bufalo e tamburellava le dita sul
bracciolo della poltrona di pelle, con lo sguardo fisso sul cellulare
di fronte a sé. Aiolos lo aveva visto talmente assorto che
era
sicuro non avesse notato quando gli era passato davanti per andarsi a
sedere su una delle poltrone vicino al camino.
«Devo decidermi a dirglielo, prima che sia troppo
tardi»,
borbottò il giovane, muovendosi sulla poltrona e continuando
a
sbuffare. «Tu che ne pensi, Aiolos? Dammi un
parere: dici
che è il caso di parlarne a papà di quella cosa,
o provo
a risolverla da qui?» Ci furono diversi secondi di silenzio.
«È inutile che tenti di nasconderti, ti ho visto
benissimo!»
«Fai quel che vuoi, la testa è tua. E quello che
hai in
mezzo alle gambe, pure. Mi chiedo solo quale delle due cose
rotolerà per terra per prima», ribattè
con sarcasmo
l’amico, ridacchiando e tornando nella sua comoda posizione
di
imboscato.
«Se non ci fosse stato questo inconveniente in famiglia avrei
potuto risolvere il tutto con la massima discrezione. Il tempo e
l’occasione non mi mancavano, però ora
c’è
lui nell’ufficio di New York e sono certo che i documenti gli
arriveranno sulla scrivania entro la fine della giornata»,
sbuffò ancora Kanon.
Con la mano giocherellava distrattamente con alcuni fogli del fascicolo
che aveva davanti, intanto che componeva il numero privato del padre
sul cellulare. Sentì squillare almeno una decina di volte,
prima
che dall’altra parte il destinatario rispondesse.
«Buongiorno, papà! Va tutto bene in ufficio? Hai
trovato
tutto in ordine?» disse, cercando di essere il più
naturale possibile.
«Sto attendendo i legali della compagnia per stilare il
contratto
preliminare per l’acquisizione. Quindi arriva al sodo,
Kanon», rispose l'uomo, che conosceva bene le tattiche del
figlio
e si aspettava quella telefonata.
Dall’altra parte invece, il ragazzo si irrigidì,
cercando
rapidamente un modo per sbrogliare la situazione e uscirne col minimo
danno possibile.
«Ecco, appunto. È proprio di questo che ti volevo
parlare.
Hai presente quel progetto che ti avevo proposto…
ehm…
che Aiolos e io ti avevamo proposto?» si corresse, includendo
intenzionalmente anche l’altro e sorrise in modo teso
all’occhiataccia di Aiolos. «Ecco, sì,
forse sarebbe
più saggio lasciar passare qualche tempo e rifletterci
meglio.
Sai, non è detto che tutto sommato sia un così
grande
affare per noi.»
Provò a essere il più convincente possibile, ma
se il
padre lo avesse visto in quel momento, avrebbe capito quanto nervosismo
celavano le sue parole.
«Parla chiaro!»
Ci fu un breve silenzio nel quale Kanon allontanò il
cellulare
dall’orecchio e fece un respiro profondo, prima di
riprendere.
«Ecco, vedi... Sono saltati fuori alcuni piccoli
inconvenienti
che rendono meno appetibile l’acquisizione di una delle due.
E...
visto che quelle due società sono collegate fra
loro…»
«Quali inconvenienti?» domandò Shion,
con voce estremamente seria.
«Tranquillo, cosucce di poco conto…»
cercò di
rassicurarlo Kanon, calcando però un po' troppo il tono
della
voce con una giovialità poco adatta al momento.
«Ci
penserò più che volentieri io a sistemare le cose
non
appena verrò lì.»
«Quali inconvenienti, Kanon!» insistette Shion
Hayes,
seduto sulla sua poltrona in pelle nell’ampio ufficio di
Manhattan e con le mani congiunte sul petto.
Kanon si schiarì la voce, prima di rispondere «La
commissione antitrust gli sta con il fiato sul collo per una questione
che li aveva visti coinvolti un paio di anni fa», dovette
ammettere.
«E me lo dici quando siamo praticamente a un passo dalla
firma
per l’acquisizione della società?
Perché diavolo
non me ne hai parlato prima?»
«Non è colpa mia, ho avuto la conferma alla
notizia
solamente pochi minuti fa!» mentì spudoratamente
l'altro,
iniziando a sudare freddo. In sottofondo si sentì la risata
inopportuna di Aiolos.
«Da dove viene questa notizia e quanto è
affidabile la tua
fonte?» chiese l'uomo, massaggiandosi entrambe le tempie.
Quella
telefonata gli stava provocando un gran mal di testa.
Con il vivavoce inserito, anche i collaboratori presenti, i
più
stretti e personali del grande capo, che conoscevano bene il giovane
Hayes e i suoi metodi di lavoro, venivano direttamente informati del
“contrattempo”. Mise Kanon in attesa, per non
lasciare che
il “pubblico” sentisse oltre, poiché
sapeva bene
dove il figlio sarebbe andato a parare. Congedò i presenti
impartendo loro alcune direttive. Poi, una volta rimasto solo,
riaprì la comunicazione. «Avanti,
dimmi», disse, con
un sospiro rassegnato.
«È la segretaria personale del presidente della
compagnia
Dixon. Me lo ha detto “in confidenza”»,
specificò, Kanon. «Dubito che abbia potuto
giocarmi un
brutto scherzo, soprattutto non dopo due bottiglie di champagne e le
attività ricreative connesse!»
A stento trattenne una risatina nel ripensare a quella serata,
nell'appartamento di lei, che si era rivelata molto piacevole e al
tempo stesso proficua.
«Ti stai contraddicendo, Kanon», lo corresse Shion.
«Figliolo, un tempo eri più bravo a raccontare le
frottole
e soprattutto a mantenere una parvenza di coerenza, ma forse in questo
ti aiutava tuo fratello, non è vero?»
«Come?» si sorprese il giovane. «La
notizia è
comunque sicura! Piuttosto, vedi di sbarazzarti di quegli analisti
incapaci di cui ti servi, se avessero saputo fare il proprio dovere con
competenza, non ci saremmo nemmeno imbarcati in questo
affare!»
si giustificò, ora con tono decisamente risentito.
«Non dare la colpa agli altri per una tua leggerezza. Te l'ho
già detto più volte che non mi piace il modo in
cui
ottieni certe informazioni. Tu e quell’altro che ti porti
appresso avete terminato gli studi da poco! L’aver chiuso un
paio
di buoni affari non significa che tutto d’un tratto siete
diventati degli esperti del settore. Comincio a pensare che avrei
dovuto farvi iniziare entrambi come fattorini!» lo
rimproverò con voce severa il padre, mettendo finalmente in
chiaro le cose.
«Che vuoi dire, che siamo due incompetenti? Che hai solo
sprecato
tempo con noi? Scusa tanto se siamo una delusione per te, per non
essere stati all’altezza della tua amata Harvard. Forse
avresti
dovuto riservare un trattamento speciale anche a noi, come hai fatto
con il tuo figlio prediletto ma difettoso!» urlò
Kanon,
alzandosi di scatto dalla poltrona.
Non attese la susseguente lavata di capo da parte del padre che avrebbe
sicuramente tirato in ballo argomenti come “il rispetto dei
genitori e dei ruoli”, o “la
responsabilità delle
proprie scelte e delle proprie azioni” e via di seguito. Con
un
gesto ancora pieno di rabbia interruppe la chiamata e alzò
il
braccio con impeto, con la voglia di scagliare a terra il cellulare e
sfogare così la sua frustrazione.
«Allora, come l’ha presa?»
domandò Aiolos,
affacciandosi di nuovo. Il suo volto esprimeva un'indifferenza
strafottente.
«La solita solfa», rispose l’altro,
lasciandosi
cadere esausto sulla poltrona. Il suo volto era ancora tirato per la
rabbia.
«Papà era già al corrente di tutta la
faccenda. Ti
ha messo alla prova», intervenne Saga. Era rimasto in
disparte e,
al termine della telefonata, aveva palesato la sua presenza
all’interno della biblioteca, attirando su di sé
gli
sguardi stupiti degli altri due.
«Che vuoi dire?»
«Quello che ho detto», confermò Saga,
con un tono
rammaricato e la testa bassa. Era rimasto volutamente seminascosto e
con la mano che ancora stringeva la maniglia della porta.
«Non può essere!» ribattè
Kanon.
«Sembrava sorpreso quando gliel’ho detto ed era
anche molto
in collera, alla fine!»
«Allora è un attore migliore di te»,
rispose Saga,
celando lo sguardo al fratello per non mostrare la tristezza e il
dispiacere che velavano i suoi occhi. Poi si girò per uscire
dalla biblioteca.
«E tu che ne sai di questa faccenda?» intervenne
con tono
arrogante Aiolos che nel frattempo si era avvicinato a Kanon, sedendosi
sull'angolo della scrivania. «Probabilmente non hai perso il
vizio di origliare. Ecco perché sei così
informato», rincarò la dose con
un’espressione
maliziosa e sarcastica sul volto, dando una stoccata velenosa al
gemello del suo migliore amico.
«Le mie competenze sono uguali alle vostre, ma ho metodi di
lavoro diversi», rispose Saga, lasciandosi andare a un
sospiro
troppo udibile. «Kanon, credo che a questo punto il mio aiuto
non
serva più, se avrai bisogno di me sarò in camera
mia.»
«Aspetta, Saga!»
Kanon lo trattenne per un braccio e lo abbracciò forte.
«Ti prego, non fraintendere quello che hai sentito. Ero
arrabbiato con papà per quello che aveva detto al
telefono.»
«Non ti preoccupare, lo so di essere sbagliato, di essere
difettoso.» Saga ripeté le stesse parole
pronunciate poco
prima dal gemello e con la mano si sfiorò sopra la tempia
destra. «È per questo che mi tratti come se fossi
ancora
un bambino.»
«No, Saga, non è così»,
provò a
spiegargli Kanon. Allungò la mano per accarezzargli la
guancia,
ma l’altro indietreggiò di un passo.
«Me ne rendo conto anch’io che non sono un
granché
nelle relazioni con gli altri, non quanto tutti voi, ma so fare il mio
lavoro. E in quello sono bravo almeno quanto voi. Sono professionale e
responsabile.»
«Lo so, Saga. Lo so.»
Kanon vide lo sguardo del fratello farsi più sicuro, ma
questo
non bastò a celare la profonda tristezza che quelle sue
parole,
dette con rabbia al telefono, gli avevano provocato. Avrebbe voluto
rassicurarlo ancora, dirgli che sapeva che non era colpa sua se era
così, che quel suo candore, quando esprimeva i sentimenti,
era
una benedizione, ma che a volte era anche un male. Avrebbe voluto
dirgli tutte quelle cose, invece lo lasciò andare via, per
rifugiarsi nella sua camera.
*****
Come le aveva promesso Edward Price, non le erano stati concessi
favoritismi per il suo legame con Phillip Burton. E anche per quel che
riguardava il lavoro, l'uomo era stato di parola. Cora se ne accorse
quando Susan, la segretaria, l'accompagnò nel seminterrato
della
palazzina, ovvero il luogo dove avrebbe passato le sue giornate
lavorative. Quell'ampio spazio era un immenso magazzino, con tanto di
gabbia metallica, chiusura elettronica e telecamere di sorveglianza,
per i documenti e le prove più sensibili. Nell'indicargliele
Susan le disse che i monitor erano collegati al suo computer. Le
spiegò quello che Price si aspettava da lei e infine le
consegnò il tesserino magnetico. Poi, dopo averle dato le
ultime
istruzioni, andò via tacchettando veloce. Cora si
guardò
attorno: le sembrava di trovarsi in uno di quei serial polizieschi
tanto popolari. Fece un lungo giro di “ispezione”
per
familiarizzare con quel luogo. Sorrise nel vedere così tanti
schedari di metallo e le scaffalature piene di scatole di reperti.
Ricordava che una volta, quando era ancora una bambina, suo padre le
aveva fatto visitare le zone più nascoste e polverose del
distretto: “Piene di segreti e tesori”, le diceva
in quelle
occasioni, per farla divertire.
«Sono sicura che mi troverò bene.» In
quella fase
della sua vita voleva un poco di tranquillità e quella
mansione,
apparentemente ingrata era proprio ciò che cercava.
Dopo quattro giorni di lavoro, in mezzo a quel marasma, ancora non era
riuscita a capire quale metodo di catalogazione usassero in
quell’agenzia. Lo schedario principale era in condizioni
pietose:
solamente un quinto delle schede sembrava essere stato messo in ordine
alfabetico, ma riguardavano tutti casi di tre anni prima. Il resto era
un caos totale, nel quale ci si poteva imbattere, strano ma vero, in
casi vecchi di trenta o quarant’anni, messi subito dopo a
casi
dell’anno precedente; così come l’ultimo
caso
archiviato, sarebbe potuto stare in mezzo a quelli di venti anni prima.
Non c’era alcuna logica, neanche il più recondito
collegamento fra i casi. Possibile che un’agenzia
così
prestigiosa nel 2010 ancora facesse affidamento su un metodo di
archiviazione manuale?
Ma in fondo, di cosa si lamentava? Anche lo zio Phil prediligeva i
mezzi tradizionali, con la sola differenza che con lui, Cora doveva
gestire molto meno lavoro. Eppure c’era qualcosa che non
tornava.
Aveva notato come l’agenzia andasse abbastanza di pari passo
con
la tecnologia e la segretaria usasse complicati programmi di gestione
dei documenti; persino in quel seminterrato lei stessa aveva a
disposizione strumenti che non aveva mai usato prima. Dunque
perché mantenere anche un tipo di archiviazione obsoleta?
Forse era un po’ troppo presto per porsi certe domande.
Quello
che sapeva era che l’avevano assunta per sistemare quel
magazzino
e questo lei avrebbe fatto.
*****
Il ritorno a casa per Cora era sempre un'impresa. Ancora non aveva
fatto le gambe per tutte quelle scale, che si andavano a sommare al
lungo tratto di strada dalla fermata dell'autobus fino alla casa dello
studente di Dohko. Arrancò stancamente, gradino dopo
gradino,
fino al suo appartamento al quarto piano, facendo una piccola sosta a
metà della penultima rampa per rifiatare. La borsa
continuava a
scivolarle dalla spalla, rendendole la salita più ardua.
Nella
mano teneva il sacchetto con la cena: il menù speciale del
sabato preso al fast food di fronte alla sua fermata. Non vedeva
l’ora di entrare in casa, buttare a terra borsa e scarpe,
lasciarsi cadere sul letto e passare la successiva mezz’ora a
sospirare e mangiare schifezze, dimenticandosi per un momento di quella
giornata. Sapeva che ad aspettarla c’erano ancora diversi
scatoloni da svuotare e tanto da sistemare. L’appartamento
infatti non aveva subito alcun miglioramento in quei giorni;
oltretutto, si era appena fatta spedire le ultime cose da Philadelphia.
Sospirò: con molta probabilità avrebbe rimandato
a
domani, proprio come aveva fatto la sera precedente. Si
passò la
mano sulla fronte e riprese quei pochi gradini che le mancavano; ma,
quando alzò gli occhi per iniziare l'ultima rampa, lo vide.
«Cosa ci fai tu qui?» gli domandò,
sgranando gli occhi.
«Ti stavo aspettando.»
Cora trattenne il respiro. Lui, quella stupida incoscienza che voleva
dimenticare, era di nuovo lì fronte a lei, vestito come un
signorino di buona famiglia: con il maglione chiaro, una camicia dal
colletto ben inamidato, i jeans scuri e il cappotto piegato con cura
sulle gambe. Sedeva tutto tranquillo sul gradino più alto e
la
guardava con un sorriso dolce sulle labbra.
«E come mai? Hai forse dimenticato qualcosa?»
domandò, cercando di mascherare con la diffidenza il timore
che
provava in quel momento.
«No, non è per questo che sono venuto. Volevo
vederti
e… parlarti», rispose lui. Si sentiva un
po’
sciocco, perché in verità non sapeva cosa dirle.
«Non c’è bisogno di parlare di nulla.
Abbiamo fatto
quel che abbiamo fatto. Se ora temi che voglia avanzare qualche tipo di
pretesa, o fare giochetti, o peggio ancora ricattarti, stai tranquillo,
non sono quel tipo di persona», ribatté subito
lei.
«Puoi tornartene a casa dalla tua ragazza, o fidanzata, o
moglie,
e scordarti di me!» terminò, salendo quell'ultima
rampa e
scavalcandolo, raggiungendo in fretta la porta dell'appartamento.
«Aspetta, Caroline! Hai frainteso. Non sono qui per questo.
Non
ho pensato neanche per un momento a una cosa del genere!»
rispose
tutto d'un fiato Saga, alzandosi di scatto e lasciando scivolare a
terra il cappotto. «E comunque… non sono
impegnato.»
Cora sussultò, voltandosi verso di lui e stringendosi la
borsa
al petto. «Come conosci il mio nome? Sul citofono non
c’è e nemmeno sulla cassetta della posta o sul
campanello
della porta!» esclamò, arretrando
d’istinto fino a
sbattere con la schiena sulla porta. La sua mano aveva già
afferrato la piccola bomboletta al peperoncino che teneva nella borsa.
Saga provò ad avvicinarsi, ma abbandonò subito
quell’idea, vedendo come lei si fosse messa sulla difensiva.
«È scritto sull’intestazione della posta
che ti
è arrivata quest’oggi: sulle lettere e sul
pacchetto. Sono
lì per terra, accanto alla porta.» Con la mano le
indicò il mucchietto di corrispondenza che giaceva vicino
alla
porta. «Il postino ha voluto una firma per la consegna e
io…»
Lei sgranò gli occhi. «La posta? Di oggi? Ma da
quanto
tempo stai aspettando?» Di colpo la tensione che aveva
sentito
addosso si dissipò. «Saranno ormai le otto passate
e il
postino di solito fa le consegne verso le tre del pomeriggio. Hai
aspettato qui tutte queste ore?»
Spostò lo sguardo sulla posta ammonticchiata a terra,
riflettendo che di solito era il vecchio cinese a ritirarla per lei e
non la lasciava mai sul pianerottolo. Poi, di colpo realizzò
quanto fosse grave la situazione. «Ma... come ti sei permesso
di
guardare la mia posta?»
Saga le rispose con un sorriso disteso, spolverando il cappotto con la
mano.
«Smettila di sorridere!» gli gridò
contro. Se ne
pentì subito, quando lo vide trasalire e abbassare la testa,
intristito.
«Perdonami se ti ho offesa. Non pensavo di fare qualcosa di
male», si scusò Saga, ancora con lo sguardo basso.
Si
girò, il cappotto sul braccio, e iniziò a
scendere
lentamente i gradini.
Cora fissò la sua schiena. Si rammaricò nel
vederlo
allontanarsi così. Fece un respiro profondo e si
chinò
per raccogliere la posta. «Avresti potuto almeno presentarti,
così avrei saputo come chiamarti... la prossima
volta»,
mormorò, prendendo le chiavi dalla borsa.
«Davvero vorresti ci fosse una prossima volta?»
chiese,
sussurrandole all’orecchio, facendola sobbalzare per la
sorpresa.
La posta le cadde dalla mano. «Allora rimedio subito. Mi
chiamo
Saga.»
«Perché mi arrivi sempre alle spalle?»
disse Cora, con un leggero tremolio nella voce.
Saga le prese la mano che stringeva la chiave e, con un gesto leggero e
sensuale, la guidò, girando la chiave nella toppa e facendo
scattare la serratura, ma senza aprire la porta. Rimasero in quella
posizione per diversi secondi, senza dirsi nulla. Bastavano i loro
respiri e le reazioni dei loro corpi a comunicare ciò che
stavano provando.
«Finirà come l’altra sera?»
chiese Cora, chiudendo gli occhi e trattenendo il respiro.
L’abbraccio con il quale lui la stava circondando era
avvolgente
e rassicurante. Tenero e al tempo stesso eccitante. Il calore del suo
corpo e quel profumo così lieve e dolce le facevano capire
che
poteva fidarsi di quel ragazzo che era capace di sorprenderla senza
spaventarla davvero. Ancora una volta provò il desiderio di
abbandonarsi completamente a lui.
«Solo se lo vorrai anche tu», le rispose in un
sussurro
carezzevole, sfiorandole la guancia con le labbra. Con una piccola
spinta aprì la porta.
«Un attimo!» lo fermò lei. Si
girò a fatica,
nel poco spazio che lui le concedeva, e lo guardò negli
occhi,
sorridendo un poco imbarazzata. «Prima dimmi una cosa, Saga.
Per
quanto tempo saresti rimasto qui fuori, su queste scale buie e sporche,
ad attendere il mio ritorno?»
«È una domanda difficile a cui dare una
risposta»,
rispose lui, divertito nel vedere comparire un velo di delusione sul
volto della ragazza che teneva fra le braccia. «Non mi sarei
mosso di qui finché tu non fossi tornata», le
disse con
tono serio.
«Ero convinta che non ti avrei più
rivisto.» Cora
continuò a guardarlo, le sue mani appoggiate al petto del
ragazzo e quel sacchetto della cena fra loro; poteva avvertire con la
punta delle dita il battito accelerato del suo cuore. «Non
sono
riuscita a farti uscire dai miei pensieri»,
sussurrò,
abbassando gli occhi.
«Avresti preferito che non fossi più
tornato?»
«È una domanda difficile»,
replicò lei.
Gli accarezzò il viso, guardandolo con languore. Poi,
portò le mani dietro la sua nuca, immergendo le dita in quei
capelli biondi così belli e setosi. Si alzò in
punta di
piedi e baciò con dolcezza le sue labbra tanto morbide,
ricambiata subito con altrettanta delicatezza.
«Allora, resti?» gli propose, prima di baciarlo con
maggiore passione e intensità.
«Ho il coprifuoco a mezzanotte», rispose Saga,
riprendendo
a baciarla prima che lei potesse accorgersi dell’imbarazzo
dipinto sul suo volto per ciò che aveva appena detto. E la
baciò fino a lasciarla senza fiato.
Entrarono nell'appartamento muovendosi un po' impacciati, abbracciati
l’uno all’altra e totalmente presi dal coinvolgente
sentimento che quei baci, pieni di passione, trasmettevano loro. Fecero
appena qualche passo, nell’apparente tranquillità
del
piccolo appartamento di Cora, quando iniziarono ad avvertire
distrattamente dei rumori inconsueti e qualcosa di umido sotto i loro
piedi: come se stessero camminando dentro una pozzanghera.
«Ma cosa…» Saga vide una piccola lingua
di acqua
luccicare alla luce delle lampade e strisciare lentamente verso di
loro, allargandosi sempre più. Poi, un sibilo sinistro
diventò più udibile e persistente, man mano che
la sua
attenzione si concentrava sull’ambiente.
Anche per Cora fu lo stesso. Le euforiche emozioni che aveva provato
poco prima, persa nei baci del ragazzo, erano man mano scemate
lasciando il posto alla preoccupazione di capire cosa stesse succedendo
in casa. Si affacciò nel salotto, camminando cautamente,
osservando l’acqua strisciare sul pavimento. Sul momento non
capiva da dove stesse arrivando. Poi, quel sibilo si fece
più
forte. Quasi scivolando a terra a ogni passo, entrò in
cucina,
rimanendo scioccata dal disastro che vi trovò:
l’acqua
zampillava copiosa dal rubinetto del lavello che traboccava come una
fontana, bagnando tutto ciò che aveva attorno, arrivando
persino
a colpire i mobiletti dalla parte opposta.
«No! No! No! No… Accidenti!»
esclamò, con crescente disperazione.
Si precipitò a cercare di tamponare quella fuoriuscita
incontrollata, ma più si avvicinava e più veniva
investita dal getto d'acqua. Afferrò lo strofinaccio e lo
premette sulla perdita, ma senza troppo successo: gli schizzi
più forti erano cessati, il flusso però
continuava a
riversarsi nel lavello e a cadere a terra.
«Tutto bene, Caroline?» le chiese un po'
ingenuamente Saga, rimasto indietro. «Ti serve una
mano?»
«Svelto, chiudi il rubinetto centrale
dell’acqua!» ordinò lei.
Il ragazzo si avvicinò un poco, rimanendo però al
di
là del bancone della colazione che divideva il salotto dalla
cucina, guardandola con un’espressione stranita. Vedeva Cora
combattere con il rubinetto, bagnandosi sempre di più.
«Cosa stai facendo lì impalato? Ti ho detto di
chiudere
l’acqua!» lo rimproverò con voce sempre
più
agitata.
Con passi molto cauti, Saga si avventurò nella piccola
cucina, affiancandosi a lei.
«Ma no, che fai qui? È nel bagno.
Muoviti!» lo
sgridò. «Lascia perdere, prendi il mio posto. Vado
io a
chiudere la valvola centrale. Tu continua a tamponare qui!»
Gli afferrò le mani e gliele fece mettere sullo strofinaccio
sporco e completamente intriso di acqua. Poi lo scostò
malamente, mentre gli passava dietro, e si diresse di corsa verso il
bagno, andando però a scivolare e sbattere il fianco sullo
spigolo del bancone.
Cora ci mise qualche minuto a tornare in cucina da Saga, trovando il
ragazzo fradicio e straniato come un pesce fuor d’acqua, in
mezzo
a quei devastanti effetti che il guasto aveva provocato. Lei stessa non
era messa meglio: bagnata dalla testa ai piedi e con gli occhi
arrossati. L’unica consolazione era che, così
bagnata e
con i capelli che gocciolavano, le lacrime di sconforto che aveva
pianto in bagno si confondevano con tutto il resto.
«Non è possibile… non dopo tutto il
tempo che ci ho
messo per sistemare questa casa. Non dopo tutti i soldi spesi nelle
riparazioni», mormorò afflitta per quel disastro:
l'acqua
ancora sgocciolava dal bordo del lavello e cadeva sul pavimento dove in
alcuni punti sembrava già essercene almeno un dito.
«Tieni, asciugati con questo», gli disse,
porgendogli un
asciugamano pulito e ancora piegato. Nell’altra mano aveva
con
sé un secchio e diversi stracci. Senza perdere altro tempo
si
mise in ginocchio e iniziò a raccogliere più
acqua
possibile.
Lavorando in due fecero abbastanza in fretta ad asciugare la cucina.
Cora di tanto in tanto indugiava con lo sguardo su Saga. Lo vedeva
lavorare di buona lena, senza emettere un lamento, né
preoccuparsi di sporcarsi i vestiti firmati, o rovinarsi le mani, che
solo in quel momento notava quanto fossero ben curate e delicate.
«Che pasticcio…» sospirò,
dopo aver strizzato
per l’ennesima volta lo straccio nel secchio già
pieno.
«Addio cena, addio relax, addio…» si
bloccò
di colpo, ricordandosi all'improvviso che l'acqua era arrivata anche in
altre parti della casa. Si sporse verso il salotto e vide che il
pavimento ne era pieno, ma non aveva intaccato gli scatoloni
accatastati vicino alla finestra. Non era stato altrettanto fortunato
quello ai piedi della postazione del computer, che invece ne aveva
assorbita una discreta quantità. «Mio Dio,
no!»
esclamò, con il panico che stava tornando a riaffacciarsi
nella
sua mente e il cuore che batteva all’impazzata.
Gattonò
fino allo scrittoio. Aprì lo scatolone e costatò
amaramente che le sue paure si erano realizzate.
«No! No!» La sua voce divenne tremula e le lacrime
traboccarono dai suoi occhi per la seconda volta in quella serata.
Estrasse le fotografie e i quaderni del padre, le cose più
preziose per lei, che ancora non aveva avuto il tempo di sistemare. Le
pagine dei quaderni erano tutte appiccicate le une alle altre, intrise
d’acqua almeno per metà. Tutto ciò che
era rimasto
di lui, i suoi pensieri, la sua vita, le parole che aveva scritto di
suo pugno, tutto si era dissolto e confuso in un alone di inchiostro
azzurrognolo. Strinse quegli oggetti al petto, iniziando a dondolarsi
avanti e indietro.
Saga le posò l'asciugamano sulle spalle, stringendola in un
abbraccio. «Possiamo provare ad asciugarli e a recuperare
qualcosa», le propose con voce gentile, ma lei
scrollò la
testa. «Ma ci possiamo sempre provare, no?»
«Sono completamente rovinati», insistette lei,
sorda a
tutto, continuando a scrollare la testa con lentezza. «Usava
la
penna stilografica. Amava scrivere in quel modo, sporcarsi le dita con
l’inchiostro, sentirne l’odore…
L’acqua ha
rovinato tutto.» Si tolse l’asciugamano dalle
spalle e
iniziò a tamponare quelle pagine, pur sapendo che non
avrebbe
fatto alcuna differenza. «Dovevo stare più
attenta…
dovevo stare più attenta…»
continuò a
ripetere come una litania, anche dopo che il giovane l'aveva stretta
ancora una volta al suo petto. «Avevo atteso così
tanto
per poterli avere, pensavo non sarebbe potuto succedere nulla,
invece... ora non ho più niente.»
Si alzò completamente sotto shock, portandosi via quel
quadernetto che ancora stringeva al petto e si chiuse in camera da
letto, dove l’acqua non era arrivata, lasciando Saga da solo,
con
i ricordi di una vita a lui estranei, abbandonati a terra in mezzo a
quel disastro.
note
del capitolo:
Brownies: sono dei tipici
dolci al cioccolato, dei quadratini di torta ricoperta di glassa al
cioccolato.
Cookies
:
sono i tipici biscotti americani, tondi con pezzetti di cioccolato,
famosi in tutto il mondo.
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Capitolo 12 *** Capitolo XI ***
XI
Quando
Cora
riaprì gli occhi, tutta indolenzita, era già
notte fonda.
Sentì un brivido scuoterle il corpo: indossava ancora i
vestiti
bagnati e i capelli erano umidi. Sulle guance avvertiva distintamente
la sensazione delle lacrime che aveva versato quella sera ed erano
scivolate sul cuscino. Si passò le mani sul viso: era caldo.
Controvoglia scese dal letto e un cerchio alla testa la fece barcollare
per qualche secondo. Poi, sopraggiunse un po' di nausea. Aveva sete e
fame. Si spogliò e dal cassetto del comò prese un
cambio
asciutto: una vecchia maglietta con la mascotte
dell'Università
e dei pantaloncini arancioni. Quella sensazione di freddo che sentiva
fin nelle ossa si placò un poco, ma ora aveva bisogno di una
bella sciacquata per togliersi i dispiaceri che le pesavano sul cuore.
Andò
in bagno
e si specchiò per qualche momento: assomigliava a uno
zombie.
Aprì il rubinetto, ma non uscì una goccia
d'acqua.
Riprovò più volte, senza risultato. Solo dopo si
ricordò del guasto, dell'allagamento e del disastro. Di
nuovo le
venne voglia di piangere, ma fece un gran respiro e strinse i denti.
Prima di uscire da lì, si sciolse la coda ormai disfatta e
liberò i riccioli castani sulle spalle.
Dalla
finestra del
salotto, con la sua luce fioca e discreta, la luna illuminava a
sufficienza la stanza per permetterle di non inciampare o andare a
sbattere da qualche parte. Passò accanto al bancone della
colazione e, su uno degli sgabelli, vide il suo cappotto piegato con
cura e la sua borsa adagiata sopra, sull'altro c'era quello di Saga e
anche il suo maglione. Alzò lo sguardo sul ripiano e si
stupì: disposti in ordine e ben asciutti c'erano quegli
oggetti
a lei cari che credeva ormai da buttare. C'era anche il sacchetto del
fast food. Se n'era completamente dimenticata. Sfiorò quegli
oggetti con le dita, soffermandosi sulla cornice con la foto del padre
in divisa, prendendola e stringendosela al petto, mentre osservava
anche il resto della stanza: la libreria era in perfetto ordine e gli
scatoloni appiattiti e posti dietro il divano, occupato dal fautore di
tanto lavoro.
Si
avvicinò
piano e lo osservò dormire, avvolto nel vecchio e infeltrito
plaid di pile che si era portata da Philadelphia.
«Ma
non avevi
detto di avere il coprifuoco a mezzanotte?»
sussurrò con
un tenero sorriso sulle labbra, nel vederlo con un'espressione di beata
fanciullezza sul viso.
Saga
era steso un
poco sul fianco con il braccio sotto il cuscino, piegato a
metà;
l'altro invece era appoggiato al petto, con la mano che stringeva un
libro aperto. Rimase a guardarlo per alcuni minuti, era un tale incanto
che provò il desiderio di sfiorarlo per accertarsi che fosse
reale, ma non osò farlo, per non disturbarlo. Gli
sfilò
il libro dalla mano – notando che si trattava di un racconto
scritto dalla madre – e si inginocchiò vicino al
divano.
«Tutti
che mi guardano dormire. Sono così bello?»
«Sì»,
confermò Cora, senza distogliere lo sguardo da lui.
«Incredibilmente bello e dolce come un angelo.»
Si
chinò su
di lui, gli scostò i capelli dalla fronte con una carezza e
gli
diede un bacio leggero sulle labbra appena dischiuse.
«Mi
dispiace
averti trattato in modo brusco, quando eravamo fuori sulle scale. Mi
sono comportata male, ma non sapevo cosa aspettarmi in quel
momento.»
«Dopotutto
era
tuo diritto», ammise Saga con tono triste, tirandosi su e
puntellandosi col gomito. «Chiunque al tuo posto avrebbe
reagito
nello stesso modo di fronte a uno sconosciuto che aspetta davanti alla
sua porta di casa.»
Le
prese la mano,
abbassando lo sguardo su di essa: per lui quella era una situazione del
tutto nuova. «Anch'io ho la mia parte di
responsabilità.
Non ho considerato come avresti potuto reagire. Sai, quando l'altro
giorno ti ho sentita piangere, non sapevo come interpretare quelle
lacrime, se fosse stata colpa mia...»
Cora
aprì la
bocca per protestare, ma lui la zittì posandole un dito
sulle
labbra. «Se in qualche modo ti sei sentita
costretta...»
continuò.
«No!
No!», lo interruppe lei. «Non dire così.
L'ho voluto
anch'io! Tu mi piaci e non mi pento di averlo fatto.» La voce
della giovane si fece più incerta, nonostante volesse
mostrarsi
risoluta nel confessare ciò che provava.
Saga
si stupì di quelle parole, ma ne fu anche molto felice e
intimamente sollevato. Abbozzò un sorriso.
«Santo
cielo... Non avevo mai fatto una cosa del genere, mai con uno
sconosciuto. Nella mia vita ho avuto un solo ragazzo...»
mormorò lei, abbassando lo sguardo. Poi, trovò di
nuovo
il coraggio di guardarlo negli occhi, in quei suoi splendidi occhi
verdi, ma non riuscì a continuare poiché Saga la
attirò a sé e la baciò con passione.
Le sembrava
di vivere un sogno.
«Non
ti ho
detto tutta la verità. Ho dato venti dollari al postino per
ritirare la tua posta e scoprire così il tuo nome.»
«Nessuno
aveva
mai fatto una cosa del genere per me.» Cora si
sentì molto
lusingata da quel gesto e lo ringraziò con un bacio che
subito
lui prolungò, infondendogli una rinnovata passione,
invitandola
a raggiungerlo sul divano.
«Sei
tutta
gelata», le disse con preoccupazione, stringendola a
sé e
coprendola col plaid, iniziando a sfregarla delicatamente con la mano,
prima sul braccio e poi sulla coscia.
In
quel momento
però, Cora non badava affatto al freddo che in effetti era
tornata a sentirsi addosso; con la testa appoggiata alla spalla di Saga
era più intenta a godersi il tepore del corpo del ragazzo e
quel
suo dolce profumo. «Grazie per quello che hai fatto questa
sera
per me. Non eri obbligato a rimediare alla mia pigrizia. Grazie per
essere rimasto», gli disse, chiudendo gli occhi. Si
accoccolò meglio e si strinse a lui.
Saga
le fece
più spazio. Poi, all'improvviso si ricordò di
qualcosa e
iniziò a muoversi impacciato in quello spazio esiguo.
«Cosa
succede?» chiese lei, alzando per un attimo la testa.
«Avevo…
il libro.»
«Non
ti
preoccupare, l’ho messo sul tavolino», gli sorrise
Cora,
dandogli un bacio sulla guancia. «Non pensavo ti interessasse
quel tipo di lettura per… ragazzi.»
«Beh…»
provò a giustificarsi lui, sentendosi un poco in imbarazzo.
«Non
c’è nulla di male.»
«Ma
io non mi
vergogno affatto. Sì, mi piace. Da giovane li ho letti
praticamente tutti!» ribatté, forse con eccessiva
enfasi,
schiarendosi poi la voce.
«Davvero?
Mia madre ne sarà lusingata!»
«Come?
Terry C. Miller è tua madre?»
«Teresa
Costantini Miller», svelò lei. «Per un
fan come te,
potrei chiederle di mandarti una copia autografata.»
«Non
prendermi in giro.»
«Non
ti sto affatto prendendo in giro! Davvero, mi fa piacere che apprezzi
il lavoro di mia madre.»
«L’incredibile
furto della statuetta di bronzo», ripeté a memoria
il
titolo del libro, con tono quasi trasognato. «Non
l’avevo
mai letto.»
«È
uno
dei titoli della serie nuova, quando riprese a scrivere, dopo la morte
di mio padre. Prima, ogni suo libro era ispirato alla
realtà, ai
casi sui quali lavorava mio padre. Quando tornava a casa, le raccontava
quelli più interessanti che gli capitavano fra le
mani»,
gli spiegò, chiudendo gli occhi. Per un attimo
richiamò i
ricordi alla mente. «Aspettavano che io andassi a letto e poi
si
accomodavano sul divano, un po’ come siamo noi ora e le
raccontava del suo lavoro.»
Cora
sorrise,
accarezzando pigramente il petto del ragazzo, sentendo a sua volta la
mano di Saga passare leggera sul suo braccio.
«Qual
è la tua storia preferita fra quelle scritte da tua
madre?» le chiese lui.
«Una
storia
che non è mai stata raccontata», fu la risposta di
lei,
che provocò nel giovane non poca perplessità.
Lei
se ne accorse e si spiegò meglio.
«Ricordo
una
sera in particolare, fu circa un mese prima della morte di mio padre.
Io mi ero attardata a leggere un libro per la scuola, anche se c'era
vacanza. Scesi in cucina e li sentii parlare: erano sul divano in
salotto. Papà era triste e scoraggiato e mia madre gliene
chiese
il motivo. Allora lui le parlò di un vecchio caso che lo
aveva
colpito molto nei suoi primi anni di servizio e che non era mai
riuscito a dimenticare. Era diventato una specie di chiodo fisso per
lui. Da come ne parlavano intuii che non fosse la prima volta. La mamma
infatti era molto interessata. Gli disse che voleva provare a scriverci
un libro. Uno di quelli seri, non per ragazzi, ma lui si
arrabbiò.» Fece una pausa, poiché in
quel momento
la sua voce era incrinata dalla commozione. «Lui non si
arrabbiava mai, né a casa, né fuori. Eppure
quell'argomento lo turbava. Era un caso difficile, molto triste. Era la
storia di due neonati rapiti nel cuore della notte dalle loro culle.
Successe molti anni fa, quando io ancora non ero nata e i miei forse
neanche si conoscevano. Nessuno riuscì mai a scoprire chi
fosse
il rapitore, né il motivo del gesto, perché non
ci fu
alcuna richiesta di riscatto. La madre dei neonati perse il senno e fu
ricoverata in una clinica psichiatrica, dove morì qualche
anno
più tardi.»
«E
il padre?»
«Nessuno
ha
mai saputo chi fosse», rispose, Cora. «Nei rapporti
non si
fece mai menzione. Ma mio padre aveva un sospetto sulla sua
identità.»
«E
i due bambini?»
«Non
se ne seppe più nulla.»
«Allora
sono morti?» disse Saga, con voce rattristata.
«I
loro corpi
non furono mai ritrovati, quindi non è detto che lo
siano», ribatté lei. «Voglio credere che
siano vivi,
che siano cresciuti felici e che ora abbiano una famiglia tutta
loro.»
«Ma
sono stati tolti ai loro genitori, come potrebbero essere cresciuti
felici?»
«Quando
successe erano ancora troppo piccoli, è impossibile che si
possano ricordare dei genitori naturali.»
«Ma...
mancherebbe comunque loro sempre qualcosa, non trovi?»
«Si
può
crescere bene anche con dei genitori adottivi», rispose lei,
chiudendo il discorso con un bacio. Non se la sentiva più di
parlare di quell'argomento.
Si
tirò su e
lo guardò negli occhi, accarezzandogli la guacia. Con la
punta
delle dita gli sfiorò le labbra leggermente imbronciate in
una
smorfia triste. Lo baciò ancora, con tenerezza, per
rasserenarlo. Poi, lo baciò con maggiore passione e
immediatamente lui rispose, stringendola sempre più a
sé,
portando le mani al suo sedere. E alla fine lei gli fu praticamente
sdraiata sopra.
«Andiamo
di
là, in camera. Staremo decisamente meglio», gli
disse,
riprendendo fiato. Gli diede un ultimo bacio. Poi, a malincuore, si
alzò, sentendo un leggero brivido di freddo
nell’abbandonare il confortevole abbraccio del ragazzo.
Subito fu
trattenuta da Saga che invece era rimasto seduto. La fece sedere sulle
sue gambe e la strinse in un abbraccio geloso e possessivo.
«Non
posso…» mormorò lui.
«Vieni»,
ripeté l’invito Cora, alzandosi nuovamente e
tendendogli la mano.
«No!»
ripose in modo secco Saga, lasciandola interdetta per diversi secondi.
«Non posso restare.»
«Capisco.»
«No,
non
capisci!» esclamò lui, alzandosi di scatto e
abbracciandola da dietro, mettendoci troppa forza, tanto che a Cora
scappò un leggero gemito di dolore.
«Perdonami», si
affrettò a scusarsi.
Saga
la intravide
portarsi una mano al ventre. Allora la fece voltare verso di lui e le
scostò la mano, alzandole la maglietta e scoprendo un brutto
livido scuro. Lo fissò per diversi secondi con occhi
sconvolti.
«Devo
essermi fatta male quando ho sbattuto contro uno spigolo. Non
è nulla di grave.»
Saga
si
inginocchiò di fronte a lei. Con la punta delle dita le
sfiorò la parte dolorante e la sentì sussultare.
Forse
non era nulla, ma le faceva male. Notò anche una piccola
cicatrice tonda. Avrebbe voluto domandarle qualcosa in proposito; si
limitò invece ad appoggiare la fronte al suo ventre,
respirando
piano.
«Vorrei
tanto
rimanere. Vorrei dividere nuovamente il letto con te, questa notte.
Vorrei…» si interruppe. Non riusciva a esprimere i
sentimenti che provava in quel momento. «Mi
dispiace»,
mormorò. Si alzò in piedi, passandosi poi una
mano fra i
capelli. «Non mi sarei dovuto trattenere fino a
quest’ora,
ma non volevo lasciarti da sola finché non fossi stato
sicuro
che tu stessi bene.»
«Come
puoi
vedere, ora sto bene.» Cora provò a dargli di
nuovo le
spalle, ma Saga fu più lesto e la bloccò ancora
una
volta, fra le sue braccia, che ora a lei sembravano più
delle
catene.
«Ti
prego, Caroline», disse, quasi con disperazione.
«Io
non
capisco. Fino a poco fa eravamo insieme sul divano e non sembrava
affatto che avessi fretta di andartene. Ora invece non vuoi restare! Mi
stai solo prendendo in giro», provò a protestare
lei,
cercando al tempo stesso di divincolarsi. «Volevi fare
l’amore. Ti sei quasi fatto pregare e ora… ora te
ne vuoi
andare via così, accampando solo scuse!»
«È
questo che credi, Caroline? È questa l’impressione
che ti ho dato?»
«No»,
sussurrò lei, contrita. «Sei stato gentile e
premuroso,
sei stato corretto. Altri di certo ne avrebbero approfittato
subito.»
«Caroline…»
«Cora.
Per
favore, chiamami Cora. Fammi sentire il nome che mi sono scelta,
pronunciato dalla tua voce», lo pregò lei,
voltandosi e
guardandolo negli occhi.
«Cora…»,
ripeté lui, sorridendole e suggellando quel nome con un
bacio.
«Non
preoccuparti, ora sto bene. Non posso pretendere di farti restare se
non vuoi... o se non puoi», aggiunse, passandogli la mano fra
i
lunghi capelli biondi, catturandone una ciocca e arricciandone la punta
con le dita. «Ci sarà però
un’altra
occasione?»
«Non
ti posso
promettere che ci rivedremo nei prossimi giorni, ma se
vorrai…
sì, ce ne saranno altre, tutte quelle che vorrai»,
le
rispose Saga, guardandola con occhi dolci e limpidi, solleticandole le
labbra con il pollice.
Un
indelicato starnuto e un improvviso brivido scossero il corpo della
ragazza.
«Ti
senti
bene?» le chiese, Saga, preoccupato per il respiro affannoso
che
ora sentiva venire da lei. In qualche modo però era anche un
po'
divertito.
«Credo
di
essermi presa il raffreddore. Ora prendo un’aspirina e torno
a
letto. Tu vai, altrimenti rischi che te lo attacchi», disse
lei,
tirando su con il naso. Si diresse in cucina e da uno dei ripiani
vicino al frigorifero prese una bottiglietta d’acqua. Subito
dopo
aprì l'antina del pensile e prese le aspirine che stavano
accanto al barattolo del caffè, che questa volta aveva messo
più a portata di mano.
«Sei
sicura?»
Cora
annuì
brevemente, bevendo un sorso d'acqua per mandare giù la
compressa. Un secondo starnuto diede una risposta più
veritiera.
«La degna conclusione per una pessima serata»,
sospirò, portandosi una mano alla fronte sentendo un'ombra
di
mal di testa. Passò accanto al ragazzo che provò
ad
abbracciarla, ora più preoccupato, ma lei lo respinse con
una
mano. «È meglio che tu vada», gli disse;
e un altro
starnuto, trattenuto a fatica, diede la sentenza finale.
Non
molto convinto,
Saga assecondò comunque il desiderio di Caroline. Si rimise
il
maglione ancora un po' umido e prese il cappotto, avviandosi mesto alla
porta.
«Aspetta!»
lo fermò lei all'improvviso. Corse nel salotto e prese il
libro
che il giovane stava leggendo, tornando poco dopo. «Prendilo.
Così potrai terminare di leggerlo. E... avrai un motivo in
più per tornare.»
Il
viso di Saga si
illuminò. Noncurante dei rifiuti precedenti di lei, le diede
un
bacio a tradimento, sorprendendola e lasciandola senza parole.
*****
«Non
credi di
essere stato un po' troppo severo questa volta con lui?»
domandò Shura, rabboccando la sua tazza di cioccolata calda.
Era
da tanto tempo
che quei due, amici fin dall'infanzia e successivamente anche fugaci
amanti – divenuti tali per lenire le ferite del cuore di
entrambi
– non si ritrovavano di notte, nella cucina di Nanny, a
parlare
davanti a una cioccolata calda “speciale”.
«E
perché mai? Non gli ha di certo fatto male prendersi quella
strigliata. Chissà che non inizi finalmente a comportarsi
come
un adulto responsabile e non come un adolescente in preda agli
ormoni», ribattè con indifferenza Shion Hayes,
sfogliando
le pagine finanziarie dell'edizione della sera del Boston Globe.
«In fondo però, è stato anche
divertente prendermi
gioco di quel ragazzo», sogghignò, girando
un'altra pagina
e portandosi subito dopo la tazza alla bocca.
«E
da quando
per te gli affari sono diventati un gioco?»
inquisì Shura,
con un'espressione perplessa sotto quell'ombra di barba che gli donava
un'aria più latina. «E... a proposito di affari,
ora come
la metti? Pensi di portare avanti lo stesso l’acquisizione?
Se
davvero c’è di mezzo l’antitrust, non
credi che
potrebbero metterti il bastone fra le ruote e creare noie, visti anche
i precedenti della tua famiglia?»
Shura
si
soffermò a osservare le reazioni dell'amico e
trovò
strano che l'altro si mostrasse invece così tranquillo.
L'atmosfera
quella
notte era stranamente quieta. Forse anche troppo. L’aroma
della
cioccolata calda riempiva l'aria nella cucina e l’aggiunta
del
brandy donava quel tocco di nostalgia che dava loro l'impressione di
essere tornati indietro nel tempo, a quando i crucci e le delusioni
sembravano insormontabili e solo Nanny, con il suo elisir magico e dal
sapore vellutato, glieli faceva dimenticare.
«Shion?»
lo chiamò perplesso, vedendolo ridere sotto i baffi.
«Chi
pensi sia
stato a mettere sull’avviso l’antitrust?»
disse
Shion, con una sicurezza quasi irritante. «Quella
società
è comunque destinata a scoppiare come una bolla di sapone. A
me
interessano solamente le loro competenze nel settore, i brevetti e i
contatti. E dopo che la commissione li avrà rivoltati come
un
calzino, potrò accaparrarmi le loro quote a un prezzo
decisamente inferiore.»
Shura
non poteva
credere alle proprie orecchie. Lo aveva sentito parlare dei suoi
progetti con estrema noncuranza, neanche fosse stata la cosa
più
naturale del mondo disporre della sorte di centinaia, forse migliaia di
persone e dei loro posti di lavoro. Ancora di più lo
preoccupava
il fatto che continuasse a leggere il giornale. Poi, lo vide aggrottare
la fronte e soffermarsi sull'articolo che parlava della celebrazione
per il novantaduesimo compleanno dell’illustre concittadino
James
Taylor, insigne professore di Diritto
all’Università di
Harvard, nonché padre dell’ex governatore del
Massachusetts James Taylor jr.
«Dimmi
Shion, lo fai solo per avidità?»
«Avidità!?
Cosa c'è di male. Dopotutto, è solo una questione
di soldi!»
Quelle
parole
risuonarono nel silenzio più assoluto. Shion Hayes
alzò
un sopracciglio nello squadrare l'amico, ora letteralmente impietrito.
Si domandò con un certo divertimento cosa lo scandalizzasse
di
più, se ciò che gli aveva appena detto, oppure il
tono
con il quale l'aveva detto. Sospirò, richiudendo e
ripiegando
con cura il giornale.
«Possibile
che
un cinefilo come te non abbia riconosciuto la citazione di Gordon Gekko
da Wall Street?» disse, ridendo e scrollando la testa.
Shura
rimase in
silenzio per diversi altri secondi. Poi, sbuffò.
«Mascalzone! Dovevo immaginarlo. Solo tu potevi tirar fuori
una
cosa del genere in un momento come questo!» lo
rimproverò,
passandosi una mano sulla fronte.
Per
qualche minuto
aveva sudato freddo. Rifiutava anche solo l'ipotesi che l'amico potesse
essere uno di quei squali di Wall Street come li dipingeva il cinema.
Si prese una lunga sorsata di cioccolata calda e sospirò di
piacere. «Il tuo mondo proprio non lo capisco. E non capisco
nemmeno perché questa volta hai usato i tuoi figli in questo
modo. Passi per Kanon, lui ha un carattere molto forte, ci è
cresciuto in quel tipo di ambiguità e ci si trova a suo
agio, ma
perché hai voluto mettere in mezzo anche Saga? Lo sai che
non
è come il fratello. Lo hai sempre protetto in ogni modo
possibile. Ora invece... cos'è cambiato?»
«Discuti
le mie azioni e le mie decisioni?»
«Quando
vanno
a discapito dei ragazzi, sì! E non parlo solamente dei
gemelli,
ma anche di Aiolos. Shion, davvero non capisco perché stai
agendo in questa maniera. Crescerli con affetto per tutti questi anni,
dar loro un’istruzione e prepararli per affrontare il mondo e
poi… sembra che tu stia volutamente alimentando la
competizione
fra loro!» La voce di Shura si alterò di
apprensione nel
pronunciare quelle parole che sapevano di rimprovero.
«Non
lo
capisci perché non hai figli, Shura. Kanon e Aiolos sono
ormai
uomini ed è tempo che imparino che nel mondo degli affari
non si
può sempre giocare come fanno loro. Devono capire che ogni
azione porta a delle conseguenze. Kanon soprattutto! Agire in quel modo
è molto pericoloso!» Shion si passò una
mano fra i
capelli che stavano via via diventando grigi, fermandosi dietro la nuca
e massaggiandola per allentare la tensione accumulata in quegli ultimi
giorni.
«A
volte è davvero uno sconsiderato, ha troppa fiducia in se
stesso e poi commette passi falsi.»
«Ma
non era
necessario umiliarlo in quel modo! E Saga? Lo hai messo in una
posizione difficile. Hai rischiato che alla fine i ragazzi si
mettessero l’uno contro l’altro»,
continuò
nelle sue proteste Shura.
«Saga
ha fatto
quello che gli avevo ordinato di fare. Ma ha sbagliato: non
è
stato in grado di capire cosa fosse giusto fare e con rammarico devo
ammettere che mi ha deluso. Neanche lui ha ancora capito come gira il
mondo, né come ci si deve comportare in una famiglia. Non ha
né rimediato all’imprudenza del fratello,
né
approfittato dell’occasione, rimanendo invece a
guardare.»
«Questo
atteggiamento così remissivo è colpa tua,
Shion.»
«Lo
so. Non ho avuto il coraggio di cambiarlo», dovette ammettere
con rammarico il capofamiglia Hayes.
«Forse
dovevi
solo dargli più fiducia e lasciare che affrontasse il mondo.
Ma
ti capisco, anch'io provo lo stesso quando lo guardo,»
confessò. Si alzò dalla sedia e portò
via la sua
tazza ormai vuota, mettendola nel lavello.
«A
volte mi
sembra davvero di rivederlo in lui: senza ambizioni, né
aspirazioni particolari. Docile come un agnellino. Soddisfatto di
seguire la volontà degli altri. Troppo tranquillo e pacifico
per
vivere in un mondo di squali. Lo stai portando verso questa strada,
Shion, ma Saga non è lui. Vuoi rivivere un passato
impossibile
ancora una volta? Il ragazzo ha tutta la vita davanti a sé.
Prima o poi sceglierà la sua strada, una che magari
andrà
nella direzione opposta a quella che vuoi tu. Quando questo
accadrà, cosa farai, gli volterai le spalle come hai fatto
con
lui?»
«Come
osi dire
una cosa del genere?» urlò Shion, scattando in
piedi con
rabbia, tanto da rovesciare la sedia a terra e provocare un gran
trambusto. «Bada a quello che dici! Non ti permetto di farmi
la
predica in questo modo, tu non sai di cosa stai parlando!»
«Ti
ho visto
soffrire per lui, Shion. Ero solo un ragazzino all’epoca ma
capivo la situazione e dopo… anni dopo ne ho avuto la
conferma.
Tu hai frainteso i suoi sentimenti, Shion! Ti voleva bene come un
amico, come un fratello, ma anche se ti ha dato ciò che
desideravi, non poteva amarti come volevi tu.»
Shion
Hayes
sgranò gli occhi. Com'erano finiti a parlare di un argomento
che
ancora gli provocava tanta rabbia? Subito arrivò al limite
della
sopportazione, il sangue gli stava andando al cervello. Gli si
avventò contro come una furia, colpendolo in pieno viso con
un
pugno. Poi, rimase così, col respiro pesante e quella mano
che
tremava.
«Ti
senti
meglio?» domandò Shura, passandosi il dorso della
mano
sull’angolo della bocca ad asciugare il sangue che usciva dal
labbro spaccato.
«No»,
fu
la lapidaria risposta dell’altro, ancora tremante di rabbia e
adrenalina. «Però hai ragione. Non sono la stessa
persona.»
Tornò
al
tavolo col fiatone e il passo barcollante, rimise a posto la sedia e vi
si lasciò cadere stancamente sopra. «Dove si
trovano i
ragazzi, ora?» domandò, osservando le nocche
arrossate
della mano.
«Dai
loro un
po’ di respiro Shion, li hai messi troppo sotto pressione in
questi giorni. Lasciali vivere la loro età»,
rispose con
tono compassionevole Shura, tamponandosi il labbro con lo strofinaccio
umido.
«Ti
ho fatto una domanda!»
«Dovresti
immaginarlo da solo, visto che non hai trovato l'auto di Aiolos in
garage, quando sei tornato», ribattè Shura,
perdendo per
un secondo la sua calma.
Ma
Shion Hayes aveva
ancora la mente distratta da vecchi pensieri a causa delle parole del
suo braccio destro, per accorgersi di aver fatto una domanda inutile.
Quelle parole avevano colpito nel segno più di quanto avesse
immaginato. I ricordi e le sensazioni di quegli anni lontani tornarono
a galla e questi, più riaffioravano, più gli
facevano
male. Non era vero il detto che il tempo cura ogni ferita, per lui
almeno non era così. Tanto più che avere davanti
agli
occhi i gemelli alimentava quell'incessante riflusso di ricordi e di
nostalgia.
«Sono
le tre passate», commentò Shion, guardando
l'orologio.
«In
fondo
è sabato sera. Saranno ancora in qualche locale a bere per
dimenticare questa giornata», disse Shura, ritrovando il
sorriso.
«Non ricordi cosa facevi tu alla loro
età?»
«Avevo
già in mano le redini degli affari di famiglia»,
ribattè l’altro. «Già, affari
di
famiglia…» sospirò poi pesantemente.
«Una
famiglia che all’epoca era composta solamente da me
e…»
«Era
un modo di dire Shion, sai cosa intendo: anche tu facevi di testa tua e
non ascoltavi i consigli di nessuno.»
«I
miei cari
ragazzi. Che nostalgia che provo nel vedervi qui e con questo aroma
così familiare», disse Nanny, con voce leggermente
roca e
assonnata, ma piena di emozione. Entrò in cucina e si
avvicinò ai due uomini. «Tutti e due qui come
tanto tempo
fa. È un po’ tardi però, non vi
pare?»
«Cosa
ci fai
ancora sveglia, Nanny?» Shion Hayes alzò lo
sguardo verso
la donna che, dopo aver coperto uno sbadiglio con la mano, parve
ritrovare energia e vitalità.
«Ero
venuta
per prendere un bicchiere d’acqua e ho sentito delle voci un
po’ agitate. Non dovreste discutere in questo modo, voi due.
Non
avete più l’età per accapigliarvi come
due bambini
capricciosi.»
Lo
sguardo di Nanny
era accigliato, mentre li scrutava; non aveva mai amato le discussioni,
figurarsi poi quando si arrivava alle mani. Subito però, si
addolcì, accarezzando il viso stanco del suo Shion. E,
quando
Shura si avvicinò a lei per spostarle la sedia e farla
accomodare, ne riservò una anche a lui.
«Shion,
come
mai non hai avvertito del tuo ritorno? Ti avrei fatto trovare qualcosa
da mangiare. Quando sei arrivato?» chiese la donna, col suo
consueto affetto materno.
«Mi
dispiace,
sono arrivato più o meno un’ora fa e non volevo
disturbarti.» L’uomo posò la sua mano su
quella
della donna e la strinse leggermente, chiudendo gli occhi e lasciandosi
coccolare dalla sua Nanny. «Dimmi, Nanny,
com’è
andata in questi giorni?»
«Il
mio caro
Shion, sempre a preoccuparsi di tutto.» La donna
allungò
la mano e gli pettinò i capelli con le dita.
«Credo che tu
debba…»
Fu
interrotta
dall’improvviso stridore della frenata di un'auto
sull’acciottolato del vialetto principale che si era sentita
distintamente fino a lì. Quel rumore fece subito scattare i
due
uomini verso l’ingresso, l’uno con aria bellicosa e
l’altro invece più preoccupato per
l’evolversi della
situazione e pronto a sedare gli animi in caso di bisogno. Nanny invece
scrollò la testa, si alzò lentamente dalla sedia
e si
avvicinò ai fornelli, per preparare dell'altra cioccolata
calda,
per ogni eveniena.
*****
«Hai
visto
quello come ci stava provando? D’altronde, quando uno
è
pieno di fascino e irresistibilmente bello come me, è
inevitabile che attiri l’attenzione di tutti.
Indiscriminatamente!»
Kanon
se la rise
divertito, spalancando la porta d’ingresso e avanzando tutto
barcollante, sorretto come poteva dall’amico.
«Povero
fesso!
Non sa che fortuna ha avuto. Se avesse insistito oltre,
chissà
come lo avresti conciato. Gli è andata davvero bene che si
è ritrovato solamente un occhio pesto e il naso
rotto»,
ribattè Aiolos, nelle medesime precarie condizioni.
«Però un po’ mi ha fatto pena, anche
dopo che lo hai
pestato, ti guardava con occhi voraci! Perché non lo hai
accontentato?» rincarò la dose, divertendosi nel
vedere la
reazione istintiva di Kanon: il suo corpo si era irrigidito e sul suo
volto, già paonazzo a causa dei fumi dell'alcol, comparve
un’espressione alquanto scandalizzata.
«Scherzi,
vero? Ma lo hai visto com’era conciato? Era inquietante! E
poi
dai, era appiccicoso come una zecca e così insistente che mi
stavo vergognando a morte. No, no, no, no, no, decisamente no!
È
fuori discussione!» esclamò con troppa veemenza
Kanon,
neanche fosse tornato completamente sobrio. «La prossima
volta
che vinci una scommessa ti conviene non riprovarci a portarmi in un
locale gay o te lo faccio passare io un brutto quarto
d’ora!» lo minacciò, agitandogli il
pugno davanti,
ma subito dopo rise forte e senza controllo, appoggiandosi ad Aiolos.
Poi,
lo
guardò negli occhi con un poco rassicurante sorriso
malizioso
sulle labbra. Gli passò il braccio sulle spalle e lo
tirò
a sé. Con l'altra mano gli strinse la bocca in una smorfia
grottesca. Con una lentezza esasperante avvicinò il suo
volto a
quello di Aiolos, fino a portare le sue labbra a sfiorare quelle
dell’amico: il suo respiro sapeva di tequila, lime e birra.
Si
stava divertendo.
«No,
amico
mio», gli soffiò sulle labbra. «Ci sono
andato
vicino a Capodanno e mi è bastato. Non ci tengo proprio a
riprovarci, nemmeno se mi pagassero un milione di dollari. Ma puoi star
tranquillo che se dovessi cambiare sponda, il privilegio del primo giro
sarà tutto tuo. Però dovrai essere molto
delicato, il mio
culo è ancora vergine.»
Kanon
era
così vicino al viso di Aiolos che poteva avvertire il
leggero
tremolio delle labbra dell'altro sulle proprie. Lo tenne con la schiena
contro la porta aperta; il suo corpo era così a ridosso di
quello di Aiolos da intuire l'erezione che si stava manifestando.
Continuò a fissarlo negli occhi, sorridendo. E, quando si
stancò di quel gioco, mollò la presa alla sua
bocca e lo
schiaffeggiò, ridendo di gusto al rossore e all'espressione
imbarazzata e confusa dell'amico.
«Ma
vai al diavolo!» ringhiò Aiolos.
Il
giovane gli diede
uno spintone e lo fece cadere a terra con un gran tonfo. Ma Kanon
nemmeno se ne rese conto, tanto era ubriaco, continuando a sbellicarsi
dalle risate.
«Vedo
che la mia autorità non conta più nulla in questa
casa.»
Shion
Hayes era
rimasto per diversi minuti a osservare il penoso spettacolo che quei
due stavano offrendo. Poi, fece sentire la sua voce, facendo sobbalzare
Aiolos.
«Ops...
che ci fai qui, papà?» disse Kanon con tono
strascicato.
Il
giovane, ancora
allegramente a terra, guardò il genitore che se ne stava
accanto
al corrimano dello scalone, con le braccia incrociate al petto e lo
sguardo più severo del solito. O forse era la vista
annebbiata e
la stanza che iniziava a girargli attorno che glielo faceva apparire in
quel modo. Accanto a Shion non poteva certo mancare la presenza di
Shura, col medesimo atteggiamento del capofamiglia Hayes. «Mi
sa
che ci vedo doppio», biascicò, ridendo ancora.
Aiolos
rimase in
disparte, con quel rigonfiamento nei pantaloni che lo faceva sentire
ancora più a disagio. Sentiva su di sé lo sguardo
accusatorio di Shura. Si morse il labbro come un ragazzino colpevole.
Chiuse piano la porta e si avvicinò lentamente a Kanon per
aiutarlo ad alzarsi, facendo più fatica del dovuto,
perché l'altro collaborava poco.
«Beh,
Shion,
qui puoi sbrigartela da solo. Io me ne vado a dormire», disse
Shura, con voce decisa, nascondendo a fatica il disgusto che gli stava
provocando la scena a cui stava assistendo. Si girò senza
aggiungere altro e tornò in cucina: avrebbe usato
l’ingresso posteriore per tornare alla dependance.
«Avevi
detto
che saresti tornato solo la settimana prossima», disse Kanon,
spazzolandosi i pantaloni e sorridendogli angelico.
«Credevo
di
essere stato chiaro, l’altro giorno», riprese
l’uomo,
continuando a fissare entrambi i giovani. «Dove siete stati
per
ridurvi in questo stato?»
«Siamo
andati a festeggiare, papà!» rispose con
entusiasmo Kanon, allargando le braccia in modo teatrale.
«Ah,
davvero? E cosa avevate da festeggiare?»
«Ma
la nostra
promozione a fattorini! Vero, Aiolos?» ribattè
senza
esitare Kanon, dando delle generose pacche sulla spalla
dell’altro, passando poi lo sguardo dal padre all'amico e
viceversa, mantenendo sulle labbra l’immancabile sorrisetto.
«Sono
troppo
stanco per questo gioco», sospirò esasperato
Shion,
portandosi una mano sugli occhi: anche lui non si sentiva certamente in
gran forma quella sera. Diede loro le spalle e iniziò a
salire
le scale per ritirarsi per la notte. Ci avrebbe pensato l'indomani a
strigliare entrambi come meritavano.
Era
già quasi
a metà della rampa, quando da oltre la porta si
sentì il
rumore di una portiera che veniva chiusa con troppa forza. Pochi
momenti dopo, la grande porta d’ingresso venne di nuovo
aperta e,
davanti agli occhi di tutti e tre si presentò Saga, tutto
trafelato, sudato e arrossato in viso.
Il
ragazzo sgranò gli occhi per la sorpresa, poi
abbassò d’istinto la testa.
«Ecco
la
pecorella smarrita e depressa che ha fatto ritorno a casa»,
disse
con tono sarcastico Kanon, sorridendo all’indirizzo del
gemello.
Si avvicinò a lui e lo abbracciò con un
entusiasmo fin
troppo accentuato da tutto l'alcol che aveva in circolo.
«Questa
volta
almeno si è ricordato la strada di casa»,
rincarò
la dose Aiolos, lanciandogli uno sguardo di superiorità,
accantonando la vergogna che fino a quel momento aveva provato. Ma
vedere la “principessina” in difficoltà
era per lui
un toccasana.
«Lasciami,
Kanon!» si divincolò a fatica Saga.
Gli
fu impossibile
liberarsi da quella fastidiosa e inopportuna espansività
affettiva che il fratello gli stava dimostrando. Solo dopo diversi
tentativi riuscì a distanziarsi di qualche passo,
ritrovandosi
però più vicino alle scale e di conseguenza anche
più vicino agli occhi severi del padre.
«Avevi
detto
mi avresti coperto. Invece vi trovo tutti qui ad aspettarmi, come
dei…» Saga spostò per un secondo lo
sguardo sul
padre, bloccandosi a metà della frase.
«L’hai fatto
per vendicarti?» disse con una rabbia inusuale per lui,
tornando
a guardare il fratello.
«Oh,
Saga, ti
avevo anche detto di tornare presto, perché
anch’io avevo
in programma di uscire», rispose Kanon, senza badare
all'occhiataccia del genitore. «No, fratellino, è
stata
una pessima sorpresa anche per noi. Ce lo siamo ritrovato qui ad
aspettarci come un mastino da guardia. Siamo tutti e tre sulla stessa
barca», gli disse, sorridendogli accomodante.
«Con
la differenza che lui è recidivo, noi…»
«Voi,
solo stupidi!» intervenne Shion Hayes, ricordando a tutti i
presenti che c'era anche lui.
Saga
abbassò
nuovamente lo sguardo, stringendo le labbra, troppo orgoglioso in
quell'occasione per ammettere di aver ecceduto e aver giudicato male.
Iniziò a salire le scale, un gradino alla volta, lentamente,
con
passo incerto, accennando a rallentare a pochi passi dal padre.
«È
la
terza volta in pochi giorni che deludi le mie aspettative. Sei forse
entrato nella fase adolescenziale di ribellione? Ci sei arrivato un
po’ tardi, ora non ne hai più
l’età e non ti
è permesso», lo rimproverò con voce
profonda l'uomo.
Lo
afferrò
per un braccio nel momento stesso in cui Saga gli passava accanto.
Strinse la presa facendolo quasi contorcere dal dolore. «Da
tuo
fratello mi posso aspettare questo e altro, lui è sempre
stato
irrequieto e incline a queste bravate, ma da te…»
gli
sussurrò piano, il suo sguardo stava via via diventando
furente.
«Me
ne posso
sempre andare se non ti soddisfa più il mio modo di
comportarmi», ribatté Saga, fissandolo con
inusiale
decisione, per uno come lui.
Strattonò
il
braccio per liberarsi, ma perse l'equilibrio e inciampò sul
gradino. Ansimò. Non cadde rovinosamente a terra solo
perché il padre lo teneva ancora ben saldo.
«Smettila
con
questo atteggiamento, Saga. Non hai proprio la stoffa del
ribelle», lo rimproverò aspramente Shion.
«Guardati,
neanche riesci a reggerti in piedi: anche tu sei ubriaco come quei due
idioti che se la stanno ancora ridendo lì sotto?»
L'uomo
si
accovacciò accanto al figlio e gli mise una mano sulla
testa,
tirandogliela leggermente all’indietro per poterlo guardare
meglio. Poi, gli scostò i capelli e gli tastò la
fronte,
constatando la vera natura di quello stato: occhi lucidi, fronte calda
e viso arrossato.
«Febbre»,
sentenziò in un borbottio quasi impercettibile, scrollando
il capo e sospirando stancamente.
Prese
di nuovo Saga per il braccio e lo aiutò a rimettersi in
piedi, sembrava d'un tratto tornato docile come sempre.
«Lascia,
papà, ci penso io a portarlo fino in camera», si
offrì Kanon, avvicinandosi con passo ancora malfermo fino al
primo gradino dello scalone, pensando di salvare in quel modo il
fratello dalle grinfie del genitore e risparmiargli una sicura lavata
di capo.
«E
chi
aiuterà te a salire? No, ci penso io», rispose
Shion,
perdendo tutta la severità dimostrata fino a un attimo prima
e
lasciando spazio solo alla comprensione per quel figlio prediletto.
«Vieni, Saga», lo incitò, passandogli un
braccio
attorno alla vita e iniziando lentamente a salire i restanti scalini
che mancavano per arrivare al piano superiore.
«Lasciami
andare, sto bene! Ce la faccio anche da solo», si
lamentò
Saga, agitandosi senza troppa convinzione, portandosi però
subito una mano alla testa, a causa di un lieve capogiro.
«Questo
lo decido io!» ribattè secco Shion; chiudendo sul
nascere la discussione.
Con
un po’ di
fatica arrivarono a destinazione. Shion lo fece sedere sul letto,
aiutandolo a togliersi prima il cappotto, poi le scarpe e infine a
stendersi. «Accidenti, Saga, ma che ti sta prendendo in
quest’ultimo periodo? Non mi hai mai disubbidito o mancato di
rispetto così platealmente. Queste cose, queste pazzie, si
fanno
solo per un motivo: solo per... amore.»
Shion
sospirò
quell'ultima parola con tono rassegnato. I discorsi di Shura, fatti in
cucina proprio quella notte, si stavano rivelando profetici, ma li
stava vedendo concretizzarsi troppo presto.
«Mi
dispiace», rispose con voce flebile Saga, portandosi un
braccio
sul viso a coprire gli occhi per schermarli dalla luce che trovava
terribilmente fastidiosa.
«Ti
dispiace
cosa, aver tradito la mia fiducia o essere stato scoperto?»
gli
disse il padre con tono di rimprovero, attendendo una sua
giustificazione.
Osservò
il
figlio per un minuto buono, cupo in volto, poi si accomodò
sul
bordo del letto e si chinò un poco su di lui, scostandogli
il
braccio e tastando di nuovo la fronte che sembrava essere
più
calda di prima; e il respiro di Saga in quel momento si stava facendo
ancora più pesante e affaticato.
«Spero
almeno
che ne sia valsa la pena», mormorò vedendolo ormai
assopito. Non era più il momento adatto per le prediche.
«Come
sta?» chiese con apprensione Kanon, ancora visibilmente
brillo,
ma decisamente più presente, quando il genitore
uscì
dalla camera da letto del gemello, più di dieci minuti dopo,
chiudendosi la porta alle spalle. Dietro di lui, anche Aiolos aspettava
notizie, più che altro curioso di capire come mai non si
erano
sentite le urla furibonde, ma solamente una calma inquietante.
«Goditi
le tue
ultime ore di libertà, figliolo», gli sorrise
sornione
Shion. «Lunedì mattina torni a New York con
me.»
«Okay»,
rispose l’altro, alzando le spalle in modo infantile, ignaro
di
cosa il padre avesse in mente per lui, con l'unico pensiero di entrare
nella stanza del fratello e accertarsi di come stesse.
Il
padre lo blocco
per un braccio e lo guardò severo. «Fagli prendere
un paio
di aspirine e poi lascialo dormire. Avrai tempo domani per sapere cosa
gli è successo.»
*****
Saga
si sentiva
ansioso. La sua mente, ancora un po' confusa dalla notte precedente,
era occupata da un unico pensiero fisso. Camminava per la stanza,
avanti e indietro di fronte alla finestra, con il cellulare
costantemente attaccato all'orecchio, borbottando e sbuffando.
«Aiolia!
Ma
quanto ci hai messo a rispondere?» disse il giovane, non
appena
sentì la linea agganciarsi. Aveva atteso ben quindici
snervanti
squilli.
Dall'altra
parte
arrivò solo un rumore sordo, forse di una mano che copriva
il
cellulare e, in lontananza, un breve conciliabolo. Poi, dopo qualche
altro rumore indistinto, finalmente si sentì una voce
maschile
parecchio assonnata.
«Saga,
che
c’è di così urgente
da…» si interruppe
per fare uno sbadiglio. «Da chiamare così presto
di
domenica mattina?»
«Sono
le dieci
passate. Non è affatto presto!» ribatté
Saga,
sovreccitato. «Ho un grosso favore da chiederti»,
continuò, dopo un bel respiro.
«Ti
sento strano, che hai fatto alla voce?»
«È
solo
una stupida infreddatura, ma non cambiare discorso!»
ribatté di nuovo, infastidito. «Allora, puoi
farmelo
questo favore? È davvero importante!» insistette.
«Avevo
in
programma di studiare un po’ a dire il vero. Ma che hai
bisogno
di tanto importante da non poter aspettare?» In
realtà,
Aiolia aveva ben altri progetti per quella domenica e lo studio sarebbe
stato relegato solo alle ultime ore della giornata. «Beh,
sarebbe
stato comunque solo un ripasso. Che ti serve?»
«Ho
già
chiamato un’impresa edile, una di quelle minori che lavorano
per
noi. Ho parlato con il caposquadra e gli ho detto di mandare alcuni
operai a casa di una persona ma…» fece una pausa,
passandosi una mano sul volto e premendo sulla tempia destra,
strizzando allo stesso tempo gli occhi: quel giorno, a complicare la
sua situazione già non proprio rosea, ci si era messo anche
un
mal di testa che poteva far concorrenza a un tipico post sbornia del
suo gemello. «Lei è da sola in casa ed
è malata.
Per favore, Aiolia, puoi andare lì e controllare che tutto
vada
bene?» gli chiese, con tono quasi supplichevole.
«Ma
io non ne capisco nulla di queste cose, non puoi chiedere a mio
fratello, oppure al tuo?»
«Kanon
non si
è mai interessato di queste cose. Ti prego, Aiolia, non te
lo
chiederei se non fosse davvero importante. Consideralo un favore
personale! E poi, non è molto distante dal tuo campus. Ti
sbrigherai in un attimo, vedrai!»
«Aspetta!
Hai
detto... lei?» domandò Aiolia. Dal tono della sua
voce si
capì che iniziava a soppesare seriamente la cosa.
«E va
bene, hai vinto! Mandami l’indirizzo per e-mail e
l’orario
dell’appuntamento. Tu però avverti del mio arrivo,
non
vorrei ritrovarmi nei guai!»
«Non
posso
chiamarla. Purtroppo non ho il suo numero di telefono»,
dovette
confessare Saga, con un certo imbarazzo nella voce.
«E
allora io
come faccio?» esclamò l’altro. Dal tonfo
che
arrivò dal telefono, sembrò che fosse caduto dal
letto
per lo choc. Poi, si sentì anche un indecifrabile affanno.
«Non posso certo presentarmi lì come niente fosse!
Se poi
mi scambia per un malintenzionato? No! Assolutamente no! Ho
già
avuto un’esperienza simile e non è stata affatto
piacevole!»
Aiolia
si
alzò da terra e, camminando frettolosamente per la stanza,
andò a sbattere con il piede contro una pila di fumetti,
facendoli cadere. Soffocò fra i denti un gemito di dolore,
iniziando a saltellare davanti agli occhi divertiti della sua ospite,
per arrivare alla sedia e agguantare i pantaloni.
Saga
rimase
perplesso da tutto quel trambusto. Poi, si massaggiò la base
del
naso, che sentiva dolorante e congestionato. Faticò nel fare
qualche respiro profondo, producendo dei strani rantoli: quel
raffreddore sembrava peggiorare di minuto in minuto e il cerchio alla
testa era sempre più persistente.
«Ma
di che hai
paura, sfoderi il tuo miglior sorriso da bravo ragazzo e dici che ti
mando io! Vedrai che andrà tutto bene.» Era
diventata una
necessità impellente per Saga riuscire a convincere il
giovane.
Si
distrasse un
momento e sorrise nell'osservare cosa stava accadendo di sotto, nel
giardino. Aprì la finestra e si sporse un poco dal balcone:
Nanny e Francine, aiutate da una delle due cameriere, stavano
organizzavano qualcosa. L’aria frizzante gli
scompigliò i
capelli e gli rinfrescò le guance arrossate da qualche linea
di
febbre. Provò di nuovo a fare un respiro profondo, poi un
leggero brivido lo convinse a ritornare dentro.
Aiolia
rimuginò per qualche secondo, picchiettando il dito su
qualcosa
di duro: il rumore si sentiva molto chiaramente attraverso il
cellulare. «Il favore non sarà a buon mercato,
Saga.»
«D’accordo,
tagliamo la testa al toro: che cosa vuoi in cambio?»
domandò Saga, mentre richiudeva la finestra e si spostava
verso
la libreria. Diede un'occhiata allo scaffale e risistemò un
libro che sporgeva un poco rispetto agli altri. Poi, con la punta
dell’indice accarezzò, uno a uno, il dorso di
tutti i
libri che stavano sullo scaffale più in alto, sorridendo. Da
diverso tempo aveva pensato di riporre la sua collezione dei romanzi di
T.C.Miller, perché ormai non più adatti alla sua
età. Ora però stava considerando l'idea di
cercare quelli
che gli mancavano.
«Lo
sai bene
cosa voglio!» disse con decisione Aiolia. «Quando
lei
l’ha vista, se n’è subito innamorata. E
continua a
chiedermi di regalargliela.»
Aiolia
non si rese
conto di aver detto qualcosa di troppo e soprattutto, che avesse
praticamente ammesso di aver rivelato il segreto a terzi. Era stata
troppa la voglia di fare colpo su Marin, la figlia del suo allenatore,
che un giorno, durante una passeggiata, l’aveva portata sino
al
negozio e, approfittando del fatto che aveva le chiavi con
sé,
l’aveva fatta entrare.
Saga
strinse le
labbra e si trattenne dal rispondergli a tono solo perché
aveva
davvero bisogno del suo aiuto. «Stai imparando in fretta ad
approfittarti della situazione, quando la gente è in stato
di
necessità», si limitò a dire,
corrugando la fronte.
Nello stesso momento un’altra fitta alla testa si fece
sentire.
«E va bene! Ma assicurati che non ci siano problemi!
Accidenti,
sta arrivando qualcuno! Ora devo chiudere, poi fammi sapere!»
Nascose
il cellulare
sotto il cuscino giusto un momento prima che si aprisse la porta; ma, a
causa del raffreddore, che gli aveva congestionato anche le orecchie,
non era riuscito a distinguere da quale direzione sarebbe arrivata
l'intrusione., Il pericolo si materializzò dalla porta del
bagno
comunicante, che venne spalancata di colpo e, come un uragano a piena
potenza fece la sua entrata il gemello.
«Ah,
sei tu. Cosa vuoi?» disse con tono deluso Saga, riprendendo
il cellulare.
«Ma
che
accoglienza entusiastica che riservi al tuo fratello
preferito!»
scherzò Kanon, sorridendo nel vedere sul volto dell'altro
un’espressione fra il serio e lo scocciato, concentrato
più a smanettare col cellulare che a dargli retta.
Gli
si
avvicinò di soppiatto, tentando di sbirciare da sopra la
spalla
cosa potesse essere tanto importante da esigere una tale concentrazione.
«Ero
venuto a
chiederti se volevi fare colazione con me, ma… vedo che hai
già fatto», disse, spostando la sua attenzione
sulla
scrivania, dov'era stato appoggiato il vassoio con su: vari piattini
ormai vuoti, una tazza grande di latte, una ciotolina con all'interno
ancora un po' di cereali e un barattolino di miele.
«Accidenti!
Dalla quantità di roba che c’è qui
sopra sembra che
tu abbia mangiato per due, questa mattina. Nanny ti ha forse messo
all'ingrasso?» gli disse, ma neanche quella frecciatina
sembrò distrarre Saga dal cellulare.
«Avevo
fame», rispose lui con un'alzata di spalle, terminando
finalmente di comporre l’e-mail.
Non
era mai stato
molto pratico con quegli aggeggi tecnologici, anche se con il computer
se la cavava decisamente meglio. Infine, appoggiò il
cellulare
sul comodino e si avvicinò a Kanon. Diede anche lui uno
sguardo
ai resti della colazione e, dalla ciotolina, prese l'ultima pallina di
cereali e miele, mettendosela in bocca.
«Allora?»
chiese Kanon.
«Allora,
cosa?» ribatté il gemello, entrando nella cabina
armadio
per prendere i vestiti che poi posò ordinatamente sul letto.
«Come,
“allora cosa”? Ieri notte sembravi moribondo.
Immagino che
abbiano fatto venire il dottore di corsa. Che ha detto?»
incalzò Kanon, sedendosi sul letto, senza badare a dove
stava
appoggiando il sedere. Attese che Saga gli girasse di nuovo le spalle
e, arraffando il cellulare, iniziò a curiosare, tutto
sogghignante.
«Come
vedi
sono in piedi, quindi niente dottore», rispose con tono
decisamente seccato Saga, strappandogli il cellulare dalle mani, per
riporlo nel cassetto.
«Ce
l’hai ancora con me per ieri notte? Te l’ho detto,
non mi
aspettavo che tornasse! Altrimenti non mi sarei fatto beccare
completamente ubriaco, ti pare?»
Kanon
si alzò
dal letto e si avvicinò alla finestra dove Saga era tornato
per
osservare Nanny che dirigeva i lavori con piglio deciso.
«Allora,
raccontami tutto! Se sei arrivato così tardi la tua serata
deve
essere andata più che bene», gli disse, con un
sorriso
malizioso sulle labbra, passandogli un braccio sulle spalle.
«È
solo questo che ti interessa? L’aspetto sessuale?»
si stizzì Saga, allontanandosi da lui.
Ignorò
le
successive moine in cui l'altro si stava esibendo per convincerlo a
parlare e iniziò a sbottonarsi la giacca del pigiama,
lasciandola cadere a terra.
«Niente
segni?» commentò Kanon, nel vedere la schiena
immacolata
del fratello. «Nessun graffietto, né morso, o
succhiotto.
Niente di niente?» Esaminò con estrema minuzia
ogni
centimetro di pelle del gemello, girandogli attorno, sballottandolo
come un pupazzo. «Oh, fratellino mio, mi dispiace tanto! Ora
capisco il tuo malumore, sfogati Saga, piangi pure sulla mia spalla.
Vedrai che poi ti sentirai meglio!» lo esortò,
abbracciandolo infine, per consolarlo.
Saga
rimase senza
parole per il comportamento bizzarro del gemello. Poi, cautamente,
ricambiò quell'abbraccio, ma l'idea che l'altro avesse
qualcosa
che non andasse gli sfiorò la mente.
«Guarda
che va
tutto bene, Kanon», provò a rassicurarlo,
rilassandosi un
poco e appoggiando il mento sulla spalla dell'altro, sospirando
paziente. «Ammetto che secondo i tuoi standard, la serata di
ieri
sarebbe da considerarsi un completo disastro, un fallimento, un'onta,
una macchia indelebile per la reputazione e il buon nome degli Hayes,
ma… anche se non è successo nulla di
ciò che tu
reputeresti importante, io sono felice per com’è
andata», gli confessò, chiudendo gli occhi per un
attimo.
Poi,
prendendogli il
viso fra le mani, gli diede un bacio sulla guancia, che sapeva non
sopportare se fatto da altri, ma che accettava solo da lui.
«Ti
voglio bene, Kanon! Grazie per il tuo sostegno e il tuo
incoraggiamento.»
Riprese
a
spogliarsi, togliendosi i pantaloni del pigiama e rimanendo solamente
in mutande. «Però, a dire il vero sono un
po’
preoccupato», mormorò fra sé,
fermandosi davanti
alla porta del bagno e riflettendo per un momento. «Spero di
non
aver commesso un altro azzardo.»
«Che
vuoi
dire?» chiese Kanon, ancora più curioso.
«E…
a proposito, quando me la farai conoscere?» Ma Saga ormai non
gli
stava già più dando retta: si infilò
sotto il
getto d’acqua della doccia e si godette i terapeutici vapori
dell’acqua calda.
note
del capitolo:
"Avidità!? Cosa c'è di male...
dopotutto, è solo
una questione di soldi." (Gordon Gekko): citazione dal film
del
1987 Wall Street.
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Capitolo 13 *** Capitolo XII ***
XII
Aiolia era
lì
fermo da qualche minuto e si grattava il mento con aria perplessa,
aveva la sensazione di esserci già stato da quelle parti.
Fissò la targhetta con il numero civico che gli aveva
indicato
Saga. Fece un gran sbadiglio, il bicchiere di caffè nero
extra
zuccherato non era sufficiente a placare i crampi da fame che gli
contorcevano lo stomaco, né avevano sortito alcun effetto i
tre
donuts ripieni alla crema che aveva divorato lungo il tragitto.
Controllò
l'email:
doveva andare all'appartamento 4B. Si concesse il tempo per terminare
il suo caffè e buttare il bicchiere. Poi, si mosse verso il
portone e salì quei pochi gradini di cemento che lo
separavano
dall'ingresso. Era già pronto a suonare al citofono della
portineria, il dito sfiorava il pulsante, quando ebbe un tentennamento.
Saga la
faceva facile.
Nel suo mondo dorato bastava forse un sorriso per ottenere tutto, per
lui soprattutto, che quando sorrideva alle donne gli cascavano ai
piedi. Lo aveva visto di persona l’effetto che faceva al
gentil
sesso e si era chiesto come potesse accadere. Forse perché
agli
occhi delle ragazze sembrava così
“carino”, oltre
che un bel ragazzo; e in quel “carino” era
compresa:
estrema gentilezza, educazione, sensibilità,
disponibilità e… insomma, tutto quello che rende
perfetto
un ragazzo agli occhi di una ragazza e che invece da parte dei ragazzi
viene sottovalutato, se non deriso.
Per un
attimo gli venne
la nausea e, subito dopo, lo sconforto, pensando a quanta differenza
passasse fra lui e Saga: forse si trattava
dell’età, o
forse era il tipo di educazione ricevuta, o era la ricchezza con la
quale l’altro poteva farsi bello. Gli tornò in
mente
quando, per una coincidenza – che non avrebbe mai fatto
accadere
di nuovo – fu costretto a presentarlo a Marin, la figlia del
suo
coach. In quell'occasione, aveva giurato di averla vista affascinata da
Saga; e non gli erano state di conforto le parole che poi lei gli aveva
detto, ovvero che aveva visto qualcosa di strano e inquietante nel
ragazzo; perché nonostante la bella impressione che le aveva
fatto, anche a lei era sembrata troppa la
“perfezione” di
quella sua immagine.
Aiolia
rimase a
riflettere ancora qualche minuto: nella vita reale le cose non
funzionavano così, non più almeno; o forse non
con lui.
Di certo sapeva che gli mancava la sfacciataggine che in Kanon invece
abbondava, ma anche in suo fratello Aiolos, sempre così
sicuro
di sé con gli altri. Gli mancava anche quella dolcezza che
negli
occhi di Saga sembrava innata. Sì, ora che ci pensava
meglio,
probabilmente era quello il trucco! Lui invece si sentiva un cretino
quando si perdeva a guardare Marin, gli sembrava di diventare un pesce
lesso, senza qualità particolari, né sostanza.
Forse
l’unico aspetto degno di nota – e che gli faceva
guadagnare
qualche punto nei confronti di Saga – era il suo fisico
atletico
e la sua bravura nello sport; e di certo, in una prova di forza gli
faceva tranquillamente mangiare la polvere!
Abbassò
la testa,
scoraggiato anche da quest'ultimo pensiero, perché tutto
sommato
era una magra consolazione. Ridiscese i gradini di cemento e si sedette
sul primo, sconfortato da tutto quel rimuginare. Anche se Saga poteva
sembrare delicato di costituzione…
«Cavolo!
Ma che
vado a pensare?» borbottò, appoggiandosi con la
mano sotto
il mento, guardando la strada con un’espressione decisamente
imbronciata.
Poteva dire
tutto quel
che voleva, fare paragoni a non finire, trovare minuzie per potersi
sentire migliore dell’altro. Alla fine era tutto inutile:
Saga
era bello, intelligente, ricco, se la cavava egregiamente negli sport e
soprattutto… era un uomo! Mentre lui, era una semplice
matricola
squattrinata e ancora vergine. Essì, vergine…
perché nonostante Marin avesse passato la notte nella sua
camera
al campus, era stato tanto imbranato da dividere con lei il letto senza
riuscire a combinare niente. Sbuffò a lungo. Iniziava a
capire
la frustrazione che aveva mostrato Aiolos a Philadelphia, quando
avevano parlato di Saga.
Due colpi di
clacson,
ravvicinati e prolungati, lo fecero riemergere da quello che i suoi
amici chiamavano “il quarto d’ora emo”,
nel quale di
solito si perdeva a sospirare d’amore per la giovane Marin,
perché per lungo tempo non aveva trovato il coraggio di
dichiararsi. Aiolia imprecò infastidito, alzando lo sguardo
per
vedere chi fosse l’idiota responsabile di tanto baccano. Era
già di malumore per il favore che aveva promesso di fare, di
sicuro una bella litigata l’avrebbe aiutato a scaricare i
nervi.
«Aiolos?»
Sgranò gli occhi nel veder scendere il fratello dall'auto
appena
parcheggiata proprio di fronte a lui. «Che ci fai da queste
parti?»
L’altro
non gli
diede retta, intento ad armeggiare con il cellulare, appoggiato con un
braccio al tettuccio della macchina. Poi, sbatté
energicamente
la portiera e raggiunse il fratello.
«Sono
qui
perché mi ha chiamato un’ora fa uno dei
capisquadra del
cantiere a nord, distogliendomi dal picnic che aveva organizzato la
nonna, per riferirmi di uno strano lavoro che gli era stato
commissionato con urgenza e che veniva direttamente dal
“boss”, per citare le parole esatte del
caposquadra. Tu
piuttosto, perché hai disertato il pranzo della nonna
dicendo
che avevi da studiare e invece ti trovo qui a bighellonare?»
«Un
favore a un
amico», borbottò Aiolia, alzandosi e spazzolandosi
i
jeans. Tornò al citofono e vi si attaccò con un
certo
nervosismo.
Dalla
finestra del
salotto che dava proprio sulla strada, si affacciò un
vecchietto
cinese, raggrinzito, sudato e col fiatone. «Chi diavolo
è?» sbraitò, dando qualche colpo di
tosse.
«Ehilà!
Salve! Ci fa entrare, per favore? Dobbiamo andare dall'inquilina del
quarto piano», disse Aiolia.
Mentre
pronunciava
quell’ultima frase, la sua voce fu sovrastata dalle voci di
alcuni uomini e dal rumore di sportelli di un furgone che venivano
chiusi senza tanti complimenti. Uno di quegli uomini si
avvicinò
ad Aiolos e gli mostrò dei documenti.
Dohko chiuse
velocemente
la finestra e si presentò un minuto più tardi al
portone
d'ingresso, tutto trafelato e con in dosso un vecchio ishang di cotone,
di un verde petrolio sbiadito e sporco: sembrava essere appena uscito
da una pellicola dei film del filone Wuxiapian.
«Ti
conosco,
ragazzo?» si rivolse ad Aiolia, avvicinandosi a lui e
strizzando
gli occhi; quindi fece correre lo sguardo anche sugli altri presenti,
mantenendo una certa circospezione. «Quale
appartamento?»
chiese poi, tagliando corto.
«Il
4B»
«Non
c’è nessuno in quell’appartamento,
è ancora
sfitto! Che volete veramente?» domandò in tono
brusco, ma
i suoi occhi e i suoi gesti tradivano una crescente insicurezza.
«A
me risulta un
ordine di intervento proprio per quell'appartamento», disse
Aiolos, andando in soccorso del fratello che, preso alla sprovvista, si
stava frugando nelle tasche per prendere il cellulare e controllare
ancora una volta l’e-mail. «L’ordine
è
arrivato direttamente dalla famiglia Hayes e da eseguire con la massima
urgenza. Devo pensare che mr Hayes si sia sbagliato?»
aggiunse,
porgendo il documento al vecchio.
Il cinese si
irrigidì nel sentire quel nome.
«Poco
importa», disse Aiolos, riprendendoselo e ripiegandolo con
cura.
«Immagino che se si sono interessati a questo stabile avranno
intenzione di acquistarlo. Magari per demolirlo…»
«No,
no, non voglio
guai!» esclamò spaventato il vecchio. Per qualche
secondo
tremò lì sul posto, contorcendosi le mani, poi li
fece
entrare.
Un deciso
bussare alla
porta ridestò Cora dal suo dormiveglia agitato. Sentiva la
testa
più confusa che mai. Era di nuovo stesa sul divano, dopo
un’intera mattinata passata dal letto al divano e viceversa,
senza trovare pace da quello scombussolamento. Era raggomitolata nel
suo plaid, a sonnecchiare fra uno starnuto, un dolore al petto e la
testa che pareva schiacciata in una morsa.
Altri rumori
alla porta:
insistenti. Sembrava che proprio ce l’avessero con lei, per
non
lasciarla neanche agonizzare in pace. Con un gesto stizzito si tolse la
coperta di dosso e si mise seduta. Ci riuscì a fatica,
provando
a darsi la spinta, ondeggiando un poco; la testa le girava.
Sbuffò. Riuscì ad alzarsi solo dopo alcuni
tentativi.
«Arrivo,
arrivo!» biascicò, raggiungendo piano la porta,
presa
letteralmente d'assalto. «Dohko, vecchiaccio della malora, le
ho
già prese le tue schifosissime erbe. Che diavolo vuoi
ancora?» brontolò fra i denti, con una mano che
premeva
sulla fronte.
Strizzò
gli occhi
con le dita e sbadigliò. Poi, aprì la porta, ma
solo per
lo spiraglio che il catenaccio consentiva. Era sicura che si sarebbe
trovata davanti il cinese, quindi quella precauzione era necessaria
affinché lui non riuscisse a intrufolarsi in casa come aveva
già fatto, per ben due volte, in quella mattinata. Invece si
ritrovò davanti un ragazzo giovane e alto.
«Tu?»
sgranò gli occhi Aiolia, sorpreso di vedersi materializzare
davanti agli occhi proprio l’incubo che aveva popolato le sue
notti, nei giorni subito successivi al ritorno da Philadelphia.
«Sei
per caso uno
degli inquilini del piano di sotto? Aspetta un
attimo…»
Cora socchiuse la porta, tolse la catena e si affacciò di
nuovo
sul pianerottolo. «Se sei qui per lamentarti di qualunque
danno
tu possa aver subito per la perdita d'acqua, dovrai rivolgerti al
portiere. È lui il responsabile», disse, ancora
con la
testa annebbiata. Era convinta di poter tornare a dormire e, senza
curarsi di altro, stava già richiudendo la porta,
lasciandosi i
problemi fuori dalla sua casa.
«Ma
quanto è piccolo il mondo!»
Una mano
sbucò
all’improvviso e bloccò la porta. Bastò
infine una
leggera spinta per riuscire ad aprirla di nuovo.
«Ciao!
Ci
incontriamo di nuovo, signorina», la salutò
Aiolos, con
voce gentile ma allo stesso tempo melliflua, entrando nel campo visivo
di Cora.
D’istinto,
la ragazza fece un passo indietro per la sorpresa, trovando
d’un tratto lucidità.
«Che
strana
sensazione di déjà vu, non trovi?» le
disse con
sarcasmo, vedendo come lei lo stesse squadrando, corrugano la fronte.
«Tranquilla, non è necessario usare di nuovo lo
spray al
peperoncino, sono qui solo per lavoro», si
giustificò
subito.
Se il suo
intento era
quello di rassicurarla, non se la stava cavando un granché
bene.
Cora si irrigidì ancora di più.
«Quale
lavoro?» chiese lei, disorientata. «Non avete di
certo
l’aspetto di due idraulici. Siete forse
dell’assicurazione
per la stima dei danni? Mmmh… di domenica di sicuro non si
muove
nessuno per queste cose», rifletté per un secondo,
continuando però a tenere gli occhi fissi su entrambi.
Quelle
parole le erano suonate strane e non era molto sicura di riconoscerli.
«Vi ha chiamati Dohko?» chiese perplessa.
Non poteva
fare a meno di
continuare a guardarli e sforzarsi di ricordarsi dove li avesse
già visti. Si coprì la bocca per trattenere uno
starnuto.
Ma nel fare quel movimento fece un passo indietro, lasciando intendere
agli altri di aver concesso il permesso di entrare in casa. Subito dopo
Aiolos e Aiolia entrarono anche gli operai.
«Allora,
dov’è il guasto?» chiese
l’uomo, spazientito dal troppo parlare.
«In
cucina»,
rispose Cora, dopo qualche secondo di esitazione, indicandola con la
mano. «E la valvola generale invece è in bagno.
È
chiusa da ieri sera», aggiunse. Questa volta non fece in
tempo a
evitare di starnutire.
Si fece da
parte per non
intralciare gli operai e si sedette sul pouf in salotto, cercando di
mantenere un controllo vigile sulla situazione, per quanto almeno le
fosse possibile nel suo stato.
«Non
capisco, Dohko
è stato qui poco più di una mezz’ora
fa, dicendo
che era impossibile trovare qualcuno disponibile di domenica per questa
riparazione, a meno di non chiamare il nipote tuttofare e adesso voi
comparite qui dal nulla.»
«Credo
che abbiamo
iniziato col piede sbagliato», disse Aiolos, guardandosi
attorno,
soffermandosi con nonocuranza davanti alla libreria. In
realtà,
scrutava con attenzione ogni dettaglio. «Le presentazioni
ufficiali non sono ancora state fatte, anche se credo che ormai, dati i
nostri precedenti, questo tipo di formalità sia superflua.
In
ogni caso, per mantenere le convenzioni tra persone civili…
io
sono Aiolos Foster e lui è mio fratello Aiolia.»
Il giovane
non era dello stesso avviso del fratello e, con un mezzo grugnito, si
limitò a fare un cenno del capo.
Aiolos diede
uno sguardo
ai libri: erano riposti ordinatamente sullo scaffale. Ne scorse i
titoli e sogghignò nel notare un particolare. Poteva anche
essere una semplice coincidenza, ma raramente si sbagliava. Si
girò verso la ragazza, incrociando le braccia al petto e
appoggiandosi con le spalle alla libreria. «Sto
aspettando», disse, rivolgendosi a lei, che sembrava ancora
estraniata dalla situazione.
Attese
qualche altro
secondo. All'improvviso, un attrezzo cadde sul pavimento con un gran
fracasso e Cora si risvegliò di colpo, come al suono di un
gong.
«Non
hai risposto
alla mia domanda», replicò lei, ritrovando un poco
di
presenza. «Dohko ha detto che era impossibile trovare
qualcuno
disposto a lavorare di domenica, quindi, chi vi ha mandati?»
«Rispondi
prima a
questa, di domanda: come fai a conoscere gli Hayes?» Aiolos
notò in lei la sorpresa. «Riformulo la domanda,
così che tu possa comprendere meglio: perché un
membro
della famiglia Hayes si è scomodato personalmente per te? Da
una
fermata deserta della metropolitana di Philadelphia a un mini
appartamento di Boston, in un quartiere assai modesto… hai
fatto
un bel salto di qualità. Questi non sono certo ambienti che
è solita frequentare gente come gli Hayes, a meno che non si
tratti di lavoro. E anche in quel caso, delegherebbero ad
altri.»
«Il
tuo tono è arrogante e indiscreto!» rispose
piccata Cora, sfidandolo con gli occhi.
La giovane
poteva
abbassare il capo per l’episodio della metropolitana che, non
appena l'altro aveva citato, le tornò in mente; poteva
scusarsi
ancora per lo screzio avuto in aeroporto, ma non avrebbe permesso a
nessuno di venire in casa sua a fare il bullo!
«Il
nome degli
Hayes è famoso. Non nascondo affatto che lo conosco, ma solo
per
quello che si legge di loro sui giornali. Ma di persona io non conosco
nessuno di quella famiglia; e poi, come potrei? Sono tornata in
città solo da poco e come hai appena detto, abito in un
piccolo
appartamento, in un quartiere modesto!»
Si
alzò dal pouf e
di nuovo fu presa alla sprovvista da uno starnuto che le
provocò
un leggero capogiro e la convinse a tornare a sedersi. «Al
diavolo! Quelle stupide erbe sono servite solo a rimbambirmi e a darmi
sonnolenza», borbottò, cercando di trattenerne un
altro.
«Bugie
e
segreti…» la buttò lì
Aiolos, rivolgendosi
in apparenza a nessuno in particolare, ma sortendo l’effetto
auspicato.
Aiolia
sussultò,
seduto su uno degli sgabelli del bancone, abbassando poi la testa; Cora
invece non capiva il nesso di quell’affermazione. Fece vagare
lo
sguardo prima sull’uno e poi sull’altro.
«Saga»,
confessò il giovane Aiolia, pronunciando quel nome fra i
denti e
stringendo in modo convulso il cellulare che teneva in mano.
«Come?»
disse
Cora, confusa. Non le pareva di aver capito bene.
«Saga?»
ripeté anche lei quel nome, senza ricollegarlo al ragazzo
che
aveva conosciuto.
Si morse il
labbro.
«Saga. Saga... Hayes», rimuginò. Anche
se non era un
nome molto comune, chissà in quanti, fra i più di
seicentomila abitanti della sola area metropolitana di Boston, lo
portavano. Come avrebbe mai potuto associarlo alla famiglia Hayes? Era
però vero che il suo aspetto curato dichiarava senza ombra
di
dubbio che non era neppure una persona comune.
«Esatto!
Saga
Hayes», confermò Aiolos, mostrandosi un abile
attore che
ben conosceva il suo copione e quello degli altri.
«Saga...
Lo stesso
Saga?» disse, sempre più incredula lei, rifiutando
quella
possibilità. Guardò il più giovane dei
due e, al
suo cenno di assenso, a un tratto le sembrò di essere
diventata
un’estranea in casa sua. «Lui sarebbe...»
Di nuovo
calò il silenzio fra i tre.
«Mio
Dio…
bello, gentile, ricco e importante…»
balbettò Cora,
portandosi le mani alla bocca, arrossendo imbarazzata.
«Già,
hai vinto alla lotteria, signorina!» disse Aiolos.
Cora
starnutì di nuovo, ma questa volta ne fece due di seguito.
«Ma
che hai, sei
allergica a qualcosa?» sbottò Aiolos, quasi
infastidito
dai continui starnuti, staccandosi dalla libreria e avanzando verso la
cucina, dove gli operai avevano terminato il lavoro e stavano ritirando
l’attrezzatura.
«Signor
Foster, qui abbiamo terminato.»
«Va
bene, ottimo
lavoro. Mr Hayes ne sarà soddisfatto. Lo consideri pure come
straordinario e aggiunga una piccola gratifica per lei e i
ragazzi.» Li accompagnò alla porta,
firmò i
documenti che il caposquadra gli porse e che attestavano il lavoro
eseguito e richiuse la porta alle loro spalle, rientrando nel salotto.
Nell’appartamento
rimasero solo loro tre. Aiolos raggiunse il fratello e
ritrovò
la ragazza nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata:
seduta
sul pouf e con lo sguardo perso nel vuoto.
«Tutto
bene?» le chiese, sfiorandole la spalla con la mano, notando
sul suo viso un leggero rossore.
Cora
sospirò a
lungo, faticando a risvegliarsi dal torpore che di nuovo l'aveva
catturata: la sua vista era un poco appannata e la testa confusa.
«Sei
ancora
qui?» disse, fissandolo per diversi secondi. «Ah,
è
vero! Immagino che debba pagare il lavoro.» Andò
in camera
da letto e ne uscì pochi momenti dopo con un vecchio
portafoglio
in mano, intenta a frugare al suo interno per prendere i soldi.
«Lascia
stare.
È già tutto sistemato; e poi, non credo che
avresti
abbastanza dollari in tasca per saldare il conto per
l’intervento
di due operai specializzati e di un caposquadra. Le persone che sono
venute qui oggi sono pagate dalla società per la quale
lavorano,
che a sua volta fa capo alle industrie Hayes.»
spiegò,
rimarcando l’importanza di tale intervento. Si
guardò bene
però dal dire che tutte quelle persone erano sprecate per un
guasto così insignificante come la sostituzione di un tubo e
una
guarnizione.
Diede una
nuova occhiata
alla casa e poi tornò a osservare la ragazza.
Un’idea su
che tipo fosse, Aiolos se l’era fatta ed era sempre
più
convinto dell’incompatibilità dei due mondi a cui
appartenevano: a vedere l’appartamento così
com’era
– e a vedere lei – non doveva guadagnare un
granché.
Saga si sarebbe stancato presto.
Cora
corrugò la
fronte: in effetti non le era rimasta molta liquidità, oltre
agli spiccioli nel barattolo e un paio di banconote da un dollaro nella
tasca dei jeans. «E allora che ci fate voi due ancora qui?
Che
volete da me?»
«Chi
è
quest’uomo in divisa, in questa foto?» le chiese
Aiolos,
prendendo in mano la cornice portafoto per studiarla meglio.
«È
mio
padre, non toccare!» urlò lei, strappandogliela di
mano e
riponendola con estrema cura al suo posto.
«Tuo
padre? Credevo che tuo padre fosse il pazzo che mi aveva puntato contro
la pistola a Philadelphia!»
«Come?»
Cora
si girò di scatto verso il ragazzo, guardandolo
esterrefatta.
«È questo che è successo?»
«Che
fai, fingi di
non sapere cos’è successo? Eri lì anche
tu e hai
fatto tanto casino per nulla. E per poco mio fratello non si
è
ritrovato con un buco in testa!» scattò in piedi
Aiolia.
Il giovane ebbe ben più che un accenno di rabbia, la sua
sembrava ira furibonda. Non riusciva a capire come quella ragazza si
fosse potuta dimenticare di una cosa tanto grave che aveva lasciato
strascichi nei giorni successivi.
«Lascia
perdere
Aiolia, è evidente che non ricorda davvero o quantomeno non
si
è resa conto di tutto. È una cosa che
può accadere
se lo choc subìto è stato forte; te lo ha
spiegato
più volte papà quando gli chiedevi un resoconto
dettagliato degli interventi, ogni volta che tornava a casa,
no?»
Aiolia
annuì e si
morse la lingua per evitare di attaccare oltre la ragazza. Da quando
era arrivato in quella casa si sentiva nervoso e a disagio: fuori posto.
Poi, Aiolos
si rivolse di nuovo a Cora e le spiegò che il padre era
capitano dei vigili del fuoco.
«Credo
allora che
io ti debba delle scuse anche da parte dello zio Phil.» Cora
si
sedette lentamente su uno degli sgabelli e fece un respiro profondo.
«Mi dispiace, sinceramente», aggiunse, addolcendo
un poco
lo sguardo. «Zio Phil, Phillip Burton, era un capitano di
polizia
di uno dei distretti di Boston. Era il superiore di mio padre e anche
il suo più grande amico. Circa un anno dopo la morte di mio
padre, lui fece domanda di pensionamento e ci raggiunse a Philadelphia.
Da quel momento, è sempre stato molto protettivo con il mio
fratellino e con me: è stato come un vero padre per noi, ma
è diventato ancora più protettivo dopo un evento
spiacevole successo un paio di anni fa.»
«C’entra
per caso un certo Deline?» le chiese Aiolos, stavolta con
maggiore tatto.
Cora
trasalì nel
sentire quel nome, iniziando a tormentarsi le mani. Annuì,
iniziando a respirare a fatica e trattenendo a stento le lacrime.
«Quella
sera,
quando…» fece un respiro profondo.
«Avevo appena
appreso la notizia che quel mostro era stato scarcerato. Non ero molto
in me e quando mi sei venuto vicino... ti ho confuso con lui. Tu gli
assomigli in modo spaventoso.»
«E
tuo padre, è morto in servizio?» le
domandò ancora Aiolos, con tono rispettoso.
«Non
lo so.
Tecnicamente aveva finito il suo turno, ma sai
com’è il
detto, vero? Un poliziotto non smonta mai dal servizio. Quella sera
doveva essere a casa con noi, invece…»
Aiolos
tornò a
osservare i vari oggetti che si trovava davanti. L’atmosfera
in
quell’appartamento era diventata improvvisamente cupa e
triste.
Si soffermò su una delle lettere di encomio incorniciate,
posate
sul piano e che probabilmente attendevano solo di essere appese. La
sfiorò con la mano e vi lesse il nome scritto sopra:
“Tenente Gregory Miller”; ma un nome aveva acceso
una
strana scintilla negli occhi del ragazzo. Quel “Phillip
Burton”. Non solo era stato nominato da Cora poco prima, ma
era
sicuro di averlo già letto da qualche altra parte.
«Allora,
miss Miller, ancora non mi hai detto il tuo nome. O vuoi per caso che
lo scopra da solo?»
«Sei
abituato a
toccare e frugare dappertutto, quando sei nelle case altrui?»
Iniziava a irritarsi per quel comportamento troppo
“impiccione” di Aiolos. Forse, se avesse
soddisfatto le sue
curiosità, se ne sarebbe andato lasciandola in pace.
«Mi
chiamo Caroline e ora che sai il mio nome puoi andartene
soddisfatto!» Si alzò e fece capire chiaramente a
entrambi
i ragazzi che la loro presenza non era più gradita. Anzi,
non lo
era mai stata.
«Non
ti piaccio, vero?»
«Sei
troppo
invadente! E ora fuori da casa mia!» La giovane li
spintonò entrambi verso la porta d’ingresso.
«E dite
a quel… quel… beh, ditegli di non fare
più una
cosa del genere senza prima avvisarmi!»
Con un largo
ghigno sul
volto Aiolos afferrò all'improvviso la mano della ragazza e,
prendendo dalla tasca interna della giacca una penna, scrisse qualcosa
sul palmo della sua mano. Poi, prima di lasciarla andare, le
domandò che lavoro facesse.
«Lavoro
presso un’agenzia investigativa. Come archivista»,
rispose Cora.
«Ora
capisco molte
cose», mormorò Aiolos, annuendo e sorridendo; ma
in quel
sorriso c’era un qualcosa di decisamente malizioso.
«Non
sono il tuo segretario. Quindi, diglielo tu, se vuoi!» le
disse,
attraversando il pianerottolo e raggiungendo il fratello che
già
stava scendendo le scale.
*****
Quella
domenica mattina,
Shion Hayes si svegliò con un gran mal di testa che sembrava
molto simile ai postumi di una sbronza colossale. Eppure, ricordava di
non aver ecceduto la sera precedente. Anzi, era certo di non aver
bevuto affatto, eccezion fatta per quel goccio di brandy nella
cioccolata calda che aveva consumato assieme a Shura.
Quando
infine
riuscì, con non poco sforzo, a mettere il piede fuori dal
letto,
l'orologio segnava un quarto a mezzogiorno. Non si poteva certo dire
che era stato mattiniero, ma non avendo impegni particolari poteva
anche concedersi uno strappo alla sua solita rigida routine, poltrendo
oltre il necessario.
«Domenica...»
brontolò, camminando a passi lenti, avvicinandosi alla
biblioteca, massaggiandosi il collo indolenzito.
Aveva sempre
detestato i
giorni di riposo, la domenica soprattutto, ma per le condizioni in cui
versava quel giorno, era più che disposto a viverlo come un
dono
della provvidenza. Ma le eccezionalità del giorno non
finivano
lì: stava girando per casa scalzo, con un paio di semplici e
comodi jeans, un po' consunti – forse un ricordo degli anni
dell'Università, per quanto fossero datati – e una
camicia
lenta, slacciata quasi del tutto.
Varcò
la porta
della biblioteca con ancora gli occhi socchiusi, per la troppa luce che
arrivava da ogni parte e si sentì dare il buongiorno.
«Shion,
alla buon'ora!» disse Shura, posando alcuni documenti nella
cassaforte a parete.
«Per
favore, non
gridare in questo modo», lo supplicò l'altro,
gemendo per
una fitta alla testa. Subito si portò le mani alle tempie,
massaggiandosele lentamente e maledicendo ogni passo che aveva fatto da
quando era uscito dal buio della sua camera da letto. «Ma
quanto
brandy hai messo nella cioccolata?» gli chiese.
In
realtà non era
affatto interessato alla risposta, voleva solo liberarsi di quel
dannato mal di testa. Avanzò fino alla scrivania e
tirò
un sospiro, quando si accomodò sulla poltrona di pelle.
Shura si
limitò a
un sorriso, andando avanti e indietro dalla scrivania alla cassaforte e
viceversa ancora un paio di volte, prima di richiudere il tutto e
risistemare il grande ritratto dell'arcigno mr Hayes.
«Che
stai
combinando?» domandò Shion, respirando a fondo,
sentendo
che finalmente il martello pneumatico che aveva in testa stava pian
piano cessando di tormentarlo.
«Sto
sistemando la
corrispondenza, come faccio di solito, e ho trovato alcuni vecchi
documenti che andavano rimessi al loro posto»,
spiegò
Shura.
Di nuovo
alla scrivania,
terminò di radunare i restanti fogli, racchiudendoli in due
cartellette diverse che infine ripose nel terzo cassetto della
cassettiera. Del resto, si trattava di banale corrispondenza della
casa: fatture, bollette, resoconti degli stipendi dei dipendenti che
lavoravano nella proprietà. Tutto lavoro di sua competenza.
«Comunque»,
continuò, «stai iniziando a diventare distratto.
Una volta
certi documenti li avresti tenuti gelosamente nascosti e non lasciati
alla portata di tutti. Credo che dovresti ringraziare Saga per aver
accentrato l’attenzione su di sé, in questi ultimi
giorni,
altrimenti quei documenti “scottanti” non sarebbero
passati
così inosservati.»
Shura
sentì un
grugnito provenire dall’uomo e sorrise intimamente. Sapeva
bene
che non c’era nulla che desse fastidio a Shion e, in egual
misura, lo preoccupasse di più, che vedere
“quel”
figlio allontanarsi dalla guida paterna.
«Allora,
quale ricorrenza si festeggia oggi?» chiese, cambiando
discorso.
«Non
capisco cosa intendi dire», ribatté Shion.
«È
così raro vederti in queste vesti, per così dire,
“vacanziere”. Mi pare che l’ultima volta
risalga
a…» Corrugò la fronte e fece una
smorfia con la
bocca, sforzandosi di ricordare. «a quando i ragazzi avevano
più o meno dieci anni, o forse ancora prima.
Quand'è
stato che lo portasti allo Zoo? Beh, ecco, mi stavo domandando a quale
evento particolare si dovesse tale abbigliamento.» Lo
osservò ancora per qualche secondo, poi si
avvicinò a una
delle finestre e guardò fuori, verso il giardino.
«Trovi
così
strano che voglia anch’io, per una volta, mettermi
“in
libertà” e godermi una domenica in
pace?»
domandò l'uomo, mentre accendeva il computer.
«Sarebbe
così se fossi fuori a prenderti un po’ di sole e
goderti
questa magnifica giornata di primavera. Invece sei in casa, seduto alla
tua scrivania e pronto a immergerti nel lavoro.»
«Sono
qui solo per controllare le e-mail e nient’altro»,
lo rassicurò Shion.
«D’accordo,
se lo dici tu!»
Senza
insistere
ulteriormente, Shura si avvicinò alla porta.
«Stavo per
dimenticarmi, Nanny ha deciso che quest’oggi pranziamo tutti
fuori in giardino. Ha aggiunto che non ci saranno portate complesse o
stramberie varie. Oggi fa festa anche la cuoca, quindi solo sandwich,
insalata di pollo, frutta fresca e limonata appena fatta! Proprio come
un vero pic-nic.»
Non aveva
alcun dubbio
che le sue parole sarebbero cadute nel vuoto. Non fece praticamente in
tempo a girare le spalle che Shion era già assorbito dal
lavoro.
Sentiva che qualcosa però avrebbe potuto rovinare la
serenità di quella domenica e la conferma la ebbe quando
vide
l'altro contrarre le mascelle.
«Che
c’è, Shion?»
«Non
immagineresti mai chi mi ha mandato un'e-mail nella mia casella di
posta personale!»
«Sono
per caso gli
avvocati Taylor?» disse Shura, tornando vicino alla
scrivania,
appoggiandosi con entrambe le mani e sporgendosi leggermente verso
l’amico.
«Esatto!
Proprio loro, gli avvoltoi gemelli!» confermò
l’altro.
«Sono
così tremendi?» chiese Shura, incuriosito da quel
soprannome.
«Quei
due non hanno
mai avuto riguardo per nessuno. Per il loro tornaconto personale non
esiterebbero a pasteggiare con la carcassa del loro stesso
padre», spiegò Shion. Continuò a
leggere il testo
della e-mail per qualche altro secondo, poi si bloccò e
alzò lo sguardo sull'amico. «Un momento, come
facevi a
sapere che erano loro? Sei entrato di nuovo nel mio account?»
«Quello
sempre,
caro mio. È il mio lavoro, dopotutto; e comunque, non
è
passato inosservato l’articolo che ti stavi letteralmente
divorando ieri notte», rispose Shura, con un largo sorriso
sul
volto. «Beh, che vogliono?»
«Ma
non hai appena ammesso di essere entrato
nell’account?»
«Sì,
ma non
ho mica detto di aver letto la tua posta. Non sono così
impiccione; e poi era contrassegnata come confidenziale.
Allora?»
insistette.
«Allora…
è l’invito per il compleanno del vecchio Taylor,
Sherlock!»
«Oh
cielo! Deve
essere davvero una giornata particolare, oggi. Era dai tempi delle
superiori che non mi chiamavi più così! Pensi di
andarci?» chiese.
«Non
lo so»,
rispose dubbioso Shion, strofinandosi il mento. «Dopo tutti
questi anni, dopo quasi una vita. Però... potrebbe anche
portare
a qualcosa di inaspettato», terminò, con tono
pensoso.
Sprofondato
nella poltrona, teneva lo sguardo sempre fisso sul monitor, gli occhi
incollati su quelle righe.
«Non
devo
ricordarti cos’è successo l’ultima volta
che hai
accettato un invito da parte di quella famiglia, vero? Comunque, la
decisione è tua, Shion. Solo... non pentirtene, se dovessi
accettare», gli disse Shura. Fece uno sbuffo e
uscì dalla
biblioteca.
*****
Quella
domenica
pomeriggio, quando Aiolos tornò alla villa, si
portò
dietro anche il fratello minore e Nanny ne fu molto felice.
Dopo tanto
tempo, per un
giorno intero in quella famiglia nessuno parlò di lavoro o
affari. Kanon impegnò Shura in una serrata sfida a basket,
nello
spiazzo dietro il garage dove pochi giorni prima aveva trovato il
gemello a riflettere. Per lungo tempo erano rimasti sulla
parità, poi gli animi avevano iniziato a scaldarsi e alla
fine
entrambi avevano pensato più a commettere fallo
l’uno
sull’altro che a fare canestro. Quando in seguito si
riunirono di
nuovo agli altri, a vederli non si sarebbe potuto dire chi avesse avuto
la peggio: Shura era tornato al tavolo tutto sudato e claudicante;
Kanon, altrettanto stravolto, se l’era cavata con una
fasciatura
stretta al gomito che serviva a coprire la brutta sbucciatura che si
era procurato in una caduta. Il cemento non era stato un buon alleato
per nessuno dei due.
«Che
fine avevi fatto?» chiese Kanon ad Aiolos, quando lo
trovò seduto comodo al tavolo.
«Avevo
degli
impegni», rispose l'amico, guardando di sottecchi
l’altro
gemello che se ne stava tranquillo a leggere un libro, e subito dopo
anche il suo di fratello, che invece si era fiondato sul piatto di
portata e mangiava a testa bassa.
«Una
buona scusa
per evitarti una figuraccia!» lo schernì Kanon,
andando a
sistemarsi accanto a Saga e bevendo tutto d’un sorso il
bicchiere
di limonata dell’altro che, senza scomporsi, seduto sulla
poltroncina in vimini, sbuffò.
Shion
osservò i
suoi figli e si rassicurò nel vedere che, al contrario delle
parole di Shura, quel rapporto di complicità era
più
saldo che mai, nonostante le vite dei due si fossero separate da anni.
Per un attimo ripensò a quando li aveva visti la prima
volta,
addormentati l’uno accanto all’altro, quasi stretti
in un
abbraccio, così calmi e pacifici; e così era
accaduto
successivamente, tante e tante altre volte: prima da bambini, poi da
adolescenti e infine, anche da adulti, come se quella vicinanza
calmasse e tranquillizzasse entrambi. Già in passato aveva
conosciuto qualcuno che credeva fermamente che l’affetto
potesse
cambiare le persone e renderle migliori. All’epoca non ci
aveva
creduto molto, ma guardando i suoi ragazzi – che ragazzi
più non erano da anni – doveva ricredersi.
«Cosa
stai leggendo di tanto interessante, fratellino?»
domandò Kanon.
Non gli
lasciò il
tempo di rispondere, gli chiuse il libro in modo dispettoso e, quasi
facendolo cadere dalla poltroncina – perché un
dito gli
era rimasto incastrato fra le pagine mentre l'altro tentava di
strapparglielo dalle mani – lo tirò a
sé per
accertarsi lui stesso il motivo di tanta concentrazione sulla lettura,
da parte sua. Solo alle lamentele di Saga mollò la presa,
deluso
poi della scoperta. Per un fugace momento gli passò per la
testa
di prenderlo in giro, ma desistette e placò i borbottii del
gemello con un bacio sulla tempia.
*****
Quando il
cielo
iniziò a scurirsi e il sole quasi non si vedeva
più, il
giardino ritornò al suo solito ordine e alla consueta pace;
i
membri della famiglia Hayes ripresero il proprio ruolo e Shion
tornò a chiudersi in biblioteca, di nuovo seduto dietro la
scrivania. Aveva lasciato che l’ombra della sera regnasse
incontrastata anche nella stanza, troppo concentrato a leggere ancora
una volta quella e-mail così straordinariamente informale e
al
tempo stesso irritante che aveva ricevuto dagli avvocati Taylor. Era
stata forse solo una coincidenza che dopo tanto tempo si fossero
rifatti vivi con lui? E poi, perché proprio adesso?
Possibile
che il motivo fosse veramente solo la celebrazione del compleanno del
vecchio professor Taylor?
Qualcosa gli
diceva che
forse in quegli ultimi anni aveva allentato troppo la guardia. Che i
troppi anni passati tranquillo erano stati la proverbiale pace prima
della tempesta. Era dunque solo per cortesia e galateo che
l’invito era esteso anche ai figli?
Si
alzò e si
versò del whisky. Con la mente non era più al
presente di
quella giornata; con l'accompagnamento del ticchettio
dell’orologio fermacarte che scandiva regolare il tempo che
mancava al termine di quella tranquilla domenica, tornò a
una
lontana sera di inizio inverno.
Il 20
dicembre del 1982 sarebbe stata una data che avrebbe ricordato a lungo,
molto a lungo.
*****
Quella
sera, la vecchia sede del circolo della facoltà di Legge
dell’Università di Harvard era insolitamente
animata. Il
rettore era stato prodigo nell’organizzare una cena sfarzosa
e
dalle atmosfere dei tempi andati per celebrare un altro successo del
più illustre dei suoi docenti: il professor James Taylor,
autore
di un saggio di imminente pubblicazione che, a detta di molti critici
del settore e di eminenti colleghi, sarebbe stato considerato senza
alcun dubbio una pietra miliare nel diritto applicato
all’economia.
Per
quell’occasione tanto importante, che non solo celebrava
l’uomo e il giurista, ma dava lustro anche
all’intera
Università, erano stati invitati ospiti eccellenti: alcuni
fra i
massimi esponenti della Corte Suprema, nonché ex studenti di
Harvard, avvocati di prestigiosi studi legali, politici, generosi
finanziatori e una strettissima selezione fra i più
promettenti
studenti del corso di Legge. Non potevano certo mancare poi i figli del
professore.
Il
primogenito, James jr, era al suo primo incarico come vice Governatore
dello Stato; i gemelli Anne e Richard, che a soli trentaquattro anni
erano divenuti soci del più importante studio legale di
Boston,
il “Prescott-Cochrane e associati” che ora avrebbe
visto
figurare anche il loro nome sulla carta intestata; infine Emma,
destinata fin da bambina alla carriera politica e a seguire le orme del
fratello maggiore James jr.
Anche
Shion William Hayes era stato invitato a quella serata e in molteplice
veste: come generoso finanziatore, come preminente esponente della
società di Boston e come amico personale e pupillo del
professore. In quegli ultimi tre anni, Shion ne aveva rifiutati tanti
di inviti del genere, adducendo ogni volta la scusa di qualche
improrogabile impegno di lavoro. Perlopiù erano serate di
beneficenza nelle quali ciò che davvero contava era far
staccare
assegni sostanziosi, o inaugurazioni o mostre, che lui era comunque ben
lieto di poter evitare. Quella serata però, non era riuscito
proprio a rifiutare. Forse, proprio perché ad accompagnare
l’invito formale c’era stata una lettera di Emma.
«Shion!
Finalmente ti rivedo, ragazzo! Diamine, fatti guardare, sei un uomo
ormai e anche importante da quello che si legge sui giornali. Credo che
certe confidenze non possa più permettermele, vero? Ora
dovrei
chiamarti mr Hayes. Eh, ragazzo mio!» Era stato proprio
l’ospite d’onore, il professor Taylor in persona a
riceverlo, non appena lo aveva intravisto nella sala principale del
circolo. Aveva lasciato la compagnia di due giudici della Corte Suprema
e gli si era fatto incontro. Lo aveva salutato con grande entusiasmo,
abbracciandolo con l’affetto di un padre orgoglioso del
proprio
figlio, come neanche il suo vero padre aveva mai fatto.
«Tuo
padre aveva ragione, la tua strada è negli affari e non
dietro
una cattedra a fare lezioni a studenti annoiati. Sono così
orgoglioso di te! Hai superato le mie aspettative e scommetto che il
tuo vecchio sarebbe stato altrettanto orgoglioso, per quello che sei
riuscito a fare in così pochi anni. Un successo dopo
l’altro, una scalata impressionante verso le vette
dell’economia e della finanza! Mi è di conforto e
di vanto
che le mie lezioni ti siano state d’aiuto.»
«Congratulazioni
per il suo nuovo libro, professor Taylor. Le auguro tutto il successo
che merita», aveva invece esordito lui, forse con troppa
compostezza e formalità, stringendogli la mano con una presa
decisa; voleva però mantenere il più possibile le
distanze da tutto quel circo.
«Ti
prego, non essere così rigido: per te io sono e
resterò
sempre il tuo vecchio insegnante e amico. Vieni ragazzo mio, ti
accompagno dagli altri e poi facciamo una foto tutti assieme! Emma
sarà felice di rivederti e riabbracciarti. Era sicura che
stasera ci saresti stato. Chissà che ora le cose fra voi non
si
possano riaggiustare, vero? E c’è anche Tony,
senza il suo
prezioso aiuto non sarei riuscito a terminare questo libro! Anche a lui
farà piacere rivederti.»
«Shion,
è passato tanto, troppo tempo dall’ultima
volta», lo
aveva salutato lei, con voce dolce e affettuosa, come una vera padrona
di casa, vedendolo arrivare assieme al padre, sorridendo gentilmente a
entrambi.
«Cara,
lo lascio a te! So che sarà in ottime mani»,
sussurrò all'orecchio della figlia, prima di lasciarli e
tornare
dagli altri ospiti.
L’uomo
aveva colto al volo l’occasione, sperando che quel momento
favorevole desse una mano affinché i due tornassero insieme.
Non
si era mai rassegnato alla rottura del fidanzamento di Emma e Shion,
che lui stesso, in accordo con Abraham Hayes, aveva fortemente voluto.
Emma
lo aveva preso sotto braccio e lo aveva sentito rigido e
“impostato”, ma invece di portarlo dai suoi
fratelli, che
erano stati raggiunti e letteralmente monopolizzati da un gruppetto di
vecchie mummie tutte impettite e tirate a lucido, la ragazza lo stava
accompagnando verso la terrazza coperta: un luogo appartato e
tranquillo che ben si adattava per fare due chiacchiere in attesa della
cena.
«Non
ti ricordavo così timido», aveva ridacchiato,
sbarazzina.
Tirandogli
dispettosa il braccio, l’aveva attirato verso di
sé e gli
aveva dato un bacio sulle labbra, sorridendogli e accarezzandogli il
volto. Nonostante i suoi ventiquattro anni, Emma a volte amava
indulgere in comportamenti un po’ infantili, innocenti e
senza
malizia come quello appena compiuto; e divertirsi poi nel vedere
l’imbarazzo che ne conseguiva nell’altro.
«Tu
invece non lo sei mai stata», aveva ribattuto Shion,
arrossendo.
Non
se l’era aspettato, anche se intimamente era felice di quello
spontaneo gesto affettuoso da parte della ragazza. Anche se nei primi
tempi erano rimasti in buoni rapporti, con il passare degli anni si
erano allontanati, vedendo raffreddarsi quel loro legame. Ma forse non
era neppure così strano quel suo comportamento. Ricordava
molto
bene il carattere lunatico di Emma, nel quale alternava momenti di
estrema dolcezza ad alcuni scatti violenti, soprattutto quando qualcosa
non andava come voleva lei. Perlopiù erano limitati a scatti
verbali che solo in rare occasioni eccedevano in qualcosa di
più
fisico. Non vi aveva mai dato peso, giustificandoli con il grande
stress al quale era sottoposta per via delle aspettative della sua
famiglia riguardo il suo futuro. Shion ne era sempre rimasto
affascinato e attratto, perché lei era forte e determinata,
come
lui invece non era mai stato.
«Guardalo
Shion. Guarda com’è impacciato. È
adorabile, non trovi?»
Con
occhi trasognati e stringendosi forte al braccio del suo
accompagnatore, Emma aveva iniziato a fissare un ragazzo biondo, dai
capelli scandalosamente lunghi per l’opinione moralistica di
quel
circolo di ipocriti benpensanti, che se ne stava in un angolo in
disparte a fare da tappezzeria.
«Sai,
in questi anni non è cambiato affatto. È rimasto
timido e
insicuro come quando studiavate assieme.»
Entrambi
stavano osservando Anthony. Vedevano come il giovane si guardasse
attorno con crescente nervosismo, mordicchiandosi la nocca della mano,
o tormentandosi un labbro, toccandosi poi ogni volta la cravatta. Era
chiaro il forte disagio che stava vivendo a quella festa,
così
piena di personalità importanti. Nonostante ricoprisse da
anni
il ruolo di assistente personale del professor Taylor – che
lo
aveva nominato tale già al termine del secondo anno di corso
– e, nonostante lo accompagnasse spesso a ogni tipo di
evento,
non si era mai abituato a quel tipo di situazione.
«Papà
è molto soddisfatto di lui. Ripete sempre che è
perfetto
come assistente, che gli è di enorme aiuto e che alla fine
ha
fatto la scelta giusta.» La donna si era staccata dal braccio
di
Shion e gli si era messa di fronte, fissandolo negli occhi malgrado
l’evidente differenza d’altezza. «Tony
esegue gli
ordini senza mai fiatare, con precisione e devozione; non come qualcun
altro di mia conoscenza che invece era solito polemizzare su ogni
cosa», aveva detto, con un sorriso malizioso sulle labbra
rosso
scarlatto.
«Si
direbbe il perfetto cagnolino», aveva ribattuto sarcastico
Shion,
provocando nella ragazza una smorfia di disappunto e al tempo stesso di
divertimento. «Sai bene che non mi è mai piaciuto
farmi
comandare a bacchetta e ora, nella mia posizione, nessuno
può
più permettersi di farlo», aveva continuato,
sostenendo lo
sguardo di Emma. Era impertinente come sempre, ma era impossibile
resisterle. Sentiva un rinato calore nel cuore e forse, doveva
ammettere, forse aveva fatto male a seguire una strada diversa da
quella che avevano tracciato i loro genitori. Probabilmente, Emma
sarebbe stata una moglie perfetta per lui.
«È
vero, ora sei una persona importante, Shion, ma non sono
così
sicura che se trovassi la persona giusta, tu non ti trasformeresti in
un agnellino, o come hai appena detto, “in un perfetto
cagnolino”, come Tony. Del resto sei un uomo, con tutte le
debolezze e le insicurezze del caso. Che sia uomo o donna, anche tu
troverai il tuo padrone.»
Emma
aveva ridacchiato nel vedere come per un attimo la mascella di Shion si
era contratta. Aveva alluso a un aspetto del suo passato che non doveva
trapelare, proprio per la posizione che ora occupava; e sapeva bene che
se fosse stato di dominio pubblico, avrebbe potuto rovinare la sua
carriera e la sua reputazione nel mondo degli affari.
«Ma
non roviniamoci questa magnifica serata con discorsi del genere.
Andiamo da lui, sono sicura che rivederti lo renderà
felice.» La voce della giovane donna era tornata dolce e
soave,
così come di nuovo gli aveva mostrato un sorriso affettuoso.
Tirandolo
ancora per il braccio si erano avvicinati lentamente ad Anthony.
In
quel momento però si era sentito il suono di una campanella
e un
valletto si era affacciato nella grande sala del circolo per annunciare
che la cena stava per essere servita. Il professore aveva chiamato a
gran voce il suo assistente che subito gli si era fatto incontro,
mentre tutti gli ospiti iniziavano a muoversi come in una piccola
processione verso la sala attigua. Quell’occasione era
sfumata,
ma era stata rimandata solamente di qualche ora.
Non
era rimasto quasi nessuno all’interno della sede del vecchio
circolo di Legge di Harvard. I pochi invitati che si erano attardati si
erano riuniti attorno al professore e ai suoi figli maggiori, impegnati
nel racconto di noiosi aneddoti accademici. Anche Shion era ormai
pronto ad andarsene. Quella sera si stava finalmente avviando alla sua
conclusione. I timori che aveva pensato di provare nel rivedere quelle
persone, si erano rivelati infondati. Aveva notato che il professore si
era isolato un momento e voleva cogliere l’occasione per
salutarlo e congedarsi, ma era stato intercettato da Emma che lo aveva
letteralmente trascinato via e condotto nella vecchia biblioteca del
circolo: una piccola stanza dall’altra parte del corridoio,
che
veniva ormai usata solo di rado. Lì, con il braccio
appoggiato
alla cornice di mogano del vecchio camino c’era Anthony.
Non
appena gli sguardi dei due uomini si erano incrociati, fra loro era
calato un grande imbarazzo. Per tutta la durata della cena e le
seguenti due ore di chiacchiere fra un liquore e un sigaro, Shion aveva
osservato i due: erano rimasti sempre seduti lontani, Anthony in
disparte ed Emma non aveva mai lasciato il fianco del padre. Spesso
Shion aveva soffermato il suo sguardo su di lei, quasi incantato dal
fascino sensuale che emanava. In quegli anni era divenuta
più
bella e più consapevole del suo carisma naturale, unito
all’ascendente che esercitava su tutti; ed era diventato
più che evidente che lo sapeva sfruttare. C’era
qualcos’altro però, una strana luce nei suoi
occhi,
un’evidente dolcezza che non aveva mai posseduto prima. Un
qualcosa che forse, si era ritrovato a pensare per la seconda volta in
quella serata, avrebbe potuto riaccendere la scintilla che avrebbe dato
valore a quel rapporto fittizio voluto dai loro padri e che comunque,
non era mai stato del tutto indifferente a loro stessi. Le idee chiare
e il carattere deciso della ragazza gli erano sempre piaciuti e anche
il suo lato maschiaccio e un po’ sfrontato, che aveva
sfoggiato
come un vanto soprattutto negli anni dell’adolescenza,
l’aveva sempre trovato divertente.
Aveva
però visto come Emma invece avesse rivolto il suo sguardo
verso
Anthony, come entrambi si fossero scambiati fugaci occhiate ed era
proprio in quei momenti che quella dolcezza si faceva più
evidente e che faceva scemare in lui il desiderio di rincontrare a
quattr’occhi il vecchio amico.
I
secondi di silenzio imbarazzante si erano trasformati in minuti, sotto
lo sguardo un po’ divertito di Emma che scuoteva il capo
pensando
a quanto fossero infantili quei due. Poi, titubante e balbettando un
poco, Anthony aveva fatto qualche passo verso Shion e lo aveva
salutato, porgendogli la mano. La reazione dell’altro aveva
tardato a venire, ma non appena aveva avvertito il calore di quella
mano, non appena la sua mente aveva finalmente accettato che lui era di
nuovo lì, davanti ai suoi occhi, si era sciolto in un
abbraccio.
«È
bello rivederti, Shion. Mi sei mancato in questi anni», gli
aveva
detto Anthony, con voce rotta dall’emozione.
Shion
non aveva risposto nulla. Solamente, aveva indugiato in
quell’abbraccio, con gli occhi lucidi, stringendo forte,
aspirando il delicato profumo della colonia di Anthony. Poi, si era
staccato da lui e aveva ritrovato la sua compostezza da uomo
d’affari.
«Ho
ritrovato i tuoi occhiali. Li avevi lasciati in macchina»,
era
intervenuta Emma, affiancandosi a Tony e porgendoglieli. «Non
dovresti fare così tante storie. L’oculista ti ha
detto
che devi portarli sempre, altrimenti gli occhi peggioreranno.»
«Scusami»,
le aveva risposto lui, abbassando la testa e rigirandoseli per qualche
secondo fra le mani. Si sentiva in imbarazzo a usarli e a farsi vedere
dalla gente con quelli che, ironicamente, Emma definiva
“cerchietti d’oro”.
«Te
l’ho già detto, ti donano molto, ti fanno sembrare
più distinto! E poi, fanno risaltare i tuoi splendidi
occhi», aveva aggiunto lei, per blandirlo, puntando
sull'unico
punto debole del giovane: quel pizzico di vanità che lo
faceva
sembrare ai suoi occhi ancora più tenero e carino.
La
donna gli aveva poi preso la mano, cercando però di
nascondere
quel gesto a Shion, soprattutto per il bene dell’altro, che
si
sentiva piuttosto a disagio.
«Perché
mi avete voluto qui?» aveva chiesto Shion, iniziando a
spazientirsi.
Il
suo sguardo si era fatto d’un tratto diffidente. Vedeva ora
come
era diventato sfuggente quello dell’amico e come un lieve
rossore
aveva ravvivato il volto di lei, che nonostante tutto mostrava
sicurezza.
«Volevamo
parlarti di una cosa importante», aveva iniziato Emma,
mantenendo
un sorriso gentile, quasi innocente. «Shion, per favore, mi
serve
il tuo aiuto.» Si era avvicinata a lui e gli aveva preso la
mano
con delicatezza, guardandolo dritto negli occhi.
«E
cosa potrei mai fare io per te che tu non possa ottenere da chiunque
altro?» Il volto di Shion si era fatto ancora più
serio,
così come il tono della sua voce, ora più duro e
cinico.
Emma
gli aveva accarezzato il volto, ma era stata subito bloccata dalle mani
di Shion in quel suo gesto.
«Questa
volta non funziona, Emma», le aveva detto, facendo un passo
indietro e osservando l’altro, che in quel momento si era
girato
di spalle e si era appoggiato di nuovo al camino, fissando il suo
sguardo sulle fiamme al suo interno. «Di’ quello
che devi
dire e facciamola finita.» Nell’uomo stava
crescendo
un’inspiegabile frustrazione. Aveva mantenuto il suo sguardo
sulla schiena di Anthony, chiedendosi da quando fosse diventato
così vigliacco da non riuscire neanche più a
guardarlo in
faccia. Cosa c’era che non andava in quella loro piccola
riunione?
La
convinzione che entrambi gli stessero nascondendo qualcosa si stava
facendo sempre più chiara nella sua mente.
La
donna si era fatta più seria e si era affiancata ad Anthony,
accarezzandogli la schiena e sussurrandogli qualcosa. Gli aveva preso
la mano nella sua e, dopo un cenno di assendo da parte del giovane, si
era voltata di nuovo verso Shion. Non era più la dolce e
affascinante Emma, era diventata la determinata Emma.
«Diretto
e conciso proprio come si addice a un uomo d’affari
pragmatico
come te, Shion. Mi piace questo tuo lato del carattere. Sono qui per
chiederti aiuto. Sono nei guai: sono al quarto mese.»
Aveva
dato quell’annuncio con tale fermezza negli occhi che Shion
aveva
tentennato per un attimo, confuso sia per il significato di
quell’affermazione, sia per il comportamento troppo freddo e
distaccato che l’aveva accompagnata. Gli era sembrato che per
la
donna che lo stava fronteggiando, fosse una scocciatura.
«Ah
sì? Congratulazioni! Ed è ancora vivo
l’idiota
responsabile di questo casino?» aveva ribattuto con sarcasmo.
«Strano che i tuoi cari fratelli non abbiano fatto a gara per
sbranarselo. Per non parlare poi di JJ che come minimo proporrebbe la
reintroduzione della pena di morte per il colpevole di tale lesa
maestà! Perché nessun plebeo può
mirare tanto in
alto, senza passare la dura selezione dei membri della famiglia Taylor;
e di conseguenza, il sangue blu dei Taylor, non può essere
contaminato da qualcuno non alla loro altezza! Non me
l’aspettavo
proprio da parte tua, Emma», aveva aggiunto, dopo qualche
momento
di silenzio. La sua voce era permeata da uno sprezzante sarcasmo.
Shion
conosceva molto bene la famiglia Taylor. Aveva appreso quanto ognuno di
loro fosse ambizioso, a partire proprio dal decano,
l’illustre
professor James Taylor, passando per i figli, pronti a scannare
chiunque per primeggiare nei loro rispettivi campi di competenza. Con
l’unico rammarico di James jr, il cui massimo traguardo
possibile
sarebbe stata la carica di Governatore, dati i suoi natali, rispetto
agli altri suoi fratelli. Nonostante tutti avessero origini inglesi,
lui era l’unico fra i figli a non essere nato su suolo
americano,
ma solamente naturalizzato. Emma, la più giovane, che
racchiudeva in sé tutte le qualità migliori dei
Taylor,
sarebbe stata il coronamento di tutti i sogni del padre.
«Sei
sempre stata una così attenta calcolatrice, non hai mai dato
a
nessuno la possibilità di intralciare il tuo cammino, che
avevi
sempre così chiaro in testa. Cos’è, hai
buttato al
vento il tuo futuro per una scappatella sfuggita al tuo controllo?
Oppure l’hai fatto per rovinare i piani e deludere le
aspettative
della tua famiglia?» le aveva detto Shion, con freddo
distacco.
«Sei
anche tu come mio padre e mio fratello James? Tutti che si aspettano
questo da me. Perché io, la piccolina di casa Taylor, ho
più palle di tutti i miei fratelli messi assieme e credete
dunque che abbia anche più ambizione?» Il tono
della sua
voce era diventato acido e sprezzante, mentre avanzava minacciosa verso
Shion. «Beh, caro mio, ti sbagli di grosso! Nessuno
può
dirmi cosa fare! Nessuno può decidere il mio futuro! Io, io
solamente, ho il potere di decidere per me!» Gli si era
avvicinata di un altro passo e aveva alzato la mano, pronta a
schiaffeggiarlo.
Shion
aveva visto quel cambio repentino del suo umore e ne era rimasto a dir
poco disorientato, ma soprattutto erano stati quegli occhi
così
furiosi a turbarlo.
«Per
favore, Emma, calmati.»
Con
estrema gentilezza nella voce, posandole con delicatezza le mani sulle
spalle, Anthony era riuscito a trattenerla e a tranquillizzarla in
pochi istanti. Anche il viso della donna si era rasserenato.
L’udire quella voce pacifica e dolce, il sentire la sua
presenza
tanto rassicurante, erano state un toccasana per lei, per farle
riprendere il controllo. Emma lo aveva guardato con tenerezza,
prendendogli la mano e intrecciandovi le dita alle sue; sapeva che con
lui al suo fianco non doveva temere di sembrare debole, né
tantomeno doveva continuare a sfoderare la sua aggressività
per
non farsi mettere i piedi in testa dagli altri.
«È
uno scherzo, vero?» Shion si era passato una mano sulla
fronte e
poi fra i capelli. Si era girato e aveva fatto qualche passo, per
allontanarsi e riflettere un attimo sulla situazione.
Al
punto in cui erano arrivati, non era più necessario svelare
chi
fosse il padre del bambino. I fatti erano sufficientemente chiari ed
espliciti per lui. Il repentino cambio di atteggiamento di Emma, il
disagio e le ritrosie di Anthony erano la scomoda risposta.
«Mi
dispiace, Shion», aveva provato a dire Emma, ora con tono
più rammaricato.
«Ti
dispiace? Ti dispiace?» aveva ripetuto quelle parole in un
sussurro, ancora incredulo, sbiancando in volto.
Il
suo respiro si stava facendo più pesante e nervoso a ogni
momento che passava, ma cercava di trattenersi, di riflettere. Aveva
fissato il suo sguardo prima su Anthony, così mortificato, e
poi
su Emma, anche lei ora sinceramente dispiaciuta; e gli era sembrato di
essere l’unico spettatore di una farsa. Non riusciva a
capacitarsene. Dov’erano finiti i sentimenti che
quell’uomo
aveva provato in passato per lui? Dov’erano finiti i
sentimenti
che quella donna, che lo avevano stregato un tempo e che ora aveva
occhi solo per l’altro, aveva provato per lui?
Si
sentiva fuori posto, preso in giro e poi escluso.
Aveva
iniziato a camminare su e giù per quella stanza, sotto lo
sguardo apprensivo di Emma, mentre Tony teneva ancora gli occhi bassi.
La tensione fra i tre non era mai stata così alta come in
quel
momento. Shion non era sicuro di quello che avrebbe potuto fare, non
era sicuro di riuscire a mantenere anche solo una parvenza di
lucidità. Si era affrettato a raggiungere la porta.
«Shion,
ti prego…» lo aveva richiamato Emma.
«Voi
due vi siete cacciati in questo guaio e voi ora ve ne tirerete
fuori», le aveva risposto, dandole le spalle.
«Non
puoi dire sul serio», aveva ribattuto la donna.
«Che
cosa vuoi da me, Emma? Vuoi un capro espiatorio che salvi la tua
reputazione?» le aveva domandato. La sua mano stringeva forte
la
maniglia della porta, tentando di sfogare in quel modo la rabbia, la
frustrazione e la delusione che stavano già traboccando da
lui.
«Ti dice male, mia cara. Tuo padre farebbe carte false
perché io ti sposassi. E vista la situazione attuale, non ti
vorrei neanche se tuo padre mi pagasse per farlo.» Il suo
sguardo
era carico di risentimento. «Chiedi al tuo uomo di salvarti,
sempre se ha abbastanza palle. Ma ne dubito, se lascia che sia tu a
sbrogliare la situazione, a supplicare perché qualcuno
risolva
il problema. Vuoi un consiglio? Abortisci! E tu», si era poi
rivolto all’altro con disprezzo, «scappa il
più
lontano possibile, prima di fare una brutta fine. I Taylor non sono
inclini a lasciar correre.»
«No!
Non ci puoi voltare le spalle in questo modo!»
Emma
lo aveva raggiunto alla porta, strattonandolo per un braccio. Nei suoi
occhi c’era quella determinazione che le aveva sempre
permesso di
raggiungere i suoi obiettivi, ma anche paura.
«Non
chiedermi di unirmi a questa farsa», aveva sibilato Shion.
«Tu sapevi. Tu conoscevi i miei sentimenti. Mi ero confidato
con
te quando non comprendevo ciò che provavo. Tu mi avevi
incoraggiato ad aprirmi, mi avevi consolato quando mi ero sentito
“strano” e confuso. Mi sei stata amica…
e ora io mi
chiedo: tutto questo per cosa? Solo per pugnalarmi alla schiena e
prendertelo?»
Con
uno strattone si era liberato dalla presa della donna. Shion aveva poi
guardato Anthony, sempre così dimesso e debole che neanche
si
era mosso per difenderla.
All’improvviso,
Emma gli aveva dato una sberla, colpendolo in pieno viso. Il rumore era
stato così forte e agghiacciante che aveva fatto sussultare
Anthony.
«Ma
cosa pretendevi da me?» gli aveva urlato lei, con rabbia.
«Sei stato solo un codardo! Sei scappato per non affrontare
un
rifiuto! Hai preso come alibi l’aver perso il ruolo di
assistente
di mio padre per allontanarti ancora di più da noi! Oh,
certo,
studiavi con Tony, ti approfittavi di lui e lo sfruttavi per poter
continuare a prendere voti alti! Ma una volta laureato non ti
è
servito più a nulla, vero? Hai preso il posto di tuo padre e
sei
diventato irraggiungibile, anche per chi aveva bisogno di te,
perché tu non volevi più mischiarti con degli
accademici
squattrinati! Le poche volte che riuscivamo ad avere tue notizie, eri
freddo e distaccato, proprio come adesso. Sei tu che ci hai abbandonato
e tradito, hai voluto tagliare tutti i ponti senza dare una
spiegazione. È naturale che ci siamo avvicinati, Tony e
io!»
Aveva
fatto una pausa, per mascherare l'esitazione nella voce quando aveva
pronunciato quelle ultime parole, perché non poteva
confessargli
come stavano in realtà le cose.
Aveva
stretto le labbra e lo aveva guardato furiosa, sostenendo lo stesso
sguardo che Shion aveva in quel momento; e il suo istinto di
predatrice, in quel confronto ora solo fra loro due, le diceva di dare
l’affondo, di colpire senza pietà e senza rimorso.
«La
verità è che io l’ho cercato. Io ho
insistito. Io
l’ho fatto innamorare di me e alla fine me lo sono
preso!»
C’era
stato un lungo silenzio in quell’austera e fredda stanza,
dalle
pareti ricoperte dai ritratti di alcuni fra i più illustri
giuristi laureatisi ad Harvard dalla sua fondazione ad oggi.
«Non
te ne stupire troppo, Shion. Lui non è mai stato come te,
che
non sapevi da che parte stare. Non ti ha mai visto in quel
modo»,
gli aveva detto, fissandolo con un sorrisetto da compatimento che aveva
lo scopo di ferire ancora di più l’orgoglio
dell’uomo d’affari. «A lui non sono mai
interessati i
ragazzini spauriti.»
«Stronzate!»
aveva urlato con rabbia Shion.
Aveva
serrato le mascelle e deglutito a fatica, resistendo
all’improvvisa nausea che sentiva e lottando per mantenere
quel
poco di lucidità che gli rimaneva dopo i drink bevuti
durante la
serata. Tutto il suo corpo aveva iniziato a tremare di collera, come
non gli era mai capitato. Seguendo un impulso improvviso aveva
afferrato una statuetta di porcellana che si trovava sul tavolino
accanto alla porta e l’aveva scagliata a terra, ai piedi di
Anthony.
Anche
dopo quello sfogo, il suo sguardo era ancora pieno d’ira e il
suo cuore colmo di rancore.
«Perché
non sei tu a dirmi queste cose? Perché non mi guardi negli
occhi?» gli aveva urlato Shion.
Si
era avvicinato a lui a grandi passi e lo aveva afferrato per il bavero
della giacca, strattonandolo con forza e facendolo andare a sbattere
contro il leggio posto al lato del camino. Poi lo aveva colpito con un
pugno rabbioso, facendogli volare via gli occhiali. Voleva dargli una
lezione, voleva farlo reagire in qualche modo. Voleva fargli capire
l’errore che aveva commesso e il dolore che gli aveva causato.
Lo
aveva costretto in un bacio, violento e forzato, incurante delle
lacrime di Anthony che stavano inumidendo anche il suo viso,
insensibile per la troppa rabbia che continuava a provare e sordo alle
vibranti proteste di Emma.
«Smettila!
Smettila! Non lo costringere a rivivere quelle cose!» gli
aveva
gridato con disperazione la donna, battendo i pugni sulla sua schiena.
Quando
Shion l’aveva lasciato andare, ormai ansante, lo aveva visto
cadere a terra e iniziare a tremare come una foglia, gli occhi vitrei e
le lacrime che non volevano fermarsi.
«Tony!»
l’aveva chiamato Emma, gettandosi vicino a lui. La voce rotta
dalla paura e gli occhi velati di lacrime. «Tony, va tutto
bene», aveva cercato di rassicurarlo, accarezzandogli il
volto
esangue. «Respira, amore mio. Respira…»
gli aveva
sussurrato, posandogli un bacio delicato e pieno di affetto sulla
guancia e, dopo avergli scostato i capelli, anche sulla fronte,
continuando ad accarezzarlo.
«Come
hai potuto fargli questo?» aveva urlato con rinnovato vigore
Emma
all'indirizzo di Shion, che se ne stava lì in piedi a
fissarli
con una superiorità sconcertante. «Come hai
potuto?»
L’uomo
era rimasto senza parole dalla reazione di entrambi: eccessivamente
remissiva e debole anche per un tipo sempre calmo e posato come Tony e
troppo addolorata per Emma che sembrava sapere qualcosa che a lui
sfuggiva del tutto.
Aveva
visto con quanta disperazione entrambi si aggrappavano l’uno
all’altra. Si era passato una mano sulle labbra, come a voler
togliere ogni residuo, ogni sapore di quella bocca che ora vedeva come
immonda. Il tradimento che sentiva sempre presente, che poteva
constatare con i suoi occhi, bruciava come fuoco vivo.
«Mi
ero dichiarato a te», aveva mormorato, deglutendo.
«Non sai
quanto coraggio mi ci era voluto per fare quel passo. E tu mi hai fatto
credere…» aveva poi detto, con voce che
gradualmente si
faceva sentire più forte, continuando a strofinarsi la
bocca.
«Tu avevi ricambiato il mio amore!» aveva urlato,
trattenendo un conato di vomito. «Ma tu non sei da meno,
creatura
senza pudore e senza vergogna, che agivi nell’ombra. Hai
aspettato che io uscissi di scena oppure te lo portavi a letto anche
prima?»
Come
un animale ferito rimestava nel suo dolore personale e aggrediva a
parole, senza accorgersi delle vittime ai suoi piedi. Tutto
l’affetto che aveva provato per entrambi, che ora vedeva come
due
creature fragili, era svanito in un attimo. Cancellato da un tradimento
perpetrato anni prima e che solo ora veniva a galla.
«Mi
dispiace, Shion», aveva detto con voce tremante Anthony,
ritrovando a fatica un attimo di lucidità e di presenza.
«Non avrei mai dovuto assecondarti, ai tempi
dell’Università.» Aveva fatto una pausa,
per calmare
la voce ancora tremante. «Sapevo che eri confuso nei tuoi
sentimenti, in bilico fra due modi di essere. Non capivi cosa volevi e
cosa eri. Credevo che quell’attrazione che provavi nei miei
confronti fosse solo curiosità», aveva ansimato.
«Tony,
va tutto bene», aveva ripetuto Emma con dolcezza. Continuava
a
sorridergli materna e preoccupata, mentre lo aiutava a mettersi seduto.
«Poi
ho visto quel sentimento tramutarsi in qualcosa di troppo forte e
insistente. Ho cercato di farti capire che ciò che provavo
per
te era solo affetto fraterno. Tu mi ricordavi molto una persona a cui
volevo bene. Ma quando ho compreso, era ormai troppo tardi. Tu eri
cieco e sordo, soffrivi per la frustrazione, per un sentimento che non
riuscivi a capire e io ti ho dato quello di cui avevi
bisogno.»
Anthony si era rimesso in piedi a fatica, sempre sorretto dalla donna,
nonostante lei avesse un fisico esile e minuto. Stringeva i denti per
non piangere davanti a lui.
Anche
senza guardarlo poteva immaginare la postura rigida
dell’altro,
gli occhi vibranti e arrossati di rabbia. Non gliene faceva un torto,
sapeva di essere in difetto nei suoi confronti. Si rammaricava di non
essere stato abbastanza forte per impedire quella situazione, ma il suo
carattere era stato piegato tanti anni prima, il suo animo umiliato
troppe volte per potersi ergere al pari degli altri e troppa era la
vergogna che provava ancora, al solo ricordare cosa aveva passato.
«Troppo
sensibile, troppo gentile», aveva declamato con sarcasmo
Shion.
«“Un’anima cristallina, una creatura rara
per questo
nostro mondo tanto corrotto.” Così ti hanno sempre
definito gli altri. Così la pensavo
anch’io», aveva
continuato, indurendo la voce. «Mi hai illuso. Preso in giro.
Spezzato il cuore.»
Shion
era indietreggiato di qualche passo, senza staccare gli occhi da coloro
che un tempo aveva amato e che ora lo avevano tradito. Si era
avvicinato alla porta e l’aveva spalancata.
«Non
esistono abbastanza parole per giustificarvi», aveva detto,
ora
stranamente calmo. Il suo sguardo però era freddo e
insensibile.
«Andate al diavolo entrambi. Da ora in poi per me voi siete
morti.»
*****
Shion Hayes
sentì
un lieve peso su di sé e si ridestò, riprendendo
poco a
poco coscienza dall'assopimento nel quale era caduto. Si
passò
una mano sul volto tirato e soffocò uno sbadiglio che sapeva
di
whisky. Con gli occhi appannati fissò l'orologio fermacarte
sulla scrivania, era ormai notte fonda. Sullo schermo del monitor del
computer scorreva la scritta, a grandi lettere fluorescenti,
“Sei
stato promosso a fattorino!”
«Kanon»,
borbottò. Prese il bicchiere lì vicino e
terminò il suo drink.
Disattivò
lo
screensaver: sotto c’era ancora aperta l’e-mail con
l’invito per la festa del professor Taylor, che si sarebbe
svolta, come di consueto, nella grande sala del circolo storico della
facoltà di Legge di Harvard. Non ci sarebbe andato, non
avrebbe
partecipato ai festeggiamenti di quell'uomo.
Si mosse e
il plaid che
qualcuno gli aveva messo sulle spalle cadde di lato. La serata era
stata fresca, ma il freddo che aveva sentito nelle ossa e che
persisteva ancora, era dovuto allo strano sogno che aveva appena fatto,
dove aveva rivissuto dei ricordi passati, dolorosi e pieni di rabbia.
Aveva voglia
di bere ancora. Fissò la bottiglia di whisky quasi vuota e
si trattenne.
Fece un
respiro profondo
per scrollarsi di dosso quelle sensazioni spiacevoli e chiuse gli occhi
concedendosi un altro momento. Per una volta, non sentiva su di
sé l'opprimente sguardo dell'arcigno padre che lo giudicava
dal
grande ritratto.
«Non
riesci proprio a stare lontano dal lavoro, vero?»
Shion
aprì gli
occhi di scatto. «Shura! Sbuchi sempre
all’improvviso.
Quando la smetterai di fare così?» lo
rimproverò,
raddrizzandosi e passandosi le mani sul viso stanco.
«E
perché mai dovrei smettere? Ha i suoi vantaggi.»
«Sei
venuto a
controllarmi? Credi che abbia bisogno della balia?»
domandò Shion, iniziando a riordinare i documenti sparsi
sulla
scrivania e ritirandoli subito nella ventiquattrore.
«Da
quel che vedo,
direi di sì! Era inevitabile venire a vedere come stavi. Ho
avuto una brutta sensazione per tutto il giorno e non mi sbagliavo: una
volta solo con i tuoi pensieri, ti saresti perso. Stavolta
cos’è stato? No, aspetta, non dirmelo, so bene
cos’è l’unica cosa che può
ridurti a pezzi in
quel modo.»
Si
avvicinò al
mobile bar e si servì un drink, portando poi la bottiglia di
cristallo e versando due dita di whisky all’amico.
«Quell'email
ha
risvegliato in te ricordi che avevi seppellito. Shion, tu lo sai che
non è mai stato un vero tradimento il suo.»
Shura sapeva
che parlare
di quell'argomento avrebbe portato guai, ma l'amico era vissuto per
troppo tempo in quella sua convinzione sbagliata e il destino sembrava
non avergli voluto concedere il tempo per dimeticare, mandando continui
segnali nel corso della sua vita: prima con quell'invito poco prima del
Natale del 1982, poi la gita fuori programma a Springfield l'anno
successivo; in seguito ci furono due eventi di cronaca che lo avevano
turbato. L'ultima goccia era stata quando aveva rischiato di perdere
Saga e tutti i suoi fantasmi del passato erano tornati a fargli visita.
Era decisamente troppo per chiunque. Era giusto che trovasse finalmente
pace ai suoi tormenti.
«Non
ti è
bastato il pugno dell’altra sera?» disse Shion,
facendo
finta di essere occupato in altro. «Forse devo andarci
più
pesante per farti capire le cose?»
Si
avvicinò al camino che languiva pigramente e vi
buttò dentro un ultimo ciocco di legna.
«Per
troppo tempo
sei voluto rimanere ostinatamente nella tua convinzione, ma
è
arrivato il momento che tu comprenda e che volti pagina»,
insistette Shura.
«Non
sai di cosa
stai parlando.» Shion continuava a tenere lo sguardo fisso
sulle
fiamme che, piano, stavano ritrovando forza. La sua voce era ancora
calma, ma la mascella iniziava a irrigidirsi, come se stesse facendo
fatica a trattenersi.
«Non
eri l’unico a volergli bene», gli
confessò l’altro, mantenendosi anche lui calmo.
«Vorresti
dirmi che anche tu…» ribatté
l’uomo, voltandosi di scatto verso l’amico.
«Ti
stupisce forse?
Tutti lo amavano, in un modo o in un altro», rispose Shura
con un
sorriso amaro. «Sì, lui è stato la mia
prima cotta.
Me lo hai fatto conoscere tu Shion, ricordi? Alla casa di
Boston.» L'uomo sorrise con mestizia mentre ricordava quel
giorno, per qualche secondo fissò il suo bicchiere e poi lo
vuotò in un solo sorso. «Frequentavo le medie a
quel
tempo. Era un pessimo periodo per me, sempre in punizione per qualche
rissa e gli atti di vandalismo con la gang non si contavano neanche
più. Ero la disperazione di mio padre e anche del
tuo.»
Fece un
sospiro profondo. Poi si avvicinò di nuovo alla bottiglia e
la vuotò.
«Quel
giorno voi
due eravate tornati presto dalle lezioni. Quando rientrai a casa, c'era
solo lui in casa. Tu eri uscito per... beh, non ho mai saputo
perché lo lasciasti da solo, ma non ha importanza. Ero
furioso
per quello che era avvenuto a scuola solo poche ore prima e quando lo
vidi, così composto, così gentile ed educato,
così
delicato d’aspetto… Oh,
Signore…»
sospirò, mordendosi il labbro per trattenere la commozione e
l'eccitazione che quel ricordo gli stava facendo provare.
«Sembrava il classico fighetto smidollato di buona famiglia.
Il
tipo che si prestava a essere preso di mira. E io… non mi
lasciai sfuggire l’occasione, mi scagliai su di lui,
così,
solo per sfogarmi. Lo detestavo. Mi irritava solo vederlo. Non ti sei
mai domandato perché quel giorno, quando tornasti, lui
avesse un
labbro rotto? Dalla faccia che stai facendo, desumo che non te ne abbia
mai parlato, o che forse si sia inventato lì per
lì una
qualche scusa. Del resto, lui non era tipo da fare la spia.»
Shura
fissò
l’amico per qualche secondo, aspettando che dicesse qualcosa,
ma
Shion rimase in silenzio. Allora, dopo essersi bagnato di nuovo le
labbra, continuò.
«Non
me ne fece mai
un torto, né me lo rinfacciò neanche per scherzo.
Da quel
momento in poi però, tutto cambiò per me. Non
sono certo
diventato un santo tutto d’un colpo, ma fu anche grazie a lui
se
mi diedi una regolata.»
Fece finta
di guardare
nel suo bicchiere, ma osservò l'altro con la coda
dell'occhio.
Vide Shion concentrato sul bicchiere che faceva girare lentamente nella
mano. «Molte volte mi intrufolai di nascosto nel campus di
Harvard, nelle settimane successive. Solo per vederlo, per incontrarlo
e potergli parlare. Fin dal primo momento, lui mi capì alla
perfezione. Offrì la sua gentilezza e la sua
disponibilità a un ragazzino sbandato: lui ascoltava i miei
problemi come nessuno aveva mai fatto. Neanche come potevano fare Nanny
o mia madre.»
«Tutte
queste cose non mi interessano», lo interruppe Shion con voce
roca, accennando ad allontanarsi.
«Per
favore, ascolta fino alla fine.»
Shura
posò con
forza il bicchiere sulla mensola di marmo rosso del camino. Prese un
bel respiro e continuò il suo racconto.
«Vi
vedevo sempre
assieme, eravate inseparabili. Non sapevo nemmeno io perché,
ma
sentivo delle strane sensazioni quando vi spiavo. Ero invidioso e
geloso. A volte me ne andavo subito, altre invece, rimanevo nascosto a
osservarvi e mi immaginavo al tuo posto, soprattutto quando ti
accostavi a lui e questo, all’inizio mi spaventava. A
quell’età non credevo che poi mi sarebbero
piaciuti gli
uomini», confessò con una punta di imbarazzo.
L'essere
considerato gay,
un diverso, per lui che da ragazzo era stato il braccio destro del capo
della gang, era stato un terribile spauracchio. Soprattutto
perché spesso aveva partecipato a spedizioni punitive, dando
il
primo pugno, contro ragazzini la cui unica colpa era quella di apparire
anche solo vagamente effemminati.
«Quante
volte mi
dissi che eri uno stupido a non accorgerti di come il suo modo di
essere troppo accondiscendente fosse strano. Ti consentiva di
avvicinarti a lui, accettava le tue attenzioni, ma alla fine si
ritraeva sempre, vero? Scommetto che pensavi che fosse solo timidezza,
o magari un gioco. Ma al contrario di te, io non ci misi molto a capire
il reale motivo. Dimmi Shion, quante volte hai dovuto insistere
perché alla fine lui ti assecondasse?»
Nel porgli
quella domanda
Shura alzò involontariamente la voce, lasciandosi andare
anche a
un gesto di stizza: dopo tanti anni sentiva di nuovo quella rabbia
repressa che aveva imparato a dominare e sottomettere.
«Come
ti permetti
di immischiarti in questo modo nella mia vita!»
ruggì
Shion, puntandogli il dito contro con estrema rabbia. «Come
ti
permetti di venire qui e dirmi che eri geloso, che volevi essere al mio
posto. Tu, un’inutile palla al piede. Un moccioso ispanico.
Un
delinquente che valeva meno di niente! Solo per pietà lui
sopportava la tua presenza.»
Ogni parola
che in quel
momento gli usciva dalla bocca era piena di collera e i suoi occhi,
già arrossati per il sonno e il pianto sommesso che si era
concesso durante quel lungo sogno, si erano velati di nuove lacrime,
miste ai fumi dell’alcol.
«Sì,
ero
così, Shion: uno stupido e violento, un piccolo delinquente
che
sarebbe certamente finito in riformatorio. Più volte ci
andai
vicino e nessuno avrebbe potuto impedirlo, neppure tuo padre. Lui
invece, con il suo esempio, la sua dignità e la sua forza
d’animo, mi ha aiutato a cambiare e a capire me stesso.
È
per questo che ora non raccoglierò la tua provocazione, lo
faccio per l’adorazione che ancora provo nei suoi confronti e
perché so che non pensi davvero le parole che hai appena
proferito, ma sono dettate dal dispiacere e perché sei
ubriaco.»
Shura gli
parlava con calma e pacatezza, ma i suoi occhi tradivano un velo di
tristezza.
«Ho
passato
abbastanza tempo con lui da riconoscere quei segnali, poiché
quegli stessi comportamenti li ho visti anche in alcuni ragazzi che a
quel tempo ancora frequentavo. Persone che una volta uscite dal
riformatorio non erano più le stesse ed è per
questo che
compresi, Shion, anche se all'inizio non volevo crederci nemmeno io.
Non potevo pensare che una persona per bene come Tony avesse subito
quella sorte. Tu sai cosa fa il riformatorio ai ragazzi che ci
finiscono dentro? Li cambia. A volte, se sono fortunati, ne escono
più consapevoli; altre volte, nella maggioranza dei casi, li
trasforma in peggio, ma sempre fa a pezzi la loro anima. Anthony
però in qualche modo era diverso. Anche dopo quello che
aveva
passato, lui non si era perso, non si era arreso: era un sopravvissuto.
Ha avuto il coraggio di continuare a vivere, anche se non è
mai
riuscito a superare del tutto quel trauma. Shion,
quell’accondiscendenza, quell’arrendevolezza... era
il suo
modo di proteggersi e andare avanti. Quando si subisce quello che ha
subito lui, si fa di tutto per sopravvivere, anche scendere ai
compromessi più degradanti.»
Senza capire
il
perché, Shura iniziò a provare una certa vergogna
nel
raccontare quelle cose; stava mettendo a nudo il passato di una persona
a lui cara, il suo segreto più intimo e profondo, e si
sentiva
male per questo.
«Te
lo ripeto,
Shura, non sai di cosa stai parlando. Le tue sono solo menzogne di un
invidioso e di un presuntuoso. Cosa c’entra tutto questo con
quello che lui mi ha fatto? Che ne puoi sapere tu di com’era
lui
davvero? Tu che bazzicavi i ghetti, ti vuoi paragonare a lui che
è cresciuto nella stessa casa del professor
Taylor?»
Il
capofamiglia Hayes si
passò il dorso della mano sulla bocca, sfregandosela per
nasconderne il tremore. Si avvicinò alla scrivania e
frugò sotto alcune carte, ripescando quella vecchia
fotografia
tutta sgualcita. La osservò per diversi secondi. Non poteva
credere a quello che gli aveva appena raccontato Shura. Era pazzesco.
Era contro ogni logica. Anthony non aveva mai frequentato le bande
giovanili. Neanche aveva mai fatto del volontariato nelle strutture di
correzione o in qualsiasi altro ente, figurarsi esservi rinchiuso. Si
mise la fotografia in tasca e fece il giro della scrivania per uscire
dalla stanza.
«Ascoltami,
Shion,
sto cercando di dirti… sto cercando di spiegarti
l’equivoco che ti sta facendo soffrire da tutta una
vita!»
Shura lo fermò prima che l'uomo arrivasse alla porta.
«Smettila!
Non
c’è mai stato alcun equivoco. Lui si è
preso gioco
di me. Loro due si sono presi gioco di me e dei miei sentimenti!
È stato con me e ha accettato i miei sentimenti. Ha fatto
l’amore con me! E dopo tutto questo, come ha potuto tradirmi
e
amare una donna? Con Emma! È stato con Emma! Erano cresciuti
nella stessa casa, come fratello e sorella!»
«Mio
Dio, Shion!
Ancora ti rifiuti di capire? Ancora ti ostini a non voler vedere le
cose come sono sempre state? Lui non è mai stato quello che
tu
credevi. Se una colpa l’ha avuta, è stata quella
di
costringersi a rivivere certe cose del suo passato!»
Shura
provò a
trattenerlo, ma l’altro, alterato dall’alcol e
dalla
rabbia, era completamente sordo a qualunque spiegazione. Poi,
d’un tratto, lo vide sbiancare e congelarsi sul posto.
“Non
costringerlo a rivivere quelle cose!”
Quelle
parole di tanto
tempo prima, pronunciate da Emma con voce sconvolta, ritornarono di
nuovo nella mente Shion in tutto il loro dolore.
«Certo
che non era
quello che credevo. Si è preso il posto di assistente che
spettava a me. Si è preso la donna che spettava a me. Si
è preso il mio cuore e lo ha fatto a pezzi»,
mormorò nervosamente, perché era quello che
voleva
credere a ogni costo.
Con uno
strattone si
liberò della presa dell’altro; ma, nello slancio
del
gesto, finì contro la consolle di marmo sulla quale erano
sistemate le foto dei suoi ragazzi, facendone cadere alcune.
«La
donna che
spettava a te…» ripeté Shura.
«Che tu non
avessi mai saputo da che parte stare all’epoca, era evidente,
così come il tuo alternare avventure in tutti questi anni.
Ma
che il tutto si riducesse a “ha preso quello che era
mio”… mi deludi, Shion. Trent’anni in
bilico fra
amore e odio, solo per arrivare a questo punto?»
Shura lo
guardò
con giusta superiorità. Vedeva davanti a sé una
persona
che non riconosceva più; un uomo gretto e affaticato dal
peso di
rancori senza senso e senza fine.
«Ora
ti permetti
anche di biasimarmi?» disse con ira Shion, lo sguardo rivolto
ai
visi sorridenti dei suoi figli. Si rimise in piedi, respirando
pesantemente. Poi, risistemò le cornici, sfiorando le
immagini
ritratte. «Me ne vado a dormire», disse,
riprendendo una
parvenza di compostezza. «Non osare tornare mai
più
sull’argomento o dovrai andartene da questa casa, per
sempre», lo minacciò infine, prima di uscire dalla
biblioteca.
«Vecchio
testardo… tu non vuoi sentire, né
capire…»
*****
«Che
ci fai ancora
sveglio a quest’ora, fratellino?»
domandò Kanon,
facendo capolino dalla porta del bagno comunicante.
Si
avvicinò al
gemello che, seduto alla sua scrivania e troppo concentrato, sembrava
non averlo sentito. Ripeté la domanda ma l'esito fu il
medesimo.
Sogghignò nel vederlo tanto assorto. Si sporse oltre la sua
spalla, poi lo abbracciò all'improvviso, facendolo
sussultare.
«Libri
contabili,
block notes, vecchi libri di testo, cartellette d’ufficio,
documenti presi dalla rete… a che ti serve tutta questa
roba?
Ah, capisco! Vuoi rientrare nelle grazie di papà,
vero?»
disse, battendogli le mani sulle spalle. «Ma...
c’è
dell’altro, sotto!» Come un bambino dispettoso
iniziò a frugare e spostare le cose sulla scrivania,
impedendo
al tempo stesso al gemello di fermarlo nella sua azione. Lo intrigava
sapere che l'altro avesse qualche segreto.
«Basta,
fermati!
Perché sei qui?» lo rimproverò Saga,
scansandolo in
malo modo e affrettandosi a ritirare tutto sotto chiave.
«Mi
annoiavo di
là in camera mia. Avevo pensato di uscire e andarmene da
qualche
parte, ma non credo che il grande capo approverebbe», gli
rispose
Kanon con un'alzata di spalle; subito però, sulle sue labbra
si
formò un sorriso malizioso. «Poi mi è
venuto in
mente il mio fratellino che è sempre tutto solo e sono
venuto a
farmi fare un po’ di coccole. Ti dispiace che sia
qui?»
Senza
attendere la
risposta, che probabilmente non sarebbe stata quella che si aspettava
di sentire, visto anche come gli era piombato addosso pochi istanti
prima, Kanon si buttò sul letto senza invito e, sdraiandosi
di
traverso, ne occupò più di metà.
«Kanon,
non sei un po’ troppo grande per le coccole?» lo
rimproverò ancora una volta Saga.
Lo
squadrò per
qualche secondo, ma non riuscì a tenere a lungo il broncio:
in
quel momento Kanon sembrava un monellaccio tanto bisognoso di
attenzioni. Sbuffò, arrendendosi all’evidenza che
non se
ne sarebbe liberato tanto facilmente. Allora fece buon viso a cattiva
sorte, si sedette sul letto accanto al gemello – che subito
gli
fece spazio – e, anche se non erano più due
bambini, gli
concesse di accoccolarglisi addosso, chiudendo poi gli occhi e
rilassandosi.
«Non
si è
mai troppo grandi per le coccole, fratellino»,
sussurrò
Kanon in risposta, sorridendo sornione. «E poi, non mi pare
che
tu ti faccia qualche problema a riceverne, no?»
«Solo
due minuti, poi te ne torni in camera tua», gli concesse
Saga, sbadigliando stancamente.
Saga era
piacevolmente
sorpreso dal comportamento tanto diverso che aveva il gemello, rispetto
a com'era stato durante quel pomeriggio. Era come se, nella privacy di
quella camera, Kanon concedesse solo a lui di vedere il suo lato tenero
e fanciullesco, permettendogli al tempo stesso di sentirsi in quelle
occasioni il fratello maggiore e responsabile; e questo lo faceva
sentire bene.
Non
ricordava di aver
spento la luce e di essersi addormentato. Quando riaprì gli
occhi, credendo forse di aver sentito il suo cellulare, la stanza era
al buio e con la sola luce della luna che filtrava dalla finestra
rimasta con le tende aperte. Regnava la quiete e il silenzio. Poteva
udire distintamente il lieve russare di Kanon al suo fianco. Si
grattò la fronte e si lasciò andare a uno
sbadiglio.
Girò la testa verso il comodino e osservò per
qualche
secondo lo smartphone. All'improvviso vide lo schermo illuminarsi. Lo
fissò per diversi secondi, come imbambolato, prima di
decidersi
a prenderlo.
Strizzò
gli occhi,
infastidito dalla luminosità così forte di
quell'aggeggio. Guardò l'ora: segnava esattamente l'una e
quindici. In alto a sinistra c'era l'icona che indicava che aveva un
messaggio in entrata.
«Chi
è a quest'ora?» bofonchiò con voce
impastata dal sonno.
Prima di
leggerlo
controllò che il gemello stesse ancora dormendo. Poi, lo
visualizzò, notando che il mittente era sconosciuto.
Rimuginò per qualche secondo: in pochi avevano il suo numero
di
cellulare e lui era sicuro di non averlo dato a nessuno negli ultimi
tempi. Diede un'altra occhiata al gemello, perché con lui
non si
sapeva mai e, tirandosi leggermente su, si decise a visualizzare il
messaggio.
Non avresti dovuto farlo!
Rimase
decisamente
perplesso da quel messaggio così criptico. Lesse
più
volte il numero del mittente, poteva anche darsi che si fosse
dimenticato di memorizzarlo nella rubrica, ma proprio non riusciva a
riconoscerlo. Ebbe allora l'impulso di cancellare il messaggio e
tornare a dormire. Qualcosa però, una vocina nella sua
testa, lo
convinse a provare a rispondere. Mentre lo rileggeva, sperava che a
mandarlo fosse una certa persona. Sorrise a quel pensiero, ma subito le
sue labbra si piegarono in una smorfia capricciosa, ricordandosi che
non c'era mai stata occasione per scambiarsi i numeri di telefono.
Quindi sarebbe stato impossibile per lei scrivergli.
«Ma
forse
può averglielo dato Aiolia», commentò a
bassa voce,
riacquistando l'entusiasmo. E poi, probabilmente sarebbe stato da lei
un messaggio di quel genere. Provò a rispondere, sperando di
avvalorare la sua tesi.
Ho sbagliato di nuovo?
Considerò
che con
una risposta ambigua avrebbe potuto ottenere maggiori risultati. E poi,
se invece si fosse trattato di uno scambio di persona, almeno non
avrebbe rivelato nulla di personale.
SÌ! ...
no… non lo so… avrei voluto risolvere la cosa da
sola!
Si
accigliò per
quella risposta: non gli piaceva essere sgridato e non era proprio
ciò che sperava leggere, anche se aveva ottenuto la conferma
che
gli serviva. Si morse il labbro, indeciso su cosa fare. Iniziava ad
avere dubbi sul fatto che non sapesse rapportarsi con gli altri. E poi,
quel “sì” urlato era così
evidente e
catalizzante che aveva messo in secondo piano il resto del testo.
Possibile che ogni cosa facesse o pensasse, fosse sbagliata con lei?
Provò
a mettersi
per un attimo nei panni di Cora e cercare di capire cosa avesse fatto
di male, ma non capiva proprio, eppure le aveva mandato qualcuno per
risolvere il suo problema!
Si mosse un
poco sul
letto, ma la presenza di Kanon, appoggiato con la testa alla sua
spalla, stava diventando un tantino fastidiosa e lo distraeva.
Sbuffò e provò a concentrarsi sul messaggio. Era
consapevole che non la conosceva ancora da abbastanza tempo per capire
chi fosse davvero; forse lei era una persona fortemente indipendente
che non tollerava alcuna ingerenza, ma nessuno avrebbe rifiutato a
priori un aiuto di quel genere, soprattutto gratuito.
Tutto
ciò che
aveva compreso fino a quel momento, in quelle poche occasioni in cui
era stato con Cora, era che lui si sentiva diverso quando stava con
lei, che si sentiva spiazzato e confuso e... emozionato, come non lo
era mai stato con le altre.
Picchiettò
l'unghia dell'indice sul retro dello smartphone, continuando a fissare
quel messaggio finché lo schermo non si spense. Allora lo
riattivò e sospirò. Poi,
d’improvviso si
sentì come più leggero, ma non fece in tempo a
capirne il
motivo che Kanon gli prese il cellulare dalla mano e lesse la
conversazione lì in bella vista. Lui non era certo un
indeciso
come Saga, senza perdere tempo digitò una risposta e,
sorridendo
soddisfatto, guardando negli occhi il fratello, lo inviò.
Sei una persona
difficile.
Tu mi confondi.
Il nuovo
messaggio non si
fece attendere molto, ma era Kanon che questa volta teneva in mano le
redini del gioco. Si buttò sdraiato dall’altra
parte del
letto e guardò di sottecchi il gemello che, appoggiato alla
testata del letto, aveva il broncio.
Anche tu.
Kanon
sogghignò.
«Non ti preoccupare, non sto scrivendo nulla di
imbarazzante», gli disse, ma con un tono che invece
prometteva
ben altro. Gli era sempre piaciuto giocare in quel modo un
po’
con tutti, ma con Saga in particolare c’era più
gusto,
soprattutto da giovani. Ora però ci andava più
cauto, ma
non per questo avrebbe perso l’occasione di divertirsi. E
quale
migliore occasione di quella per rendere le cose più
divertenti,
che dire la verità?
Perché non me
lo hai detto?
Nel leggere
il messaggio
appena arrivato, per un attimo il giovane rimase sorpreso.
«Fratellino, cosa le hai tenuto nascosto?» gli
domandò, alzando lo sguardo su di lui, che invece continuava
a
fare l’offeso. Lo studiò per qualche secondo e al
suo
continuo silenzio lo stuzzicò con la punta del piede.
Con uno
scatto repentino
Saga si avventò sull'altro, lottando per riprendere il
possesso
del suo cellulare e riuscendo infine a strapparglielo di mano. Ottenne
anche il risultato di far rotolare giù dal letto il gemello
che
cadde con un gran tonfo.
«Che
casini mi stai combinando?»
«È
un
qualche segreto piccante che hai tenuto nascosto anche a me?»
continuò in tono giocoso Kanon, riemergendo e appoggiandosi
con
i gomiti sul materasso.
Ti ho detto
ciò che era importante.
Avresti dovuto dirmi chi
sei davvero.
Avrebbe cambiato
qualcosa?
Non lo so.
E ora
cambierà qualcosa?
Non lo so.
È forse un
addio?
«Saga,
non essere
così melodrammatico!» esclamò
scandalizzato Kanon
che senza farsene accorgere dall'altro si era portato dietro di lui,
continuando a seguire quell'interessantissimo scambio di messaggi.
«Sei sicuro di saperci fare con le ragazze?» gli
chiese,
ottenendo una specie di ringhio come risposta. «Guarda che
così rischi di rovinare tutto! Forse dovrei darti qualche
ripetizione.»
«Non
sono io quello
che non ha uno straccio di relazione fissa da ben due anni!»
ribatté esasperato Saga, girandosi per impedire ulteriori
intromissioni da parte dell’altro.
Kanon
sospirò
rassegnato, guadagnandosi un’occhiataccia. Vide Saga
gattonare
letteralmente sul letto e tornare ad appoggiarsi con la schiena alla
testata del letto.
«Perché
sei
ancora qui a scocciarmi?» disse, alzando lo sguardo su di lui
e
stringendo gelosamente lo smartphone al petto mentre attendeva il nuovo
messaggio.
«Ma
te l’ho
già detto, fratellino caro. Voglio passare un po’
di tempo
con te, prima dell’esilio a New York», disse,
sfoderando un
sorriso angelico. «E poi, ora sono curioso di sapere come si
svilupperà la cosa», aggiunse, mutando quel
sorriso in uno
più consono alla sua natura di sbruffone impenitente.
Dopo avergli
promesso di fare il bravo, Kanon riuscì a riguadagnarsi un
posto di fianco al gemello.
Mi vuoi anche dopo che
ti ho trattato in quel modo, come uno qualunque?
Continuerai a trattarmi
allo stesso modo?
Vorresti essere trattato
diversamente?
Vorrei parlarne a voce e
non per mezzo di questi messaggi. Vorrei vederti.
Anch’io.
Dopo aver
letto
quell’ultimo sms, Saga spense il cellulare e lo nascose nel
cassetto del comodino. Poi, rimase seduto per un po’, con le
ginocchia al petto, a riflettere con un’espressione pensosa
sul
viso.
Kanon, da
buon fratello,
gli fece compagnia, tranquillo e in silenzio, per il resto della
conversazione, senza perdersi più un solo istante di quello
scambio. Non era certamente la tattica che avrebbe usato lui, ma alla
fine il risultato era stato comunque raggiunto. Si divertì a
fare da spettatore, osservando meravigliato quante espressione potesse
assumere il viso del suo gemello e, soprattutto, di quante sfumature
potesse tingersi.
«Bravo
il mio
fratellino!» disse giubilante, circondandogli le spalle con
il
braccio, attirandolo a sé. «E adesso?»
«Adesso,
è il tuo turno di fare le coccole!» rispose Saga,
finalmente sorridente.
note del capitolo:
Ishang:
è la comune
casacca che portano i contadini cinesi, ma non solo. Un esempio famoso
lo si ritrova nei film di Bruce Lee, o se vogliamo rimanere nell'ambito
di Saint Seiya, è la casacca che vestiva Shiryu nella serie
classica e Dohko nella serie Lost Canvas. (Dohko nel classico
è
un puffo e non fa testo)
Wuxiapian:
è un
genere cinematografico prettamente cinese, secondo molti paragonabile
all'occidentale "cappa e spada". Nel wuxiapian si racconta di
personaggi mitici ed eroi epici della tradizione cinese, di cavalieri
erranti e spadaccini volanti. (informazioni prese da Wiki)
|
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Capitolo 14 *** Capitolo XIII ***
XIII
“luglio
'84
…
Sono
passati cinque mesi da quella che tutti avevano trionfalmente definito
“la svolta nelle indagini”. (Poco più di
un anno
dalla scomparsa dei bambini) Dopo la convalida dell’arresto
di
quel ragazzo, tutte le altre piste sono state abbandonate, ovvero hanno
smesso di indagare per trovare i veri colpevoli, né hanno
approfondito le segnalazioni che ancora oggi arrivano al 911 su quei
due bambini. Di loro, nessuna traccia concreta, né che siano
vivi, né che siano invece deceduti.
Ci
sono state
alcune voci, giorni fa, che asseriscono che non ci sono bambini da
trovare; che forse è tutta una montatura per coprire
qualcos’altro di più terribile. Ma cosa
c’è
di più terribile del compiere un tale reato nei confronti di
due
creature innocenti?
A
oggi non sono
stati trovati documenti che attestino l’esistenza di questi
bambini, né certificati di nascita, né cartelle
cliniche
o registrazioni del parto. Le testimonianze di infermieri e dottori,
nei vari ospedali in cui si è indagato, sono state vaghe e
contraddittorie: “Non ricordo”, “Quel
giorno ci sono
state molte emergenze”, “Non ero di
turno”.
C’è
solo la parola del professor Taylor e un esame clinico sulla figlia
Emma. L’unica cosa certa e incontrovertibile è che
questi
esami hanno stabilito che ha effettivamente partorito, ma nulla di
più è stato scoperto. Tutti si stanno basando
sulle
dichiarazioni del professor Taylor. Lui afferma che i bambini esistono
e che sono stati portati via. Se è vero, perché
queste
nascite sono state tenute nascoste? Perché non
c’è
neanche una loro fotografia o un certificato?
Data
l’importanza del caso e il nome altisonante delle persone
coinvolte, il procuratore distrettuale, durante una conferenza stampa,
ha diffuso solamente le iniziali del nome dell’arrestato: A.
Y.
Quel
giorno
sembrava dovesse esserci un discorso alla Nazione del nostro
Presidente, tanto era stata imponente l’organizzazione: un
enorme
cordone di agenti era stato posto davanti alla procura, per mantenere
l’ordine e contenere la ressa dei giornalisti. Erano presenti
all’appello le più alte cariche della polizia,
tutte
tirate a lucido. Il procuratore ha promesso un processo equo e giusto,
ma rapido nei tempi e dalla pena esemplare. Chissà se si
è reso conto della contraddizione fra ciò che ha
detto e
quello che invece è avvenuto e sta ancora avvenendo.
I
giornalisti ci
sono andati a nozze e si sono scatenati, tutti che chiedevano maggiori
informazioni sulle generalità dell'arrestato. Il procuratore
però, ha mantenuto lo stretto riserbo ed è stato
irremovibile, liquidandoli con una serie di “No
comment”.
Anche
il tenente
Burton era fra i presenti, tutto impettito a fianco del capo della
polizia. L’ho visto incupirsi per lo spettacolo che hanno
inscenato. Mi sono sentito sollevato nel constatare che, fra tutti
loro, almeno lui disapprovava quella situazione.
Ancora
non
riesco a capirlo del tutto quell’uomo, ma di certo
è un
uomo di legge che persegue la giustizia; e anche se a volte sembra
voler scavalcare le regole, il fine è nobile. Mio padre lo
ammira. Ha detto che è un uomo che farà carriera.
Mi ha
detto anche che dovrei prenderlo a esempio e che mi devo ritenere
fortunato che lui mi abbia voluto al suo fianco. Ancora non me ne
spiego il perché, sono solo un giovane agente che fa domande
indiscrete alle persone sbagliate...”
“agosto
‘84
…
Sono
passate settimane da quella conferenza stampa, più nulla
è trapelato e tutto ora sembra essere fermo, archiviato,
dimenticato. Eppure ci sarebbe ancora tanto da fare, mille domande che
pretendono risposte, piste da battere e indizi da seguire. Si sono
forse dimenticati che ci sono due bambini da trovare? Ma forse li hanno
ormai dati per morti. Delle due squadre incaricate un tempo per seguire
questo caso, ora sono rimasti solamente due agenti: un novellino e un
veterano troppo vicino alla pensione per impegnarsi adeguatamente.
Sarà
un altro cold case che andrà a riempirsi di polvere negli
scaffali del magazzino nel seminterrato?
Non
nego che
vorrei seguirlo io questo caso, ma qualche piccola indagine la sto
facendo per conto mio. C’è qualcosa che mi attira
in
questa vicenda, ma non so cosa. Forse dovrei provare a parlarne di
nuovo con mio padre; lui ha molta esperienza e saprebbe cosa fare in
questi casi. Temo però che potrebbe volermi dissuadere. Mi
ha
sempre ripetuto che un buon poliziotto non deve farsi coinvolgere, che
non deve mai trasformare un caso in qualcosa di personale. E io questa
soglia temo di averla già oltrepassata. Però
sento che
è giusto così e farò di tutto
perché non
diventi un altro cold case.”
Aiolos
alzò un
momento la testa per fare una pausa da quella lettura che, stranamente,
sembrava rapirlo ogni volta di più, nonostante si ostinasse
a
negarlo. Guardò attraverso il parabrezza, mentre girava
meccanicamente un’altra pagina del quadernetto. Era nervoso
perché Aiolia quel giorno aveva telefonato al suo ufficio
chiedendogli di passare a prenderlo al campus, senza dargli altre
spiegazioni; insistendo e costringendolo a saltare una riunione
importante. Controllò l'ora: erano le tre e un quarto
passate.
Con
un movimento secco
richiuse il quadernetto e se lo mise nella tasca interna del cappotto,
quando vide avvicinarsi il fratello.
«Per
quale motivo mi hai chiesto di venire?» gli
domandò, senza lasciargli il tempo di salire in auto.
«Non
essere
impaziente fratellone», rispose Aiolia, con un gran sorriso,
sbattendo la portiera. «Accompagnami da papà, per
favore.»
«Sono
diventato il
tuo servizio taxi?» disse il maggiore, in modo stizzito. Mise
in
moto e si avviò verso la caserma dei vigili del fuoco nella
quale operava il padre. «Mi fai lasciare l’ufficio
e
attraversare mezza città solo per andare da papà?
Non
potevi prendere i mezzi pubblici? E poi, che ci devi andare a
fare?» domandò con tono seccato, mentre rallentava
al
semaforo.
«Lo
so, lo so,
scusami. Però mi piaceva l’idea di andare assieme.
Da
quanto tempo non andiamo a trovare papà sul
lavoro?» disse
Aiolia, sistemandosi meglio la borsa di atletica fra le gambe.
«La verità è che ascoltare la storia di
quella
ragazza mi ha fatto riflettere. Quello del poliziotto è un
mestiere pericoloso, al pari del soldato o del vigile del fuoco e
quindi... ecco, pensavo…»
«Smettila
di pensare!» scattò Aiolos, interrompendo
bruscamente l'altro.
Se
prima era infastidito
per l'impegno fuori programma, ora quello stato d’animo si
stava
trasformando una vera e propria irritazione, ben espressa dal suo volto.
«Ma
che ti prende così all’improvviso?»
«Avresti
dovuto
dirmelo prima, non mi piacciono queste sorprese. E io non ho tempo da
perdere», riprese con voce più pacata Aiolos,
anche se
ancora si percepiva del nervosismo. Sbuffò, passandosi una
mano
nei capelli. «Non fraintendere le mie parole», si
affrettò a correggersi, vedendo come l'altro fosse deluso.
«Non sto dicendo che andare a trovare papà non sia
importante, ma avremmo potuto farlo in altri momenti. Ho un lavoro e
delle responsabilità, io. Non posso prendermi un pomeriggio
libero così su due piedi.»
«Già,
lavoro
e responsabilità!» ripeté Aiolia,
girandosi verso
il finestrino e concentrandosi sulla gente che camminava sul
marciapiede. «Bella scusa la tua. Di' piuttosto che
preferisci
stare con Kanon. Quando lui chiama, tu scatti e sei ben felice di fare
tutto quello che chiede; e non manchi mai un’uscita con lui.
Vi
divertite molto, assieme. Quando sono io a chiederti qualcosa, sembra
sempre un peso per te.»
«È
invidia
quella che sento? Allora cosa dovrei dire io di te e Saga? Quante altre
cose mi stai tenendo nascoste?» gli domandò Aiolos
con
tono paterno. Ma lui non era suo padre, bensì il fratello
maggiore. «Cerca di capire, Kanon e io siamo cresciuti fianco
a
fianco praticamente ogni giorno della nostra vita, abbiamo la stessa
età e gli stessi interessi e lavoriamo assieme. Fra noi due
invece, c’è troppa differenza
d’età e le
nostre vite sono completamente diverse; però tu rimani
sempre e
comunque il mio vero fratello.»
Aiolos
fece un respiro
profondo e innestò la marcia, mentre attendeva che il
semaforo
diventasse di nuovo verde. «Almeno lo hai chiamato per sapere
se
è disponibile o se è impegnato in qualche
esercitazione,
o addirittura fuori in missione? Mi scoccerebbe ancora di
più
fare un viaggio a vuoto.»
Calò
un silenzio
imbarazzato. Il resto del tragitto trascorse fra tensione e sguardi
furtivi che il giovane Aiolia rivolgeva all'altro, rammaricandosi che
forse non era stata una trovata felice coinvolgere il fratello in
quella cosa. Avrebbe dovuto riflettere meglio e considerare il rapporto
contrastato che Aiolos aveva da sempre con il padre. E in fin dei
conti, doveva ammettere che l'altro non aveva tutti i torti a dire che
vivevano un’esistenza totalmente diversa: Aiolos era un uomo
ormai ben integrato nel un mondo degli adulti e riusciva a districarsi
con eccezionale competenza in ogni situazione, come aveva ampiamente
dimostrato anche a casa di quella ragazza, Caroline Miller, gestendo
perfettamente la situazione. Lui invece, Aiolia Cooper, era una
scanzonata matricola universitaria che, con i suoi neanche vent'anni,
pensava più alle feste delle confraternite e a
quell’amore
goffo che provava per la figlia minorenne del coach di atletica.
Provò
ad aprire
bocca per scusarsi, ma quando si decise erano ormai arrivati a
destinazione e Aiolos stava già posteggiando di fronte alla
caserma dei vigili del fuoco.
C'era
un gran fermento.
Non sapeva che quel giorno era stata organizzata una piccola
dimostrazione per alcune scolaresche delle scuole elementari del
quartiere.
*****
“…
Anche oggi il professor Taylor è stato convocato a colloquio
dal
tenente Burton. Di nuovo è stato accompagnato dal vice
procuratore. Sembra che i due vadano a braccetto. Questa volta
però erano presenti anche due dei suoi figli. Dalla mia
scrivania non sono riuscito a sentire con chiarezza quello che si
dicevano, ma da quel poco che ho potuto capire, in alcuni momenti gli
animi si sono scaldati e anche parecchio. I più agitati
erano
proprio i figli del professore. Sembravano due predatori che si
contendevano una carcassa; ma forse è normale, ho saputo che
sono due avvocati: principi del foro, li chiamano. Sciacalli li chiamo
io.
Quando
sono usciti dall’ufficio, ho notato molta agitazione nel
professor Taylor. Sembrava addirittura provato fisicamente. Sul suo
volto si vedeva chiaramente un misto di emozioni: rabbia, nervosismo,
tristezza e vergogna.
Perché
vergogna? Cosa può aver provocato quel sentimento?
Ho
trovato qualche frammento di informazione a riguardo di quel ragazzo.
Ancora non riesco a dimenticare quello che ho provato quando mi ha
guardato. Perché mi è rimasto così
impresso?
Si
chiama Anthony Young; non ha famiglia, o almeno non ce
n’è
traccia da nessuna parte. Ha dei precedenti penali commessi quando era
molto giovane. È stato processato e ha passato un periodo in
riformatorio. Questa parte della sua vita però è
coperta
dal segreto, così come tutti gli atti del suo processo sono
sigillati. Non dovrei stupirmene, è giusto che dei
precedenti
penali, se commessi da minorenni, siano secretati.
Ha
vissuto per alcuni anni nella casa del professor Taylor, che lo ha
preso in affidamento a quindici anni, fino alla maggiore
età.
Pare che sia stato il professore in persona a interessarsene. In
seguito, è rimasto come una specie di figlio adottivo. Gli
ha
pagato le scuole superiori e anche gli studi universitari, dandogli una
borsa di studio come premio per i risultati scolastici che aveva
ottenuto. Lo ha anche nominato suo assistente, sia personale che di
cattedra.
Ha fatto
molta strada in pochi anni, doveva essere una persona eccezionale nel
suo lavoro e molto affidabile.
Perché
allora il professore gli sta voltando le spalle in questo modo? In che
modo questo Anthony Young ha tradito la fiducia che il professore
riponeva in lui?”
Ad Aiolos
quell'ambiente
non piaceva. Non piaceva il caos dei bambini, non piaceva l'entusiasmo
di quegli adulti, ma soprattutto, gli dava fastidio l'ammirazione che
tutti dimostravano verso quell'uomo che lui invece detestava. Per quel
motivo, appena arrivato, aveva cercato un posto appartato per starsene
per i fatti suoi e riversare la propria attenzione su quel quadernetto
non suo e che iniziava a monopolizzare il suo tempo al di fuori del
lavoro.
Non
riuscì ad
andare avanti che di qualche pagina, perché la chiassosa
vivacità dei bambini era arrivata fino a lui, distraendolo.
Rinunciò del tutto e rimise il quadernetto in tasca,
iniziando
allora a girare per le stanze della caserma, fermandosi poi di fronte a
una bacheca completamente tappezzata di ritagli e fotografie.
«Noi
lo chiamiamo il
muro della vita», disse Thomas, sbucando dietro le sue
spalle.
«In origine era una delle tante bacheche che usavamo per le
comunicazioni e i piccoli annunci privati.»
«Chi
sono?» domandò Aiolos, continuando a tenere lo
sguardo fisso su quelle immagini.
«Sono
tutti gli
amici deceduti nel compimento del dovere. Brave persone che hanno
sacrificato la propria vita per salvarne altre. E accanto, ci sono le
persone che oggi sono vive grazie al loro eroismo»,
spiegò
l'uomo, mettendogli una mano sulla spalla.
Per
qualche momento ci fu silenzio. Del resto, fra quei due non c'erano mai
state troppe chiacchiere.
«Ti
vedo un
po’ giù, hai qualche preoccupazione?»
provò a
domandargli Thomas. Quando l'altro si girò verso di lui,
vide
negli occhi del figlio una luce cupa. «Vuoi parlarmi di
ciò che ti affligge?»
«Da
quando in qua sei diventato il mio confessore?»
ribatté Aiolos, scostandosi da lui.
«Sono
tuo padre e vorrei aiutarti, almeno per quel che posso»,
rispose con voce pacata Thomas.
«Adesso
vuoi
metterti a fare il padre? Hai perso la tua unica occasione, tanto tempo
fa! Non sei mai stato mio padre, né di nome, né
di
fatto», replicò l’altro.
«È
vero, ho
perso la possibilità di essere un padre per te, se non nelle
poche occasioni che tua nonna mi concedeva; ma almeno il nome, quando
ne ho avuto la possibilità, volevo dartelo. Tua nonna
però è sempre stata irremovibile. Pensavo che con
la
maggiore età saresti stato libero dai suoi condizionamenti e
mi
avresti accettato. Evidentemente mi sbagliavo. Però sappi
che
non smetterò mai di proportelo. Non c’è
limite
d’età per poter cambiare il proprio nome,
Aiolos.»
«Beh,
non voglio che
tu me lo chieda mai più, perché tanto la risposta
sarà sempre la stessa», ribatté il
giovane, con
voce davvero seccata, fissando i suoi occhi in quelli dell'altro, senza
mostrare il minimo cedimento.
Ma
anche Thomas, da ex marines qual era, non era da meno.
«È
questa
l’educazione che hai ricevuto da quei ricconi e da Angelina?
Arroganza e presunzione. Davvero un bel risultato. Se solo volessi,
potrei metterti sulle mie ginocchia e darti una bella
sculacciata!»
L'uomo
incrociò le
braccia al petto e attese una replica da parte dell'altro. Nel vederlo
così testardo però, capì che non
avrebbe ottenuto
nulla. Provò allora con un approccio più morbido,
per
tentare di spiegare – per quanto gli fosse possibile
– le
scelte che aveva dovuto fare in passato. Quello era un punto che non
era mai stato chiarito del tutto.
«Cerca
di capire
Aiolos, tua madre aveva appena quindici anni quando sei nato e io ne
avevo solo venti. È vero, sono scappato, l'ho fatto per
paura e
anche per evitare le conseguenze. Tua nonna è sempre stata
un
tipo tosto e... beh, ho preferito cambiare aria e mi sono arruolato. Ho
scaricato le mie responsabilità di padre, ma non
è
passato un solo giorno che non me ne sia pentito. Eravamo entrambi
giovani e immaturi. Tu sei stato un incidente… no,
cioè,
aspetta…»
Thomas
si accorse subito
di essersi lasciato sfuggire una cosa imperdonabile e lo
capì
anche dalla reazione di Aiolos, benché contenuta: dallo
sguardo
di fuoco che gli lanciò, da come serrò la
mascella e
strinse i pugni. Gli mise le mani sulle spalle, per cercare un contatto
con lui e fargli capire che era lì per lui.
«Perdonami!
Non era
quello che intendevo. Volevo dire che sei arrivato troppo presto, ma ti
ho amato dal primo giorno in cui ho saputo della tua esistenza e sono
sempre stato orgoglioso di te. Tua madre e io… siamo stati
due
sconsiderati, lo ammetto, non eravamo pronti per un impegno
così
importante, tua madre... lei era davvero troppo giovane. Tua
nonna ci ha risolto un sacco di problemi, quando ha ottenuto il tuo
affidamento. Anche se alla fine, ho perso l’occasione di
crescerti come avrei voluto.»
«Incidente...
problemi... È patetico come tu stia cercando di arrampicarti
sugli specchi. Di' a mio fratello che sono tornato al
lavoro.»
Con un gesto stizzito, Aiolos scansò quelle mani fastidiose
e
uscì dalla caserma senza alcun indugio.
«Se
proprio non mi
vuoi come padre, almeno potremmo essere amici? Sappi comunque che io ci
sarò sempre se avrai bisogno», provò a
richiamarlo
Thomas, anche se non si faceva illusioni.
Aiolos
risalì in
auto, ma rimase fermo per qualche momento, con lo sguardo rivolto allo
spiazzo di fronte alla caserma. Notò come il fratello si
stesse
divertendo assieme ad alcuni bambini, cimentandosi in giochi ed
esercitazioni a coppie che gli stessi vigili del fuoco avevano
organizzato come intrattenimento. Da ragazzo, anche lui giocava in quel
modo con il fratello e con i gemelli, divertendosi tutti assieme.
Cosa
era cambiato nelle loro vite per portarli così lontani gli
uni dagli altri?
Diventare
adulti non avrebbe dovuto significare rinunciare alla propria famiglia.
*****
Dopo
l'ennesima riunione
con gli amministratori delle società minori del gruppo
Hayes,
terminata da neanche dieci minuti, Shion Hayes si prese una pausa nel
silenzio del suo ufficio di Manhattan. Il suo lavoro stava diventando
solo una lunga e noiosa sequela di riunioni, incontri e pranzi
d’affari. A volte si chiedeva che razza di lavoro fosse il
suo.
Era girato verso la grande vetrata che dava sulla città, il
suo
sguardo immerso nella contemplazione del cielo newyorkese che
lentamente si stava oscurando di nubi cariche di pioggia. Anche quella
giornata, così com’era stata l’intera
settimana,
sembrava essere in perfetta sintonia col suo stato d’animo.
Era
partito per la Grande
Mela lunedì mattina di buon’ora, portandosi dietro
Kanon
– proprio come aveva promesso – e con un umore
nero. Non
aveva badato molto alle convenzioni familiari, ma aveva voluto comunque
appianare la situazione con Saga, appartandosi con lui in biblioteca
per quasi un’ora.
Aveva
ascoltato con
attenzione le sue giustificazioni e aveva visto, coi suoi stessi occhi,
quei piccoli mutamenti che Shura gli aveva paventato. E infatti,
davanti a sé si era ritrovato un giovane uomo che voleva
vivere
una libertà di cui non aveva mai goduto veramente, che pian
piano manifestava la volontà di voler lasciare la sua ala
protettiva e questo lo aveva disorientato e deluso. In cuor suo lo
avrebbe preferito solo dedito alle attività del Country
Club,
anche se lui le considerava una perdita di tempo; e poi... c'era stata
la parentesi amorosa con quell’ereditiera: anche se l'aveva
trovata seccante, non l’aveva mai impensierito davvero e
comunque, Saga non aveva mai sfidato apertamente la sua
autorità
di padre. Ora invece non capiva cosa gli stesse succedendo. O forse lo
capiva fin troppo bene. Auspicava però fosse un'altra
infatuazione passeggera, una sbandata di poco conto, come
già
aveva avuto in passato.
Sospirò
nell'osservare il cielo assumere una tinta scura che inghiottiva anche
il grigio delle nuvole. Stava ormai giungendo il crepuscolo di
quell'interminabile giornata, ma c'era ancora un impegno che richiedeva
tutta la sua attenzione e capacità di sopportazione.
L'ufficio
era immerso nel
silenzio. Poteva sentire distintamente il suo respiro e il leggero
cigolio della poltrona in pelle ogni volta che faceva un movimento,
anche lieve. Sbuffò stancamente. Diverse volte aveva chiesto
che
mandassero qualcuno della manutenzione per sistemarla, ma ancora non
era riuscito a risolvere il problema. Quasi senza volerlo,
iniziò a muovere la poltrona con un certo ritmo. Poi,
all'improvviso si intromise il suono dell'interfono.
«Sì,
Jane?»
«Mi
dispiace
importunarla mr Hayes», si annunciò la donna,
segretaria
personale di Shion Hayes, con un’impostazione di voce molto
professionale. «So che non voleva essere disturbato per
nessun
motivo, fino all’appuntamento di questa sera, ma sono appena
arrivate delle persone molto insistenti che desiderano parlarle con
urgenza.»
Nonostante
la sua quasi
ventennale esperienza, la donna usò un tono di voce
insolitamente incerto nell’annunciare quella particolare
visita.
«E…
mi
perdoni se mi permetto, signore, ma sono persone piuttosto
inquietanti», aggiunse, abbassando la voce e coprendosi la
bocca
con la mano, per essere sicura di non farsi udire da altri.
«Sì,
Jane,
sono persone che stavo attendendo, anche se sono un po’ in
anticipo. Falle pure passare», rispose con un mezzo sorriso
Shion, nel sentire quel commento. Si rimise composto sulla poltrona e
si risistemò la cravatta.
«Veramente,
mr
Hayes, queste due persone non hanno preso un appuntamento,
sono…» La donna fece una pausa, squadrando
rapidamente, da
dietro i suoi occhialetti, le due persone che attendevano poco
più in là. «Sono un uomo e una donna. I
loro
biglietti da visita dicono che sono due avvocati di Boston!»
terminò con una leggera punta di preoccupazione nella voce.
A
quelle parole, Shion Hayes mutò completamente espressione,
mentre l’ufficio piombava in un silenzio tetro.
Dall’altra
parte
dell’interfono, Jane era in attesa di ordini e quei lunghi
secondi la stavano facendo agitare più del dovuto. La donna
continuava a sporgersi con discrezione per tenere d’occhio
quelle
due persone che passeggiavano avanti e indietro per l’atrio,
parlottando tra di loro fra un mezzo sorriso e un cenno con la testa.
Shion
Hayes chiuse gli
occhi e iniziò a tamburellare le dita sul piano della
scrivania.
Poi, un ghigno poco rassicurante si formò sulle sue labbra.
«Non ti preoccupare, Jane. Falli pure accomodare nella sala
riunioni al piano di sopra e di' loro che li raggiungerò
subito.»
Non
appena chiuse la
comunicazione con la segretaria, si girò di nuovo verso
l’ampia vetrata dell’ufficio. Completamente
sprofondato
nella poltrona, avvicinò le mani alla bocca, intrecciando le
dita e sfiorando le labbra strette e inespressive. Poi si concesse
qualche respiro profondo, rimanendo a riflettere. Da molto tempo si
aspettava che quei due si facessero vivi, ma non pensava arrivassero
fin lì, nei suoi uffici di New York.
«Anne
e Richard, i
famigerati Taylor&Taylor! A cosa devo il discutibile onore di
questa vostra visita?» li salutò, uscendo
dall'ascensore
privato e andando loro incontro a braccia aperte. Li aveva fatti
attendere per almeno dieci minuti in quella grande sala riunioni, tutta
in acciaio e vetro.
«Carissimo
Shion!» rispose con altrettanta posa la donna. Gli si fece
incontro a grandi passi; il rumore dei suoi tacchi risuonava sinistro
nell’eco della grande sala vuota. «È da
una vita che
non ci vediamo!» esclamò con falsa cortesia,
baciandolo su
entrambe le guance, come un vecchio amico di famiglia. «Ci
sei
mancato moltissimo, almeno quanto il tuo sarcasmo.»
Anne
lo squadrò da
capo a piedi con la sua abituale aria di superiorità,
com’era solita fare con i clienti che arrivavano nel suo
studio.
«Non
ne dubito
affatto. Così come a me è mancato avere a che
fare con
voi», rispose tranquillo, ma con acido sarcasmo, Shion,
mantenendo un’inossidabile compostezza e sicurezza.
«E tu
Richard, sempre a mandare avanti tua sorella, vero? Non ti sei ancora
stancato di farti vedere senza palle?» si rivolse poi al
più giovane dei gemelli.
Ricordava
bene come
quell’uomo fosse sempre stato tanto insicuro negli incontri
formali, da rasentare il patetico, quanto invece risoluto e deciso,
implacabile, in un’aula di tribunale.
«Suvvia,
Shion, non
ce l’avrai ancora con noi perché sei stato
coinvolto nelle
indagini della polizia, quasi trent’anni fa, vero? Lo sai
anche
tu che era solo prassi, considerato che eri molto legato a
entrambi», intervenne di nuovo la donna.
«Cosa
siete venuti a fare da queste parti?» domandò
l’affarista, tagliando corto.
«Siamo
qui per
l’invito che ti abbiamo mandato. Non hai ricevuto la nostra
e-mail?» disse Anne, fingendosi stupita dalla domanda.
«Sei
una persona importante, Shion; e sei un amico di lunga data, anche se
purtroppo, in questi anni, il rapporto si è
affievolito»,
continuò con falsa commozione la donna. «Ci
è
sembrato doveroso venire di persona, per rinnovarti l’invito
per
la serata dedicata a nostro padre, nonché tuo vecchio
mentore e
amico, per il suo compleanno.»
Anne
Taylor si
avvicinò a lui di qualche passo, con fascinose movenze e un
sorriso accomodante, che forse, se Shion non avesse conosciuto la vera
natura di quella donna, avrebbe anche potuto scambiare per sincero.
«Non
bastava mandare
l’invito per posta, o forse il servizio postale nazionale non
è più affidabile come una volta?»
ribatté
con sarcasmo l’altro.
Proprio
perché
conosceva fin troppo bene di cos’era capace quella donna,
Shion
preferiva mantenere le distanze, perché Anne Taylor era come
una
mantide religiosa che non aspetta la fine dell’accoppiamento
per
divorare il maschio, ma attacca a tradimento e non si ferma
finché dell’altro non è rimasto
più nulla.
Si
avvicinò al
tavolo di cristallo e scostò la poltrona a capotavola,
facendo
poi segno ai due ospiti di raggiungerlo e accomodarsi.
«Shion,
perché mai avremmo dovuto fare una cosa così
impersonale
con te? Lo sai, sei sempre stato uno di famiglia, sei come un fratello
per noi e un figlio per nostro padre.» Anne si sedette sulla
poltrona alla sua destra, accavallando le gambe e mettendole in bella
mostra, sporgendosi in avanti con il busto e offrendo allo sguardo
dell'uomo il suo generoso décolleté.
La
donna aveva raggiunto
ormai la soglia dei sessant’anni, ma nonostante
ciò il suo
fisico manteneva una straordinaria tonicità e un aspetto
così giovanile da far invidia a molte star di Hollywood ben
più giovani di lei.
«Nostro
padre ci
terrebbe davvero molto alla tua presenza e poi, interverrà
anche
il sindaco e molti esponenti di spicco di Boston. Considera quali
vantaggiose opportunità potrebbero esserci per te e per i
tuoi
affari», continuò con una scintilla di superbia
negli
occhi.
«Ero
convinto che il
professor Taylor si fosse ritirato da tempo dalla vita pubblica, dopo
che la sua carriera subì quel brusco declino»,
commentò Shion Hayes, fissando negli occhi la donna,
l’unica vera interlocutrice. Il gemello, così
com’era sempre stato per tutta la sua vita, era solo un
parassita
della sorella. «Quanto avete speso, in tempo e denaro, per
ripulire la sua reputazione dalle voci di omicidio che erano
circolate?» affondò il colpo, vedendo un sussulto
nervoso
da parte della donna.
«Shion,
mi stupisco
di te! Non credevo fossi una persona che dà retta alle
chiacchiere maligne. Tu conosci bene nostro padre. Lui non sarebbe
capace di un’azione tanto ignobile. Erano tutte illazioni
prive
di fondamento che lo hanno fatto soffrire enormemente, come uomo e come
padre», ribatté lei, battendo la mano sul tavolo
di
cristallo, per sottolineare quanto fosse oltraggiata da tali
insinuazioni: il grosso e prezioso anello che portava
all’anulare
destro fece un fastidioso rumore che risvegliò il fratello
dal
torpore della sua passività.
«Ha
avuto un momento
di difficoltà e i suoi colleghi gli hanno voltato le spalle,
questo è vero, ma erano menzogne. Tutti noi siamo rimasti
sconvolti dalla perdita di Emma, nostro padre più di tutti!
Ne
è quasi morto», intervenne Richard, con tono mesto
e
insicuro, guadagnandosi un'occhiataccia da parte della gemella. Se
fossero stati soli, si sarebbe preso un sonoro ceffone per la sua
inopportuna tempestività.
«Solo
la sua?»
domandò con tono indifferente Shion. «Immagino che
non
valesse la pena dispiacersi per la sorte di due figli
bastardi»,
commentò subito dopo, dondolandosi un poco sulla poltrona.
«No,
no! Certo che
no! Come puoi pensare una cosa del genere?» si
affrettò a
dire Anne; ma a Shion Hayes non sfuggì quanto fosse in
evidente
difficoltà. «Non ci siamo mai arresi
all’evidenza
della loro morte, abbiamo continuato a cercarli per lungo
tempo.»
«Soprattutto
perché rappresentavano l’ultima
opportunità di
tramandare il nome della vostra famiglia, vero?»
insinuò
l’uomo. «Voi due non vi siete mai sposati, mi pare,
troppo
presi dalle vostre carriere. Tu, cara Anne, hai perso il treno e ora,
alla tua età, non puoi più avere figli. Tuo
fratello
Richard preferisce guardare altro», e dicendo quelle parole
fece
ben intendere a cosa volesse alludere. «Mentre il vecchio
JJ...
beh, non ha avuto figli con nessuna delle mogli o amanti che si
è fatto durante tutta la sua carriera politica. La grande
dinastia dei Taylor, il sogno di vostro padre, morirà con
voi.»
Calò
un silenzio
teso attorno a quel tavolo della grande sala riunioni, dopo le parole
velenose di Shion. Gli sguardi di Anne Taylor e di Shion Hayes si
incrociarono per lunghi secondi, in una sfida nella quale nessuno dei
due voleva cedere. Poi, la suoneria del cellulare di Richard ruppe
l'atmosfera. Con un gesto di scuse l'uomo si alzò e si
allontanò di qualche passo. Rispose e parlottò a
bassa
voce, rispondendo a monosillabi al suo misterioso interlocutore. Il suo
atteggiamento non sembrava cambiare molto, la voce e i gesti denotavano
la sua indole debole. Dopo neanche un paio di minuti, chiuse la
telefonata e tornò a sedere accanto alla gemella, con una
strana
eccitazione sul viso. Si avvicinò a lei e le
riferì
brevemente le notizie appena ricevute.
Shion
aggrottò la
fronte, gli parve che fosse qualcosa di grosso, delle novità
che
avrebbero potuto cambiare il rapporto di forza che si era instaurato in
quella sala fra loro tre. La conferma gli venne dal sorriso vittorioso
che si formò sul volto di Anne.
«Come
ti stavo
dicendo poc’anzi, non abbiamo mai smesso di cercarli.
È
vero, sono passati tanti anni, ma ancora adesso un gruppo di
investigatori privati che lavora alle nostre dipendenze sta continuando
a seguire ogni minima traccia», spiegò, ritrovando
calma e
sicurezza nella voce. «La telefonata che ci ha interrotti
è venuta proprio da uno di questi investigatori che ci ha
appena
riferito che sono stati trovati nuovi indizi che ci fanno ben
sperare.»
«Le
mie
felicitazioni», ribatté Shion, mantenendo un tono
calmo
nella voce e senza dare a vedere il lieve nervosismo che invece fremeva
nel suo corpo. «Ora, se volete scusarmi, ho
un’importante
cena d’affari. Conoscete la strada, vero?» disse,
alzandosi
senza altro indugio e lasciando i due ospiti, non troppo graditi, a
gioire da soli di quella loro piccola vittoria.
*****
«Buonasera,
mia
splendida Jane», la salutò con la sua abituale
esuberanza
Kanon, entrando nell'anticamera dell'ufficio del padre. «Un
piccolo pensiero per te», le disse, sbattendo i suoi begli
occhioni verdi e porgendole un vasetto di violette africane.
«Buonasera,
Kanon», ricambiò la segretaria, distogliendosi dal
suo
lavoro. «Se sei venuto per tuo padre, dovrai attendere. Sono
appena arrivate delle persone che dovevano parlargli con
urgenza», riferì con tono serio e professionale,
come se i
timori di una manciata di minuti prima non li avesse mai provati.
«Ma
io non ho nessun
impegno con il grande capo! Sono qui solo per te, mia dolce
Jane», disse lui, appoggiandosi alla scrivania e avvicinando
il
suo viso a quello della donna, per guardarla intensamente negli occhi.
La
donna arrossì un
poco, nonostante lo conoscesse da sempre gli faceva effetto trovarselo
così vicino, ma riprese subito il controllo di
sé.
Spostò di lato il vasetto per liberare i documenti che stava
leggendo, spazzò via con la mano qualche traccia di
terriccio
che vi era rimasta sopra e li ripose nell'ultimo cassetto della sua
scrivania. Poi, controllò l'agenda degli impegni del suo
capo.
«Davvero
strano. Tuo
padre non mi ha informata che il vostro appuntamento per cena fosse
stato annullato», disse, facendo l'indifferente, ma notando
con
la coda dell’occhio come il giovane avesse fatto una smorfia.
«È
una
noiosissima cena con dei noiosissimi stranieri»,
biascicò
il ragazzo, sedendosi su un angolo della scrivania e iniziando a
giocherellare con il portapenne. «Scommetto che neanche
conoscono
la nostra lingua. Sarà uno strazio! Ma parliamo di cose
più piacevoli: allora, quand’è che
accetterai il
mio invito?» le chiese, sottraendole la penna dalla mano e
guardandola con occhi languidi.
«Quando
avrai
qualche anno di più e io qualcuno in meno,
piccolo!» gli
rispose lei con un sorriso materno sulle labbra. «E comunque,
non
credo che mio marito approverebbe, non trovi?» La donna si
sporse
un poco verso di lui e gli accarezzò la guancia. Poi, si
riprese
la penna e tornò al proprio lavoro.
«Perché
le
donne migliori sono già impegnate?» disse
sconsolato
Kanon, alzando gli occhi al cielo e sospirando con fare teatrale.
«Jane, dolce Jane, scommetto che se ti invitasse mio
fratello,
non ci penseresti un secondo ad accettare, vero?»
Si
alzò e si
spostò di fronte alla scrivania, appogiandosi con i gomiti e
sporgendosi verso di lei, tanto vicino al suo viso che lei rimase
sorpresa per un attimo, arrossendo ancora una volta. Il suo sguardo era
dolce tanto quanto quello di Saga, ma era facilmente riconoscibile quel
velo di furbesca malizia che lo contraddistingueva dal gemello.
«Cosa
te lo fa credere?»
«Il
fatto che sia
già accaduto», rispose lui con voce suadente.
«E io
che ti faccio una corte spietata da più di due anni, neanche
sono preso in considerazione!» si disperò di nuovo.
Jane
non riuscì a
trattenere una risatina composta, nel vedere quanto impegno ed enfasi
Kanon mettesse in quella recita. Era un meraviglioso diversivo per lei,
in quel momento.
«Ma
quella
volta…» fece una pausa per richiamare quel ricordo
lontano
«avevate solo dieci anni. Tu continuavi a correre avanti e
indietro come uno scalmanato, a prendere l’ascensore e
mandarlo
prima su e poi giù: eri la disperazione del servizio di
vigilanza. Tuo fratello invece sedeva tranquillo, lì in
fondo,
proprio dov’è seduta ora quella
ragazza.» Jane
gliela indicò con un cenno della testa, facendolo voltare
per un
momento. Poi, gli fece un cenno di avvicinarsi di più.
«Ma
se proprio la vuoi sapere tutta, sono stata io a fargli la corte per
convincerlo a uscire», confessò, sorridendogli.
«Il
miglior appuntamento della mia vita!» sospirò
infine.
«Vorresti
dirmi che
il segreto per avere un appuntamento con te è starsene in un
angolino a fare la bella statuina?» domandò Kanon,
fingendosi scandalizzato.
«A
proposito, come
sta tuo fratello? È da tanto che non lo vedo»,
cambiò discorso la segretaria, non volendo approfondire
l’altro argomento.
«Il
solito»,
rispose Kanon, tornando al suo consueto modo di fare. «Si
divide
fra il Country Club e il lavoro da casa. Senti, perché
questa
estate non vieni da noi al lago? Una settimana al Club, tutto
spesato!» le propose. Poi fece un cenno con la mano per
zittire
la donna da un probabile rifiuto, perché la conosceva bene.
«Per te e tutta la tua famiglia», aggiunse.
«Sareste
nostri ospiti. Sono sicuro che farebbe piacere anche a Saga.»
«Kanon,
sei tanto
dolce, premuroso e divertente. Per me è una gioia averti qui
a
gironzolare nei momenti di pausa; così come mi piace
lavorare
con te e vederti nel tuo lato più professionale, quando
sostituisci tuo padre, ma ho ancora molto lavoro da terminare, prima di
tornare a casa da mio marito e dai miei figli.»
«Va
bene, va bene,
come non detto. Mi cacci via», disse avvilito.
«Beh, a me
è venuta fame! Quando il grande capo si libera digli che
sono
andato a mangiarmi una pizza al solito posto e che forse
tornerò
fra un’oretta.»
«E
la cena di lavoro?»
«Magari
ci
farò un salto», rispose il giovane, facendo
spallucce.
«Alla prossima, dolce Jane», la salutò,
incamminandosi per uscire.
«Kanon!
Aspetta un
attimo!» La segretaria lo raggiunse alla porta vetrata.
«Non dovresti prendere le cose degli altri senza permesso.
Rimetti a posto le violette di Betty, sai che quella povera ragazza ci
tiene alle sue piantine: sono la sua unica consolazione.» Al
di
qua della soglia, Jane gli accarezzò il viso dolcemente,
dopo
avergli messo in mano il vasetto. Poi, guardandolo con tenerezza, gli
diede un bacio appena accennato sulle labbra. «Grazie
ugualmente
del pensiero, adorabile canaglia.»
«Tuo
marito cosa penserebbe di questo?»
«Per
questa volta
non gli diremo niente», replicò la donna,
passandogli il
pollice sulle labbra, per togliere una piccola traccia di rossetto. Poi
si girò di scatto e corse di nuovo alla scrivania per
rispondere
al telefono.
Kanon
uscì da
lì con un’espressione sul volto non
particolarmente
soddisfatta, né annoiata. Nell’attraversare
l'atrio,
posò lo sguardo sulla giovane che era in attesa: se ne stava
seduta composta, in disparte, quasi in un angolino nascosto.
«Ciao!
Sei qui per un colloquio di lavoro? Sei una stagista?»
Notò
subito quanto
lei fosse giovane, così come quanto il suo corpo esile e con
poche forme contrastasse con l’abito di alta sartoria dal
taglio
troppo adulto e la pochette “impegnativa”
– anche se
non vistosa – che teneva in mano, assieme a una lettera,
forse di
referenze. Sorrise nel pensare che probabilmente voleva far colpo sul
grande capo.
«Credo
che tu abbia
sbagliato piano: la divisione delle risorse umane si trova tre piani
più in basso e ormai a quest’ora non
c'è più
nessuno», le spiegò, mantenendo un tono gentile e
affabile.
La
ragazza teneva lo
sguardo basso e un lieve rossore le ravvivò appena
l’incarnato. «Mi avevano indirizzata a questo
piano…» disse quasi in un bisbiglio, stringendo la
borsetta al grembo, «ma forse potrei aver capito
male.» Il
suo accento tradiva un’origine straniera, probabilmente
orientale, nonostante la predominanza dei tratti caucasici del viso.
«Sicuramente
ti
avranno dato un’informazione errata»,
commentò lui.
«Senti, io sto uscendo. Devo…» Kanon le
mostrò la piantina di violette che teneva in mano.
«Devo
riportarla alla postazione della centralinista, prima che qualcuno se
ne accorga. Se vuoi ti posso accompagnare giù e vedere se
posso
aiutarti a risolvere il disguido. Anzi, visto che è anche
ora di
cena, avevo deciso prendermi una pizza; che ne diresti di venire con
me? Offro io, naturalmente!» le propose.
Nel
silenzio di
quell’atrio si sentì un sommesso gorgoglio
provenire dallo
stomaco della ragazza. Era stato così imbarazzante per lei
che
la fece irrigidire e chiudere ancora di più a riccio.
«La
ringrazio,
signore, ma sto attendendo delle persone che dovrebbero venire a
prendermi fra poco», rispose; ma lo fece in modo troppo
cerimonioso, per due ragazzi che stavano conversando.
«Guarda
che non
mordo mica!» ribatté lui. Si accovacciò
di fronte a
lei e le prese la mano, provando a distoglierla dal suo riserbo.
«Ci metteremo una mezz’oretta, un’ora al
massimo. Poi
ti riporterò qui, in questo stesso piano e ti
lascerò
sedere su questa stessa sedia, così nessuno si
accorgerà
che ti sei mossa. Te lo prometto», la rassicurò.
Quando
lei alzò un
poco lo sguardo, lui le fece un sorriso così meraviglioso
che
arrossì in modo ancora più vistoso, colpita anche
dall’espressività che quegli occhi così
verdi
imprimevano a quel viso fresco e dolce. Non vi era abituata, sempre
circondata da volti seri, quasi inespressivi.
«Dai,
per favore,
sono già stato rifiutato una volta, questa sera; non darmi
il
colpo di grazia», la supplicò.
Si
tirò su e, tenendole ancora la mano, la fece alzare,
trascinandola senza alcuno sforzo fuori da quegli uffici.
*****
Shion Hayes
si
affacciò dalla porta del suo ufficio con aria meditabinda,
ma
che tradiva il nervosismo che aveva provato durante l'incontro fuori
programma con i gemelli Taylor. Sostò per qualche secondo
lì, in piedi, sulla soglia del suo ufficio, scrutando
l'ambiente
deserto, a parte la presenza di Jane, mentre la sua segretaria
completava la riscrittura di una lettera.
«Mio
figlio è già passato?»
domandò.
«È
stato qui
fino a qualche minuto fa, signore», rispose Jane, togliendosi
gli
occhiali e girandosi verso il suo capo. «Ha detto che andava
da
Matt per una pizza.»
«È
quasi
ammirevole il suo appetito. A me invece si è chiuso lo
stomaco», borbottò, facendo qualche passo verso la
scrivania della sua segretaria, ora più rilassato.
«E gli
ospiti che sto aspettando?» inquisì di nuovo,
controllando
l’ora.
«Non
si è
visto ancora nessuno, a parte una ragazzina che è rimasta in
disparte per una mezz’ora.» Jane si sporse e
notò
che la giovane non c'era più. «Ma a quanto vedo se
n’è andata. Forse è uscita assieme a
suo figlio.
Ah, mr Hayes, ha telefonato un certo mr Tatsumi. Non parlava molto bene
l’inglese, però se ho capito bene… ha
detto che
sarebbe stato lui l'accompagnatore dei suoi ospiti per
l’appuntamento della cena, ma che sarebbero arrivati in
ritardo,
forse attorno alle nove e trenta, a causa di un imprevisto.»
L'uomo
fece una smorfia.
Per
Jane era difficile
capire cosa lo contrariasse di più, se la notizia di Kanon a
spasso per la città con una ragazza, oppure il ritardo di
quell’incontro d’affari. «Vuole che
chiami il
ristorante per spostare la prenotazione?» domandò
la
donna, alzandosi e recuperando dalla stampante i documenti che aveva
appena terminato di scrivere.
«Grazie,
Jane», rispose lui, dopo qualche secondo di silenzio.
«Poi
puoi andare. Ci vediamo lunedì mattina. Buon
weekend.»
*****
Cora era
stata sommersa da
scartoffie, polvere e ragnatele per l’intera settimana.
Più ordinava e archiviava, più spuntava fuori
lavoro. Per
sua fortuna, quelle giornate erano passate in fretta e ancora
più in fretta stava finendo anche quel venerdì.
Senza
rendersene conto mancavano solo dieci minuti al termine del suo orario:
era stata talmente affascinata dalla lettura di un vecchio caso che
risaliva agli anni ’50 che, se non avesse alzato la testa per
sgranchirsi un momento il collo, non avrebbe notato l'orologio appeso
al muro e probabilmente sarebbe rimasta lì fino a notte
fonda.
Quel
dossier che aveva
tenuto in mano per quasi tutto il pomeriggio era stata una lettura
molto interessante nella sua particolarità: si trattava di
un
caso di raggiro e truffa ai danni di una giovane coppia di sposini
novelli che, di ritorno dal viaggio di nozze, si erano ritrovati il
loro piccolo appartamento occupato da un’altra famiglia che
vantava gli stessi diritti di proprietà
sull’immobile. Il
responsabile del reato era risultato essere l’agente
immobiliare
a cui la coppia si era rivolta per l’acquisto della casa,
così come altre coppie o famiglie avevano fatto per altre
case:
tutte poi imbrogliate con lo stesso metodo. Per qualche altro minuto,
Cora si soffermò sul materiale fotografico presente nella
cartelletta: varie immagini in bianco e nero
dell’appartamento e
una foto dei due sposini in abito da cerimonia. Una polaroid
istantanea, scattata subito dopo il matrimonio e praticamente
impossibile da contraffare, soprattutto per quei tempi, che avvalorava
le dichiarazioni delle vittime truffate.
Ancora
con quelle immagini
nella testa, si alzò dalla sua scrivania per riporre il
fascicolo. Percorse il corridoio centrale della
“gabbia”
arrivando fino in fondo, dove erano posizionati gli schedari cartacei.
Dovette scartabellare un poco prima di riuscire a inserire
l’incartamento al suo posto. Quando poi, tutta soddisfatta,
richiuse il cassetto, le sembrò di sentire la suoneria del
cellulare. Riattraversò di corsa il corridoio e
tornò
alla scrivania. Tutta ansimante, frugò rapidamente nella
borsa.
Arrossì come una scolaretta nel leggere il messaggio appena
arrivato. Si sedette e compose una risposta, senza smettere un istante
di sorridere. Poi controllò di nuovo l’ora:
mancavano meno
di cinque minuti alle sette. Si affrettò a prendere le sue
cose
e uscì.
A
pochi passi dal portone
si fermò, dubbiosa sul modo in cui si stava comportando,
pensando che forse non era il caso di mostrarsi così
impaziente.
Fece qualche passo per tornare indietro, ma si fermò ancora
una
volta, voltandosi a fissare l’uscita, mordendosi
l’unghia
del pollice. Si concesse qualche respiro per calmarsi e poi
varcò il portone a grandi passi, perché se fosse
rimasta
lì ancora un po’ a pensare, avrebbe dovuto fare
una gran
corsa per riuscire a prendere l’autobus per tornare a casa.
«Ehi!
Attento a dove
cammini!» disse un po' scocciata, dopo essersi sentita
urtare.
Stava camminando con lo sguardo basso perché intenta a
ritirare
il badge nella borsa.
«Abbiamo
la testa fra le nuvole?» rispose una voce dal tono gioviale.
Quando
Cora alzò
gli occhi per vedere chi le avesse rivolto quelle parole, rimase a
bocca aperta nel trovare il ragazzo, tutto sorridente, di fronte a
sé.
«Saga?
Ma… mi
hai appena scritto che mi stavi aspettando fuori dalla porta di casa!
Come mai invece sei qui? E... come facevi a sapere dove
lavoro?»
«Volevo
farti una
sorpresa», fu la risposta spontanea dell’altro.
«Mi
piacerebbe fare una passeggiata con te prima di riaccompagnarti a casa,
per parlare un po’. Per capire come avevi preso la mia
intromissione e… sapere se ora va meglio», le
disse,
facendosi più serio.
Ci
fu qualche attimo di
silenzio imbarazzato. Erano entrambi ancora fermi in mezzo al
marciapiede, poco oltre il portone d’ingresso della palazzina
dell'agenzia investigativa.
Cora
lo abbracciò
di slancio, stringendosi a lui e baciandolo sulla bocca, prima di
ritrarsi rossa in viso per il gesto appena compiuto. Non aveva capito
più nulla, dopo aver visto quel sorriso dolce sul viso del
ragazzo. Si era persino dimenticata dello scambio di messaggi avvenuto
pochi giorni prima, nel quale lo aveva rimproverato.
«Devo
pensare che
sei felice di vedermi?» disse, anche lui in lieve imbarazzo,
ma
visibilmente felice per quella sorta di “assalto”
ricevuto.
«Mi
dispiace, non avrei dovuto», cercò di
giustificarsi Cora, abbassando lo sguardo.
«A
me ha fatto piacere», la rassicurò Saga.
«Il
fatto è
che non sono abituata a tutte queste attenzioni e premure. Con Chris di
solito ero io che proponevo per fare certe cose, o mi preoccupavo per
risolvere i problemi per le piccole riparazioni. E ora, tutto mi arriva
in questo modo così inaspettato che mi sento
disorientata.»
«Chris?»
chiese Saga, guardandola accigliato.
«È
il
mio… è un caro amico, che ho lasciato a
Philadelphia», gli spiegò lei, provando a
mascherare
quell’innocente bugia.
«Hai
fatto bene!» esclamò il giovane, con una punta di
gelosia nella voce, ma tornando subito sorridente.
La
guardò negli
occhi e le accarezzò la guancia. Poi le passò la
mano
dietro la nuca e si avvicinò a lei appoggiando la fronte
alla
sua, indugiando in quella posizione per qualche secondo, ricambiando
infine il bacio di prima, ma rendendolo più duraturo e
passionale. Sentì le braccia di Cora cingergli la schiena e
stringersi ancora una volta a lui.
«Ahi!»
esclamò in un gemito sommesso, liberandosi
dall’abbraccio
della ragazza, facendola preoccupare per quell’interruzione
improvvisa. «Aspetta, così lo
schiacciamo», disse,
toccandosi il fianco.
Cora
lo squadrò
sospettosa: quel ragazzo si stava comportando in modo misterioso; e
come se non bastasse, teneva la mano all’interno del cappotto.
«Cosa
stai nascondendo?» gli chiese, stringendo la mano alla
tracolla della borsa.
Saga
le sorrise,
continuando a muoversi in modo goffo. Dopo un altro breve lamento,
dall'apertura del suo cappotto spuntò un'ombra nera che
subito
sparì di nuovo al suo interno. Poi, si intravide uno strano
movimento sotto la stoffa, che fece ridere il ragazzo.
«Saga?»
«Ahi!»
disse
ancora una volta Saga, contorcendosi un poco sul fianco.
«Credo
che non gradisca più la sistemazione»,
confessò,
mentre una codina nera e sinuosa spuntava dal cappotto, sbattendo
spazientita sul suo braccio. Con movimenti lenti e accorti, Saga
estrasse dal suo nascondiglio il piccolo ospite che portava con
sé.
«E
lui chi è?
La tua nuova fiamma, per caso?» chiese Cora, con una smorfia
sul
viso, incrociando le braccia al petto e fissando il ragazzo con uno
sguardo molto serio.
«Non
ti dispiace
dividermi con qualcun’altro, vero?» disse lui,
mentre
avvicinava il micio al viso e strofinava una guancia sulla sua
testolina, sorridendo angelico.
«Beh,
tutto sommato
un gatto non è un granché come rivale»,
considerò lei, avvicinandosi e accarezzando, con cautela, il
pelo della bestiola.
«Hai
paura dei gatti
o sei forse allergica?» le chiese, nel vedere quanta
accortezza
la ragazza stesse usando. Non si era fermato a riflettere su quella
eventualità e ora se ne rammaricava. Come avrebbe fatto se
lei
fosse stata allergica?
«Certo
che
no!» rispose Cora. Non credeva di aver dato
quell’impressione. «Però, ecco... non ho
mai avuto
davvero a che fare con degli animali. Cioè,
sì…
avevo un cane da piccola, ma preferivo tenerlo a distanza, non mi
fidavo troppo. Era mio padre che se ne occupava. Io mi limitavo a
qualche carezza e una spazzolata, ma sempre quando c’era lui
presente», gli raccontò, con un certo imbarazzo.
«Meno
male…» mormorò Saga, tirando un sospiro
di
sollievo. Le prese la mano e si avviò lungo il marciapiede,
senza badare in quale direzione stessero andando.
Durante
il tragitto, lei
continuava ad accarezzare quella pelliccia morbida e lucida e, a ogni
attimo che passava, complice la rassicurante presenza del ragazzo, si
sentiva sempre più sicura.
«Lo
vuoi tenere un
po’ in braccio?» le propose Saga, vedendo come sia
lei che
il gattino fra le sue mani fossero più rilassati; ricevette
però un cenno negativo da parte della ragazza.
«È
un maschio o una femmina?»
«Non
lo so, non sono stato così indiscreto da
controllare.»
Si
fermò un attimo
in mezzo al marciapiede e cambiò la posizione
dell’animale, passandogli una mano dietro la schiena, verso
il
basso, mentre con l’altra gli teneva bloccate le zampine
anteriori, mostrandolo di pancia a Cora. «Allora, che
cos’è?» chiese curioso.
Cora
scosse la testa.
«Credo che non funzionerà fra di noi!»
sentenziò la giovane, verificando con evidente disappunto
che si
trattava di una femmina, sfidando con uno sguardo tagliente quella
piccola palla di pelo nera che faceva delle fusa spudorate fra le
braccia di Saga.
«Davvero?»
disse lui, incredulo e un po’ deluso, sospirando infine
sconsolato. Abbassò lo sguardo sull’animale, poi
lo
spostò su Cora che continuava a fissare l’intrusa,
e
ritornò nuovamente sulla gattina.
«Mi
piaci molto,
Cora, sei una brava ragazza», le disse, prendendole la mano e
accarezzandone il dorso col pollice. «Apprezzo che tu non
voglia
intrometterti fra di noi. Addio!»
Il
volto del giovane era
rilassato ma al tempo stesso rattristato, mentre si congedava dalla
ragazza. Fece due coccole alla gattina e riprese a camminare, lasciando
Cora lì, sul posto.
«Cosa?»
balbettò la giovane, rimasta completamente di sasso. Lo vide
allontanarsi, parlottando con l’animale che teneva fra le
mani e
accarezzandolo con affetto. Per un momento le mancò il
respiro e
si sentì pervadere da uno strano senso di umiliazione. Poi,
la
sua parte razionale le fece capire che quel sentimento non aveva motivo
di esistere. Lo raggiunse e, a testa bassa, proprio come una bimba
offesa, lo tirò per la stoffa del cappotto.
Saga
si sforzò di
fare l’indifferente, ma a stento riuscì a
trattenere le
risate. Si voltò verso di lei e, quando vide il suo viso
ancora
imbronciato, si avvicinò e le rubò un bacio.
«È
stato uno scherzo di pessimo gusto, il tuo. Scaricata per un
gatto!» disse lei, riprendendo a camminare.
Il
ragazzo passò la
gattina nell’altra mano e poi afferrò la mano di
Cora. Se
la teneva stretta, mentre passeggiavano per le vie di Boston,
soffermandosi di tanto in tanto davanti a qualche vetrina.
«Che
ci facciamo
qui?» domandò lei, vedendo che il ragazzo era
particolarmente interessato a un piccolo negozio di animali, davanti al
quale erano ormai fermi da almeno cinque minuti.
«Non
la posso
portare in mano per tutta la città. Poverina, alla lunga si
potrebbe sentire scomoda e agitarsi; e poi, il tuo gatto
avrà
bisogno di un po’ di cose, non ti pare? E dove voglio
portarti
dopo, non accettano animali se non sono dentro un
trasportino»,
le rispose con tono cordiale ma allo stesso tempo distratto,
continuando a fissare gli oggetti esposti in vetrina. Così
facendo però, non si accorse dell'espressione stupita sul
viso
di Cora.
Dopo
qualche altro momento, annuì convinto ed entrò
nel negozio, trascinandosi dietro la giovane.
*****
Il tempo in
quel negozio,
fra un commento e una chiacchiera, trascorse in fretta e in modo
piacevole. Quando ne uscirono, carichi di sacchetti con
l’indispensabile per la bestiola, era ormai troppo tardi per
proseguire con i programmi che Saga aveva stabilito. Il ragazzo
fermò un taxi e raggiunsero l’appartamento di
Cora. La
gattina non ci aveva messo molto a iniziare a dare i primi segni di
insofferenza, agitandosi e facendo sentire le unghiette aguzze sulla
stoffa del cuscino del trasportino, miagolando anche a gran voce.
Non
appena furono entrati, Cora la lasciò libera e lei subito
zampettò rapida verso il salotto.
«Direi
che si sente
già a suo agio», commentò Saga, posando
gli
acquisti un po’ sul tavolino e un po’ a terra,
mentre la
padrona di casa si infilava in camera da letto per lasciare la sua
tracolla e il cappotto.
Come
un bambino davanti ai
regali di Natale, il giovane si sedette sul pavimento e
iniziò a
tirare fuori gli acquisti dai sacchetti: le scatolette del cibo, che
aveva messo l'una sull'altra a mo' di piramide, la ciotola per le
crocchette e quella per l’acqua, con piccoli disegni in
rilievo
di tante teste di gatto stilizzate, una a fianco all'altra poco
più in là; si rigirò fra le mani la
paletta per la
lettiera e infine, si distrasse con uno dei tanti giochini che avevano
comprato. Quando alzò di nuovo lo sguardo, ridestatosi
nell’intravedere un’ombra passargli avanti e
indietro,
notò Cora, in piedi accanto a lui, con due piatti in mano,
che
lo osservava sorridendo. Allora, radunò alla bell'e meglio
tutte
quelle cose per farle posto.
Avevano
scostato il
tavolino ed erano rimasti accoccolati sul pavimento, dopo aver
consumato quella cena veloce, che aveva il sapore di un pic-nic da
innamorati. Saga era semisdraiato e con le spalle appoggiate al divano,
intento a solleticare il fianco della ragazza.
«Perché
fai
tutte queste cose così inaspettate e inusuali?»
chiese
Cora, agitando il piumino multicolore davanti al musetto della gattina.
«Perché
mi
sembrava una cosa carina», rispose lui; fece un respiro e
sentì la schiena iniziare a dolergli un poco.
«Probabilmente
le
ragazze che frequenti non prenderebbero mai in considerazione un gesto
come questo, a meno che il regalo in questione non sia un animale di
razza purissima e con un pedigree lungo un chilometro»,
commentò Cora posando lo sguardo sull’oggetto del
discorso
che ora, stanca di giocare, si era avvicinata alle gambe di Saga,
sbadigliando e stiracchiandosi, prima di arrampicarcisi sopra e
acciambellarsi comoda.
«Ne
avresti
preferita una di razza?» chiese lui, accarezzando il morbido
pelo
corto della gattina che a quel tocco si era messa a fare le fusa.
«Per
essere alla
moda e poterla sfoggiare durante le passeggiate con improbabili
cappottini fluorescenti griffati e collari tempestati di strass? O
magari riempirla di fiocchetti e nastrini fino a trasformarla in un pon
pon? Poverina, non le farei mai subire una tortura del genere. No, lei
è bellissima così: semplice, comune e
naturale.»
Cora
si alzò e
raccolse i piatti portandoli in cucina e lasciandoli sul piano di
lavoro. Per un momento si sporse dal muretto e guardò Saga,
ancora impegnato a coccolare quel batuffolo di pelo: le pareva
incredibile pensare che un ricco figlio di papà, abituato al
lusso e alla cucina di gran classe, potesse comportarsi in modo
così normale e divertirsi con piccole cose. Forse quei due
si
erano sbagliati; forse era solo una coincidenza, una omonimia che aveva
fatto nascere l’equivoco a suo vantaggio. Del resto, il nome
Hayes era molto comune. Ma se invece fossero davvero la stessa persona?
Si
appoggiò coi
gomiti all’angolo del bancone da colazione, sorridendo nel
vederlo così a suo agio. Quella sera si sentiva
particolarmente
bene nel condividerla con quel ragazzo. Era bello condividere la vita
con qualcun altro.
«Non
ho birra in
casa, né altri tipi di alcolici; e purtroppo ho terminato
anche
il tè freddo. Dovrai accontentarti di un po’
d’acqua», gli disse, aprendo il frigorifero.
«Va
bene l'acqua», rispose Saga.
La
ragazza ritornò
in salotto dopo un paio di minuti, portando con sé due
grossi
bicchieri d'acqua fresca. Si sedette sul divano e gli porse il suo, che
Saga bevve praticamente in un unico sorso, allungandosi e posandolo sul
tavolino. Poi, il giovane si girò verso di lei –
facendo
involontariamente cadere la gattina – e si mise in ginocchio,
posando la testa sulle sue gambe, rilassandosi alle carezze di quelle
mani che gli stavano pettinando i capelli. Si sentiva bene.
«Non
so ancora
praticamente nulla di te, se non che sei troppo dolce e premuroso con
una ragazza strana, lunatica e gelosa come me.»
Ancora
ripensava al
perché quel giovane dall'aspetto da principe azzurro fosse
lì con lei e per quale strana combinazione voluta dal
destino si
fossero incontrati. Forse era la novità di un ambiente tanto
diverso dal suo che lo attirava. Cora non avrebbe soddisfatto quella
sua curiosità, per non rompere la magia di quel momento e
per
non negare un futuro alle sue speranze. L'istinto le diceva che lui era
sincero e questo le bastava.
«Sono
così
come tu mi hai conosciuto», le disse lui con
semplicità,
alzando la testa e guardandola negli occhi.
«Io
ti ho conosciuto che sembravi un barbone e rovistavi nei
cassonetti», gli ricordò lei.
«È
vero, mi
hai visto in un momento un po' particolare», rispose lui,
abbassando lo sguardo per l'imbarazzo. «Ma non lo faccio mica
tutti i giorni!» si affrettò a precisare. Lo fece
con una
tale enfasi che si sentì un bambino.
«E
allora perché lo stavi facendo?»
«Avevo
notato dei
libri e li volevo recuperare. Sai, è un mio piccolo
hobby», spiegò. E questa volta senza l'ombra di
alcun
imbarazzo. Si sporse verso di lei e le catturò una ciocca di
capelli, tirandola leggermente per farla avvicinare. «Uno di
questi giorni, se farai la brava, potrei anche mostrartelo»,
le
disse, con quel suo sorriso accattivante.
Le
prese il viso fra le
mani, guardandola fissa negli occhi, e iniziò a baciarla,
quando
all'improvviso sentì delle unghiette appuntite pizzicargli
la
gamba quasi all'altezza del ginocchio. Si staccò a
malincuore da
lei e si chinò, sorridendo, per prendere la bestiola che,
indispettita, continuava a grattare per attirare la sua attenzione.
«Sarà
una
rivale pericolosa», brontolò Cora, quando lui la
mise sul
divano accanto a lei, osservando come già stesse iniziando a
intromettersi fra loro due. «Dove l’hai trovata
questa
peste?»
«L’ho
trovata
in un vicolo, sulla Jefferson Avenue, mentre venivo a prenderti. Era
stata abbandonata dentro uno scatolone», spiegò
Saga,
facendo giocare la gattina col suo dito e stuzzicandola fino a farla
ribaltare a pancia in su.
«Allora
il tuo
è proprio un vizio!» esclamò Cora,
riconquistando
l’attenzione del ragazzo ai suoi piedi e riprendendo a
baciarlo.
«Vieni sul divano», gli sussurrò sulle
labbra. Prese
la gattina e la posò di nuovo a terra, poi fece posto al
ragazzo.
«Raccontami
ancora
qualcosa sui gemelli», le chiese Saga, sistemandosi meglio
accanto a lei, posandole una mano sulla coscia e iniziando ad
accarezzarla lentamente.
«Gemelli?»
domandò Cora, sorpresa.
«Sì,
i bambini scomparsi.»
«Ma
non ho mai detto che fossero gemelli?»
«Davvero?
Che
strano… mi era parso di capire così»,
commentò lui con lieve indifferenza. «Dai,
parlamene
ancora», la incoraggiò.
«Non
c’è molto altro, a dire il vero. Mio padre non ne
parlava
volentieri di quel caso e quando lo faceva, aspettava sempre che io
andassi a letto, perché lo rattristava troppo. Come ti ho
già detto, era diventata una questione personale»,
Cora
fece un sospiro e poco dopo un respiro profondo, inspirando al tempo
stesso il profumo del ragazzo. «Credo di averlo sentito
piangere,
una volta», aggiunse con voce triste.
«Se
rattrista anche te, non te lo chiederò
più.»
La
giovane chiuse gli
occhi e si concentrò sul respiro di Saga e il battito del
suo
cuore. Sentì la punta delle sue dita toccarla delicatamente
sul
viso, percorrendo la linea della mascella, poi il mento, risalendo
sulle labbra, ridisegnandone i contorni e infine seguire la forma del
naso, in un crescente solletico che stava per sfociare in una risata,
subito soffocata da un bacio passionale.
*****
Era sopra di
lei, la sua
mano le avvolgeva il seno e il viso era nascosto nell’incavo
del
suo collo, con la bocca che aveva già esplorato e assaggiato
ogni centimetro di pelle. I loro respiri si rincorrevano e i battiti
dei loro cuori battevano all’unisono.
Cora
aveva allargato un poco le gambe per farlo accomodare meglio,
cingendogli i fianchi, ansimando per l’eccitazione.
Saga
la guardò per
un momento, mentre riprendeva fiato, le diede un morso leggero, appena
accennato, sul mento, poi un altro sul labbro. Osservò il
viso
imporporato della giovane e i suoi occhi languidi che gli stavano
esprimendo il desiderio di continuare. Con la mano si portò
all’allacciatura dei jeans e liberò il primo
bottone. Le
scoprì la pancia e le accarezzò la pelle,
risalendo di
nuovo verso i seni. La guardò, estasiato. Si tirò
su per
permettere a Cora di sbottonargli la camicia; i loro sguardi non si
persero per un solo istante.
La
gattina, rimasta in
disparte, si era messa a frugare in uno dei sacchetti a terra, trovando
il giochino con il sonaglio. Lo aveva colpito più e
più
volte, muovendosi di scatto, prima di stancarsi e acciambellarsi
all'interno del sacchetto e sonnecchiare.
Saga
sorrise nel distrarsi
per vederla, poi tornò a prestare tutta la sua attenzione
alla
ragazza con cui voleva fare l'amore. Accennò a baciarla, ma
questa volta, a interromperli, fu qualcuno che bussava alla porta,
mettendosi anche a fischiettare.
«Uffa!»
sbuffò Cora. «Chi è adesso a
scocciare?» Non
aspettava nessuno, non a quell’ora della sera, almeno.
«Vuoi
che vada io a
vedere?» si offrì il ragazzo, alzandosi dal divano
e
risistemandosi alla meglio la camicia.
«Credo
di sapere chi
possa essere: nonno Dohko, l’amministratore del condominio!
È l’unico al mondo che si metterebbe a
fischiettare in
quel modo stonato, per i pianerottoli.»
Permise
a Saga di aiutarla
ad alzarsi e si riabbottonò in fretta i pantaloni, mentre
fuori
dall’appartamento il vecchio continuava a bussare.
«Arrivo,
arrivo,
Dohko!» disse ad alta voce, per farsi sentire dallo
scocciatore.
«Vuoi buttar giù la porta?» Si
soffermò un
attimo davanti alla porta d'ingresso e, dopo un bel respiro profondo,
si sforzò di fare un sorriso. «Buonasera Dohko,
cosa ti
porta qui?»
«Buonasera,
Caroline!» salutò l’amministratore, con
il suo
solito sorriso da venditore sul volto grinzoso. «Ultimamente
non
passi più al ristorante, neanche per un saluto veloce. In
queste
sere ti ho vista rientrare tardi. Ho immaginato che non avessi voglia
di metterti a cucinare, quindi ti ho portato qualcosa di buono dal
ristorante: dei ravioli al vapore e qualche involtino primavera. Ho
preferito rimanere su qualcosa di semplice, che piace a tutti. Ti ho
messo anche una porzione abbondante di zuppa za zai,
da assaggiare! Spero ti piaccia il piccante?» le disse,
sventolandole davanti un sacchetto di carta bianco con il logo del
ristorante Fiore di Luna stampato in rosso.
Senza
pensarci due volte,
Dohko colse al volo l’occasione che la titubanza di Cora gli
stava offrendo e si intrufolò nell’appartamento.
Trotterellò felice fino al salotto, ma subito
notò una
presenza a lui sgradita.
«Non
sono ammesse
bestiacce pelose in questo condominio!» le disse, con voce
stridula, vedendola seduta sul bracciolo del divano intenta a battere
la zampina su una delle grandi foglie del filodendro lì
accanto.
«Ma
è
innocua, che problemi può dare una cosina così
piccola?» intervenne una voce maschile dalla cucina che fece
sussultare il vecchietto.
«Oh,
mi dispiace,
Caroline. Non sapevo avessi ospiti», si scusò
Dohko,
notando solo in quel momento che la giovane aveva i capelli un po'
arruffati e i vestiti non proprio in ordine.
Posò
il sacchetto
sul bancone e si allungò per vedere e salutare
l’ospite,
ancora celato nella semioscurità della cucina. Anche il
salotto
in quel momento era poco illuminato. L’unica fonte di luce
era la
lampada a stelo lungo posta nell’angolo più
lontano del
salotto, oltre il divano, che diffondeva una luminosità
soffusa,
rendendo l’ambiente intimo e riposante.
Sporgendosi
a sua volta e
mostrandosi alla luce, Saga strinse la mano dell’anziano
cinese,
sorridendogli educatamente. Non fece in tempo a presentarsi, che
l’uomo impallidì, sottraendosi a quella stretta.
Urtò il sacchetto che aveva appoggiato sul bancone della
colazione e lo fece cadere a terra.
«Tu…»
farfugliò con voce tremula, puntandogli il dito ossuto
contro.
«Tu sei morto! Sei uno spettro! Stai lontano da
me!»
gridò, portandosi le mani al petto e stringendo forte
l’ishang
di cotone, fin quasi a strapparne la stoffa.
«Perché sei
qui? Perché sei tornato a tormentarmi? No! Non ti
avvicinare,
non ti avvicinare!» continuò a gridare, con gli
occhi
spiritati e la voce piena di terrore, nel vedere il viso del ragazzo.
Iniziò ad ansimare, accasciandosi lentamente a terra, vicino
alla piccola pozza di zuppa che si era rovesciata.
«Ehi,
Dohko, che ti
succede?» chiese Cora. Subito si precipitò a
soccorrerlo
e, grazie anche all'aiuto di Saga, riuscì a farlo sdraiare
sul
divano. «Saga, per favore, porta un bicchiere
d’acqua e uno
strofinaccio bagnato!»
«Nella
stessa
casa… nella stessa casa!» farfugliò in
un delirio
il cinese. «Questa è una punizione
celeste.»
Continuò
a
parlottare convulsamente, in un misto di cinese e inglese, per diversi
minuti. Quasi sempre erano frasi incomprensibili. Poi, lentamente, si
riprese dallo choc, nonostante i suoi occhi fossero lucidi e la sua
mente ancora confusa.
«Va
meglio?» chiese Cora.
«Com’è
possibile?» mormorò il vecchio, provando a tirarsi
su.
Fissò
di nuovo lo
sguardo sul giovane davanti a lui, che ora gli sedeva di fronte, sul
tavolino, e non disse nulla. Non poteva crederci. Il cuore batteva
furioso nel petto: gli faceva male.
Quel
bel ragazzo biondo,
dai capelli lunghi e mossi, con qualche ciuffo capriccioso che gli
ricadeva in avanti a coprire la fronte e gli occhi smeraldini, limpidi
e sinceri, era così rassomigliante. Persino
quell’espressione di tranquillità mista a
preoccupazione,
gli era familiare. Dopo aver bevuto qualche sorso d’acqua,
Dohko
riprese a respirare in modo più normale. Il vecchio avrebbe
voluto allungare la mano per toccarlo, per dissolvere quel fantasma.
Non poteva accettare di vederlo davanti ai suoi occhi. Forse era solo
la vecchiaia e la suggestione provocata da quell’appartamento
che, anche se rinnovato completamente, portava in sé segreti
che
dovevano rimanere tali.
Si
passò la mano
ossuta sulla fronte sudata. Forse era colpa della poca luce che glielo
faceva scambiare per qualcun altro, forse era la stachezza per una
lunga giornata: lui non era più un giovincello e doveva
prendersela con più calma.
Si
coprì il volto con le mani, inspirando profondamente, e
provò ad alzarsi.
«No,
non ti alzare,
Dohko» gli disse Cora, sorreggendolo. «Mi hai fatto
prendere uno spavento! Ho pensato che ti fosse venuto un infarto. Ma
cosa ti è preso così
all’improvviso?» chiese
preoccupata, cercando di far sedere nuovamente il cinese.
«Devo
uscire di qui
e tu…» sussurrò il vecchio, con il viso
sempre
più pallido e le mani che tremavano. Posò lo
sguardo su
Saga e di nuovo si sentì mancare, ma tenne duro.
«Tu devi
andartene da qui! Non voglio guai, non voglio altre complicazioni! Non
mi potete costringere di nuovo… non mi metterete in mezzo
un’altra volta!» alzò la voce. Si
liberò
dell’aiuto della ragazza e scattò in piedi come se
avesse
ritrovato all'improvviso le forze. «Quarantotto ore! Hai
quarantotto ore per liberare l’appartamento e andartene! E
non mi
importa cosa dirà Burton!» le disse, agitandole il
dito
contro.
Dopo
aver lanciato
quell’ultimatum, scandendo bene ogni singola parola,
spalancò con rabbia la porta d'ingresso dell'appartamento e
se
ne andò.
«Cosa?
Ma...
perché? Cosa ho fatto di male, Dohko? Perché ora
mi stai
cacciando?» Cora lo seguì fino all'inizio delle
scale,
continuando a chiedere spiegazioni che il vecchio invece non sembrava
affatto intenzionato a darle. «Non erano questi gli accordi
Dohko, non erano questi!» gridò infine lei, con
voce
disperata. All’improvviso sentì le gambe molli e
gli occhi
bruciare.
«Gli
accordi non prevedevano questa persecuzione!» urlò
a sua volta Dohko.
Quando Cora
rientrò
nell’appartamento era ancora visibilmente frastornata. Non si
capacitava del perché fosse successo tutto così
all’improvviso. Si appoggiò con la schiena alla
porta
d’ingresso e alzò lo sguardo su Saga, fermo sulla
soglia
del salotto, che la osservava abbozzando un sorriso. E in quel momento
i suoi occhi si riempirono di lacrime.
«Perché
sconvolgi la mia vita in questo modo? Nel bene e nel male…
perché quando ci sei tu mi succedono queste cose?»
disse,
respingendolo e richiudendosi in camera da letto.
«No,
aspetta, non
fare così», cercò di fermarla Saga,
precipitandosi
dentro la stanza subito dopo di lei: questa volta non si era lasciato
intimorire, né frenare da quella porta chiusa.
Titubò
un attimo,
nel non trovarla sul letto. Poi, sentì dei vaghi singhiozzi
provenire dalla cabina armadio, dove l'anta era socchiusa.
«Anch’io da piccolo qualche volta mi nascondevo
nell’armadio», disse, affacciandosi in
quell'angusto
angolo, abbozzando un sorriso. La vide seduta per terra, con le
ginocchia raccolte al petto, nascosta in mezzo agli abiti appesi.
«Rimanere seduta qui dentro non risolverà la
situazione», le disse, con tutto il tatto possibile,
accovacciandosi di fronte a lei.
«Senza
una
casa… così, di punto in bianco. Sono senza una
casa… ma cosa ho fatto di sbagliato? Quarantotto
ore…
come troverò una nuova sistemazione in così poco
tempo? E
poi, perché? Perché è
successo?»
Saga
l'accarezzò
sulla testa. Rimase lì dentro con lei per qualche minuto;
poi,
prendendole le mani, la issò e la fece uscire dall'armadio,
portandola sul letto, sedendole accanto.
«Vado
a parlarci io. Proverò a farlo ragionare», le
disse dolcemente, asciugandole le lacrime con il pollice.
«Che
importa ormai?» ribatté lei, tirando su con il
naso.
«Ti
vuoi arrendere
così? Vuoi accettare senza nemmeno tentare di sapere
perché ti sta cacciando in questo modo? Credo che sia
illegale
buttare fuori una persona dalla propria casa, almeno senza un preavviso
adeguato», le disse lui, per cercare di convincerla a non
arrendersi senza provare almeno a lottare.
«Non
ho firmato
alcun contratto quando sono venuta ad abitare qui; non ho alcun diritto
di oppormi. Quel vecchio mi ha dato questa casa come favore personale
verso lo zio Phil. Sapevo che sarebbe stata una sistemazione
temporanea, volevo cercarmi qualcosa di meglio, di più
grande,
però... non mi aspettavo di dovermene andare così
presto.
Non sono pronta», singhiozzò lei, coprendosi il
volto con
le mani.
«Allora
troveremo
una soluzione!» esclamò Saga, prendendole di nuovo
le mani
e guardandola con determinazione.
Cora
scrollò
lentamente la testa, quasi stesse cadendo in trance. Si alzò
dal
letto, il viso bagnato di lacrime e lo sguardo addolorato perso nel
vuoto. Si avvicinò al comò e tirò il
primo
cassetto, iniziando a togliere le cose, una a una, lasciandole cadere a
terra.
«Fermati,
non fare
così», le sussurrò Saga, abbracciandola
da dietro e
afferrando la mano che stringeva una canotteria color lavanda.
Appoggiò la sua guancia a quella della ragazza e la strinse
per
qualche secondo, mentre richiudeva il cassetto.
«Cosa
devo fare?»
Saga
non aveva una
risposta da darle. Continuò solo a tenerla stretta a
sé,
per diversi interminabili minuti. Chiuse gli occhi e respirò
a
fondo. «Te la trovo io una sistemazione. Ora prendi solo lo
stretto necessario e domani, con più calma, torneremo a
prendere
il resto»
La
girò verso di sé, le asciugò le
lacrime e le diede un bacio sulla fronte.
«E
per il gatto?»
«Dove
ti porterò nessuno farà storie per il
gatto», la rassicurò con un sorriso.
«O
per fantasmi immaginari», aggiunse lei, sorridendogli a sua
volta.
note
del capitolo:
Zuppa za zai:
qui ci sarebbe
voluto un bel link alla ricetta, ma non sapete quanto abbia faticato
per trovare le poche informazioni che ora condividerò con
voi a
proposito di questo piatto. Si tratta di una zuppa fatta con verdure
verdi, tipiche della Cina, cotte in un brodo piccante.
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Capitolo 15 *** Capitolo XIV ***
XIV
«Non
sei stata molto
loquace durante la cena, Miss…» le disse,
fermandosi di
fronte all’entrata principale del grattacielo dove erano
ubicati
gli uffici della holding della famiglia Hayes. Kanon la
guardò,
attendendo che lei desse seguito alla frase e gli svelasse il proprio
nome, senza però ottenere nulla.
«È
difficile
fare una conversazione decente se l’altra persona
è poco
collaborativa. Soprattutto se non si conosce nemmeno il nome del
proprio interlocutore», le disse. «Beh, a dire il
vero
è stato più un monologo che una conversazione,
finora.»
Le
ritrosie della ragazza
lo aveva divertito, almeno fino a quel momento, ma come dice il
proverbio “il gioco è bello finché dura
poco”
e Kanon iniziava ad annoiarsi di quell’atteggiamento. Si
avvicinò alle grandi porte a vetri e la invitò a
entrare,
seguendola poco dopo. Poi, si diresse al bancone della sicurezza e
chiese che gli venisse chiamato un taxi.
«Come
promesso ti ho
riportata qui sana e salva e con lo stomaco pieno, anche se ci abbiamo
messo un po’ più del previsto.» La
fissò
ancora per qualche secondo con un sorrisetto sulle labbra.
«Proprio non me lo vuoi dire il tuo nome?»
«Neanche
tu ti sei ancora presentato, mi pare», fu
l’improvvisa risposta della ragazza: diretta ma garbata.
«Ah!
Hai ritrovato
la voce, finalmente!» la prese in giro il giovane.
«Io sono
un volto noto qui a New York! Chiedi in giro e ti diranno chi
sono.» Si girò verso l'uomo dietro al bancone,
facendogli
intendere che si aspettava una conferma.
«Sì,
mr Hayes. Signorina, lei ha di fronte mr Kanon Hayes.»
«Hai
visto? Tu
invece, dall’aria un po’ spaurita sotto la tua
finta
sicurezza, mi sembri nuova», le sorrise, sfiorandole la
guancia.
La
ragazza si sentì
in balìa del suo sguardo. Non aveva mai visto degli occhi
così espressivi come i suoi e di un verde tanto intenso.
Anche
se la sua casa era spesso frequentata da molti stranieri, nessuno di
quelli che aveva conosciuto era come l’uomo che ora si
trovava
davanti a lei. Indietreggiò, imbarazzata.
Kanon
le si fece vicino,
ma la superò con noncuranza e si diresse agli ascensori. Con
le
mani nelle tasche dei jeans attese l'arrivo del primo disponibile.
Fischiettava una vecchia canzone pop, mentre con lo sguardo sempre
attento osservava, dalla superficie lucida delle porte esterne
dell'ascensore, cosa accadeva alle sue spalle. Dalla sua posizione
vedeva la figura esile della giovane, in quell’abito lilla,
avvicinarsi piano, visibilmente combattuta.
Un
ding metallico annunciò l'arrivo dell'ascensore e pochi
istanti dopo le porte si aprirono.
Kanon
rimase fermo sul
posto per qualche secondo, apparentemente per nessun motivo, poi vi
entrò; ma, poco prima che le porte si chiudessero, la
ragazza
fece altrettanto. Il giovane sorrise, appoggiato alla parete di fondo
della cabina e con le braccia incrociate al petto.
«Hai
dimenticato
qualcosa di sopra o non riesci più a starmi
lontana?» le
chiese, cercando di non calcare troppo il tono sfrontato e divertito
che aveva in quel momento. Non lo disturbò più di
tanto
essere ignorato. Quando l'ascensore si aprì al piano degli
uffici dirigenziali della holding, Kanon si mosse per primo, tenendo
bloccate le porte. «Sei sicura di non volermi dire il tuo
nome?» le chiese ancora una volta.
La
ragazza continuò
nel suo silenzio ostinato, mantenendo lo sguardo basso; ma, a
differenza di quanto mostrato durante la serata, iniziava a mostrare un
lieve cedimento, stringendo nervosamente la pochette.
Il
giovane Hayes sospirò e si scostò per lasciarla
passare avanti.
«Kanon!
Eccoti qui
finalmente! Ma quanto tempo ci hai messo?» esclamò
il
padre. In quello stesso momento le voci che fino a poco prima avevano
animato l’atrio dell’ufficio si chetarono
all’unisono
e tutti i presenti si voltarono verso i due giovani appena entrati.
«Mr
Hayes, un
comportamento del genere è intollerabile!»
intervenne un
omone straniero, con voce profonda e un forte accento che storpiava
anche la più semplice delle parole. Shion Hayes parve non
ascoltarlo, continuando a fissare il figlio con espressione seria,
aspettando una sua giustificazione.
«Ci
ho messo il
tempo che ho ritenuto necessario», rispose senza tanti
preamboli
Kanon, lanciando contemporaneamente un’occhiataccia allo
straniero.
«Quando
ti ho chiamato e tu mi hai parlato della ragazza, ti ho detto di
tornare subito in ufficio.»
«E
lasciare la pizza
a metà?» ribatté il giovane, con un
sorriso
malizioso sulle labbra. Poi, tornò serio. «Ti
avevo detto
che avrei fatto a modo mio.»
Alla
risposta del figlio,
l'uomo rimase interdetto per qualche istante, poi scambiò
uno
sguardo con la giovane che in quel momento sembrava imbarazzata e
intimorita, infine si voltò verso gli altri stranieri.
Sapeva
che il loro accompagnatore non capiva molto bene l'inglese e che faceva
solo “scena”, ma gli altri, seppur giovani, erano
sicuramente più svegli.
«Ne
possiamo parlare
di là, nel mio ufficio?» propose con
affabilità,
invitando i due a entrare nel suo ufficio con un gesto del braccio.
«Kido-sama!»
chiamò il corpulento accompagnatore dei ragazzi, con voce
ossequiosa e allo stesso tempo preoccupata, avvicinandosi cerimonioso
alla ragazza, facendole un inchino profondo. «Va tutto
bene?» chiese alla giovane, in un giapponese molto svelto e
parlando a voce molto bassa, cercando di essere il più
discreto
possibile. «Vi ha fatto qualcosa di male,
quell’uomo?»
Kanon
non capiva una sola
parola di quello che l’uomo stava dicendo, ma
dall’occhiata
che questi gli aveva lanciato, mentre parlava, intuì che ce
l'aveva con lui e sicuramente non gli stava facendo dei complimenti.
«È
sicura di
voler continuare? Non sarebbe meglio rimandare a dopo la cena, magari?
Così avrà il tempo necessario per riprendersi da
questa
brutta avventura», continuò l'uomo, nelle sue
pressanti
preoccupazioni.
Saori
si limitò ad
annuire, tenendo gli occhi bassi, ben sapendo che altre paia di occhi
la stavano fissano incessantemente e non erano di certo tutti benevoli
come quelli del servitore.
«Basta
così,
Tatsumi», ordinò il maggiore dei ragazzi, nella
loro
lingua madre. «Abbiamo preso degli impegni e li dobbiamo
onorare.»
«Tatsumi,
Ikki-kun
ha ragione», convenne la giovane Saori, posando una mano sul
braccio del servitore per tranquillizzarlo. Sapeva che l'uomo le era da
sempre molto affezionato e lei ricambiava con gratitudine.
Poi,
inaspettatamente,
Ikki si avvicinò alla cugina; le strinse il braccio,
facendola
sussultare e le parlò all’orecchio. Di nuovo,
Saori
annuì, ma si notava quanto fosse scossa dal comportamento
del
giovane.
«Miss
Kido,
ciò che ha detto mr Tatsumi è ragionevole. Se ora
non ve
la sentite, possiamo parlare dopo la cena», intervenne Shion,
vedendo che la situazione si stava facendo più tesa di
quanto si
sarebbe aspettato.
«Vi
ringrazio per la cortesia, mr Hayes, ma preferirei...»
«Come
desiderate», sorrise conciliante l’uomo, intuendo
il
desiderio della ragazza. «Kanon, accompagna la signorina nel
mio
ufficio.»
«Ospiti
di
riguardo… un gorilla e dei ragazzini! Per
un’occasione
così importante mi sarei aspettato che si scomodasse
direttamente il vecchio Kido», mormorò Kanon,
avvicinandosi all’angolo bar dell’ufficio del padre
e
versandosi un bicchiere di whisky.
«Non
per te»,
lo rimproverò Shion, mentre si chiudeva la porta alle
spalle.
Poi, gli fece cenno con la mano di passargli quel bicchiere.
«Ora
siediti e spiegami», ordinò, occupando la poltrona
dirimpetto al divanetto dove si era già accomodata Saori.
«Che
vuoi che ti
dica?» ribatté Kanon, prendendo allora dal
frigobar una
bottiglia di birra. Sbuffò e ne bevve un lungo sorso.
«Kanon»,
lo
riprese Shion, neanche fosse stato un bambino che impiastricciava
dappertutto con le mani sporche di marmellata.
«Se
volevi
presentare il figlio perfetto, per non rischiare pessime figure, hai
sbagliato gemello», gli disse Kanon senza mezzi termini.
«Mi vuoi ammogliare con una perfetta sconosciuta, una
ragazzina.
Senza offesa, cara», si rivolse alla ragazza, che se ne stava
seduta in silenzio, con un accenno di sorriso. «E ti aspetti
che
io me ne stia buono ad attendere le presentazioni ufficiali, come
un… un… ah! Neanche esiste una parola
adeguata!»
esclamò, gesticolando con la bottiglia.
Il
paragone perfetto ce
l’aveva in mente, ma sarebbe risultato troppo volgare e non
aveva
voglia di sentirsi continuamente riprendere dal padre.
«No,
grazie! Se
proprio sono costretto a fare il principe consorte, preferisco allora
fare a modo mio e conoscere “la principessa” alle
mie
condizioni.»
Osservò
il padre per qualche secondo con occhi diffidenti: gli
sembrò strano che non avesse nulla da ribattere.
«Vedo
che ora inizi
ad avere dei dubbi. Sono forse diventato troppo difficile da
gestire?» gli domandò, con un leggero ghigno sulle
labbra.
«Eppure dovresti averci fatto il callo! Mi dispiace,
papà,
questo figlio hai a disposizione», continuò,
allargando le
braccia per rimarcare l’affermazione.
«L’altro,
quello educato e docile, quello che con tanta cura hai tenuto protetto
e che sicuramente ti avrebbe reso più fiero e più
orgoglioso, purtroppo è un po’ tocco.»
Anche
se l’intento
con il quale Kanon aveva pronunciato quelle ultime parole era stato di
ferire il padre, si dispiacque subito di aver parlato male del gemello.
Shion
Hayes
assottigliò lo sguardo già severo e
fissò il
figlio. Lo indisponeva che Kanon rivangasse davanti a estranei le
conseguenze di quell’incidente, solo come giustificazione ai
suoi
comportamenti sconsiderati.
«Non
fare quella
faccia papà, stavo scherzando. E poi, lui è
già
innamorato», provò a rimediare con tono
più leggero
Kanon, sospirando perché non aveva sortito alcun effetto.
«Tu
sapevi
già chi ero?» fece sentire la sua voce la giovane,
intervenendo timidamente in quella conversazione dove padre e figlio si
ribeccavano, spostando infine l’attenzione su di
sé.
«Non
proprio»,
le rispose Kanon sorridendole comprensivo. «Non
all’inizio
della nostra serata, almeno. Quando ti ho vista seduta qui fuori, in
attesa, non sapevo davvero chi fossi. Non che abbia poi scoperto molto
altro, visto che non hai detto quasi nulla durante la nostra cenetta
romantica», continuò; e nel pronunciare quelle
ultime
parole il suo sorrido divenne più malizioso.
«Eri
un perfetto sconosciuto, per me», si difese lei.
«Ma
hai ugualmente accettato il mio invito.»
Saori
alzò per un
momento lo sguardo su di lui, ma lo deviò poco dopo: quella
troppa confidenza la confondeva. «È stato
scorretto», mormorò.
Shion
li lasciò fare, osservandoli e sorseggiando il suo whisky.
«È
stato mio
padre, quando mi ha telefonato, a dirmi chi eri. In quel momento, tu ti
eri appena alzata per andata alla toilette, miss Saori Kido.»
«E
perché non hai detto nulla, quando sono tornata al
tavolo?»
«E
cosa avrei dovuto
dirti? Eri tu che dovevi presentarti! Te ne ho dato
l’opportunità più volte. Bene, anche se
poco
ortodosse, le presentazioni sono state fatte, quindi il mio compito
termina qui per stasera», annunciò Kanon,
alzandosi e
stiracchiandosi la schiena. «E… immagino che se
sei
arrivata qui da sola, con largo anticipo rispetto all’orario
concordato, senza avvisare nessuno e creando così tutto
questo
scompiglio, avevi intenzione di parlare in privato con mio padre,
giusto? Ora sei davanti a lui! Buona fortuna!» le disse,
facendole un cenno di saluto e avviandosi per uscire dall'ufficio.
«Dove
stai andando,
Kanon?» lo richiamò il padre, mantenendo lo
sguardo
concentrato sul bicchiere che teneva in mano.
«Pensavo
di andare a bere da qualche parte! Ti vuoi unire a me?»
ribatté il figlio in tono divertito.
«Torna
a sedere. Non abbiamo ancora concluso.»
«Ma
dai! Lo sai
anche tu che questa è una cosa ridicola!»
protestò
il ragazzo, ributtandosi a sedere come un ragazzino messo in punizione.
Nonostante la sua reazione, aveva l'impressione che quel sottile
rimprovero celasse altro e che sicuramente non sarebbe stato piacevole
da sentire, né divertente.
«Dunque,
ragazza, di cosa volevi parlarmi?» Shion si rivolse quindi a
Saori, abbandonando ogni formalità.
«Ecco,
mr
Hayes…» iniziò lei, prendendo coraggio
e fissandolo
negli occhi; con le mani stringeva la pochette che teneva sulle gambe.
«Come ha detto vostro figlio, sono venuta qui di mia
iniziativa
per provare a persuadervi ad annullare questo Omiai»,
disse, utilizzando il termine proprio giapponese. «Questo...
accordo matrimoniale», si corresse, affinché i due
comprendessero meglio.
«Non
devi aggiungere altro», la interuppe l'uomo. La sua voce era
permeata da un tono paterno e comprensivo.
Kanon
quasi sospirò
di sollievo. Conosceva bene quel tono, era lo stesso che il padre usava
spesso con Saga, quando acconsentiva a qualche sua richiesta, che ben
inteso non erano mai strampalate o eccessive, e anche se il caso che lo
riguardava ora era completamente diverso, quel tono prometteva comunque
bene, facendogli pensare che il suo vecchio, forse, non era poi
così irremovibile come temeva.
«Comprendo
che ci
siano di mezzo anche e soprattutto importanti accordi economici e
finanziari», riprese Saori, «e non intendo, con
questo mio
tirarmi indietro, far sì che gli accordi già in
essere
possano essere rotti o farvi rinunciare a quelli futuri,
però…» si interruppe, mordendosi
nervosamente il
labbro e stringendo ancora più forte la pochette,
«mr
Hayes, credo che dobbiate sapere la verità su alcune cose.
Vedete…» La giovane si interruppe ancora, provando
un
forte senso di vergogna.
«Sei
qui a fare le
veci di tuo nonno, dico bene?» si fece avanti Shion,
togliendola
dall’imbarazzo di quella conversazione. «Ma di
certo lui
non sarebbe d’accordo se tu, per rompere questo fidanzamento,
rivelassi informazioni confidenziali che possano metterlo in
difficoltà. È questo, quello che non riesci a
esprimere.» L'uomo attese la conferma dalla ragazza, prima di
continuare. «Devi essere disperata per arrivare a questo
punto», considerò, bevendo l’ultimo
sorso di whisky
nel bicchiere, appoggiandolo poi sul tavolino basso, posto fra il
divano dov’era seduta Saori e la poltrona dov’era
invece
seduto lui.
Shion
Hayes la
guardò per qualche secondo, si sistemò la
cravatta e si
mise più comodo sulla poltrona. Poi, fissò anche
il
figlio, che tamburellava le dita sul bracciolo della poltrona.
«Capisco
i motivi
che ti spingono a questo gesto e ammiro il tuo coraggio nel venire qui
a parlare con franchezza. Quindi anch’io ti
parlerò con
altrettanta franchezza.»
Fece
un respiro profondo,
osservando ancora una volta entrambi i ragazzi: Saori iniziava a
mostrare un certo nervosismo, mentre Kanon mostrava solo segni di
impazienza.
«A
certi livelli
sociali, essere considerati alla stregua di merce di scambio
è
all’ordine del giorno. Il volere dei singoli non ha valore,
rispetto ai numeri e alle prospettive di guadagno economico,
soprattutto quando sono così importanti. Adesso
più che
mai questo matrimonio è estremamente importante per la tua
famiglia. Sì, sono già a conoscenza delle
condizioni in
cui versa tuo nonno», disse, bloccando con un cenno della
mano la
reazione di Saori, che era quasi scattata per parlare.
«Alcuni
anni fa sono scoppiati degli scandali che lo hanno coinvolto in prima
persona e hanno macchiato il nome della vostra famiglia. Questo ha
portato a un calo vertiginosi di credibilità che ha minato
la
vostra posizione sociale e ha danneggiato in modo considerevole le
imprese della famiglia Kido. Non ultimo, a causa di investimenti ad
altissimo rischio, che avrebbero dovuto ristabilire
liquidità e
solidità in tempi brevi, questi vi hanno invece portato
molto
vicini alla bancarotta. Tuo nonno è una persona di vecchio
stampo. Orgoglioso e caparbio, proprio com’era mio padre. Si
è risollevato in parte dal disastro finanziario, anche se a
fatica e, sebbene ora gli affari stiano ritornando a un certo livello
di stabilità, le sue condizioni fisiche ne hanno
risentito.»
Shion
Hayes
sciorinò quel resoconto così dettagliato con una
tale
naturalezza e sicurezza che Saori si sentì quasi mancare
dall’approfondita radiografia di ogni aspetto che riguardava
la
sua famiglia, ma riuscì comunque a mostrare
all’uomo molta
dignità nell’ascoltare quella verità
impietosa.
«È
apprezzabile ed encomiabile questo tuo tentativo di… come lo
possiamo definire… di onestà; anche se nel nostro
mondo
questo comportamento equivale a un vero e proprio suicidio, oltre che
oggettivamente stupido», continuò, alzandosi dalla
poltrona e camminando verso la sua scrivania. «Sei giovane e
inesperta. Devi ancora capire che questo tipo di integrità
morale non è fatta per questo mondo.
L’onestà
è una qualità aliena e deleteria per gli affari a
questi
livelli e la giustizia è appannaggio di chi offre di
più.
Non sono un samaritano, non faccio nulla per nulla. Con questo
matrimonio la tua famiglia avrebbe tutto da guadagnare, sia in
prestigio che in disponibilità economica, che attualmente le
manca. Ma anch’io avrei i miei vantaggi e non sono certo
trascurabili: potrei aggirare le leggi nazionalistiche del tuo paese e
accaparrarmi con estrema facilità ciò che mi
interessa,
sfruttare tutto quello che posso da voi e in seguito liquidarvi come
nulla fosse, mantenendo comunque la quota mi mercato acquisita. Questo
è il mondo degli affari, ragazza! Tu sei solo un mezzo per
tuo
nonno, così come Kanon è un mezzo per
me.»
Quando
si girò di
nuovo verso i ragazzi, sorrise comprensivo nel vedere
l’espressione sconcertata di Saori che a sua volta guardava
Kanon, che invece era totalmente indifferente. Shion Hayes poteva
facilmente immaginare ciò che stava pensando la giovane,
ovvero
che considerare una persona come un “mezzo” era di
quanto
più cinico potesse esserci, che considerare il proprio
figlio
come un “mezzo” era addirittura immorale.
«Posso
concederti
una scappatoia per salvare l’onore della tua famiglia e il
tuo», aggiunse, vedendo come all’improvviso, a
quelle
parole, si riaccese la speranza nella ragazza.
«Sì,
mr Hayes, farò tutto quello che vorrà!»
si affrettò a dire lei.
«Allora
andremo avanti come stabilito», confermò l'uomo.
«Ma…»
Kanon si ridestò dal torpore nel quale era caduto e
sgranò gli occhi. Si morse la lingua per frenare le
invettive
che gli scalpitavano in gola, ma il suo cuore accelerò per
la
rabbia.
«Nella
vostra
tradizione più antica, se ricordo bene,
c’è una
particolare usanza che riguarda la futura sposa e la famiglia dello
sposo. Mi pare che la promessa sposa passi un periodo di apprendimento
nella famiglia dello sposo, affinché impari a diventare una
buona moglie. Dico bene?»
«Sì,
mr Hayes. Si tratta dello Yomeiri»,
confermò Saori, abbassando di nuovo la testa e sfogando la
propria delusione sulla pochette. «Questa usanza è
praticata ancora oggi, soprattutto nelle famiglie più
importanti
e aristocratiche. Mia nonna, a suo tempo, visse quella
condizione.»
«Molto
bene!»
esclamò l'uomo. «Passerai questo periodo di
“apprendimento”, nella nostra casa di Mystic Lake.
Naturalmente terminerai la scuola qui in America. E, dopo che avrai
compiuto la maggiore età, avrà luogo
l’ufficializzazione del fidanzamento.»
«Cosa?»
Kanon
non riuscì
più a trattenersi e balzò in piedi. Fino a quel
momento
gli era sembrato che tutto stesse procedendo bene, che le cose si
stessero chiarendo: com’erano arrivati a quel punto?
«Dopo
tutti i
discorsi che hai fatto…» boccheggiò
quasi in preda
a una crisi nervosa. «Come puoi uscirtene con frasi tipo:
“bene ragazzi, andiamo avanti lo stesso”? Io non
sposerò mai una ragazzina!»
«Calmati,
Kanon.
Prenditi un’altra birra e ricomponiti, perché
quando
usciremo da quella porta», e con la mano indicò la
porta
dell’ufficio «ci uniremo alle persone che attendono
là fuori e andremo a cena. Così com'era in
programma.»
«Mi
si è chiuso lo stomaco», ringhiò Kanon,
lasciandosi ricadere sulla poltrona.
*****
Cora non
pensava che nel
giro di appena un mese – o poco più –
dal suo arrivo
da Philadelphia, si sarebbe ritrovata di nuovo con il borsone in
spalla. Eppure, ora che era di fronte a quella porta, le sembrava di
aver vissuto lì per molto più tempo. Diede una
lunga
occhiata all'appartamento, si prese il tempo necessario per imprimersi
nella mente ogni particolare di quella che, seppur per troppo breve
tempo, era stata la sua casa.
Nella
mano sinistra
stringeva i manici del trasportino morbido di Kitty che proprio quel
pomeriggio le aveva comprato Saga, assieme a tante altre cose, anche se
lei aveva insistito per pagarne almeno una parte.
Non
ci aveva messo molto a
raccogliere lo stretto necessario per la sua nuova destinazione,
nonostante non sapesse dove sarebbe andata e cosa avesse in mente il
ragazzo per lei. Fece un respiro profondo, stringendo la maniglia della
porta con la mano destra: era davvero pronta a chiudersi alle spalle
quel breve capitolo della sua vita per buttarsi di nuovo nell'ignoto?
Indugiò
ancora, la gattina miagolò nel trasportino, iniziando a
muoversi e a grattare.
«Ancora
una volta
sto abbandonando la mia casa e la vita che mi stavo
costruendo»,
mormorò, trattenendo la voglia di piangere. Poi, chiuse la
porta
a chiavi e si girò verso le scale, passandosi il dorso della
mano sugli occhi.
«Il
taxi ci aspetta
di sotto», le disse Saga, tendendole la mano. «Non
ti
preoccupare, questa non è la fine della tua vita,
né
della tua indipendenza, se è questo che ti dà
pensiero:
questo è un nuovo inizio», la
rassicurò. Le prese
la mano e scesero assieme le scale fino al portone.
«Ricomincerai
da un’altra parte, ma questa volta non farai tutto da
sola.»
«L’indipendenza…»
sospirò lei. «No, l’indipendenza, quella
vera,
capita una sola volta nella vita», disse, guardando dritta
davanti a sé. «Questo appartamento era la mia
occasione
per essere davvero indipendente e libera. Tu, con la tua presenza, il
tuo aiuto, la tua cura di me… tutto questo significa che
questo
mio sogno è finito ancor prima di cominciare. Significa che
nuovamente mi appoggerò a qualcuno.»
«Sarebbe
una cosa così brutta?» le chiese Saga, rattristato
da quel discorso.
Cora
sospirò.
«Dipende dalla persona a cui mi affiderei»,
rispose,
tentando di sorridere un poco. «Ma non voglio diventare
totalmente dipendente da questa persona e poi ritrovarmi sola e magari
con un…» si interruppe. Non voleva dar voce a
speranze, o
paure, che forse non si sarebbero mai realizzate per lei.
«L’ho già visto con mia madre. Ho
vissuto sulla mia
pelle il dolore del suo cuore straziato, quando è morto mio
padre», gli raccontò; e questa volta non
riuscì a
fermare le lacrime.
«Ma
col tempo si
è risollevata, giusto?» disse Saga, abbracciandola
forte.
«Perché c’eri tu con lei, quindi non era
sola.»
«È
vero», annuì lei, celandogli però il
dolore che in
quel momento attraversava i suoi occhi. «Mia mamma non era
sola:
c'era il mio fratellino e c'ero io.»
«E
non lo sarai neanche tu. Non più»,
confermò Saga.
«Cosa
ti fa pensare che sia sola?»
«Un
appartamento da
single nel quale manca totalmente l’impronta maschile, anche
se
non è neanche prettamente femminile, un ex fidanzato
e...»
In quel momento la guardò negli occhi con molta
intensità: non aveva creduto neanche per un secondo alla
storia
del semplice “amico” lasciato a Philadelphia.
«E la
tua famiglia, lasciati in un’altra città. Piatti e
stoviglie contanti, sicuramente saranno al massimo due o tre pezzi per
tipo e forse utilizzi gli stessi tutti i giorni. Scommetto anche che li
tieni sempre nello scolapiatti sul lavandino, vero? Prepari piatti
semplici e veloci, quando non prendi direttamente qualcosa di
già pronto.»
«Ma
queste sono
tutte cose che caratterizzano la vita di un single medio e non certo
prove inoppugnabili di una situazione di presunta
solitudine!»
obiettò lei, a metà fra l'indispettita e il
divertita.
I
due ragazzi erano ancora
fermi di fronte al portone e Saga continuava a fissarla negli occhi. Le
posò un dito sulle labbra e le sorrise. «Ma la
cosa
più importante…» Si concesse una
piccola pausa
studiata per dare maggiore risalto a ciò che stava per
dirle,
«mi hai fatto entrare nella tua vita.»
«Mi
sembri molto fiducioso, ma non starai correndo un po’
troppo?»
«E
tu non credi che
ora sia un po’ tardi per rallentare?»
ribatté lui,
sempre più convinto di quello che stava dicendo.
«Ci siamo
trovati, lasciati e ritrovati in un lasso di tempo breve come un
battito di ciglia. Abbiamo bruciato le tappe e adesso… forse
ti
sembrerà strano, ma sento di volere una vita con
te.»
All’improvviso,
Cora
sentì una vampata scaldarle le guance. Era sicura di essere
arrossita come una scolaretta e ringraziava quel piccolo atrio semibuio
che celava il suo imbarazzo, ma che non poteva nascondere o mitigare il
battito accelerato del cuore che tambureggiava nel suo petto.
Avvertì la mano di Saga stringere la sua, come
incoraggiamento e
come ulteriore segno che stava dicendo sul serio, però non
riusciva ad articolare una risposta.
«Tu
non lo
vuoi?» le chiese Saga, turbato da quel silenzio fin troppo
duraturo per i suoi gusti. Il suo sguardo si stava facendo via via
più triste.
«Ho
paura»,
rispose Cora, in un sussurro amplificato dall’eco
dell’atrio della palazzina, appoggiando la fronte al petto
del
ragazzo. «Ho paura di dire sì; di dirti che
anch’io
voglio la stessa cosa che vuoi tu. Ho paura di scoprire che tutto
questo possa essere solamente un bel sogno. Ho paura che quando mi
sveglierò, mi ritroverò unicamente con la
certezza di
essere senza una casa, mentre tu sarai solo il protagonista delle
fantasticherie che popolano le mie notti.»
Saga
non si aspettava di
udire quelle parole e ne fu felice. Ma, misto a
quell’emozione,
sentì anche la tristezza della ragazza e in qualche modo ne
rimase contagiato.
«Ti
prometto che
andrà tutto bene», la rassicurò,
alzandole il viso
e vedendo che era bagnato di lacrime.
«Chi
sei tu per promettere una cosa del genere?»
«Sono
il tuo
principe azzurro», rispose lui, con sguardo languido e tanta
serietà nella voce, ottenendo invece il risultato di farla
ridere.
«Allora
portami via da qui sul tuo cavallo bianco.»
«Va
bene lo stesso se l’ho scambiato con un taxi
giallo?» le disse, baciandola teneramente.
*****
Ci vollero
circa
venticinque minuti nel traffico cittadino prima che il taxi, con a
bordo i due ragazzi, si fermasse all’altezza del civico
numero 3,
di fronte a un portone di legno scuro e dai dettagli in ottone lucido.
L’edificio era basso, di soli tre piani. Accanto al portone
c’era la vetrina di un negozio interamente ricoperta di
vecchi
fogli di giornale.
Per
tutto il tempo del
viaggio, Cora si era appoggiata alla spalla del ragazzo, rimanendo con
gli occhi chiusi, come se si fosse appisolata. Era stata la gentile
carezza che lui le aveva fatto sul dorso della mano, a ridestarla.
Saga
l'aiutò a
scendere dall'auto e, come un perfetto cavaliere, si prese carico della
maggior parte del bagaglio – lasciando a Cora solo il
trasportino
– e l'accompagnò, mano nella mano, fin davanti al
portone.
«Eccoci.»
Cora
si guardò
attorno, non conosceva affatto quella zona. La strada era ampia, ben
illuminata e pulita. I lampioni sembravano in ghisa e avevano un quel
non so ché di retrò. Le costruzioni avevano quasi
tutte i
mattoni a vista, anche se erano stati ridipinti.
Saga
osservò la
crescente meraviglia negli occhi della ragazza. «Il quartiere
mantiene ancora un poco delle sue origini», le
spiegò.
«Questa costruzione, per esempio, risale alla fine degli anni
’30. Sia esternamente che internamente non ha subito
rilevanti
modifiche rispetto al progetto originale.»
Cora
seguì il
ragazzo all'interno e su per le due rampe di scale fino alla porta
dell’appartamento, fermandosi sul minuscolo pianerottolo:
doveva
esserci un unico grande appartamento che si sviluppava sopra il negozio
abbandonato e che probabilmente costituiva da solo un’intera
porzione di quella palazzina.
Saga
girò la chiave ma non aprì subito.
«Chiudi
gli occhi.»
«Cosa?»
«Chiudi
gli occhi», ripeté lui.
Lasciò
a terra i
bagagli e la fece passare davanti. Poi, le coprì gli occhi
con
una mano, mentre con l’altra spinse la porta fino ad aprirla
completamente.
«Ora,
avanti
piano», la guidò, avanzando assieme a lei. Solo
quando
furono arrivati nel mezzo dell’ingresso le permise di
guardare.
«Allora, cosa ne pensi?»
Cora
si guardò
attorno per diversi secondi, rimanendo a bocca aperta. Era incredibile
come lui riuscisse a sorprenderla ogni volta. «Che tu fossi
l’uomo dei miracoli che riesce a risolve i miei problemi con
uno
schiocco di dita, me ne sono accorta da tempo, ma che riuscissi a far
spuntare dal nulla una casa già ammobiliata e dall'atmosfera
così familiare e confortante…» disse
con voce
sognante, continuando a fare una panoramica di quell'ambiente. Si
soffermò su alcune fotografie che ritraevano una famiglia
felice
formata da un vecchio, un uomo, una donna e una bambina; ma nessuno di
questi assomigliava anche solo alla lontana a Saga. «Quanto
hai
offerto ai proprietari per riuscire a mandarli via senza nemmeno far
prendere loro gli effetti personali?» gli domandò
con un
accenno di furbizia sulle labbra.
«Anche
se mi
piacerebbe essere il tuo uomo dei miracoli, purtroppo non lo sono
affatto», le rispose Saga, allungandosi per ricevere il bacio
che
Cora era pronta a dargli per ciò aveva fatto per lei.
«Questa casa l’ho ereditata alcuni anni fa, ma non
la uso
praticamente mai, solo quando vengo in città.»
Si
liberò del peso dei bagagli appoggiandoli in un angolo del
salotto e si tolse il cappotto.
«Può
sembrare
strano, ma nessuno della mia famiglia è a conoscenza di
questa
casa», le confessò con un certo imbarazzo.
«Comunque, qui potrai stare per tutto il tempo che ti serve.
Vieni, ti faccio fare un giro», le propose, offrendole la
mano.
Quando
ritornarono
all’ingresso, trovarono il trasportino rovesciato su un
fianco e
la povera gattina che grattava frenetica. I due giovani si scambiaro
uno sguardo e risero. Cora si chinò e, appena
aprì la
cerniera, una piccola ombra nera schizzò fuori come un
fulmine,
sparendo all’interno del salotto.
Saga
sorrise nel vedere
quella scena, ma fu distratto dal cellulare che proprio in quel momento
si era messo a vibrare. Si incupì nel leggere il nome
comparso
sullo schermo. Rifiutò la chiamata e rimise lo smartphone
nella
tasca dei jeans.
«Credo
non ci sia
nulla di commestibile in casa», disse, avvicinandosi a Cora e
abbracciandola da dietro. «C’è un
minimarket a un
paio di isolati da qui. Faccio una corsa a prendere qualcosa. Hai
richieste particolari?»
«Solo
che tu torni presto», rispose lei, posando le mani su quelle
del ragazzo.
*****
«Saga»
La voce
di Shura, dall’altra parte del telefono, arrivò a
lui con
un tono decisamente deluso. «Dove sei finito? È
tutto il
giorno che sei sparito da casa.»
«Sono
in giro», rispose il giovane, con tono secco.
Si
era fermato appena
oltre l’incrocio, con la schiena appoggiata alla cancellata
in
ferro di un’altra palazzina. Il suo sguardo era rivolto verso
la
finestra illuminata della cucina della casa sopra il negozio. In quel
momento, neanche il pensiero di Cora, sicuramente affaccendata ad
aprire ogni pensile e mobiletto della cucina, riusciva a farlo
sorridere.
«Dimmi
dove ti trovi, che vengo a prenderti.»
Saga
rimase in silenzio.
Allontanò il cellulare dall’orecchio e, sempre
osservando
quella finestra, si staccò dalla cancellata.
«Saga?
Saga?» insistette Shura, con un leggero panico nella voce.
«Te
l’ho
detto, sono in giro!» replicò lui con voce dura,
riprendendo a camminare. Si pentì subito però del
tono
che aveva usato; inconsciamente iniziò a massaggiarsi la
tempia
destra. «Scusami.»
«Non
fa niente,
Saga», lo rassicurò l'altro. «Mi ha
chiamato tuo
padre per assicurarsi che tu fossi a casa e che stessi bene. Era
stranamente ansioso. Avete discusso di nuovo?»
«No,
non l’ho sentito», rispose l'altro, un poco
più tranquillo.
«Ho
dovuto mentirgli, Saga; e sai che questo non mi piace. Torna a casa.
Subito!»
«No!»
«Come
hai detto?»
Shura
si tirò su di
scatto dal letto, facendolo cigolare un poco e provocando una lamentela
da parte dell’amante. Subito coprì il cellulare
con la
mano, sperando non si fosse sentito dall’altra parte. Poi si
mise
seduto, posando i piedi sul pavimento.
«Credevo
avessi
risolto la questione, con tuo padre. Perché ora stai
nuovamente
disubbidendo? Lo sai che non ti nega le cose, se gliene spieghi la
ragione», provò a parlargli con più
calma.
«È
così infatti. E… non fa niente. Starò
fuori tutto il weekend.»
«Hai
riaperto la casa di Boston? Va bene, domani mattina vengo lì
e ne parliamo.»
«No,
starò da una persona», replicò Saga,
senza entrare nel dettaglio.
Dall'altra
parte si sentì un sospiro sconsolato.
Shura
iniziò a
camminare su e giù per la stanza, passandosi più
volte la
mano fra i capelli neri. Il cellulare, ancora con la comunicazione
aperta, era stretto nella mano, ma lontano dall’orecchio. Si
concesse alcuni momenti per riflettere.
«Questa
storia non
mi piace. È compito mio sapere dove sei!»
Sbuffò,
passandosi la mano sugli occhi e rimandando giù la rabbia
che
stava crescendo in lui. «Tuo padre ha detto che prevede di
dover
rimanere almeno un'altra settimana a New York, assieme a tuo fratello.
Al loro ritorno porteranno degli ospiti. Domani…»
Si
sentirono rumori di
traffico, poi lo stridore di una brusca frenata, il rumore sommesso di
un botto e un paio di clacson che coprivano gli strepiti di alcuni
ragazzi ubriachi. Dopo qualche attimo si udirono anche delle urla e
delle voci concitate. Shura rimase in ascolto, immobile, quasi incapace
di respirare. In quel momento non sapeva cosa aspettarsi. Il suo corpo,
longilineo, muscoloso e completamente nudo, era diventato
d’un
tratto rigido come marmo.
«Saga?
Saga sei ancora lì?» lo chiamò con voce
tremante.
L’ansia
si
trasformò in angoscia: poteva sentire distintamente i rumori
che
provenivano dalla strada, ma non riusciva a capire se l’altro
fosse ancora lì, se stesse bene o se gli fosse capitato
qualcosa. Con gesti convulsi iniziò a rivestirsi.
«Sì»,
arrivò la risposta da parte di Saga. La sua voce
però era
insolitamente calma e distaccata.
«Cos’è
successo? Stai bene?» chiese Shura, sempre più
apprensivo,
bloccandosi con i pantaloni a metà gamba e la maglia
infilata
solo dalla testa e da un braccio.
«Una
macchina è passata con il rosso. Credo abbia investito
qualcuno.»
Durante
quel resoconto, a
Shura sembrò che Saga mostrasse un totalmente disinteresse
dell’accaduto e non un’emozione trapelò
dalla sua
voce. L'uomo si passò la mano sulla fronte.
Deglutì,
chiedendosi come fosse possibile che una persona normale potesse
mantenersi così calmo dopo aver assistito a un incidente
forse
mortale.
«Saga,
tu stai
bene?» gli chiese. Quella domanda stava diventando un
ritornello,
ma Shura avrebbe continuato a porgliela almeno finché non se
ne
fosse convinto del tutto.
«Ora
devo andare.»
«No,
Saga, non riagganciare!»
«Che
succede?»
chiese Aiolos con voce assonnata, tirandosi su e puntellandosi col
gomito. Fece uno sbadiglio e si ributtò sul materasso,
girandosi
dall’altro lato.
«Ha
detto che
starà fuori per tutto il weekend, che starà da
una
persona…» gli riferì l’altro,
ancora
frastornato. «Poi è accaduto qualcosa in strada,
e…» Non sapeva neanche lui come spiegare la
sensazione che
aveva avvertito. «Secondo te, cosa gli sta
capitando?»
«A
me lo
chiedi?» fece spallucce il giovane, nascondendo
però
quanto in realtà fosse risentito dalla domanda.
Sentì
Shura sbuffare e sedersi pesantemente sul bordo del letto.
«Non
stare a preoccuparti, mamma chioccia, scommetto che sta
benone.»
«Forse
dovrei far
rintracciare il suo cellulare», sospirò
l’uomo,
chinandosi per aprire l’ultimo cassetto del comodino e
frugandovi
dentro per alcuni secondi.
«Esagerato!
E a chi ti vorresti rivolgere, all’FBI?»
«Per
quello non ci
sarebbe problema», disse Shura, appoggiandosi con le spalle
alla
testata del letto: fra le dita teneva un sigaro. «Ma
più
semplicemente basterebbe chiedere alla polizia, se le si fornisce un
motivo ragionevole.»
«Credevo
avessi
smesso con quella roba», lo rimproverò Aiolos;
anche se
non era acceso, l’aroma pungente che emanava quel sigaro lo
disturbava. «Dopo la sfuriata della nonna non ti ho
più
visto fumare.»
«A
dire il vero non
sono mai stato un fumatore accanito», ammise Shura, con un
sospiro stanco. «Ma di tanto in tanto mi piace tenerne uno in
mano, soprattutto quando ho un problema da risolvere. Inspirarne
l’aroma e sentirne la consistenza fra le dita mi aiuta a
riflettere.»
L’uomo
fissò
il sigaro con gli occhi socchiusi, mentre lo faceva ruotare lentamente.
Poi, si lasciò andare a un lieve sorriso nel ricordare
l’episodio a cui aveva accennato Aiolos qualche secondo prima.
«Quella
volta tua
nonna mi scatenò addosso il finimondo: avevo commesso una
grave
leggerezza. Mi stavo rilassando, giù nella sala giochi,
facendo
due tiri al tavolo da biliardo», iniziò a
raccontare.
«Poi, non so più per cosa, mi ero dovuto
allontanare per
qualche minuto. Avevo lasciato il sigaro acceso appoggiato nel
portacenere e, quando ero tornato, voi tre piccole pesti, ve lo eravate
fumato tutto! E siete stati male per l’intero
pomeriggio»,
terminò, passando il sigaro sotto il naso e inspirando
profondamente.
«Davvero?
E quando sarebbe successo?»
Shura
alzò lo sguardo al soffitto, riflettendo per qualche secondo.
«All’epoca
avevate più o meno dodici anni. Sì, è
così!
Tutti e tre, impettiti, per quanto vi reggevate in piedi a stento,
avevate dichiarato che era stato… “un rito di
passaggio!”, ma più semplicemente, visto che
avevate
iniziato da poco le scuole medie, volevate farvi belli e raccontare in
giro della vostra bravata.»
«Già,
è vero. Ora ricordo. Quella fu l’unica volta che
la nonna
si arrabbiò davvero molto, era così
furiosa… la
punizione fu veramente severa e non ci parlò per i due
giorni
successivi. Kanon non prese per nulla bene quella strigliata e le si
rivoltò contro», disse il giovane, mettendosi
seduto e
scompigliandosi i capelli con vigore.
«Ti
sbagli! Non fu Kanon, ma Saga.»
«Cosa?»
«Certo!»
confermò Shura. «Ci stupimmo tutti di quella
reazione da
parte sua. Era sempre stato un bambino così tranquillo. Ma
eravamo fin troppo impegnati a rimettervi in sesto che il cercare di
comprendere il perché del suo comportamento passò
in
secondo piano.» Di nuovo, l’uomo si
portò il sigaro
sotto il naso; poi, quasi cedendo alla tentazione, lo
osservò
voglioso, bagnandosi le labbra con la lingua. «Evidentemente,
il
fumo gli aveva dato alla testa.»
«Beh,
comunque sia
andata, se hai intenzione di accendere quel coso io tolgo il disturbo.
Lo sai che la nonna non sopporta l’odore del tabacco e ad
essere
sincero non piace neanche a me.»
*****
Quando, poco
meno di
un’ora dopo, rientrò nell’appartamento
sopra il
negozio, sul suo volto non vi era traccia di alcuna emozione. Saga si
mosse senza fare rumore, entrando in cucina e posando il sacchetto
della spesa sul tavolo; poi, si sedette su una delle sedie. Si
guardò attorno: per terra, vicino alla finestra, erano state
messe le due ciotoline di Kitty, una per l’acqua e
l’altra
per i croccantini. Fece un respiro profondo, toccandosi nervosamente
– e con insistenza – la tempia destra, fin quasi a
farla
sanguinare.
«Sei
tornato!»
esclamò Cora, vedendolo in cucina. «Ci crederesti
se ti
dicessi che quella bestiola ha divorato ben due scatolette e quasi una
razione di croccantini?» gli raccontò,
avvicinandosi al
lavello per sciacquarsi le mani. «Così piccola ma
mangia
per cinque! E sì che aveva mangiato anche a casa mia!
Però, non sai quanto mi abbia fatto ammattire, si
è
nascosta sotto il divano e non voleva proprio uscire!» gli
disse,
scrollandò due o tre volte le mani, prima di asciugarsele
con lo
strofinaccio. «Quella birbante mi ha morso le dite almeno un
paio
di volte», continuò, con voce un po’ da
smorfiosetta, fermandosi di fronte a lui. «Per fortuna non ha
i
dentini troppo aguzzi e praticamente mi ha fatto il solletico.
Perché con te è tutta coccole e fusa, mentre con
me si
trasforma in una pantera?»
Cora
lo guardò con tenerezza. Si chinò un poco e gli
sistemò una ciocca di capelli in disordine.
«Dici
che dovrei
preoccuparmi e iniziare ad affilare i miei di denti?», gli
chiese, avvicinandosi ancora di più e dandogli un bacio
sulla
guancia. Indugiò qualche momento per osservare i suoi
lineamenti
così dolci e armoniosi per un uomo. Solo in quel momento
notò quanto fosse taciturno e distante. «Qualcosa
non
va?»
La
ragazza era consapevole
che non erano state molte le occasioni in cui aveva passato del tempo
con Saga e di certo, in quei momenti, non lo aveva mai visto
così pensieroso. Gli fece una carezza e gli passò
le mani
fra i capelli, come se con quel gesto avesse voluto liberarlo dalle
preoccupazioni che lo stavano affliggendo.
«Non
sono un
granché quando si tratta di consolare le persone»,
gli
disse in un sussurro. «Nemmeno ho la soluzione pronta per
risolvere i problemi degli altri, come invece riesci benissimo
tu.»
«Non
hai bisogno di
fare nulla», rispose lui, dopo quel lungo silenzio,
sforzandosi
di sorridere un poco. «Tu stai portando dei cambiamenti nella
mia
vita, come neanche immagini. Stai rendendo la mia vita diversa e
più bella. Mi fai battere il cuore come mai prima
d’ora», disse senza alcun imbarazzo per quella
dichiarazione romantica.
La
guardò negli
occhi, la vide arrossire per quelle parole e le restituì la
carezza, incoraggiandola a sedersi sulle sue gambe. Le diede un bacio e
l'abbracciò stretta, respirando profondamente col viso
appoggiato al suo petto.
«Vorrei…
vorrei restare per sempre con te.»
«Sei
sicuro che poi
non te ne pentirai?» gli chiese lei, prendendogli il viso fra
le
mani e guardandolo negli occhi; in quell’attimo
così
particolare sembravano di un verde più cupo e pieni di
tristezza. «Perché… beh, ti potresti
ritrovare ad
avere a che fare con una persona intrattabile e a tratti infantile; e
potresti scoprire anche che sono terribilmente pigra.»
Nonostante
l’imbarazzo nell’esprimere a voce i suoi difetti,
Cora
mantenne lo sguardo su di lui. Di nuovo, come la prima volta, non le
importava in quale modo potesse venir giudicata. Esisteva solo quel
momento. Esistevano solo loro due.
«Me
ne ero
già accorto», rispose Saga, sciogliendosi
finalmente in un
vero sorriso, terribilmente dolce e comprensivo. «E mi sta
bene
così.»
La
strinse di nuovo, inspirando l’odore della sua pelle e dei
suoi capelli, che sapevano di vita semplice.
«Allora
ti manca
qualche rotella», ridacchiò Cora. Gli
passò le mani
fra i capelli, pettinandoglieli tutti all’indietro,
fermandoli in
una coda di cavallo. Gli piaceva. Quel ragazzo gli piaceva davvero
tanto; sentiva che ora avrebbe potuto dargli tutto quanto senza
pentirsene un solo istante.
«Sì,
me lo
hanno già detto», mormorò lui; e per un
paio di
secondi, il suo sguardo si perse nuovamente nel vuoto.
Con la punta
delle dita
Saga sfiorò le labbra di Cora e la baciò con
passione
crescente. Le sue mani iniziarono ad accarezzarle il corpo,
avvertendola fremere e muoversi sotto il suo tocco. La sentiva ansimare
un poco, gemere di piacere, mentre le alzava il maglione leggero,
scoprendole la pelle nuda. La strinse a sé facendole
appoggiare
i seni al suo petto, senza darle requie con i suoi baci.
«La…
spesa…» ansimò Cora, nel breve tempo
che si erano
concessi per riprendere fiato, voltandosi un poco per indicare il
sacchetto sul tavolo.
Saga
non la stava ascoltando, affondando invece il viso nel suo collo e
iniziando a baciarle ogni centimetro di pelle.
«Aspetta…
ti
prego…» cercò di articolare le parole
lei,
boccheggiando per l’eccitazione. Le mani del ragazzo le
stringevano i glutei, spingendola contro di lui. «Bisogna
metterla via», riprovò Cora, riuscendo a fermarlo
per il
tempo sufficiente a completare la frase.
«Più
tardi», rispose Saga, cercando ancora una volta la sua bocca,
con urgenza, quasi con disperazione.
«Ma…
si
rovinerà tutto», ansimò di nuovo lei,
sottraendosi
a lui per qualche secondo e fissandolo con stupore. Le sembrava
così stranamente insistente, eppure ne era lusingata,
appagata
come donna. «Almeno le cose che vanno nel
frigorifero»,
quasi lo supplicò.
Lo
vide deluso, ma non
poteva farci nulla. Si alzò dalle gambe di Saga e si
risistemò un poco il maglione. Poi si girò verso
il
tavolo, ma non fece in tempo ad afferrare i manici del sacchetto che il
ragazzo la catturò nuovamente nel suo abbraccio, baciandole
il
collo e, indietreggiando piano, la allontanò dalla cucina.
«Saga…»
«Lascia
perdere la spesa.»
«Ma…»
provò a obiettare lei.
«Non
importa.
Uscirò di nuovo», chiuse il discorso il giovane,
stringendo un po’ più forte
quell’abbraccio.
La
girò verso di
sé, baciandola con ardore e continuando a sospingerla verso
il
salotto, fino ad arrivare al divano. Per qualche minuto
continuò
a baciarla, costringendola a un equilibrio precario, con le gambe
contro il divano che, a un movimento più audace, si
piegavano
pericolosamente. Le sfilò il maglione e rimase a guardarla.
«Mi
sembri turbato», gli disse Cora, con voce titubante e lo
sguardo languido.
Saga
scrollò la
testa, senza rispondere davvero. «Voglio riprendere da dove
eravamo stati interrotti», le rispose, facendola sdraiare sul
divano. Nel suo sguardo c’era una strana luce, ben camuffata
però dalla gentilezza dei suoi gesti –
benché
insistenti – e dal sentimento di quelle parole.
Si
sdraiò su di lei
continuando a baciarla: sulle labbra appena dischiuse, sulla linea
dolce della mascella, sul collo e sul petto, che lei gli offriva alla
vista, ormai ottenebrata di euforica passione. Con la mano
vagò
lungo il fianco di Cora, provocandole un leggero solletico, fino ad
arrivare al bordo dei jeans.
«Come
la prima volta», ansimò lei, con voce tremolante,
«tu mi rubi la ragione.»
Si
lasciò scappare
un gemito, inarcando la schiena nel sentire che le stava slacciando
completamente i jeans e accarezzando la pelle, infilando la mano sotto
la stoffa delle mutandine. Era un poco fredda, ma piacevolmente
carezzevole. Lei invece, affondò le sue mani in quella marea
d’oro che era la chioma fluente del ragazzo: morbidi come la
seta
e profumati come appena lavati. Strinse la presa e tirò un
poco,
facendogli alzare la testa. Adorava i suoi occhi. Ancor più
quando erano persi d’amore come in quel momento; ed era
sicura
che quell'amore fosse tutto per lei. Arrossì, ricambiando
con
languore quello sguardo.
«Come
la prima
volta», ripeté lui, sorridendole e baciandola con
passione. «Una nuova prima volta, per noi. Ogni volta
sarà
una prima volta.»
*****
L’alba
fece capolino
dalla finestra del salotto rischiarando in modo discreto
l’ambiente con i primi raggi del sole. C’era
silenzio e
quiete. I respiri dei due ragazzi, avvolti nel tepore della coperta di
lana, lavorata a piccoli pannelli patchwork, erano quasi
impercettibili. Poco più in là, raggomitolata a
terra,
sopra i vestiti buttati sul vecchio pavimento in parquet, la gattina
dormiva placida, come i suoi padroni.
Saga
aprì
lentamente gli occhi, inspirando piano e a lungo. Il suo viso era
accarezzato dai riccioli spettinati di Cora. La teneva ancora fra le
braccia, stretta a sé, mano nella mano e le dita intrecciate
fra
loro. Si mosse un poco, il corpo intorpidito dalla posizione scomoda e
tenuta troppo a lungo. Sentì un debole mugolio e sorrise
instintivamente. Il plaid li copriva solo dalla vita in giù,
ma
sentiva il calore del corpo della ragazza sulla sua pelle: la schiena
di lei appoggiata al suo petto, quelle braccia snelle unite alle sue e
le loro gambe intrecciate le une alle altre. Le diede qualche morbido
bacio sul collo e sulla spalla. Lei mugulò di nuovo, forse
per
il solletico, muovendo un poco la spalla e facendolo sorridere ancora
una volta.
«Che
dolce
risveglio», mormorò Cora, quasi non volesse farsi
sentire.
Sentiva l’abbraccio di Saga farsi più avvolgente.
«Buongiorno», lo salutò, cercando di
girarsi piano.
Desiderava che la prima cosa che i suoi occhi vedessero, una volta
aperti, fosse il viso del suo amante.
«Rimani
così.
Rimani ancora un po’ in questa posizione», le
sussurrò all’orecchio Saga, spostando un poco la
testa e
dandole un altro bacio sulla spalla. «Voglio assaporare
questo
momento ancora un po’», le disse, facendo un
respiro
profondo e chiudendo gli occhi.
«Buongiorno,
mio
splendido dormiglione», lo salutò lei, con voce
dolce e
allo stesso tempo divertita, vedendo che finalmente Saga si stava
svegliando. Era la seconda volta in quella mattinata.
Gli
diede un bacio sulle
labbra, ridestandolo completamente. Poi gli passò la tazza
di
caffè fumante sotto al naso.
Seppur
con gli occhi che
faticavano ad aprirsi del tutto, Saga sorrise. Si appoggiò
con
il gomito al cuscino del divano e bevve un sorso di caffè,
ma
arricciò le labbra non appena assaggiato.
«È
quello
solubile», confessò Cora, con un velo di imbarazzo
nella
voce. «Credo di aver esagerato un po’, scusa. Ho
visto che
in cucina c’è una macchina per il
caffè, ma non
penso che funzioni. O forse sono io che non la so usare.»
«Che
ore sono?» chiese lui, sfregandosi gli occhi col dorso della
mano.
«Sono
un quarto alle
undici», rispose lei, appoggiando la tazza sul tavolino
lì
vicino. Prese il cellulare dalla tasca dei jeans e
ricontrollò,
giusto per essere sicura. «Dai, prima una bella doccia e poi
a
fare colazione!» esclamò allegra. «O
pranzo, se
preferisci aspettare un paio di ore e se ti accontenti di questo
terribile caffè, per il momento.»
Cora
si alzò, ma
venne trattenuta dalla mano del ragazzo che la fece sedere di nuovo, la
strinse a sé e la baciò.
«Sei
piena di entusiasmo, questa mattina. Mi piace.»
«Sì,
mi sento
piena di energie ed entusiasmo! Ma non ti ci abituare. Di solito la
mattina sono una moribonda. Soprattutto quando dormo poco. E tu, amore
mio», gli disse, con lieve rossore sulle gote, prendendogli
il
viso fra le mani, «mi hai fatto dormire davvero poco questa
notte.»
«Profumi
di
buono…» mormorò il giovane, odorandole
il polso con
un respiro profondo; le sue narici si riempirono di una delicata
essenza di muschio bianco.
«Ho
dimenticato di
portare il mio docciaschiuma. Avrei dovuto chiederti il permesso prima
di prendere il tuo, scusami.»
Saga
scrollò la
testa, guardandola dolcemente e sorridendo come faceva sempre: gioviale
e sereno. «Ripetilo. Dillo di nuovo, per favore»,
la
supplicò con voce emozionata.
Cora
rifletté per
qualche secondo, mordendosi il labbro. Si sentì arrossire.
«Amore mio», sussurrò.
«Mi
piace come lo dici.» Saga sospirò, indugiando
qualche momento ancora, occhi negli occhi con lei.
Si
alzò, senza
preoccuparsi di farsi vedere completamente nudo e si
stiracchiò
la schiena. Poi, come nulla fosse, si diresse verso il bagno.
«È
da molto che sei sveglia?» le chiese, aprendo l'acqua della
doccia.
«Da
quando mi hai
svegliato tu», rispose Cora, seguendolo a qualche passo di
distanza. «Ma non ti preoccupare, ne ho approfittato per fare
alcune cosette, come cercare di fare amicizia con quella palletta di
pelo e ripulire dove ha sporcato e soprattutto…»
fece una
pausa, «sono uscita per andare a quel famoso minimarket. Ti
avevo
detto che sarebbe stato meglio prima mettere via la spesa. Alcune cose
si sono rovinate, stando fuori durante la notte: il burro è
diventato una pappetta informe e il latte, beh sinceramente non mi fido
più a berlo così.»
Cora
si fermò
appena fuori dalla porta del bagno, che socchiuse per pudore; anche se,
arrivata a quel punto, non c’era più nulla che non
avesse
visto, scrutato, studiato e memorizzato del corpo del ragazzo. Si
appoggiò allo stipite ma si sporse ugualmente a curiosare
ancora
un poco.
«Sai
che è
successa una cosa alquanto inquietante la notte scorsa?» gli
disse, tanto per fare due chiacchiere, mentre sbirciava
l’altro
che entrava sotto la doccia. «Ho sentito che ne parlavano le
due
commesse del minimarket. Pare che ci sia stato un incidente a pochi
metri dal negozio. Prima di tornare ho dato un’occhiata.
C’era ancora del sangue sull’asfalto!
Però sembra
che anche se spaventoso, non sia stato un incidente mortale. Se ho
capito bene, è successo più o meno quando sei
uscito ieri
sera. Tu hai visto niente? Sai qualcosa di più?»
Continuò
a
guardare, con occhi curiosi e birichini, il ragazzo che, dietro il
vetro opaco del box doccia, si insaponava con molta attenzione. Poi
sentì nuovamente l’acqua e in breve tempo un
sottile velo
di vapore appannò ancora di più il vetro
rendendole la
visuale più difficoltosa. Solo quando Saga uscì,
lei
poté bearsi nuovamente di quella visione, mentre lui si
asciugava con scrupolo. Preferì però accostare
completamente la porta, per lasciargli un po' di privacy.
Saga
si sorprese
piacevolmente di trovare i suoi vestiti, anche se erano quelli del
giorno prima, ben piegati e in ordine, sopra il mobiletto. Si
soffermò allo specchio, con l’asciugamano avvolto
alla
vita e passò la mano sulla superficie di vetro, togliendo la
patina di condensa. I capelli umidi erano pettinati all'indietro e
lasciavano scoperta la piccola cicatrice sulla tempia destra. La
sfiorò con le dita: era arrossata. Poi, prese lo spazzolino
e il
dentrificio e iniziò a lavarsi i denti.
«Saga?»
chiamò Cora, non sentendo più alcun rumore.
Lui
uscì qualche
secondo dopo, ancora scalzo e con indosso un paio di vecchi jeans
scoloriti e strappati che aveva preso dal ripiano dell'armadio bianco
del bagno.
«Davvero
è
successa una cosa del genere? Che strano, non ho visto nulla. Forse
è capitato quando ero già sulla via del ritorno.
Meglio
così, certe cose mi impressionano», rispose
candidamente,
entrando in cucina e guardandosi in giro per cercare qualcosa da
mangiare. Si bloccò di colpo, fissando una confezione di
preservativi posata sul tavolo che probabilmente aveva comprato la
notte precedente. Si grattò la testa, abbassando lo sguardo,
imbarazzato: era ancora incellofanata.
«Ti
ho comprato
questi», lo riscosse Cora, facendogli comparire davanti agli
occhi una confezione di biscotti alle mandorle, abbracciandolo da
dietro, sentendo sulla sua guancia la schiena umida e profumata del
ragazzo. «L’altra volta, quando te li stavi
divorando tutti
sul mio divano, mi era sembrato che ti fossero piaciuti,
vero?»
«Io…»
provò a dire qualcosa Saga, riuscendo solo a fare un sospiro
maldestro. Il suo sguardo era tornato a quei preservativi.
La
giovane capì.
«Non so dove li tieni di solito», si
giustificò.
«Grazie per averci pensato, anche se non li abbiamo
usati.»
*****
«Non
era necessario che mi accompagnassi, ma ne sono molto felice.»
Quel
pomeriggio tirava un
vento teso e pungente fra le strade di Boston. Saga aveva insistito per
accompagnarla, visto che non era riuscito a convincerla a rimanere a
casa con lui. Avevano passeggiato, mano nella mano, dalla fermata
dell'autobus fino all'entrata dell’agenzia. Lui le aveva
spiegato
che doveva prendere un autobus diverso e che la fermata era un po'
più lontana rispetto a prima, ma il tragitto era comunque
più corto.
«Se
prendi la metropolitana ci metti ancora meno», le disse.
Cora
scrollò la
testa, respirando a fondo prima di rispondergli. «Non vado
molto
d’accordo con la metropolitana.»
«Claustrofobia
o qualcosa di simile?»
«Una
brutta
esperienza. E ora non mi sento più a mio agio a
frequentarla.» Non aveva voglia di svelargli la
verità e
raccontargli quanto le fosse successo in passato. Almeno, non a quel
punto della loro – appena iniziata – relazione.
«L’autobus va benissimo e poi, non sottovalutare il
valore
di due fermate in meno, così come fare qualche passo in
più. È bello passeggiare», gli sorrise,
stringendosi al suo braccio.
«Più
tardi
vengo a riprenderti, così torniamo a casa
assieme», le
disse Saga, con un sorriso solare sulle labbra e una dolcezza negli
occhi che pareva un sogno.
Cora
arrossì.
Provava le stesse emozioni di una scolaretta alla sua prima cotta.
Scrollò brevemente la testa, concentrando il suo sguardo
sulle
loro mani. «Non fa niente, penso che andrò nel mio
appartamento», si interruppe per un attimo, mordendosi il
labbro
tremante, «per iniziare a raccogliere le mie cose»,
concluse, facendosi coraggio.
Saga
le strinse un poco la mano. «Lascia fare a me. Ti
fidi?»
Cora
annuì.
«Ma
preferiresti farlo tu, vero?»
Ancora
una volta, la ragazza rispose in modo affermativo. Saga però
avvertì qualcosa di strano: sembrava elusiva.
«Hai
forse cambiato idea?» le domandò, quasi con tono
deluso.
Per
l’ennesima volta, in quei pochi minuti, Cora
scrollò la testa.
«Mi
rendo conto che
è una cosa assolutamente incredibile, pazzesca, che capita
solo
nelle favole o nei film. So che posso sembrare una scriteriata
a…» iniziò a balbettare,
«ma… io mi
fido di te. E non parlo solo del fatto che continui a risolvere i miei
problemi: sento che posso affidarmi a te per tutto. Quindi, no, non ho
cambiato idea. Sono felice di poter stare da te… con
te.»
Il
sorriso di Saga divenne
ancora più bello. Sprizzava gioia da tutti i pori per le
parole
appena udite. Se avesse potuto, avrebbe urlato al mondo quanto l'amava.
«Va bene, allora organizzerò il trasloco per
domani», si limitò invece a dire.
«Di
domenica?» chiese lei, sorpresa.
Subito
dopo, Cora
osservò il ragazzo impensierirsi all'improvviso, prendere
dalla
tasca dei jeans malconci il portafoglio e guardare al suo interno,
rimuginando.
«Qualcuno
una volta
mi diede questi per comprarmi un sandwich», disse lui,
prendendo
da una delle taschiene laterali una banconota da cinque dollari tutta
spiegazzata. «Dici che questa persona si offenderebbe se ora
li
usassi per pagare l’extra per il trasloco?» le
domandò con tono serio.
Entrambi
i ragazzi
rimasero a fissare quella banconota per un minuto intero. Poi, Cora
proruppe in una risata spontanea, la prima che Saga avesse mai sentito
da lei. Ed era stata così forte che, una volta calmatasi, la
giovane aveva le lacrime agli occhi.
«Quel
giorno…» sospirò lei, «ci fu
un momento nel
quale mi pentii di essermi intromessa», disse, abbassando la
voce
quasi in un sussurro.
«Io
ne sono stato felice», rispose Saga.
Le
accarezzò la
guancia e la salutò con un bacio, stringendola in un lungo
abbraccio, attendendo poi che entrasse nella palazzina.
*****
Il semaforo
era diventato
verde da pochi istanti. In quel momento, il poco traffico che a
quell’ora circolava nella zona era rimasto bloccato da una
vettura ancora ferma al suo posto e il suo conducente non sembrava
intenzionato a ripartire. Solo dopo i numerosi colpi di clacson, la
macchina sportiva lasciò via libera agli altri automobilisti
incolonnati, svoltando pigramente a sinistra e imboccando la strada
laterale, parcheggiando poco dopo, a circa trenta metri
dall’incrocio.
L’uomo
si
piegò sul volante, osservando con molta attenzione, dietro
le
lenti scure degli occhiali da sole, due giovani che si erano
incamminati per quella stessa via. Era stato un caso fortuito che,
mentre era in attesa del verde, qualcosa lo avesse portato a girare lo
sguardo verso quei ragazzi che stavano procendendo sul marciapiede,
venendo dalla direzione opposta alla sua e che, all’incrocio,
avevano girato alla loro destra. Sembravano una normale coppietta, poi
la sua attenzione si fece più acuta, man mano che li
osservava
avvicinarsi: si tenevano per mano, parlavano e ridevano, si
abbracciavano stretti.
Anche
l’uomo aveva sorriso, nel momento in cui aveva deciso di
seguirli.
Da
dove aveva parcheggiato
poteva vederli bene: erano fermi e parlavano, ridevano, si baciavano e
poi... alla fine si erano separati: la ragazza era entrata, mentre il
giovane, dopo qualche secondo, aveva ripreso a camminare. Anche lui si
decise a muoversi. Si immise di nuovo sulla carreggiata e, lentamente,
quasi a passo d’uomo, percorse la via, fermandosi per un
momento
di fronte a un portone, nello stesso punto in cui i due giovani si
erano separati. Lasciò il motore acceso, si tolse gli
occhiali
da sole e si sporse verso il finestrino del lato passeggero per leggere
meglio le targhe attaccate sul muro della palazzina.
Senza
far trasparire
alcuna emozione inforcò gli occhiali e ripartì,
decidendo
di seguire per un po’ il ragazzo.
Note
del capitolo:
Negli altri
capitoli, per
la forma di cortesia ho usato sempre il "lei". In questo capitolo
invece, ho preferito usare anche il "voi", per differenziare i due modi
di porsi fra stranieri e fra persone della stessa
nazionalità.
Nella prima
scena ho usato l'onorifico più rispettoso -sama
-
invece del più comune -san - accostato al nome di Saori, in
quanto Tatsumi, maggiordomo e guardia del corpo, è un
giapponese
che si rivolge ad un altro personaggio di origine giapponese, Saori
appunto, di rango superiore. Il -sama in questo caso attribuisce un
grado maggiore di rispetto ed evidenzia la differenza di ceto sociale
fra i due personaggi. Mentre riferendosi a Shion, qui di origine
americana, quindi occidentale, l'uso del "Mr." è
più
appropriato anche se un giapponese potrebbe tranquillamente usare il
-san accostato ad un nome straniero. In questo caso ho voluto
evidenziare anche la differenza culturale. Si sa che i giapponesi,
almeno le vecchie generazioni, sono molto rigidi e conservatori
riguardo la loro origine e adottano comportamenti discriminatori
(Può sembrare una cosa spiacevole da dire, ma è
un'esperienza diretta, nonché una cosa storicamente
accertata),
sia fra di loro, sia soprattutto con gli stranieri. Naturalmente non
tutti i giapponesi sono uguali e si comportano in quel modo, non si fa
di tutta l'erba un fascio, diciamo che hanno idee piuttosto
conservatrici e nazionalistiche.
Omiai:
o più semplicemente "miai",
è il termine con il quale si indica
l'usanza tradizionale nel combinare dei colloqui a scopo matrimoniale.
I fan di vecchia generezione ricorderanno senz'altro il manga e l'anime
di Maison Ikkoku (Cara dolce Kyoko, nella versione italiana), dove
appunto veniva rappresentata questa usanza. Ma anche in Glass no
Kamen, più o meno dagli ultimi 10 volumi in poi, si
riscontra il
matrimonio combinato. E ci sono sicuramente tanti e tanti altri esempi
nell'ampio panorama dei manga giapponesi.
Yomeiri:
è il termine con il quale si indica che la donna entra nella
famiglia del marito. È
una usanza tradizionale giapponese che affonda le sue radici molto in
là nel tempo (circa il XIV o XV sec.), ma che ancora oggi,
anche
se in maniera forse meno rigida, talvolta viene rispolverata, nella
quale la futura moglie andava a vivere nella casa della famiglia del
marito, per imparare ad essere una buona moglie. Veniva letteralmente
addestrata a tale compito, fino al giorno del matrimonio. Questo tipo
di usanza la si può trovare nello strepitoso manga di Waki
Yamato, "Haikarasan ga toru", conosciuto in Italia anche col titolo
"Mademoiselle Anne" per quanto riguarda l'anime e "Una ragazza alla
moda" per la versione manga.
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Capitolo 16 *** Capitolo XV ***
Abbandoniamo per un momento le atmosfere del giallo e dedichiamoci in
questo capitolo a fare un ulteriore passo per sviluppare un po' il
rapporto padre/figlio, (mannaggia ad Aiolos che si sta prendendo
più spazio del dovuto!) ma anche padre/figlia, anche se un
po'
atipico. Questo tipo di rapporto è di per sé
particolare:
è un qualcosa che anche nella vita reale può
andare ben
al di là del sangue o di un nome in comune ed essere
ugualmente
inscindibile e sacro. Perché è l'amore che conta
veramente!
Inoltre, ho preferito dare spazio ad una specie di slice of life (se
così si può definire, perché per me
è
proprio un'incognita questa nota) della coppia protagonista. Se dovesse
piacermi, chissà che non ci scappi qualcos'altro. In attesa
di
entrare nella parte più movimentata e cupa della storia, ma
cercando di essere graduale ed essendo già in periodo di
vacanze... che altro dire...
... Buona lettura!
XV
Era passata quasi un'ora da quando Aiolos aveva parcheggiato sul lato
opposto della strada, di fronte alla caserma dei vigili del fuoco,
attendendo di veder uscire il padre. Non sapeva quando sarebbe
successo, forse il suo turno era già finito, forse quello
era il
suo giorno libero. Doveva ammettere che non conosceva praticamente
nulla di quell'uomo: non aveva mai voluto interessarsene. Ora invece,
pochi giorni dopo esserci stato con Aiolia, era di nuovo lì,
ma
di certo non con l'intenzione di ricucire il rapporto.
Alzò per un momento lo sguardo verso la caserma: a parte un
paio
di persone che chiacchieravano e fumavano, non c'erano movimenti.
Tornò a studiare alcuni fogli che aveva stampato quel
pomeriggio. Era un vero e proprio piccolo dossier, messo insieme
raccogliendo articoli di vecchi giornali visionati in biblioteca e
notizie varie trovate in rete. Corrugò la fronte nel girare
il
foglio, posandolo sulla cartelletta che teneva aperta sul sedile del
passeggero, senza però staccare gli occhi dai restanti.
«Non è la stessa con la quale sei venuto
l’altro
giorno. Questo modello sportivo è molto bello. È
italiana, vero? Il colore rosso fiammante ti si addice, però
se
volevi passare inosservato hai sbagliato i tuoi calcoli.»
Aiolos girò di scatto la testa e si ritrovò il
padre
appoggiato allo sportello, che lo guardava con un grande sorriso sul
viso arrossato e stanco. Sulla pelle portava ben visibili i segni di
lievi ustioni. Dal notiziario della notte aveva appreso del grosso
incendio scoppiato in una fabbrica abbandonata nella zona portuale che
aveva poi coinvolto anche alcuni magazzini adiacenti. Evidentemente
anche il padre – assieme alla sua squadra – aveva
preso
parte alle operazioni di pronto intervento.
«Gli Hayes hanno un discreto parco macchine fra cui
scegliere», rispose, simulando scarso interesse verso l'altro.
«Già, immagino. Non c’è
confronto con la mia
umile monovolume di produzione nazionale che sto pagando a
rate»,
sospirò Thomas. «Comunque, non è in
questo modo che
ferirai il mio orgoglio di uomo», aggiunse in tono asciutto.
«Allora, cosa ti porta da queste parti, lavoro o
piacere?»
«Credo che sia stato un errore venire qui.»
Aiolos ripose i fogli nella cartelletta e allungò la mano
verso
la chiave di accensione, ma fu anticipato da Thomas che, sporgendosi
verso l’interno, gliela rubò praticamente da sotto
il
naso. Poi, indurendo lo sguardo, l'uomo aprì la portiera.
«Scendi da quest'auto, recluta, e dimmi il motivo per il
quale sei qui!» ordinò con piglio militare.
Aiolos fu costretto ad assecondare il padre, ma se ne pentì
subito, poiché l'altro, ritrovando il suo buonumore, gli
mise un
braccio sulle spalle stringendolo a sé e trattandolo come un
compagno di bevute. Non contento, se lo trascinò dentro la
caserma e fin nello spogliatoio.
Nel suo completo impeccabile, la cravatta annodata stretta e il
cappotto scuro, che slanciava la sua figura atletica, Aiolos si sentiva
fuori posto in quell'ambiente caotico e che puzzava di sudore e di
bruciato, sottolineando quel sentimento con una più che
evidente
smorfia di disgusto. Non vedeva l'ora di uscire di lì.
«Come sono i vostri rapporti con la polizia?» gli
chiese, mentre l'altro terminava di cambiarsi.
«Come mai questo interesse?» ribatté il
padre,
ficcando malamente nella sacca la tuta e la maglietta sporche,
chiudendo poi l'armadietto. Vide l'espressione cupa sul viso del figlio
e sospirò. «Non aspettarti il solito
cliché che
viene rappresentato al cinema e in tv», gli disse, con voce
ferma
e sicura. «Comunque, a parte una sana rivalità fra
le
squadre di basket e di baseball, dei vari distretti, nelle partite di
beneficenza, direi che i rapporti sono nella norma. Naturalmente ci
sono simpatie e antipatie personali, ma questo è un discorso
a
parte. La cosa sicura è che non c’è
l’odio
viscerale come fra i Marines e la Marina Militare, oppure
l’Esercito. Questa è una convivenza più
civile.
Noi, come loro, serviamo la città e la
comunità»,
terminò, tirando bene i lacci degli scarponi e buttandosi la
sacca in spalla, com'era abituato a fare quando era nei Marines.
«Per caso vuoi arruolarti nella polizia e stai chiedendo la
mia
benedizione?»
«E rinunciare al mio stile di vita? No, grazie!»
Come poteva essere altrimenti, vista dall’ottica del ragazzo?
Lui
vestiva con abiti firmati, guidava macchine costose, aveva un lavoro di
responsabilità e poteva arrivare a guadagnare anche cifre a
sei
zeri. L’uomo che invece aveva di fronte a sé, in
un anno a
malapena guadagnava quello che lui prendeva in un mese; e non poteva
nemmeno permettersi di pagare la retta universitaria di Aiolia.
«No, non mi interessa», confermò
piuttosto sdegnato.
«Mi stavo chiedendo se per caso in passato avessi conosciuto
un
poliziotto di nome Miller. Credo che più o meno avesse la
tua
età.»
«Miller hai detto? Come nome è abbastanza comune.
Di quale distretto fa parte?» domandò Thomas.
«“Era” un poliziotto»,
rimarcò Aiolos.
«È morto da molti anni, ormai. Ho cercato
informazioni
nell’archivio online dei giornali di Boston ma ho trovato
solamente che era del distretto 15 e poche righe sulla sua
morte.»
«Mmmh, da quando mi sono congedato dai Marines e sono entrato
nel
corpo dei vigili del fuoco, sono stato di stanza in tre caserme
differenti, prima di fermarmi qui in modo definitivo. Non escludo che
potrebbe anche essermi capitato di incrociare la strada di questo
tizio, ma non ne sono sicuro. Però…»
Thomas si
portò una mano al mento, grattandosi la barba incolta,
riflettendo per qualche altro secondo. «Forse conosco una
persona
che fa al caso tuo! Il vecchio Al è nei vigili del fuoco di
Boston da una vita. È una vera istituzione per tutti noi.
Vieni!» disse, dandogli una pacca sulla spalla e
trascinandolo di
nuovo con sé. «Te lo faccio conoscere. Bada
però
che è un tipo un po' particolare.»
Thomas lo condusse su per delle scale fino al piano superiore, e poi in
uno stanzone che, spiegò al figlio, fungeva da mensa. La
cucina
era stata ricavata in una larga rientranza e chiusa con pareti di
cartongesso che la celavano alla vista, ma non potevano trattenere i
rumori e le voci – le lamentele molto colorite – di
chi vi
stava lavorando dietro.
«Ehi, Al, hai un minuto per me?» urlò
l’uomo.
In risposta ricevette una serie di improperi che si erano sentiti
ancora più nitidamente di prima.
«Che diavolo ci fai ancora qui? Ero convinto che non vedessi
l’ora di tornartene a casa, visto che il tuo doppio turno
è terminato da un pezzo!» sbuffò il
vecchio,
uscendo dalla porta a soffietto e avvicinandosi lentamente ai due.
«È vero, ma il rapporto dell’intervento
di ieri
notte mi ha preso un po’ più tempo di quanto
pensassi. Lo
sai che sono una frana con i documenti ufficiali», rispose
l’altro, con tono gioviale.
«Tieni! Se proprio ti va di rimanere, vieni a darmi una mano
di
là», disse il vecchio, gettandogli addosso lo
strofinaccio
che aveva portato con sé. «E quello chi
è, una
nuova recluta? Spero sia migliore delle ultime due che mi hai
assegnato! Le ho mandate a fare una semplice commissione e non sono
ancora tornate!»
«Starei volentieri a darti una mano, ma poi chi la sente mia
moglie?» rispose Thomas, scrollando la testa e sorridendo.
«Al, vorrei presentarti una persona. Questo è mio
figlio
Aiolos, il mio primogenito!»
Agli occhi di Aiolos, quel vecchio sembrava così fragile e
malandato che si chiese perché fosse ancora impiegato
lì
e quale utilità potesse ancora avere per i vigili del fuoco.
Lo
aveva visto zoppicare, appoggiato alla stampella, quando si era
avvicinato a loro. Si era aspettato che crollasse a terra da un momento
all’altro; invece, quando gli strinse la mano,
sentì una
stretta vigorosa tanto quanto quella del padre.
«Aiolos, lui è Alfred: il più anziano
vigile del
fuoco ancora in attività di tutto lo Stato. È una
vera
leggenda! Conosce tutto e tutti a Boston. Sono sicuro che grazie a lui
troverai quello che cerchi.»
Nell’atteggiamento del figlio, Thomas vide con dispiacere
l’intenzione di quest’ultimo di non voler
partecipare alla
conversazione e, dopo qualche secondo di silenzio teso, prese
nuovamente l’iniziativa.
«Siamo alla ricerca di alcune informazioni su un
certo…» fece una pausa per guardare il figlio,
cercando un
qualche tipo di conferma. «Miller, mi pare che si chiami:
è un poliziotto. Nella tua vita hai conosciuto parecchi
poliziotti, che ci sai dire?»
«Miller, eh?» ripeté il vecchio,
grattandosi il
mento con la mano rugosa e piena di calli. «E che volete
sapere?»
Camminava con molta fatica, incespicando quasi nei suoi passi,
soprattutto quando partiva da fermo, caricando tutto il peso del corpo
sulla stampella che reggeva con il braccio sinistro. Sullo stesso lato,
la gamba del pantalone, sgualcito e sporco, mostrava delle pieghe
anomale: a ogni passo si vedevano dei vuoti sospetti.
«Sì, ragazzo, questa è una gamba
finta!»
esclamò Al, senza alcuna vergogna, notando come lo sguardo
di
Aiolos si fosse soffermato in modo tanto insistito sul suo arto
inferiore. «Me la sono guadagnata quando ancora questo
pivello
non sapeva gattonare», disse, indicando con un ampio gesto
della
mano colui che ora invece portava i gradi di tenente e che subito
alzò al cielo gli occhi, tirando un profondo e sconsolato
sospiro.
L’attenzione di Aiolos era però sempre concentrata
su
quell’unico punto. Il suo sguardo curioso si alternava a
fastidio, sottolineato anche da piccole espressioni che il suo viso
tradiva nell’osservare quel vecchio che, sedutosi su una
delle
sedie lì vicino, non si curava affatto che una parte della
protesi si intravvedesse da sotto il pantalone.
«Allora, mi chiedevate di Miller, vero? Perché
questo interesse?»
«Per una questione di lavoro», rispose Aiolos, con
modi
secchi. Faticava a mantenere gli occhi sul volto dell’uomo,
troppo calamitati sempre su quel punto particolare, che lo disgustava
e, al tempo stesso, lo attirava.
«Vuoi sapere come l’ho persa?» lo
provocò Al,
con un mezzo ghigno che accentuava le profonde rughe sul suo volto.
Poi, tornò all'argomento principale. «E a cosa
può
servirti conoscere la storia di un morto? Queste sono cose che di
solito interessano ai poliziotti e tu non mi pare lo sia, altrimenti
avresti tutte le informazioni che ti servirebbero, oppure ai
giornalisti. Ragazzo, sei per caso un giornalista ficcanaso?»
Il vecchio si mosse impacciato sulla sedia, piegandosi lievemente di
lato per riuscire a prendere le sigarette dalla tasca dei pantaloni. Si
portò alla bocca l’ultima del pacchetto, tenendola
stretta
fra le labbra.
«Al, non dovresti fumare», lo redarguì
Thomas.
«Lo so!» rispose seccamente Al, facendo seguire
qualche
colpo di tosse. «Ma nessun medico potrà impedirmi
di
sentirne almeno l’odore!»
Il vecchio rimase per qualche momento in silenzio, a pensare, chiudendo
gli occhi e muovendo la testa come un pendolo.
«Miller…» Aprì di nuovo gli
occhi e
concentrò lo sguardo sul ragazzo, scrutandolo attentamente.
«Non c’è niente di interessante da
sapere sul conto
di Miller: era un poliziotto duro, uno di quelli della vecchia scuola,
una carogna nel vero senso della parola. Per lui il lavoro veniva prima
di tutto», iniziò a raccontare, intanto che anche
gli
altri due si mettevano a sedere. «Detestava i vigili del
fuoco,
non ci poteva proprio vedere e il sentimento, puoi starne certo, era
più che reciproco! Ma ormai è morto da almeno una
decina
di anni e i rancori sono stati seppelliti con lui.»
Al fece una pausa, grattandosi il mento, sbuffando e provando a
richiamare i suoi ricordi. Poi riprese a raccontare. «Quel
vecchio era un vero stronzo… però era anche un
povero
diavolo. Per molti anni siamo stati acerrimi avversari a poker, ma in
un certo senso eravamo anche amici.»
«Credo ci sia stato un fraintendimento, non è lui
la
persona che mi interessa», intervenne Aiolos, con tono
spazientito, balzando in piedi pronto a girare i tacchi per andarsene.
«Siediti, ragazzo!» lo richiamò in tono
burbero Al,
brandendo la stampella e dando un colpo secco alla sedia sulla quale,
pochi attimi prima, era seduto Aiolos. «Siediti e ascolta il
mio
racconto.»
Il giovane si sentì scrutato così nel profondo,
da quegli
occhi tanto penetranti, che per un attimo avvertì le gambe
diventare molli. Contrasse la mascella in modo nervoso. Nessuno lo
aveva mai trattato in quel modo. Quel vecchio gli faceva uno strano
effetto; nonostante l’aspetto malandato, aveva un carattere
eccezionalmente forte, forgiato da una vita fatta di sacrifici, durante
la quale doveva aver visto di tutto. Neppure il grande ritratto
dell’arcigno e austero mr Hayes, nella biblioteca della villa
a
Mystic Lake, gli aveva mai fatto provare le sensazioni che stava
provando in quel momento. Gli occhi scuri e profondi di quel vecchio di
colore, lo facevano addirittura tremare. Tornò a sedere al
suo
posto, mordendosi il labbro e ingoiando l'umiliazione.
«Voi giovani d’oggi siete troppo impazienti. Se non
ottenete le cose tutto e subito, mandate in malora il mondo, vero? Non
ti farebbe male imparare l’arte della pazienza e soprattutto
un
po’ di rispetto per gli anziani», lo
rimproverò Al,
puntandogli il dito contro.
Poi, un improvviso colpo di tosse gli fece cadere la sigaretta di
bocca, facendola finire per terra, accanto al suo piede sano. Con un
gesto di stizza la schiacciò.
«Il sergente Miller era una brava persona. Dannatamente
orgoglioso della sua famiglia e soprattutto del figlio Gregory. Dei
suoi figli, lui era il più giovane ed era l’unico
che
aveva seguito le sue orme in polizia. Ogni volta che ci incontravamo
per i nostri pomeriggi di schermaglie, non smetteva mai di parlarne,
elogiando con grande trasporto i suoi pregi e i suoi successi, ma non
si risparmiava neanche in critiche, per i suoi difetti. Diceva sempre
che lo avrebbe voluto più sul campo invece che a fare lo
scribacchino dietro una scrivania. Però… ci fu un
periodo
in cui furono ai ferri corti.»
Nel dire quelle parole, Al aggrottò la fronte, prendendo
un’aria pensosa. Subito dopo però, proruppe in una
fragorosa risata, battendo la mano sulla coscia dell’arto
menomato, sotto gli occhi divertiti di Thomas e quelli invece
più nervosi e impazienti di Aiolos.
«Sì, quel giorno fu memorabile! Lo ricordo ancora
come
fosse ieri: era una domenica pomeriggio piuttosto fredda e grigia.
Quella fu l’unica occasione in cui riuscii a ripulirlo a
poker; e
non mi ci vollero neppure due ore! Si era presentato talmente
incollerito che aveva fatto scappare tutti nel raggio di venti metri da
noi. Continuava a sbagliare ogni mano, una dopo l’altra! E
dopo
l’ultima che aveva perso, con un gesto di stizza aveva
buttato
all’aria le carte! Solo dopo la terza bottiglia di birra
iniziò a sputare il rospo. Il motivo di tanta rabbia era che
il
figlio, senza dire nulla alla famiglia, si era sposato. Di punto in
bianco. Poi, un giorno, si sono presentati entrambi, marito e moglie,
alla porta di casa; ma a cose già fatte. Però,
quello che
più gli dette fastidio, era che lei non era americana, o
almeno
non del tutto. Era naturalizzata, quindi legalmente americana, ma per
il vecchio era la stessa cosa: era solo una straniera. Diceva sempre:
“Se non sei nato in America, da genitori americani di almeno
cinque generazioni, allora non sei un vero
americano!”»
Alfred fece di nuovo una piccola pausa, tossendo a più non
posso: colpa della troppa enfasi con la quale stava raccontando. Si
rivolse a Thomas chiedendogli dell’acqua e l’uomo,
senza
pensarci un solo istante, scattò in cucina, tornando pochi
secondi dopo con un bicchiere colmo fino all'orlo.
«Devo ammettere che quel vecchio orso per certe cose era un
vero
razzista. Col tempo se ne fece una ragione, solo per il bene di suo
figlio naturalmente, perché lo amava; e con
l’arrivo della
nipotina si era anche addolcito, nonostante la contenuta delusione di
sapere che fosse una femmina. Ma un nipote è sempre una
gioia e
quella bambina era un vero angelo. La morte di Greg però
cambiò tutto: il clan dei Miller andò in pezzi e
lui, il
mio vecchio amico, si chiuse in se stesso. Negli ultimi anni perse
completamente la voglia di vivere, preferendo lasciarsi consumare dal
rancore. Accusava la nuora di aver messo in testa strane idee al
figlio, di averlo trasformato in un ambizioso perché sognava
l’FBI. Apriti cielo! Polizia e federali sono come
l’acqua e
l’olio. Miller li considerava peggio di noi vigili del fuoco.
Di
certo, se Greg fosse riuscito a diventare un federale, non gli avrebbe
più rivolto la parola. Il momento peggiore fu quando
accusò la donna di averlo portato alla morte. Ma sono sicuro
che
quelle parole fossero solo figlie dell’immenso dolore per la
morte del suo figlio prediletto.»
Il vecchio sospirò. I suoi occhi divennero lucidi per la
commozione, nel ricordare quei giorni. Si passò la mano sul
volto, mentre con l’altra stringeva forte
l’impugnatura
della stampella.
«Questo è tutto, ragazzo. Ora sparite entrambi e
non
fatemi perdere altro tempo!» tuonò, recuperando il
suo
solito tono burbero.
Con un movimento pesante si alzò dalla sedia e diede loro le
spalle, incamminandosi verso la cucina, ma si fermò di
fronte
alla porta a soffietto.
«Tom, visto che sei ancora qui, vammi a cercare quei due
pivelli
sfaccendati: oggi spetterebbe a loro il turno in cucina. E che si
presentino qui entro cinque secondi! Altrimenti, caposquadra o meno
sarai tu a prendere il loro posto! E domani, a quei due lavativi
spetterà pulire le autocisterne con il loro spazzolino da
denti!»
In quel suo modo di fare si poteva avvertire tutta la saggezza e la
comprensione di un nonno che rimprovera i nipoti. Era difficile avere a
che fare con un tipo come lui, ma tutti, in quella caserma, gli
volevano bene e lo rispettavano.
«D’accordo Al, te li riporto qui di peso appena li
vedo!
Grazie per il tuo tempo», rispose Thomas, rincorrendo il
figlio
fuori dalla caserma, che non aveva atteso un minuto di più,
dopo
quel congedo poco ortodosso, a uscire da lì.
Thomas riuscì ad agguantare il figlio solamente una volta
arrivati davanti all'auto. Gli afferrò il braccio e lo
voltò a forza, rammaricato e al tempo stesso in collera per
il
comportamento che Aiolos aveva tenuto per tutto il tempo: sempre al
limite dell’ostilità.
«È stato scortese e inappropriato da parte tua
comportarti
in quel modo nei confronti di quell’uomo! Te ne sei andato
senza
nemmeno ringraziarlo per il tempo che ci ha dedicato», gli
disse
a muso duro.
«È stato scortese che tu mi abbia messo in quella
situazione. Ti diverti forse a mettermi in
difficoltà?»
gli rinfacciò Aiolos, con voce rabbiosa.
Lo fissò negli occhi per diversi secondi, ma dovette cedere,
sotto lo sguardo prepotente del padre, che stava riuscendo a
sottometterlo. Vergogna, repulsione e sgomento, si mescolavano nel suo
animo di ragazzo vissuto nella bambagia. Erano sentimenti
così
violenti che in un attimo i suoi occhi divennero lucidi. Si
girò
verso l'auto per non mostrare la propria debolezza, ma l'altro lo
comprese immediatamente.
Durante gli anni passati nei Marines prima, e nei vigili del fuoco
dopo, Thomas aveva visto e vissuto innumerevoli volte quelle stesse
emozioni che ora stava provando il figlio e poteva capirlo. Con
determinazione, lo fece girare verso di sé e lo
abbracciò
forte, accarezzandogli la testa, senza rimproverarlo ulteriormente.
«Mi dispiace che tu sia rimasto così turbato. Il
vecchio
Al a volte si diverte a mettere alla prova le persone mostrando con
noncuranza le proprie menomazioni. Mi dispiace davvero,
Aiolos.»
*****
Cora si era separata da Saga da neanche un’ora e, come la
prima
volta che si era presentata per quel lavoro, si ritrovò con
la
mente continuamente distratta dal pensiero di lui. Questa volta era un
turbamento piacevole, che la distoglieva dai suoi compiti e la faceva
imbambolare, sorridere e sospirare. Quei brutti momenti nei quali si
era disperata perché non aveva più una casa
sembravano
scomparsi come per magia, grazie a un semplice schiocco di dita del suo
principe azzurro che aveva fatto apparire davanti a lei una casa
più grande e più bella.
Tornò alla sua postazione carica di cartelle polverose. Le
buttò sulla scrivania e si lasciò cadere sulla
sedia,
abbandonandosi poi sopra di esse quasi sfinita. Fece un respiro
profondo, ma ne uscì un sospiro trasognato. Non si era mai
sentita in quel modo: con lo stomaco aggrovigliato, la testa
letteralmente fra le nuvole e piena di strani pensieri sdolcinati e
tanto fiacca da pensare seriamente di essere malata.
Si appoggiò allo schienale della sedia tutta sgangherata,
iniziando a spingere leggermente con i piedi in un lento
dondolare. Passò in quel modo una mezz’ora
abbondante,
senza riuscire a combinare nulla se non sognare a occhi aperti.
Stufa di quella giornata, che sapeva sarebbe stata inconcludente,
chiamò la segretaria di Edward Price. Senza tanti preamboli,
o
inventare scuse astruse, chiese di poter staccare presto quel giorno.
Sul momento non si stupì della facilità con la
quale
avesse ottenuto il permesso, né si domandò il
perché di tanta disponibilità, ma raccolse
rapidamente le
sue cose, con il cuore che palpitava ancora eccitato. Prima di uscire,
si soffermò con lo sguardo su una pila di fascicoli che in
quei
pochi giorni aveva selezionato con cura – man mano che le
passavano sotto mano – e si trovò indecisa se
portali via
con sé, oppure no.
Col giaccone sul braccio, la tracolla in spalla e un sorriso raggiante
sul viso, uscì di corsa dal magazzino.
Anche se l’aveva percorsa per un tempo relativamente breve,
la
strada verso il suo vecchio appartamento le era diventata
così
familiare da poter dire di conoscerla ormai bene. Percepì un
vago senso di nostalgia nel passare davanti al bar con
l’internet
point dove aveva passato dei pomeriggi sereni, nell’osservare
quel susseguirsi di case e negozi e infine nel superare il ristorante
del vecchio Dohko. Sapeva che di lì a poco sarebbe arrivata
nuovamente di fronte alla palazzina che comprendeva anche
quell’appartamento che, la prima notte del suo ritorno a
Boston,
l’aveva spaventata e fatta piangere dallo sconforto.
Saga aveva ragione. Non doveva considerare quel trasloco come una fine,
ma come un miglioramento della sua vita. Eppure, nonostante la fiducia
che sentiva di poter riporre in quel meraviglioso ragazzo che il
destino le aveva fatto incontrare, sentì dentro di
sé di
essere stata condannata a una sorta di esilio da quel piccolo mondo che
si era costruita con le proprie forze.
Rallentò il passo, man mano che si avvicinava alla sua
destinazione, riflettendo su ciò che avrebbe comportato quel
cambiamento ormai inevitabile, mentre il suo cuore invece accelerava i
battiti. Quando fu di fronte alla porta dell'appartamento, rimase a
fissarla mordendosi il labbro, nuovamente con la testa piena di dubbi.
Quando la aprì, vide che ogni cosa era rimasta come
l’aveva lasciata la notte precedente. Non poteva essere
altrimenti, però le faceva ugualmente uno strano effetto. La
casa sembrava desolata. Appoggiò il giaccone e la borsa su
uno
degli sgabelli del bancone per la colazione e chiuse gli occhi per
raccogliere i propri pensieri e stabilire a cosa dare
priorità,
condendosi un respiro profondo. Il primo passo sarebbe stato quello di
recuperare dal seminterrato i suoi scatoloni e qualche vecchio giornale
per imballare le sue cose. Avrebbe poi messo insieme i vestiti, le
scarpe e la biancheria per la casa; poi, il resto di quello che si era
portata da Philadelphia, i ricordi del padre e, per finire, avrebbe
inscatolato il computer.
E per i mobili che si era comprata? Fece vagare lo sguardo per la
stanza, le dispiaceva lasciarli, ma era certa che non le sarebbero
serviti.
Era seduta a terra a gambe incrociate, immersa fra i fogli di giornale.
Sparsi qua e là, mucchi di ninnoli e libri, messi
rigorosamente
a casaccio. Alcuni scatoloni erano riempiti a metà, altri
ancora
vuoti. Ogni oggetto che passava per le sue mani e che avvolgeva con
cura, le riportava alla mente dei ricordi: frammenti della sua
adolescenza, della sua casa, dell'appartamento che aveva condiviso con
Chris. Senza rendersene conto si erano fatte le nove di sera. Cora
alzò la testa di scatto, risvegliata da un improvviso tuono
che
aveva fatto tremare i vetri delle finestre. Solo in quel momento si
accorse che fuori era già buio pesto.
Ancora col cuore in gola per lo spavento, sentì il trillo
del
cellulare. Lo cercò dappertutto, in quel marasma che era
diventato il salotto. Quando finalmente fu nelle sue mani, aveva
già smesso di suonare. Sullo schermo erano indicate due
chiamate
perse, da due numeri diversi, e un messaggio in arrivo. Tutti erano
contrassegnati come “anonimo”, poiché
lei non aveva
mai imparato a usare correttamente la rubrica: gli unici registrati
erano quelli dei suoi familiari e di Chris, che le aveva inserito
Mickey.
Sbuffò, alzandosi in piedi; sentì la gola secca
ed
entrò in cucina per prendere qualcosa da bere. Come un
riflesso
condizionato, passando accese il computer e, una volta presa la sua
fedele mug gigante, piena di caffellatte, vi si sedette davanti. Si
ripromise di distrarsi solo per qualche minuto, giusto il tempo di
controllare le e-mail, invece... Cora ci stette per più di
un'ora davanti a quello schermo, a leggere – fra una lacrima
e un
sorriso – le e-mail che aveva ricevuto nell'ultima settimana
e a
rispondere a quelle meno complicate. Una in particolare le aveva fatto
piacere ricevere, ma al tempo stesso l'aveva rattristata, nella quale
Chris le comunicava di aver fatto domanda per un posto da insegnante in
una scuola di Fresno, in California. Gli voleva molto bene e gli
augurava tutta la fortuna del mondo per la sua vita e la sua carriera,
ma l'idea che sarebbe andato così lontano le lasciava un
vuoto
dentro.
«Non dovresti tenere aperta la porta di casa, potrebbe
entrare
qualche malintenzionato», risuonò alle sue spalle
una voce
a lei familiare, facendola sussultare e voltare indietro.
Cora sgranò gli occhi per la sorpresa. «Zio
Phil!»
esclamò, scattando in piedi quasi rovesciando la sedia per
terra. «Ma che ci fai qui? Ci sono problemi a casa? La mamma
sta
bene? E Mickey? Perché non mi hai avvertita che venivi a
Boston,
sarei venuta a prenderti!» disse, precipitandosi ad
abbracciare
il patrigno e subissandolo di domande, senza dargli il tempo di
rispondere.
«Calma, calma, bambina mia. Va tutto bene», la
rincuorò lui. «E poi, se ti avessi avvertita, che
sorpresa
sarebbe stata?»
La guardò con occhi pieni di orgoglio paterno. Non aveva mai
avuto dubbi che Cora se la sarebbe cavata a vivere da sola e, vederla
davanti a sé, in piena forma, ne era la conferma.
«Ero nei paraggi per alcune questioni di lavoro e
già che
c’ero non potevo non approfittarne per venire a vedere come
te la
stavi cavando, ti pare?» Poi, diede un’occhiata
attorno,
sorridendo sconsolato per tutto quel caos.
«Davvero? Ma guarda che tempismo! Perché mi suona
come una bugia?»
«Allora diciamo che ho avuto la sensazione che ci fosse
qualche problemino e sono venuto a controllare.»
«E sei venuto di corsa, vero?» replicò
Cora, in tono risentito.
L’ex capitano Burton non diede seguito alla discussione.
Liberò un angolino del divano e vi si sedette. Cora invece
gli
diede le spalle e tornò al computer, terminando velocemente
la
risposta all'e-mail scritta a più mani da alcune ex compagne
del
college.
«Ti posso offrire qualcosa?» chiese
all’uomo, dopo
aver spento il computer ed essere entrata in cucina. Aveva appena
aperto il frigorifero quando sentì la suoneria del suo
cellulare
indicare che era arrivato un messaggio. Lo prese in fretta e lesse il
messaggio. D'un tratto si sentì emozionata. Poi, cercando di
simulare tranquillità, tornò in cucina; il suo
comportamento però, non passò inosservato a
Phillip.
«Avresti dovuto aspettartelo che ti avrei fatta tenere
d’occhio. Lo sai che per me sei importante e il tuo benessere
mi
sta a cuore», le disse, ritornando sull’argomento,
prendendo il bicchiere d’acqua che lei gli stava offerto.
«Non c’è stato un solo momento, da
quando sei
partita, che tua madre e io non ci siamo preoccupati per te. Tu
però non hai mantenuto i patti: avevi promesso di farti
sentire
ogni giorno.»
Preferì non insistere troppo, in quella che, nelle sue
intenzioni iniziali, sarebbe dovuta essere una ramanzina coi fiocchi.
Nonostante i tanti anni passati a comandare un intero distretto di
polizia, con la giovane Caroline non era mai riuscito a essere davvero
severo, anche se le parole che le aveva rivolto avevano comunque un
lieve tono di rimprovero.
«Che quel vecchio fosse poco affidabile, lo avevo capito fin
da
subito, ma che fosse ancora un tuo informatore… accidenti,
avrei
dovuto immaginarlo!» si lamentò Cora, dandosi
della
stupida per non averci pensato prima e aver creduto di essere
finalmente libera dall’occhio vigile del patrigno.
«Piccola mia, quando uno lo fa una volta, poi non
può
più smettere di farlo», le spiegò
Phillip, con voce
pacata. «Il mestiere dell’informatore è
pericoloso,
è come camminare su una corda tirata su un precipizio e
senza
rete di salvataggio. Da un lato è vero che si è
“protetti” dalla polizia e finché si
è utili
si mantiene quello status e una certa libertà di azione;
dall’altro lato invece, si corre il rischio di esporsi
troppo, di
venire scoperti e…»
Non era necessario terminare quel ragionamento, affinché
Cora ne
comprendesse il significato. La giovane sapeva molto bene
ciò
che Phillip volesse dire.
«Dohko è un amico, è vero, ma non nel
senso
tradizionale del termine. Diciamo che è una via di mezzo. Ci
ha
fatto un grande favore dandoti un posto sicuro dove stare, con il poco
preavviso che ha avuto; e non puoi biasimarlo per aver fatto quello che
gli avevo chiesto.»
Phillip continuò a scrutare la ragazza, mentre le parlava, e
quello che notò non gli piacque affatto. Anche se
indaffarata a
smontare e ritirare il computer, vedeva come lei gettasse fin troppo
spesso un occhio al suo cellulare, neanche stesse aspettando una
telefonata importante.
«Dohko cosa ti ha detto per farti correre fin qui?»
«Non è sceso nei particolari», rispose
Phil,
facendosi d’un tratto serio. «Mi ha chiamato ieri
notte,
quasi in preda al panico. Farfugliava cose strane, mi accusava di
avergli giocato un brutto tiro. Mi ha detto anche che frequenti dei
tipi strani.»
La vide fermarsi di colpo, come colta in flagranza di reato; poco dopo
però, lei accartocciò fra le mani un giornale
intero,
quasi a sfogare il nervosismo. Phillip si accovacciò vicino
a
lei, posandole le mani sulle spalle.
«Non dovrei immischiarmi in questo modo nella tua vita.
È
solo che non posso fare a meno di preoccuparmi. Sei così
lontana
da noi. Qui non posso aiutarti né proteggerti, se tu dovessi
averne bisogno», le disse.
«Lo so, zio Phil», sussurrò lei, facendo
un respiro
profondo e accarezzandogli una mano. In quel momento il suo corpo si
rilassò. «E ti confesso che ho avuto dei momenti
difficili
in cui volevo arrendermi e tornare a casa di corsa.
Però…
non voglio dare questa soddisfazione alla mamma», disse,
girandosi verso di lui e mostrandogli un sorriso. «Sono una
sciocca, vero?»
I seguenti dieci minuti passarono molto lentamente e nel silenzio quasi
assoluto, in quell’appartamento. Cora continuò a
inscatolare le sue cose e Phillip, dal canto suo, rimase a guardarla
lavorare, aspettando solo il momento giusto perché lei gli
confessasse ciò che gli stava tenendo nascosto. Aveva troppa
esperienza per non capire certe cose.
«Sai…» disse Cora, mentre si alzava da
terra,
passando accanto al patrigno, che invece, con ancora in dosso il
cappotto, si era accomodato su uno degli sgabelli. «ho
ritrovato
una nostra, per così dire, vecchia conoscenza, qui a
Boston.»
A quelle parole, lo sguardo dell’ex poliziotto si fece
più attento.
«Ricordi quel ragazzo della metropolitana? No, ti prego, non
ti
allarmare.» Cora vide subito come l’uomo si fosse
irrigidito. Temendo una qualche reazione esagerata da parte sua, lo
trattenne aggrappandosi al suo cappotto. «Non è
proprio mr
Simpatia, ma credo sia un bravo ragazzo.»
«Meglio per lui», ribatté con rabbia
l'uomo.
«Non ci metterei molto, altrimenti, a rintracciarlo e
piantargli
una pallottola in testa.» Nel pronunciare quelle parole,
mostrò la pistola che portava nella fondina sotto al braccio.
«Oh, ma per favore!» esclamò esasperata
lei, per
quell'atteggiamento alla “Ispettore Callaghan”,
tipico del
suo patrigno. «Il fratello ancora non l’ha mandata
giù quella storia e praticamente mi odia per ciò
che
è successo.»
«Hai già trovato un’altra
sistemazione?» le domandò l'uomo, cambiando
discorso.
Cora abbassò lo sguardo, arrossendo imbarazzata a quel
pensiero.
Annuì brevemente e occupò le mani nel chiudere
uno
scatolone ormai pieno. «Ho conosciuto una persona»,
iniziò a raccontare. «Mi ha aiutata e mi
è stata
vicina», disse. La sua voce si faceva via via più
emozionata. «Mi trasferisco da lui.»
Phil scattò in piedi e l'afferrò con forza per un
braccio, facendola voltare verso di lui. «Ma che diavolo stai
combinando?» le urlò con tono quasi minaccioso.
«Sei
qui da quanto, neanche due mesi e già vai a vivere con un
uomo?
Uno sconosciuto! Tutti quegli sguardi al cellulare, il tuo essere
distratta, gli imbarazzi nascosti… era lui che ti cercava,
vero?
Ma che ti dice il buon senso?»
Poi, come riscosso da una secchiata d'acqua ghiacciata, per quegli
occhi pieni di terrore che lo stavano fissando, si bloccò e
la
lasciò andare. Si passò una mano fra i ricci
ormai
striati di grigio e fece dei respiri profondi. Si pentì
subito
della reazione che aveva avuto. Non avrebbe mai voluto trattare in quel
modo la sua Caroline. Quello sguardo spaventato era così
simile
a quello che le aveva visto quando quel pazzo di Deline,
nell’aula di tribunale, mentre lo trascinavano via a forza,
le
aveva lanciato contro le sue minacce.
«Accidenti!» esclamò ancora adirato.
«Mi
sembra di rivedere tuo padre, quando prese e si
sposò di
nascosto. Lui è stato fortunato, tua madre
è…» sospirò.
Qualunque cosa avesse detto nei riguardi di Teresa sarebbe stata
inadeguata e soprattutto, il suo giudizio era offuscato
dall’amore che provava per quella donna che era in procinto
di
sposare.
«Ma tu credi di esserlo altrettanto? Dio santo! È
un uomo!
E gli uomini sono pericolosi!» ansimò, terminando
la
sfuriata. «Sarei dovuto venire prima a vedere
com’era la
situazione», mormorò, scrollando lentamente la
testa
dandosi la colpa della situazione che si era venuta a creare.
«Come si chiama?» le chiese. La voce tradiva ancora
una
certa tensione e gli uscì più dura di quanto
avesse
voluto.
Cora si chiuse in un ostinato mutismo, divisa fra timore e
cocciutaggine.
«Non essere precipitosa nelle tue decisioni. Aspetta almeno
di
conoscerlo meglio. E se poi si dimostrerà una brava persona,
se
tu ne sarai davvero convinta, se…» Phil
provò una
strana sensazione nel farle quei discorsi da padre. Avrebbe preferito
ci fosse stata Teresa lì con lui. Forse lei avrebbe saputo
gestire meglio quella situazione. «Ho prenotato una stanza in
un
hotel vicino l’aeroporto. Dovrei prendere l’aereo
di
mezzogiorno per tornare a casa, ma se vuoi… potrei rimanere
qualche giorno. Potremmo provare a sistemare le cose assieme.»
Cora scrollò la testa, deviando lo sguardo da lui. Per
Phillip,
quello era stato il segnale inequivocabile che non doveva insistere,
almeno per quella sera. Sospirò stancamente.
«Prima che mi dimentichi, ti ho portato alcuni documenti che
ti
ha mandato la banca al tuo vecchio indirizzo. Dovresti ricordarti di
fare il cambio di residenza e comunicare il tuo nuovo indirizzo. Te li
metto qui, assieme a quest’altra posta.»
Estrasse dalla tasca interna del cappotto una corposa busta bianca e
l'appoggiò sul piano del bancone, vicino al pacchetto che
era
arrivato qualche giorno prima. Soffermò il suo sguardo
proprio
su quel pacchetto, che lui stesso le aveva spedito, provando un certo
sollievo nel constatare che la ragazza non lo aveva ancora aperto. Per
un momento provò l'impulso di riprenderselo, ma decise di
lasciare le cose come stavano.
Si passò di nuovo una mano fra i capelli, stranamente a
disagio.
«Come stai?» le chiese con tono preoccupato. Si
erano detti
tante cose da quando lui le aveva fatto quell’improvvisata,
ma
non c’era stata occasione per l’unica cosa
importante che
voleva sapere e a cui teneva.
«Sto bene», rispose Cora, alzando le spalle.
«Se dovesse servirti un aiuto», riprese Phil,
«puoi
rivolgerti al dottor Stevens. È uno degli psicologi che
collaborano con la polizia. Quando ero ancora un poliziotto, ho
lavorato diverse volte con lui, è un ottimo professionista e
una
brava persona», disse, appoggiando il biglietto da visita sul
bancone per la colazione.
Cora annuì ancora una volta, ma non diede cenno di voler
continuare la conversazione, né si girò quando
l'uomo la
salutò e uscì dall'appartamento.
Phillip alzò lo sguardo verso le finestre illuminate del
quarto
piano. Appoggiato alla portiera aperta del taxi contemplava quella
luce, ripensando a come si fosse guastato tanto rapidamente
quell'incontro con Caroline. Non poteva non provare preoccupazione per
lei e per ciò che aveva appreso. Già permetterle
di
lasciare Philadelphia era stato difficile da digerire anche per lui,
nonostante si fosse sempre mostrato più ragionevole e di
sostegno per lei rispetto a Teresa; ma ora, ad aggravare quella
preoccupazione paterna, si aggiungeva l'incognita di un uomo
misterioso. Cosa avrebbe fatto Greg se fosse stato ancora vivo? Lui le
persone le sapeva capire al primo sguardo.
E poi c’era quel pacchetto. Si stava pentendo di averglielo
spedito così presto. Teresa l’aveva scongiurato di
non
farlo, ma lui era sicuro che la figlioccia avrebbe avuto la forza per
gestire ciò che avrebbe appreso. Ora però,
Caroline
sembrava così fragile e lui non era più convinto
della
decisione presa. Se lei ne avesse visionato il contenuto, come avrebbe
reagito?
*****
Saga percorse quelle scale il più velocemente possibile,
salendo
i gradini a due a due e non staccando mai la mano dal corrimano.
Arrivò davanti all'appartamento di Cora con il cuore in gola
e
il battito impazzito, senza sapere cosa aspettarsi. Piegato sulle
ginocchia, quasi non riusciva più a respirare tanta era
stata la
fatica di quella corsa. I suoi ansimi riempivano il lugubre e stretto
corridoio del quarto piano di quella palazzina.
Quando finalmente si rimise dritto – e con la mente un poco
più presente – notò che la porta era
socchiusa. Con
circospezione, trattenendo il respiro, varcò quella soglia.
Provò a chiamare la giovane, mentre procedeva a passi lenti
all’interno dell’appartamento. Non si sentiva alcun
rumore.
La porta del bagno e quella della camera da letto erano spalancate;
fece capolino con la testa e verificò che erano state
svuotate
di ogni effetto personale. Il ripostiglio, che si trovava dirimpetto
all’ingresso, era tutto sottosopra, come fosse stato
rovistato
malamente. Entrando nel salotto trovò un caos peggiore.
Sentì una stretta allo stomaco nel vedere quella situazione;
ancor più quando, avanzando fino ad affacciarsi nella
cucina,
col piede finì su dei cocci.
Si aspettava di trovare Cora così affaccendata e concentrata
nel
riporre le sue cose negli scatoloni, tanto da non averlo sentirlo
arrivare. Invece di lei non c’era alcuna traccia e tutto
sembrava
abbandonato a se stesso. Quella strana sensazione che era gorgogliata
nel suo stomaco fin dal primo momento e che stava invadendo ora anche
la sua mente, creandogli cupi scenari da romanzi polizieschi, non
sembrava infondata. In quel momento era più che sicuro che
fosse
successo qualcosa. Era dunque per quello che lei non aveva risposto
alle sue chiamate, né ai messaggi?
Più volte si passò le mani fra i capelli,
scompigliandoli
più di quanto non avesse già fatto quella sua
corsa
sfrenata. I suoi occhi iniziarono a pizzicare e la vista si fece un
poco sfocata, mentre raccoglieva quei grossi cocci e li posava sul
bancone della colazione. Stancamente – e sfiduciato
– si
sedette su uno degli sgabelli, contemplandoli con occhi avviliti. Le
sue mani tremavano mentre cercava di ricomporli e con uno dei bordi
taglienti, nel tentativo di far combaciare due pezzi, si
ferì il
dito. Non ci mise molto a capire che quella era la tazza preferita di
Cora. Dalla tasca del cappotto prese il cellulare e provò a
chiamarla ancora. Subito sentì quello di Cora risuonare
nella
stanza, molto vicino a lui. Con le mani iniziò a spostare
gli
oggetti, i fogli di giornale, i libri, fino a ritrovarlo in mezzo alla
posta sparpagliata a terra, sotto pallottole di carta stracciata e il
rotolo di scotch per i pacchi. Lo schermo segnava impietoso il numero
delle chiamate perse e dei messaggi in arrivo, ancora da leggere.
Si sedette di nuovo sullo sgabello, con le braccia conserte sul bancone
e la testa appoggiata sopra di esse. Sarebbe rimasto lì ad
attenderla, col cuore triste e lo sconforto che si faceva
più
presente.
Cora si passò ancora una volta il palmo della mano sul viso,
per
asciugarsi gli occhi di nuovo umidi e stanchi. Dopo aver fatto scattare
la serratura del portone d’ingresso, aprendola poi con una
leggera spinta della spalla, si avviò su per le scale. Per
tutto
il tragitto di ritorno non aveva fatto altro che rimuginare su quanto
fosse successo con lo zio Phil. L'uomo si era comportato ingiustamente
nei suoi confronti. Con la testa pieni di pensieri, quasi non si
accorse di essere arrivata di fronte alla porta del suo appartamento,
senza sentire la fatica per tutte quelle scale. Corrugò la
fronte nel trovare la porta spalancata.
«Dohko, sei tu?» chiamò, prima di
entrare. Non ricevette risposta.
Allora entrò lentamente, stringendo nella mano il sacchetto
del
fast food e, con l’altra già infilata nella borsa
a
tracolla, era pronta a usare lo spray urticante.
«Saga?»
Cora vide il ragazzo chino sul bancone della colazione e, davanti a
lui, la sua tazza ricomposta. «Saga», lo
chiamò
ancora, notando come non si fosse mosso di un centimetro.
Si avvicinò a lui e gli sfiorò il braccio,
facendolo
sussultare. Al tempo stesso, anche lei balzò indietro,
andando
contro la pianta verde accanto al divano.
Il giovane si stropicciò gli occhi e la fissò
quasi fosse
un’estranea. Si alzò di scatto, lasciando cadere a
terra
il cappotto, e l’abbracciò con foga, stringendola
forte a
sé.
«Dov’eri finita?» le chiese, quasi con
tono
arrabbiato e al tempo stesso agitato, che faceva ben capire la forte
preoccupazione che aveva provato. «Perché non hai
risposto
alle mie chiamate, perché non hai risposto ai
messaggi?»
la incalzò, prendendola per le spalle e scuotendola un poco.
Subito però, l'abbracciò di nuovo, stringendola
al petto.
«Mi dispiace», rispose contrita Cora, lasciandosi
quasi
soffocare da lui. Sentiva in quell’abbraccio qualcosa di
estremamente possessivo, ma era piacevole stare fra le braccia del
ragazzo. «L’ho letto il tuo messaggio, ma in quel
momento
non potevo risponderti.»
Sospirò, rilassandosi e ricambiando
l'affettuosità di
Saga. Di tutta quella serata, lui era la cosa più piacevole
che
le fosse capitata.
«È venuta una persona a trovarmi. Non me
l’aspettavo. Abbiamo parlato e poi… poi sono
andata nello
scantinato per recuperare altri giornali vecchi»,
raccontò. «Però… quando sono
tornata in
casa, non avevo più voglia di continuare il lavoro e sono
uscita
a prendere una boccata d’aria. Vista l’ora e,
siccome ero
già per strada e lo stomaco aveva iniziato a reclamare, ho
fatto
una deviazione per prendere qualcosa da mangiare.»
«Non è vero! Non mentirmi!»
esclamò
l’altro. La strattonò ancora una volta per le
braccia e,
con modi rudi, le mostrò il cellulare sul bancone della
colazione.
Cora sgranò gli occhi nel vedere i messaggi e le chiamate
perse.
Alzò lo sguardo su Saga e lo vide così arrabbiato
e teso
che si sentì pervadere il cuore di timore per la seconda
volta
in poche ore.
«Non ne avevo idea» mormorò, con gli
occhi che
già si stavano velando di lacrime. «Io…
ho discusso
con lo zio Phil e forse…» provò a
giustificarsi lei.
Saga strinse le labbra, dispiacendosi nel vedere la ragazza in quello
stato. «Perdonami», disse, con un filo di voce.
«È solo che… quando non hai risposto la
prima
volta, io… ho provato più e più volte
ed è
stato lo stesso. Allora ho provato a scriverti, ma... Non sapevo cosa
pensare e ho avuto paura per te.»
Cora alzò lo sguardo su di lui, incrociando quei suoi
splendidi
e profondi occhi verdi che solo in quel momento notò quanto
fossero arrossati e pieni di inquietudine.
«Hai pianto?»
«Certo che no!» rispose Saga, con eccessiva enfasi,
stropicciandosi di nuovo gli occhi. Sospirò, mentre i tratti
del
suo viso si addolcivano e i suoi occhi tornavano sereni e dolci. Le
prese una mano e l'avvicinò al suo petto. «Senti
il mio
cuore com’è ancora agitato?»
Cora annuì timidamente. Lo poteva sentire davvero, quel
cuore,
martellare incessante nel petto di lui e si rattristò nel
considerare che era stata la fonte di tanta pena.
«Mi sono preoccupato da morire»,
sussurrò lui, stringendole un poco la mano.
«Ti sei tagliato» disse lei, vedendo l'indice del
ragazzo
sporco di sangue rappreso. Studiò la ferita per qualche
secondo:
i bordi erano arrossati e leggermente caldi. Tastò piano, ma
nonostante l'attenzione che ci stava mettendo Saga sussultò
per
il dolore, piegando le labbra in una smorfia.
Lo accompagnò in bagno e gli fece sciacquare il dito; poi,
ben
sotto le luci della specchiera, controllò quel dito: alcune
piccole schegge erano rimaste dentro la ferita che già si
stava
infettando.
Gli sorrise e si allontanò pochi istanti per recuperare il
beautycase dal quale prese delle pinzette. «Resta fermo un
momento», lo ammonì dolcemente, avvicinando il
dito agli
occhi e iniziando ad armeggiare con le pinzette. Poi,
terminò la
medicazione con un cerotto. «A posto.»
«Grazie», rispose Saga, guardandola con
riconoscenza, con
quei suoi occhi limpidi che avevano conservato l'innocenza di
fanciullo. Ora tutto sembrava essere alle spalle: le paure irrazionali,
i dubbi, le preoccupazioni che avevano appesantito il suo animo in
quella lunga serata.
Quel momento, nel quale entrambi parlavano solo con gli occhi, fu
interrotto dal brontolio dello stomaco di Saga che subito
abbassò lo sguardo per l'imbarazzo, ma che invece fece
sorridere
Cora.
«Ho portato un cheeseburger super size. Roba da ricovero
immediato, se lo si mangia da soli», gli disse lei,
indicandogli
il sacchetto di carta posato sul bancone della colazione. «Al
fast food mi hanno regalato anche un portachiavi con
il…»
La giovane non riuscì a terminare la frase perché
Saga,
agendo d’impulso, la baciò con passione,
cancellando in
modo definitivo ogni incomprensione, vera o presunta, nata quella notte.
«Non ti azzardare a mangiare quella schifezza, non ti ci
porto di
corsa al pronto soccorso per un’intossicazione
alimentare»,
le disse a fior di labbra, dandole un altro piccolo bacio.
«Ci
arrangeremo con quello che ti è rimasto nel
frigorifero.»
Accoccolata per terra fra le sue braccia, Cora sospirò,
facendo
roteare lentamente il portachiavi sul dito. Quello che avevano
recuperato dal frigo era risultato davvero poca cosa per la grande fame
che entrambi avevano accumulato in quella serata. Sorrise fra
sé
nel ripensare al categorico rifiuto di Saga nel voler anche solo
assaggiare quel panino gigante, che ora giaceva abbandonato –
e
mezzo divorato – nel suo contenitore bianco, accanto al
bicchiere
di Coca-Cola invece completamente vuoto. Era stata una serata dai
molteplici risvolti e tutti ugualmente stressanti. Si sentiva stanca
come non mai, ma per nulla al mondo avrebbe rinunciato a passare il
tempo in quel modo, abbracciata a Saga. Chiuse gli occhi, assaporando
al meglio quel momento.
Il ragazzo si mosse un poco, gemendo per il torpore che sentiva alla
schiena. Sbadigliò e provò a stiracchiarsi, ma
senza
trovare sollievo.
«Si è fatto tardi», disse, guardando
l’ora sul
cellulare e posandolo poi lì a terra, vicino a
sé. Si
coprì la bocca per mascherare un altro sbadiglio.
«Preferisci dormire qui, così quando in mattinata
arriverà la ditta dei traslochi, sarai già
presente;
oppure torniamo a casa nostra?» le chiese.
Sentendo quelle due parole “casa nostra”, Cora
arrossì. Non gli diede una risposta vera e propria, si
limitò ad accoccolarsi più stretta a lui e a
sospirare.
Qualche momento dopo però, proruppe in un'esclamazione.
«Kitty!»
«Chi è Kitty?» chiese lui. Finalmente
libero si era potuto stiracchiare per bene.
«Come, “chi è”?»
Cora lo guardò
stranita. «È la pestifera palletta di pelo! Un
nome
bisognava pur darglielo, no? Certo, non è il massimo
dell’originalità, ma ci possiamo accontentare,
almeno per
il momento», commentò, radunando i resti della
cena e
buttando tutto nel sacco dell'immondizia.
Si guardò in giro per capire cosa prendere e
iniziò a
ficcare un po' di tutto nella borsa. Infine, sbuffando e borbottando un
“speriamo non abbia sporcato dappertutto”,
infilò
nella borsa anche la posta, che in quei giorni non aveva più
considerato.
Saga osservò quel suo modo di fare col sorriso sulle labbra.
Lei
sembrava essere tornata la stessa che aveva conosciuto e anche lui si
sentiva di nuovo se stesso: quel se stesso libero e leggero come
l’aria, spensierato e sereno. Si rimise addosso il cappotto e
uscì ad attenderla sul pianerottolo, tendendole la mano per
fare
la strada di casa assieme.
*****
Quella domenica mattina, per Cora era iniziata con un grosso peso sul
cuore. Le parole e la reazione dello zio Phil avevano lasciato il segno
in lei, più di quanto avesse pensato; il suo orgoglio poi
aveva
fatto il resto, lasciando che l'uomo ripartisse senza aver potuto
appianare la situazione, nemmeno con una telefonata o un breve
messaggio al cellulare.
Per sua fortuna c'era stato qualcuno al suo fianco che non le aveva
lasciato il tempo per rimuginarci troppo. Dopo un'intensa mattinata
divisa fra il suo vecchio appartamento, a lavorare fianco a fianco con
Saga e a vedere dei veri professionisti all'opera – era stato
incredibile come in appena un'ora il camioncino dei trasporti stesse
già partendo per la nuova destinazione – e quello
nuovo
sopra il negozio, dove Saga aveva fatto spazio per le sue cose, si
ritrovava ora nella camera da letto padronale, in piedi in mezzo alla
stanza, con reggiseni e mutandine in mano, a fissare un punto preciso.
«Sei stata pensierosa per tutta la mattina», disse
Saga,
affacciandosi sulla soglia della camera, mangiando un sandwich al
tonno. «Forse non ti piace come abbiamo sistemato la
casa?»
le chiese, mandando giù l’ultimo boccone e
pulendosi le
mani sui jeans. Entrò e si sedette sul letto matrimoniale,
attendendo paziente che lei terminasse di sistemare il cassetto del
comò. «Cigola un po’»,
mormorò,
saggiando la resistenza del materasso e della rete.
Cora mugugnò qualcosa, passando all’armadio ancora
aperto.
«Non so se basterà questo spazio»,
commentò
fra sé e sé, inclinando la testa un po’
a destra e
un po’ a sinistra, indietreggiando poi di qualche passo.
Non appena fu abbastanza vicina, Saga la catturò fra le
braccia
e si lasciò cadere con lei nuovamente sul materasso,
facendole
scappare un gridolino di stupore.
«Se non hai abbastanza spazio possiamo trasformare la camera
più piccola in uno spogliatoio», le
suggerì,
scostandole un ricciolo castano dalla guancia e guardandola
languidamente negli occhi.
«Tutto questo per me...» sospirò Cora.
Chiuse gli
occhi e si lasciò stringere dalle braccia gentili di Saga.
Nonostante la consapevolezza che fosse tutto vero, perché la
stanchezza che si sentiva addosso era reale, faticava a crederci.
Così tanta fortuna, così all'improvviso, poteva
esistere
solo nei film. Eppure...
Sospirò ancora una volta.
*****
«Ecco, così, piano. Movimenti lenti e continui,
avanti e
indietro, senza fretta; con delicatezza ma decisione.» Saga
la
guidava passo per passo in ogni azione.
«Sto facendo bene?» chiese Cora, con leggero
imbarazzo
nella voce. Si girò un poco con la testa, sfiorandogli la
guancia. Per un attimo intravide la concentrazione sul suo volto.
«Sì, molto bene», le sorrise Saga,
soddisfatto.
«Sii più rilassata, altrimenti col passare del
tempo ti
farà male la schiena», le consigliò,
avvertendo in
lei una lieve rigidità. Teneva le mani salde sui fianchi
della
giovane e il petto appoggiato alla sua schiena.
«Scusa, non ho mai fatto una cosa del genere prima d'ora e
sono un po’ nervosa.»
Il cuore di Cora batteva veloce per l’emozione, ingabbiata
fra il
tavolo e il corpo di Saga. Sentiva su di sé la pressione di
quella presenza che aderiva in maniera così perfetta al suo
corpo. Fremeva. La sua mente si annebbiava alle calde carezze del
respiro del ragazzo che le scivolava addosso. A ogni movimento che lui
le faceva compiere, provava solletico al collo, a causa di alcune
ciocche di capelli sfuggite al mollettone.
«Tranquilla», disse lui, sovrapponendo le mani alle
sue,
armonizzando i movimenti con quelli di Cora. «Vedrai che con
un
po’ di pratica sarà più
facile», le
sussurrò all’orecchio, provocandole una scossa di
brividi
lungo il corpo. «Ora proviamo a tirarlo fuori, piano, per
vedere
com'è.»
«Non mi sembra un granché»,
commentò la
giovane con una smorfia, mentre guardava perplessa il risultato.
«Non è proprio come me lo immaginavo.»
Delusa e con
le spalle indolenzite, si appoggiò all’indietro,
sostenuta
da Saga.
«Allora rifacciamolo», le propose con
semplicità il
ragazzo. La baciò sul collo come incoraggiamento e le fece
riprendere la posizione corretta.
«Rimettilo dentro, lascia che si assesti un attimo e poi
ricomincia a muoverti come prima.»
Saga si staccò un poco da lei affinché facesse da
sola,
distraendosi in altro. Con le mani iniziò ad accarezzarle le
braccia nude, arrivando fino alle spalle; poi, a un lieve movimento
infastidito di lei, si fermò, riportando le mani sui fianchi.
«Per quanto tempo devo continuare in questo modo?»
chiese
Cora, ansiosa e impaziente, ma con la mente distratta da lui che la
toccava con tenerezza.
«All’inizio basta poco, perché al suo
interno ce
n’è tanto; ma andando avanti, più se ne
fa,
maggiore sarà il tempo impiegato, per ottenere lo stesso
risultato», le spiegò lui, cingendole
all’improvviso
la vita e attirandola a sé, facendola sussultare.
«Poi,
dipende anche da come lo vuoi tu o dalle esigenze del
momento.»
«E se poi è troppo? Come si fa a capire quando
è giusto?»
Si stava muovendo in modo scomposto, anche a causa di quel ragazzo,
dietro di lei, che ogni tanto la solleticava, accarezzandola sul collo
con le labbra, o con la punta del naso.
«Saga… dai, non fare il dispettoso», si
lagnò
un po’ smorfiosetta, muovendo la spalla per dissuadere il
ragazzo
dal continuare quella tortura. «Svelami il segreto. Tu come
riesci a farlo venire così bene?»
Saga non rispose nulla, continuando imperterrito in
quell’occupazione che trovava molto di suo gusto.
«Ti stai prendendo gioco di me, vero? Non è bello,
ti
diverti alle mie spalle!», esclamò Cora, chiudendo
le
ostilità con quella cosa che, ormai le era chiaro, non
sarebbe
mai riuscita a fare.
Con un colpo secco lasciò andare tutto, schizzando e
sporcando
attorno a sé; poi si girò verso di lui,
incrociando le
braccia al petto. Lo vide per un attimo sorpreso, ma un istante dopo
sorriderle furbetto.
«Mi diverto… sì! Alle tue
spalle… beh, la
posizione era quella, ma sarebbe stato più corretto dire che
mi
divertivo “con” le tue spalle», le
rispose,
avvicinandosi a lei per baciarla, ma incontrando delle inaspettate
resistenze.
«Mi sono occorsi anni di lunga pratica per poter affermare di
essere sufficientemente abile; e ancora oggi, quando sperimento
qualcosa di nuovo, faccio tentativi su tentativi, finché non
sono soddisfatto», rispose in tono più serio,
ricambiando
l’intensità dello sguardo di Cora, ma sempre con
un dolce
sorriso sulle labbra. Attese qualche secondo che lei abbassasse un
po’ le difese e le rubò un bacio. «Segui
attentamente quello che faccio: te lo spiegherò
un’ultima
volta», disse, agitandole scherzosamente il dito sotto il
naso.
«Prendi la poltiglia e la versi nel catino, mescoli per
qualche
secondo l’acqua e immergi la cornice con la retina. La muovi
un
paio di volte avanti e indietro, lasci assestare un attimo e la tiri
fuori, facendo defluire l’acqua in eccesso. Se ti sembra
troppo
sottile, ripeti l’operazione. Poi, capovolgi il tutto su di
un
panno assorbente, picchietti un po' se necessario. Lo pressi in modo
che rimanga attaccato, appendi il panno come fosse del bucato
e…
e poi non resta che attendere che si asciughi»,
terminò la
sua lezione.
Cora lo osservò compiere quei gesti, ormai per lui
automatici,
con una scioltezza e una naturalezza che sembravano quasi irreali.
Tutto in lui, dall’atteggiamento del corpo, alla voce, ai
lineamenti del viso, glielo faceva apparire come un ragazzo totalmente
diverso da quello che era abituata a vedere. Era così serio
e
concentrato che sembrava un altro.
«Ecco fatto!» disse Saga, con uno sguardo
soddisfatto,
mostrandole il risultato. «Questo naturalmente è
un metodo
molto casalingo dove si utilizzano soprattutto giornali vecchi e il
risultato è qualcosa di grezzo, ma la procedura per ottenere
della carta fatta a mano più professionale è
perlopiù la stessa.»
Una volta sistemato il panno, si asciugò le mani con lo
strofinaccio che teneva appeso al fianco, agganciato sotto la cintura
dei jeans, si girò verso di lei, appoggiandosi al tavolo da
lavoro.
Cora sospirò. «Ancora non mi hai svelato il vero
segreto: qual è il tempo giusto?»
«Il tempo giusto?» rifletté Saga,
piegando un poco
la testa di lato. Poi, sorrise e si avvicinò al suo
orecchio.
«Quello di un bacio», sussurrò.
Portò una mano dietro la sua testa e le tolse il mollettone,
liberando i suoi capelli in una cascata di morbidi e disordinati ricci
castani, ancora un poco umidi per la doccia che si era fatta un'oretta
prima, che le erano ricaduti sulle spalle. In un attimo, un lieve
profumo di lavanda riempì l’aria nel piccolo
laboratorio,
confondendosi subito con gli odori delle altre essenze già
presenti. Prima che lei dicesse o facesse qualsiasi cosa, Saga la
baciò con intenso trasporto.
«Sì, il tempo di un bacio è decisamente
perfetto», confermò con una certa soddisfazione.
Cora rimase sbalordita da quel gesto, dentro di sé
però
stava toccando il cielo con un dito. Arrossì nell'incrociare
lo
sguardo di Saga che sembrava ebbro d'amore.
Il ragazzo l'attirò a sé e le fece scivolare le
mani
lungo la schiena, fino ad arrivare ai glutei, stringendo un poco,
facendola sussultare. Quei suoi occhi verdi erano dolci e gentili, ma
al tempo stesso tradivano l’eccitazione e la voglia che
cresceva
in lui. Lentamente le alzò la minigonna, arricciandola alla
vita; poi, con una presa salda – e una piccola spinta
– la
fece sedere sul tavolo, accostandosi a lei, fra le sue gambe un poco
aperte. Riprese a baciarla dolcemente, mentre le sue mani vagavano
carezzevoli sul collo, per poi prendere la strada delle spalle e far
cadere le spalline sottili della canotta e del reggiseno fino a
metà braccia.
«Sono tutta bagnata…» ansimò
Cora, non appena
la sua bocca fu di nuovo libera di pronunciare le parole.
«Non ho ancora fatto niente…» le
sussurrò
lui, con un tono di voce striato di un pizzico di malizia,
apprestandosi a baciarla di nuovo. Al tempo stesso le stava
accarezzando le cosce completamente scoperte, invitandola a cingergli
la vita con le gambe.
Cora rimase a bocca aperta. Il suo cuore batteva
all’impazzata.
Puntò le mani sul petto del ragazzo e lo tenne a distanza.
«Ma io…» boccheggiò, senza
riuscire ad
articolare una risposta decente. Poi, col viso pieno di vergogna, si
nascose appoggiandosi al petto dell’altro. «Volevo
dire che
quando mi sono seduta mi sono bagnata con l’acqua uscita dal
catino.»
Saga le alzò il viso e le sorrise, mostrandole quanto anche
lui
non fosse proprio a suo agio dopo aver pronunciato quelle parole. Si
avvicinò ancora una volta a lei, tanto che i loro nasi si
sfioravano e, dopo un breve tentennamento, nel quale le stava chiedendo
tacitamente il permesso, la baciò come sapeva fare.
«Il tempo di un bacio…»
commentò una voce,
con tono decisamente sarcastico. «Sarebbe perfetto se non
foste
ancora attaccati come due ventose!» esclamò
Aiolia,
cogliendo i due giovani amanti di sorpresa. Poi, diede due colpetti di
tosse, per nascondere l'evidente imbarazzo che stava provando.
Saga sbuffò, appoggiandosi stancamente alla spalla di Cora.
«È forse invidia quella che sento nella tua
voce?»
replicò, raddrizzandosi e provando a girarsi verso il nuovo
arrivato, ma Cora gli si aggrappò alla maglia, impedendogli
quel
movimento.
Forse, così facendo, la giovane avrebbe scongiurato la
possibilità di farsi vedere in quelle condizioni non proprio
pudiche. Con molta accortezza scese dal tavolo e si
risistemò la
minigonna e la canotta.
«Non hai sentito che erano più di cinque minuti
che stavo
bussando alla vetrata del negozio? Ho dovuto fare il giro. Per fortuna
che mi avevi dato una copia delle chiavi», ribatté
il
giovane, posando per terra ai suoi piedi un pesante sacchetto di libri
usati.
«Che strano, pensavo che il cartello con la scritta
“chiuso” fosse ben visibile. Dimmi, Aiolia, quale
persona
sana di mente busserebbe alla porta di un negozio chiuso? Che per
altro, tutti nel quartiere sanno che lo è da
decenni!»
Nel sentire pronunciare quel nome, Cora si strinse ancora di
più
al petto del ragazzo, quasi a voler scomparire, facendo sorridere Saga
che, per tranquillizzarla, le accarezzò la schiena.
«Una persona che sa benissimo che quel cartello non
è
veritiero! Cioè sì, il negozio è
chiuso ma non lo
è davvero. Insomma tu ci sei e ci lavori ogni tanto, giusto?
Quindi non è abbandonato, non è chiuso,
ecco!»
rispose Aiolia, impappinandosi nel ragionamento.
«Forse ho fatto male a darti quelle chiavi»,
mormorò
Saga, finalmente libero di girarsi e guardare in faccia il terzo
incomodo. «Beh, che sei venuto a fare?» disse,
vedendo come
Aiolia fosse intento a fissare la ragazza che si stava nascondendo
dietro la sua schiena.
Il giovane, nel preciso momento in cui la riconobbe, sentì
una sorta di fastidio torcergli lo stomaco.
Saga attese una risposta. Poi, provò a richiamare la sua
attenzione schioccando le dita un paio di volte, senza risultato.
«Ehi!» proruppe allora, spazientito.
«Eh? Ah, sì! Sono venuto a portarti un
po’ di roba e
a riscuotere il pagamento per quel favore. Non te ne sarai dimenticato,
spero», rispose, senza staccare gli occhi dalla ragazza.
«Non potevi aspettare che te lo portassi io?»
Cora sentiva su di sé quegli occhi così
insistenti che la
stavano mettendo a disagio. Avrebbe voluto continuare a rimanere al
fianco di Saga, sapeva però che così facendo
quella
situazione non sarebbe migliorata, ma anzi, sarebbe potuta solo andata
peggio. Si fece forza e uscì allo scoperto.
«Ti lascio tranquillo col tuo amico», disse a Saga,
accarezzandogli il braccio. Diede uno sguardo veloce ad Aiolia e si
allontanò senza aggiungere altro.
«L’ha portata qui…»
considerò il
giovane, fissando la porta che Cora si chiuse alle spalle. Nella sua
voce era distinguibile una punta di amarezza e di gelosia.
D’un
tratto si sentì scalzato dalla sua posizione di custode di
quel
segreto. Rimase ancora lì, fermo, appena oltre
l’ingresso
che dava sul cortile posteriore.
«Vieni, andiamo di là», lo
invitò Saga,
scostando la vecchia tendina a frange e accendendo le luci della
bottega.
«Sta diventando una cosa seria?» domandò
Aiolia.
La risposta la trovò direttamente dallo sguardo sereno
dell'altro e dal suo sorriso un po’ imbambolato. Aiolia aveva
imparato da tempo a decifrare le espressioni facciali e la postura del
corpo di Saga. Spesso si stupiva di come l’amico fosse un
vero e
proprio libro aperto, al contrario di Kanon e di Aiolos, che sembrava
invece facessero a gara per trarsi in inganno a vicenda e tutti gli
altri. Forse era proprio per la limpidezza dei sentimenti di Saga che
loro due riuscivano ad andare così d'accordo.
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Capitolo 17 *** Capitolo XVI ***
XVI
Quel
lunedì
mattina, Cora sentiva la voglia di indugiare un poco più a
lungo
fra quelle lenzuola profumate e il tepore del letto. Si girò
sul
fianco, allungando il braccio alla sua sinistra, con la certezza di
trovare il suo principe azzurro dai capelli biondi e gli occhi di
smeraldo, dolci e gentili. La mano non incontrò alcun
ostacolo,
mentre accarezzava il lenzuolo che al suo tocco era invece freddo e
senza una piega. Persino il cuscino sembrava immacolato. Fece una mezza
smorfia nel constatare che quella parte di letto era stata tirata con
cura quasi maniacale.
Si
girò
completamente sul lato sinistro e occupò per intero il lato
del
suo ragazzo, abbracciando il cuscino e portandoselo al viso.
Sospirò nel sentire il profumo del giovane. Era la conferma
che
tutto era reale. Si sistemò meglio sul letto per sentirsi
ancora
più avvolta da quella sensazione di protezione che provava
nello
stare lì, consolandosi almeno in parte, perché
Saga, al
suo risveglio, non era con lei. Chiuse gli occhi e si immerse di nuovo
nei sogni felici che avevano allietato la sua mente quella notte. Si
ritrovò però un'ospite indesiderata, morbida e
calda, che
subito si mosse con lei, adattandosi alla nuova posizione e
solleticandola sulla pelle nuda con la sua codina.
Mugugnò
qualcosa.
Aprì a fatica gli occhi stanchi e assonnati e si
ritrovò,
a pochi centimetri dal viso, altri due occhi, color ambra e
all'apparenza demoniaci, racchiusi in un vaporoso batuffolo di pelo
nero.
Come nulla
fosse,
dispettosa com'era sua natura, la gattina si arrampicò sul
corpo
della giovane. Con quella sua codina ben dritta lo percorse fino ai
fianchi e scese, balzando poco dopo giù anche dal letto, ma
finendo a terra con un tonfo maldestro. Nonostante la famosa
agilità felina, Kitty era ancora troppo piccola e il letto,
per
il momento, si dimostrava un ostacolo decisamente arduo da superare per
le sue limitate capacità. Ciò nondimeno,
impettita e
altera, zampettò fuori dalla stanza.
Cora
sbuffò,
tirandosi su e puntellandosi con il gomito, mentre con una mano si
copriva il seno con il lenzuolo. Sbadigliò, grattandosi la
testa
già tutta arruffata e si ributtò sdraiata,
domandandosi
vagamente come avesse fatto quella peste a intrufolarsi fin sotto le
coperte e, soprattutto, quando fosse successo. L'unica spiegazione
plausibile era che fosse stata opera di Saga.
Sospirò,
pensando
a quanto fosse buono il ragazzo; e nel farlo non poté
impedirsi
di richiamare alla mente ciò che le sembrò essere
avvenuto nelle prime ore del mattino: rumori sommessi, qualche lamento
da oltre la porta chiusa della camera da letto, un leggero cigolio
della rete del materasso, una sensazione di vuoto e di improvviso
freddo su di sé e... tutto era tornato al suo stato
naturale,
almeno fino a quando non si era svegliata pochi minuti prima.
«È
troppo
accondiscendente», bofonchiò, intontita dal sonno;
si
tirò il lenzuolo oltre la testa e affondò il viso
nel
cuscino del suo ragazzo.
Voleva
rimanere a letto
più a lungo, così facendo però non
avrebbe
combinato nulla. Diede fondo alla sua forza di volontà e si
portò fino al bordo del materasso, ma più si
muoveva,
più voleva godersi quella sensazione di benessere che stava
provando. Afferrò il cuscino di Saga e se lo strinse
addosso,
respirando a fondo e sospirando, chiedendosi quando sarebbero riusciti
a risvegliarsi assieme.
Si
stupì per aver
formulato un pensiero così romantico, ma non era forse
quello
uno degli aspetti piacevoli della vita di coppia e dell'essere
innamorati?
Perché
sì,
nonostante fosse consapevole che tutto era avvenuto troppo in fretta,
lei era già completamente innamorata di quel ragazzo dai
dolci
occhi verdi e dalle maniere gentili.
Ripensò
alle
occasioni che c'erano state e non le sembrò fosse mai
successo
veramente, almeno non come si vedeva nei film. E allora, la cosa
più naturale che le venne di fare, fu quella di contarle e
riviverle.
Al suo
risveglio dopo
quella loro prima notte, se lo era ritrovato con un'espressione
pacifica sul divano, mentre divorava i suoi biscotti e beveva dalla sua
tazza preferita. Poi, ci fu la seconda, pochi giorni dopo, sfumata per
colpa di uno guasto in cucina, uno stupido raffreddore e un insensato
coprifuoco. Ricordava il chiaro desiderio di Saga di rimanere con lei,
ma anche quelle sue resistenze che lei aveva trovato incomprensibili. A
malincuore lo aveva dovuto lasciare andare e quegli stessi sentimenti
li aveva visti anche in lui, nonostante il suo sorriso dolce e al tempo
stesso sicuro di sé. E non doveva dimenticarsi di quanto
fosse
stato premuroso, risolvendole l'inconveniente senza che lei gli avesse
chiesto nulla.
Fece un
lungo sospiro trasognato, soffocandolo nel cuscino.
Quel
risveglio sul divano
di Saga, abbracciata a lui, era stato davvero dolce, ma aveva avuto fin
da subito la sensazione, molto lusinghiera, che lui l'avesse vegliata
sino all'alba. Quasi avesse voluto attenderne il risveglio per
accertarsi che tutto andasse bene e salutarla con teneri baci, prima di
cedere al sonno.
E poi...
c'era stata la
domenica mattina, che si era illusa di poter passare fra coccole e
relax, prima dell'arrivo dei traslocatori. Invece, quando si era
svegliata, sola, lo aveva trovato già impegnato al
cellulare.
Non se l'era presa; si era detta che in fin dei conti erano solo
all'inizio della loro relazione, che il tempo avrebbe dato loro tante
altre occasioni. Eppure, anche quel lunedì mattina la parte
di
letto di Saga era vuota al suo risveglio.
«Lunedì
mattina», sbuffò.
L'inizio di
una nuova
settimana. A rifletterci, lei non conosceva quasi nulla della vita del
suo ragazzo. Non sapeva cosa facesse per vivere, né se
andasse
in ufficio a lavorare, né se spendesse il suo tempo in altro
modo. Del resto, anche se di famiglia ricca, un lavoro doveva pur
avercelo!
Trattenne
una risatina
nell'immaginarlo in giacca e cravatta, seduto dietro la scrivania di un
asettico ufficio ultramoderno. Non sarebbe stato affatto male
così tutto in tiro.
All'improvviso
le si
materializzò nella mente l'immagine di Chris e si
rattristò nel giudicarla ordinaria. Con lui la vita aveva
avuto
tutto un altro sapore. Il loro rapporto, benché precoce per
la
loro giovane età, quando iniziò, fu molto
più
convenzionale.
Mettendo a
confronto le
due situazioni in cui si era trovata, le sembravano due vite parallele
e, guardando bene, con rammarico iniziava ad accorgersi che la sua
vecchia relazione era stata nulla più che un rapporto intimo
e
disinvolto fra compagni di college. Eppure, con Chris era stato amore,
di quelli veri che fanno venir voglia di mettere su famiglia. Di questo
ne era più che certa. Ci avevano anche provato. Avevano
valutato
di mettere in cantiere un figlio, una volta terminati gli studi e
trovato un buon impiego, prima che “quell'uomo”
arrivasse a
rovinare tutto.
Sarebbe
stato diverso se
Chris non avesse rifiutato di seguire le orme dei genitori che avevano
uno studio legale ben avviato per seguire il sogno di fare l'insegnante?
Sarebbe
stato diverso se
avessero aspettato a voler vivere assieme e lei avesse avuto
l'opportunità di studiare interior design invece di prendere
un
indirizzo più classico?
Ora per l'ex
provava solo tanto affetto, era stato il suo primo amore, ma era
consapevole che non ci sarebbe stato altro.
Con Saga
– e se lo
doveva ripetere in continuazione – erano solo all'inizio, ma
fin
da subito era stato qualcosa di così travolgente e istintivo
che
già era alla quasi totale dipendenza sentimentale,
nonostante
quella fosse la cosa di cui avesse più timore. Con lui si
sentiva protetta e completa, come una donna con l’uomo della
sua
vita.
Dopo un
altro sbadiglio
sommesso, attutito da quel povero cuscino ormai martoriato, tese le
orecchie per cercare di sentire i rumori della casa o, quantomeno, la
presenza di Saga, anche se era quasi certa che non ci fosse. Tutto
sembrava normale. Passò più di cinque minuti
raggomitolata su quel cuscino, prima di decidersi finalmente ad
alzarsi. E ancora, non era convinta di volerlo fare.
Alle sue
orecchie
giunsero strani e lievi rumori: un continuo grattare sul legno della
porta della camera e un tenero ma insistente miagolio. Con un ampio
movimento del braccio, un poco esasperata, scostò da
sé
le coperte e il lenzuolo, rimanendo per qualche attimo totalmente nuda
sul letto.
«Due
giorni che siamo qui e già si permette di dettare le regole
della casa!» sbuffò.
Si sedette,
stiracchiando
le braccia sopra la testa, e squadrò con severità
quella
piccola palla di pelo nera che se ne stava vicino al muro, con ancora
una zampina sollevata a mezz’aria e la ricambiava con uno
sguardo
di superiorità.
Con
movimenti lenti,
senza distogliere gli occhi da quella calamità naturale, si
alzò dal letto e si avvicinò alla sedia, dove
trovò l’accappatoio di spugna che aveva utilizzato
la sera
prima, dopo la doccia. Lo svolazzo della stoffa pesante, forse troppo
vicino alla gattina, la mise in allarme e subito lei scappò
a
rifugiarsi sotto il letto.
«Perfetto!
E ora come la recupero?» disse, sbattendo esasperata le
braccia sui fianchi.
Non aveva
proprio voglia
di buttarsi per terra e lottare con Kitty per farla uscire da
lì. Sicuramente, quando avrebbe iniziato a sentire fame, si
sarebbe fatta vedere di sua spontanea volontà. Senza
più
preoccuparsi di lei, si infilò nel bagno privato attiguo
alla
camera.
Era una
stanzetta piccola
e stretta, aggiunta in un secondo tempo e ricavata con tutta
probabilità dall’originaria cabina armadio. Al suo
interno
vi era giusto l’essenziale, ma nonostante fosse molto
spartana,
era corredata da una graziosa finestrella con una vetrata decorata in
stile Tiffany. Gli arredi erano proporzionati allo spazio, semplici e
pratici, ma anche raffinati nella loro classicità. Tutto era
in
perfetto stile anni ’30. Era davvero incredibile come ogni
elemento originario presente in quella casa fosse ben conservato e
funzionante. Cora si avvicinò al lavabo per sciacquarsi,
aveva
già aperto l'acqua e si era bagnata le mani, ma venne
interrotta
da alcuni rumori che le parve provenissero dall’altra parte
della
casa: forse dal salotto, o dalla cucina.
Arrivò
fino alla
porta della camera da letto, pronta a chiamare Saga, ma non
sentì più nulla. La casa era tornata al suo
tranquillo
silenzio. Pensò si essersi sbagliata. Lo scroscio
d’acqua
poteva averla tratta in inganno, oppure poteva essere stata Kitty che
si era messa a grattare da qualche parte. Questo la fece riflettere
sulla necessità di acquistare un tiragraffi per la gattina,
così che non avrebbe rovinato la tappezzeria. Si
chinò
per vedere sotto il letto: Kitty era ancora lì, accucciata
sul
parquet di noce americano, esattamente nel mezzo dello spazio che
occupava il letto e la guardava fissa con quegli occhietti che
brillavano di una luce inquietante.
Rabbrividì,
poi scrollò la testa.
Rientrata in
bagno si
soffermò ancora una volta al lavabo, alzando lo sguardo
sullo
specchio. Con le mani raccolse i capelli spettinati in uno chignon
morbido, mentre si osservava riflessa, spostando la testa un po' a
destra e un po' a sinistra, notando come quella mattina sembrasse
stranamente pallida. Poi, li lasciò ricadere sulle spalle,
scompigliandoli con energia e, senza indugiare oltre, si tolse
l’accappatoio e si infilò sotto la doccia. Niente
brusco
risveglio che sapeva di ipotermia, niente cottura al vapore, ma tiepida
e prolungata, ecco quello che ci voleva per lei.
Quasi
mezz’ora era
rimasta sotto il getto dell’acqua, a godersi quella dolce
cascata
rilassante che le cadeva addosso accarezzandole il corpo.
L’aria
del bagno si era profumava del docciaschiuma appena usato:
così
piacevole e sensuale. Quando scostò la tendina, intravide
una
piccola ombra nera muoversi rapida verso la porta socchiusa e trattenne
una risatina nel pensare alla curiosità di Kitty. Si
soffermò un'ultima volta davanti allo specchio: il suo
aspetto
era decisamente migliorato. Fece qualche smorfia e rise di se stessa,
prima di tornare in camera.
«Sei
tornata
lì sotto?» domandò alla gattina,
inginocchiandosi a
terra e guardando sotto il letto. Kitty era sempre lì come
una
bella statuina.
Cora
sbuffò, perché una volta che avesse finito di
vestirsi avrebbe voluto chiudere la porta della camera.
Si sedette
un attimo sul
bordo del letto, strofinandosi i capelli per asciugarli il
più
possibile; poi, dai cassetti del comò prese dei vecchi e
antiestetici pantaloni lunghi della tuta, dei calzettoni bianchi e una
maglietta extralarge con l’interno felpato, dallo scollo
slabbrato e le maniche lunghe che amava arrotolare fin sopra i gomiti.
La chiamava “la divisa da combattimento”,
perché
vestita così poteva affrontare qualsiasi lavoro di casa e,
in
quelle poche ore che restavano della mattina, prima di andare al
lavoro, avrebbe dovuto farne parecchio.
«Dai,
Kitty, esci che ti do da mangiare!» ordinò alla
gattina.
Anche il suo
stomaco
iniziava a reclamare qualcosa di sostanzioso con cui essere riempito.
Con ancora l'asciugamano umido sulle spalle, si mise a rassettare il
letto. Poi, prima di uscire dalla camera da letto, provò
ancora
una volta a far venire fuori Kitty agitado l'asciugamano fin quasi a
fargli toccare terra, sperando in quel modo di catturare la sua
attenzione.
Fintanto che
era vicina
al letto, la sua strategia si stava rivelando inefficace. Decise allora
di continuare mentre si avvicinava alla porta e, con la coda
dell'occhio, notò soddisfatta che da sotto la coperta
spuntava
una piccola ombra, curiosa e al tempo stesso guardinga.
«Ben
svegliata!» era stato il buongiorno che aveva accolto Cora,
mentre entrava in cucina, ancora distratta nel giocare con Kitty,
facendola sobbalzare dallo spavento.
La donna le
sorrise conciliante.
«Chiariamo
subito
un paio di cosette: io non sono la tua cameriera, né
tantomeno
la tua cuoca e non sono neppure la tua balia!» disse senza
mezzi
termini.
Si
avvicinò al
tavolo e presentò alla ragazza, assolutamente senza parole,
una
scodellina di macedonia di frutta fresca, cospargendola davanti ai suoi
occhi di una generosa dose di zucchero di canna, e un vasetto di yogurt
al naturale. Poi tornò alle sue faccende.
«Se
hai bisogno di
una mano e me lo chiedi con cortesia, io vengo volentieri; ma non
prendo ordini da nessuno, perché non mi faccio problemi a
mandare tutto al diavolo, soprattutto se mi si critica senza motivo. E
prima che tu dica qualsiasi cosa, non sono obbligata da nessuno e non
vengo pagata. Lo faccio solo come favore personale a un
amico.»
Cora
balbettò un
“okay” nonostante avesse faticato a seguire il filo
di
quella cascata di parole incomprensibili. Con lo sguardo attonito
continuò a seguire ciò che faceva la sconosciuta,
fino a
quando non fu distratta da Kitty che si era impigliata con le unghiette
nell'asciugamano ancora penzolante al suo fianco. La giovane si
chinò, prese in braccio la gattina stringendola al petto e
avanzò in cucina, passando dall'altro lato del tavolo.
Preferiva
mantenere le distanze e lasciarsi una facile via di fuga.
«Assodato
questo punto, potrebbe dirmi chi è lei e come ha fatto a
entrare in casa?»
Sentiva lo
stomaco
aggrovigliarsi per la tensione. A prima vista la donna non sembrava
pericolosa, con quel suo viso un po' pienotto che si gonfiava di
più quando sorrideva, ma al tempo stesso non si sentiva
tranquilla di fronte a quella estranea. Nonostante l'altra le stesse
dando le spalle, Cora non le staccò un attimo gli occhi di
dosso, domandandosi con un certo fastidio come mai sembrasse
così a suo agio in cucina.
«Te
l’ho
detto, mi pare.» La sconosciuta si girò per un
momento,
dopo aver riposto alcune cose nel pensile di fianco alla cappa sopra i
fornelli, sorridendole di nuovo. «Mi chiamo Jade e dammi pure
del
tu! Sono un’amica del padrone di casa, del precedente padrone
di
casa, a dire il vero. Mi sono presa cura del vecchio Josh soprattutto
nei suoi ultimi mesi. Sai, la sua assicurazione sanitaria non copriva
anche i costi per un’infermiera professionista e io, che
avevo
già esperienza per queste cose, mi sono offerta. E ora
eccomi
qui a fare la stessa cosa con Saga! Non che lui abbia bisogno di
un’infermiera! Diciamo che mi ha ereditata assieme a tutto il
resto», si affrettò a precisare, ridacchiando.
Tornò
a fare
quello che stava facendo, zufolando e dondolando un poco la testa.
Sistemò nello scolapiatti gli ultimi due bicchieri che aveva
lavato e, dopo aver asciugato a dovere lo spazzolino per i piatti, lo
ripose – assieme alla bottiglia del detersivo –
sotto il
lavello.
«Dio
solo sa se
quel benedetto ragazzo ha bisogno di qualcuno che badi a
lui»,
sospirò, incurvando stancamente le spalle e appoggiando le
mani
sul bordo del lavello. «Scommetto che se dipendesse da lui
vivrebbe solo d’aria! Lo sai che non l’ho mai visto
prepararsi nulla da mangiare?» disse, voltandosi verso Cora.
«Né tantomeno prendere qualcosa di già
pronto come
farebbe un qualsiasi single della sua età che non sapesse
cucinare. Invece Saga se ne sta sempre appollaiato sul divano con il
suo portatile, oppure giù al negozio a rilegare libri o a
fare
chissà che altro. Insomma, sembra quasi che se qualcuno non
gli
preparasse da mangiare, lui non mangerebbe. Più volte mi
sono
offerta sai? Ma lui…»
Alla fine di
quel suo lungo discorso, Jade fece un altro rumoroso e trasognato
sospiro.
«È
sempre
così garbato nei suoi rifiuti che è impossibile
rimanerci
male. Certe volte è proprio strano: a prima vista lo si
direbbe
un ragazzo semplice, dai gusti altrettanto semplici e di poche pretese,
ma se lo si osserva bene è molto esigente! Forse non si fida
degli altri», constatò con amarezza.
Cora
ascoltò
quelle confidenze rimanendo a bocca aperta, soprattutto per
quell'ultima osservazione, che non trovava corrispondenza con
ciò che aveva sperimentato di persona. Con lei il giovane si
era
mostrato tutt'altro che schizzinoso.
D'improvviso,
Jade
aprì le antine di tutti i pensili e dei mobiletti, lasciando
ancora una volta di stucco la ragazza. Poi, si avvicinò alla
sedia sulla quale aveva posato la borsa e, dopo aver frugato per
qualche secondo, prese un taccuino e una penna.
«Ora
che Saga
è intenzionato a vivere qui, in questa casa c'è
proprio
bisogno di tutto», mormorò, iniziando a passare in
rassegna le poche cose presenti e prendendo appunti di ciò
che
mancava. Quando fu la volta di controllare il frigorifero,
scrollò la testa sconsolata, scrivendo e al tempo stesso
borbottando qualcosa.
Cora
aggrottò la fronte: in quel momento si sentiva giudicata per
ciò che mangiava.
«Fatto!»
Jade
strappò il foglietto e, dopo aver preso una calamita
colorata da
uno dei cassetti, attaccò la lista della spesa allo
sportello
del frigorifero. «Mi raccomando, queste sono le cose che
dovete
assolutamente comprare!» esclamò giuliva.
Si
avvicinò alla
giovane con un sorriso affabile che le gonfiva ancora di più
le
guance e le tolse dalle mani la gattina prendendola per la collottola,
posandola a terra, dove la piccola subito scappò via.
Infine,
trattandola neanche fossero amiche da una vita, la prese a braccetto e
si affacciò alla finestra della cucina, che dava sul cortile
interno.
«Vedi
le finestre
di quell'appartamento, quelle del secondo piano, proprio qui di fronte.
Ecco, io abito lì», le disse, indicandogliele con
il dito.
«Capisco,
quindi
sei la classica vicina impicciona», ribatté Cora,
divincolandosi e allonanandosi di qualche passo dalla donna;
già
trovava strano che la sconosciuta si atteggiasse a padrona di casa, ma
non poteva sopportare tutte quelle libertà con lei.
Jade divenne
paonazza in
viso. «Ehi! Mica passo le mie giornate a sbirciare fuori
dalla
finestra come una vecchia zitella, impicciandomi della vita degli
altri!» disse risentita, incrociando le braccia al petto
generoso. «E poi, sono qui per Saga, perché mi ha
chiesto
di dare una sistemata alla casa! Ti ho indicato le finestre solo per
farti vedere dove trovarmi in caso di bisogno.»
In quella
posa, in quel
momento, a Cora sembrò che la presenza della donna fosse
ancora
più ingombrante – e la sovrastasse – di
quanto non
fosse in realtà. Jade infatti era una donna di costituzione
robusta ma non grassa, accentuata dai suoi centosettantacinque
centimetri di altezza, tacchi esclusi, che la slanciavano ma non
nascondevano qualche chiletto di troppo che si portava addosso.
«Se
fosse davvero così, perché Saga non mi ha mai
parlato di te e perché non mi ha avvertita?»
Lentamente,
Cora
iniziò a indietreggiare fino a ritrovarsi vicino al cassetto
delle posate. Non distolse lo sguardo dalla donna, mentre con la mano
ne sfiorava la maniglia. Non si fidava delle parole di Jade, tanto
più che sapeva per certo che Saga non avrebbe commesso di
nuovo
l'errore di lasciarla in balìa di sconosciuti.
Continuò a
fissarla, senza mostrarsi intimorita o indecisa.
Per un
fugace momento
nella sua mente si materializzò il rammarico di aver
abbandonato
il corso di autodifesa che aveva iniziato a frequentare a Philadelphia;
ma anche di aver lasciato nel cassetto della sua scrivania, negli
uffici dell'agenzia investigativa dello zio Phil – in quel
maledetto cassetto che non aveva voluto saperne di aprirsi –
la
sua pistola. Quello era un piccolo segreto che condivideva con lo zio
Phil, ma non solo, l'uomo le aveva anche insegnato a sparare e, due
volte al mese, talvolta anche più spesso, la portava al
poligono
per farla esercitare e per scaricare lo stress accumulato. In seguito,
l'aveva anche aiutata nell'iter per ottenere il porto d'armi.
Se in quel
momento avesse
avuto a portata di mano la sua calibro 22 si sarebbe sentita
decisamente meglio. Però, quando aveva preso la decisione
finale
di tornare a Boston, lo aveva fatto convinta di potersi lasciare alle
spalle la sua vecchia vita e con essa anche le armi da fuoco, che non
dovevano più farne parte.
«E
va bene»,
concesse la donna, allargando le braccia con rassegnazione.
«Lo
ammetto, volevo fargli una sorpresa. L’ho visto uscire di
casa
questa mattina presto in gran fretta. Il che è strano,
perché da quando lo conosco non l’ho mai visto
passare
un’intera notte qui, né tantomeno sgattaiolare via
dal
cortile; ha sempre preferito passare dal negozio. Poi è
tornato
dopo un’oretta circa ed è uscito nuovamente poco
dopo. Si
è accorto appena di me, mi ha salutata e se
n’è
andato via.»
Jade
scostò la
sedia e si sedette al tavolo con aria triste. Era evidente la delusione
sul suo viso. Allungando la mano prese la macedonia e
l'avvicinò
a sé, la cosparse di yogurt e iniziò a mangiare
in
silenzio, sospirando a ogni boccone.
«Sai,
era da
diverso tempo che non lo vedevo da queste parti e mai così
trafelato per qualcosa! Non che i nostri orari coincidano sempre, sia
chiaro, ho una vita anch'io, siccome però in passato mi
chiamava
di tanto in tanto per sistemare la casa e avendo ancora una copia delle
chiave, di quando c'era il vecchio Josh... insomma, ho pensato che gli
avrebbe fatto piacere se avesse trovato tutto pulito e in
ordine», raccontò Jade, raschiando il fondo della
ciotola.
Nel vederla
così
abbattuta a Cora fece un po' pena la donna. Era durato però
solo
un attimo, ben conscia di non potersi permettere di abbassare la
guardia. Nonostante ciò, iniziava a sentirsi più
tranquilla, stupendosi dell'interesse che provava per quei discorsi.
«Capisco»,
abbozzò come risposta la giovane, passando cautamente dietro
la
donna e raggiungendo il frigorifero per prendere la bottiglia del
latte. Poi, da uno dei pensili prese il barattolo del caffè
solubile. «Entrare in casa d’altri senza permesso,
anche se
in passato lo si aveva, è un reato. Avresti però
dovuto
chiedere a Saga se ne avesse avuto piacere.»
Le mancava
qualcosa. Con
lo sguardo vagò per la cucina, aprì le antine dei
vari
mobiletti, ma della sua mug preferita non c'era traccia e non ricordava
neanche dove l'avesse vista l'ultima volta. Poi, le tornò in
mente all'improvviso che l'aveva scagliata a terra dopo la discussione
avuta con lo zio Phil e si intristì.
«C'è
una
tazza col tuo nome nel pensile alla tua sinistra, sul secondo
ripiano», disse Jade, alzandosi e mettendo la ciotola nel
lavello.
Cora si
girò verso
la donna e, dopo qualche secondo di titubanza, seguì il
suggerimento che le aveva dato. Quando aprì l'antina rimase
a
bocca aperta. Non se n'era accorta prima: appoggiato a una delle due
mug bicolore c'era un cartellino con il suo nome. Prese la mug e
sorrise nel vedere sul davanti il disegno stilizzato di un bel gattone
striato di colore rosa su sfondo bianco, con un musetto simpatico e sul
retro la sua coda. Se la strinse al petto, mentre gli occhi diventavano
lucidi.
«Vuoi
che ti
prepari un buon caffè? Ho visto che la macchina è
staccata e tu usi quello solubile», si propose Jade, lavando
e
asciugando con cura la ciotola e il cucchiaino, riponendoli poi al loro
posto. «Sai, lo scorso Natale mi hanno regalato una moka e
una
buona scorta di caffè macinato di ottima qualità.
Sapevo
che il vecchio Josh ne aveva una e ho pensato di portare un paio di
confezioni di caffè a Saga», raccontò,
senza
omettere anche che a farle quel regalo erano stati degli amici che
avevano fatto una breve vacanza in Italia e, una volta tornati, si
erano detti “grandi esperti nel caffè
più buono del
mondo”.
Cora sorrise
meravigliata, non credeva di poter bere di nuovo il caffè
come
lo faceva sua madre e questa volta ringraziò la donna per la
cortesia. Forse, nonostante la troppa invadenza, non doveva essere male
questa Jade.
Senza
rendersene conto si
era ritrovata seduta al tavolo assieme alla donna, sorseggiando il suo
caffellatte e ascoltando altri aneddoti su Saga per una buona mezz'ora.
«Mi
rendo conto
solo ora che ho sprecato tanti anni per una convinzione errata. Ah, se
almeno avessi osato farmi avanti prima...» sospirò
la
donna. «Adesso è tardi, sono sposata, con un
brav'uomo
certo, se solo fosse più...» diede libero sfogo ad
altri
sospiri, sempre più tragici, che fecero sorridere Cora
ancora un
volta.
La donna si
riscosse
dalle sue elucobrazioni da sognatrice e guardò l'ora.
«Come si è fatto tardi!» disse,
alzandosi dalla
sedia. «È arrivato il momento di togliere il
disturbo», aggiunse, accostando a sé la borsa. Dal
taccuino strappò un altro foglietto e scrisse velocemente il
suo
numero di telefono. Poi, prese Cora a braccetto e se la
trascinò
fino all'ingresso. «Chiamami se ti serve una mano, o solo per
spettegolare un po'», le disse con grande affetto, mettendole
in
mano il foglietto.
Cora chiuse
piano la
porta, sospirando di sollievo per la ritrovata calma, ma
trovò
all'improvviso una resistenza inaspettata.
«Dimenticavo
di
dirti una cosa importante», disse Jade, intrufolandosi quasi
a
forza in casa. «Saga ti ha lasciato un biglietto sul tavolino
in
salotto nel quale ti ricorda di aprire la posta arretrata e che ti ha
fatto fare una copia delle chiavi di casa. A proposito, molto carino il
portachiavi», ammiccò la donna. Poi, prese fra le
mani
quelle di Cora e le strinse calorosamente un'ultima volta, rinnovandole
l'invito a chiamarla.
«Questa
tipa
è completamente folle…»
balbettò Cora,
appoggiandosi sfinita alla porta, una volta chiusa e blindata con una
doppia mandata e il catenaccio. Si sentiva stordita dalle tante
chiacchiere e dall'esuberanza di Jade.
Rimase
lì per
alcuni momenti, ancora frastornata, ma con la crescente voglia di
chiamare Saga e sfogarsi con lui, o su di lui, per l'invadenza della
donna. Un'altra intrusa per casa, pensò sconsolata. Si
strinse
nelle spalle mentre un improvviso brivido le percorse il corpo.
A mente
fredda poteva
dire di essere stata fortunata: ma se Jade si fosse rivelata
tutt’altro che la persona che diceva di essere? Tutto era
comunque finito per il meglio, poteva tirare un sospiro di sollievo e
perché no, anche lasciarsi andare a una risata liberatoria.
«Kitty!
Kitty! Ora puoi uscire, quella se n’è
andata!»
Cora
entrò in
salotto ancora con la mente piena di quella moltitudine di parole e
informazioni – molte peraltro avrebbe preferito non venirne a
conoscenza – che Jade le aveva riversato addosso.
«Stramba,
sì, decisamente stramba! Ma forse non pericolosa. Una cosa
è certa: non la si può considerare una
rivale»,
ridacchiò. «Tutto sommato qualcosa di utile ne
abbiamo
ricavato, vero piccolina?» disse, chinandosi e accarezzando
la
codina dritta della gattina che nel frattempo era sbucata fuori dal suo
nascondiglio e ora si stava strusciando sulle sue gambe.
Si
guardò attorno
per un momento e vide sul tavolino il biglietto che Jade le aveva
indicato. Quando lo lesse vi trovò le medesime parole
riferite
dalla donna e si accigliò, appallottolando il foglietto con
rabbia. Sentì crescere prepotente in lei la voglia di dirne
quattro a Saga, anche se sapeva che lui non aveva alcuna
responsabilità di ciò che sentiva in quel
momento, ma
Cora non aveva nessun altro con cui sfogarsi.
Sbuffò
nel notare
che proprio lì vicino c'era il cellulare del ragazzo.
«Per
questa volta ti è andata bene!» mormorò
fra i denti
con voce minacciosa, ma si raddolcì nel vedere il
portachiavi
che le avevano regalato al fast food racchiudere le chiavi
dell'appartamento. Era un segno di grande fiducia nei suoi confronti.
Sorrise, mentre se lo avvicinava alla bocca, sfiorandolo con le labbra.
*****
Cora fece un
gran
sbadiglio annoiato. C'erano un sacco di cose da fare, ma quella mattina
non ne aveva un granché voglia. Si guardò attorno
in
cerca del suo mollettone, per provare a dare ordine a quei capelli che
ormai erano quasi del tutto asciutti. Detestava quando i suoi riccioli
si trasformavano in una massa informe sulla sua testa, nonostante
spendesse soldi in balsami e prodotti disciplinanti vari che
funzionavano poco. Fece il giro della casa, provò a
controllare
anche il bagno piccolo e la camera da letto, ma senza esito. Quando
tornò in cucina, sbuffando delusa, si ricordò che
il
giorno prima Saga glielo aveva tolto dai capelli: erano nel laboratorio
al piano di sotto. Piegò le labbra in una smorfia infantile.
Non
avrebbe potuto recuperarlo almeno fino al ritorno del ragazzo,
poiché lei non aveva le chiavi dei locali al piano terra, ma
anche perché Saga le aveva chiesto di non entrare senza il
suo
permesso. Cora era un tipo mediamente curioso, ma sapeva rispettare la
volontà altrui. Fece un'alzata di spalle, mentre tornava in
bagno, rassegnata ad accontentarsi di legarli alla bell'e meglio con
uno chignon annodato.
Una volta
terminato, si
accorse della presenza di Kitty sulla soglia. Si chinò per
invitarla ad avvicinarsi e prenderla così in braccio, ma la
piccola scappò via, rifugiandosi chissà dove.
«Ma
guardala!»
Se la
ritrovò in
cucina, seduta vicino alla ciotolina vuota e lo sguardo fisso su di
lei. La giovane sorrise. Prese una delle bustine di cibo dal mobile
delle scope e le riempì la ciotolina, rubandole una carezza
intanto che la palletta di pelo aveva il musetto affondato nei
bocconcini, prima di lasciarla in pace.
Fra le tante
cose che
ancora doveva sistemare c'era il computer, che per lei era molto
importante. Saga le aveva detto che poteva disporre della casa come
meglio voleva, ma lei non se la sentiva di rivoluzionarla. Con tutta
calma fece un altro giro dell'appartamento. Oltre alla camera da letto
che avevano occupato lei e Saga, ai due bagni, al salotto spazioso e
alla cucina, c'erano altre due stanze da letto: una era matrimoniale e
l'altra invece una singola, arredata per una ragazzina.
Al suo
interno vi aveva
trovato una scrivania, un’intera parete completamente
occupata
dalla libreria, un letto con il comodino e un comò
coordinato e
per finire, un armadio a muro incassato in una rientranza che ne
completava l’arredo. Tutti i mobili erano di una tinta
chiara, un
ciliegio naturale che ben risaltava con il colore di fondo. Le pareti
erano rivestite da una carta da parati dai colori tenui e sfumati, nei
toni sabbia e fucsia molto pallido, che trasmettevano la sensazione di
vivere in un mondo immerso fra le nuvole. C’era
però
qualcosa di particolare in quella carta che catturò
l’attenzione di Cora. Non solo alla vista sembrava diversa e
poco
convenzionale, ma appena la ragazza la sfiorò con le dita,
ne
ebbe la conferma: intrappolati fra due strati di carta sottile vi erano
piccoli elementi: foglioline, piume e petali di fiori.
Osservò
con
ammirata attenzione la stanza; anche lei aveva sognato da bambina di
avere una camera come quella dove si trovava ora: romantica e da fiaba.
La stanza
non aveva
bisogno di alcun lavoro particolare, la disposizione di ciò
che
c’era dentro sfruttava al meglio ogni spazio e rientranza
presente. Forse il colore non era più adatto alla sua
età
e avrebbe stonato un po’ con l’uso che voleva
farne, ma ci
si sarebbe adattata.
Si
rimboccò le
maniche e sistemò il computer sulla scrivania, che
occupò
quasi tutto il piano. Subito lo accese e selezionò una delle
sue
playlist preferite, alzando il volume al massimo: era più
piacevole lavorare con la musica!
Andava e
veniva dalla
stanza sempre a mani piene, instancabile. Svuotando i ripiani e
ordinandovi i suoi libri, i suoi raccoglitori e i suoi soprammobili.
Quando anche l'ultimo raccoglitore fu sistemato, sorrise per il lavoro
svolto. Accanto alla porta della camera c'erano due scatoloni pieni
delle cose che un tempo erano appartenuti alla precedente proprietaria.
La giovane li osservò indecisa.
«La
soffitta!» esclamò, ricordandosi che Saga le aveva
detto
che là poteva mettere tutto quello che non le serviva e al
tempo
stesso prendere ciò che voleva.
«E
ora... la posta arretrata!» disse, spolverandosi le mani dopo
aver posato alcuni libri accanto al computer.
Si sedette
comoda sul letto a gambe incrociate e con il mucchio di corrispondenza
davanti a sé, iniziando a suddividerla.
«Questa
è
una lettera della banca, questa pure, questa anche»,
borbottò, mettendole da parte.
«Pubblicità, offerta
di una carta di credito, altra offerta di una carta di credito, conti
da pagare, fattura per…» sbuffò nel
passarle una a
una, mettendole da parte in diversi mucchietti.
Al tempo
stesso pensava
al suo povero conto in banca che si sarebbe assottigliato sempre
più. Fino a poco tempo prima, lo stipendio che percepiva
dallo
zio Phil le aveva permesso di arrivare a fine mese con
tranquillità;, ora invece, con il lavoro part-time, quelle
entrate avevano subìto un bel taglio. E, se nella sua
vecchia
vita aveva potuto contare sulla suddivisione dei costi delle bollette
con Chris, ora tutte le spese sarebbero state sulle sue sole spalle.
Fece due calcoli a mente, valutando se con le sue attuali entrate, quei
trecentocinquanta dollari a settimana, sarebbe stata in grado di
sopravvivere. Mugugnò che forse avrebbe dovuto fare economia
su
qualcosa, ma era certa che ce l'avrebbe fatta. Anche se Saga le aveva
messo a disposizione l'appartamento, non poteva certo aspettarsi che le
pagasse i conti. Di questi problemi pratici non aveva ancora modo di
parlargli, ma si ripromise di farlo al più presto.
Quando
arrivò
all'ultima busta, quella mandatale dallo zio Phil, il cuore prese a
battere nervoso. Sapeva già cosa conteneva. Si concesse un
lungo
respiro profondo e iniziò ad aprirla con molta cura.
Dentro vi
trovò
altre buste più piccole e una cartelletta dell'archivio
della
polizia, accompagnata da una lettera scritta a mano. Rimase immobile
per diversi secondi, le sue sicurezze vacillavano a ogni respiro.
Richiuse la busta, stringendosela al petto, domandandosi se davvero si
sentisse pronta a scoprire la verità su suo padre e cercando
dentro di sé il coraggio di scoperchiare quel vaso di
Pandora
che fino a quel momento aveva tenuto a bada i suoi incubi e le sue
paure. Forse era ormai tardi per ripensarci. Prese la lettera di zio
Phil e iniziò a leggerla.
Avrei potuto
darti la
copia censurata di questo materiale, così come mi aveva
supplicato di fare tua madre, ma ho ritenuto che fossi in grado di
capire e sopportarne il suo contenuto. Non mi è mai piaciuto
infiocchettare la verità, se non la si affronta per quello
che
è davvero non ci si può lasciare il passato alle
spalle e
andare avanti. Spero che con il fascicolo che hai fra le mani tu possa
trovare quello che cerchi, ma sarà dura per te, non posso
nascondertelo. Quando si fa il lavoro di poliziotto è
più
facile; si riesce a passare sopra a molte cose, a vedere con maggiore
obiettività quegli aspetti e quegli elementi che gli altri
neanche riuscirebbero a capire. E tutto questo perché i casi
che
affrontiamo trattano di estranei. Quando invece una persona cara,
familiare o amico, diventa “il caso”, allora si fa
tutto
dannatamente più difficile. In noi scattano certi meccanismi
naturali che inevitabilmente interferiscono col nostro lavoro e
ciò sarebbe inammissibile.
Ho fiducia
che saprai
affrontare tutto ciò che leggerai in queste pagine con la
giusta
obiettività, ma se avrai bisogno di parlare, di avere
chiarimenti o anche solo se starai passando un momento di sconforto,
non esitare a chiamarmi.
Cora sorrise
tristemente
nel leggere quelle righe, mentre una lacrima le bagnava la guancia. A
volte, lo zio Phil era capace di mettere da parte i suoi modi di rude
poliziotto e di commuoverla; e quel messaggio, così pieno di
sentimento, l’aveva toccata nel profondo.
L’incoraggiamento
e la fiducia che le aveva dichiarato erano un toccasana per lei, per
scacciare anche gli ultimi timori che sentiva sempre presenti.
Accantonò
la
lettera e iniziò a visionare la cartelletta. La prima pagina
non
era nulla di che, simile a quella di tanti altri fascioli che le erano
passati per le mani negli anni, con dati e informazioni generali che
poco andavano oltre a quel “incidente” che poteva
voler
dire tutto e niente. Nonostante ciò, si sentiva un
po’ a
disagio, come se stesse curiosando in qualcosa di troppo privato che
riguardava suo padre. Passò quindi a pagina tre, al
resoconto
del primo sopralluogo, poiché la seconda conteneva altri
dati
che per lei erano di scarso interesse.
A ogni riga
che i suoi
occhi scorrevano, a ogni parola che leggeva, accompagnata dal fremente
movimento delle labbra in impercettibili sussurri, sentiva il cuore
battere più forte e lo stomaco aggrovigliarsi.
“La
chiamata pervenuta al 911 è arrivata alle nove e trentadue
della
sera. Il luogo indicato come probabile scena del crimine è
il
parcheggio di un locale pubblico nelle vicinanze del quartiere
universitario. La prima pattuglia è arrivata sul luogo
indicato,
alle nove e quarantuno. L’indirizzo
è…”
«Non
è molto
lontano dalla casa di Dohko», mormorò
sovrappensiero.
Mentalmente si fece l'appunto di dare un'occhiata di persona alla prima
occasione.
“Il
corpo della vittima…”
Nel leggere
quelle parole così impersonali ebbe un sussulto.
“Non
gli è stato trovato nessun documento addosso, né
portafoglio, né alcun tipo di oggetto personale,
probabilmente
rubati. Ma l’identificazione è comunque certa. Ci
sono
escoriazioni sul collo e al polso, in corrispondenza
dell’orologio, c’è il tipico segno sulla
pelle.
Il
corpo è stato trovato riverso a terra e a faccia in
giù,
adagiato sul lato sinistro. Quando è stato girato, il volto
presentava diverse lesioni. Le tasche del cappotto erano state frugate,
le fodere interne si presentavano rivoltate verso l’esterno.
In
un primo momento non sono state trovate le chiavi della macchina,
rinvenute poi a terra, vicino a una moto parcheggiata a pochi metri di
distanza. Sono stati riscontrati segni di tentativo di scasso
sull’auto. Una volta aperta, i documenti mancanti sono stati
rinvenuti al suo interno e l’identificazione ha portato alla
scoperta che l’uomo era un poliziotto. Confermata poi anche
dal
capitano Burton, una volta arrivato sulla scena.”
La
descrizione del
ritrovamento del corpo del padre, anche se in quelle pagine non era
stato reso nei particolari più minuziosi, l’aveva
lasciata
con l’angoscia nel cuore. Gli occhi le si riempirono di
lacrime,
ma si fece forza e le trattenne. Nel corso degli ultimi due anni ne
aveva letti tanti di rapporti d’indagine di quel tipo e
sapeva
cosa aspettarsi, ma era stata comunque dura. Si passò il
dorso
della mano sugli occhi per cancellare quelle lacrime che stavano
pericolosamente sfuggendo al suo volere. Poi, si concesse un respiro
profondo per farsi coraggio e continuò nella lettura.
“Sono
state fermate diverse persone presenti sul luogo, ma poche hanno saputo
dire qualcosa sull’accaduto. Ancora meno sono state le
testimonianze, fra quelle raccolte, che hanno fornito elementi
significativi.
I
primi a essere ascoltati sono stati due giovani poco più che
maggiorenni. Hanno dichiarato di aver sentito un forte rumore e, dopo
qualche minuto, un gran stridore di pneumatici e un'auto lasciare il
parcheggio a tutta velocità. Non hanno saputo dire di
più
riguardo la vettura, se non che sembrava di colore scuro. Hanno
aggiunto anche di aver sentito un secondo rumore, più forte
del
precedente, simile a uno scontro fra due auto. A un primo controllo dei
fatti, sono state riscontrate tracce fresche di pneumatici e, a qualche
decina di metri dal punto del ritrovamento della vittima, sono stati
effettivamente rinvenuti numerosi frammenti di vetro che potrebbero far
pensare a un fanalino rotto dell'auto in fuga. I due giovani sono stati
sentiti una seconda volta, dopo circa mezz’ora, per
confermare le
loro precedenti dichiarazioni, ma a domande più specifiche o
alla richiesta di un nuovo racconto dei fatti, hanno iniziato ad
agitarsi e si sono contraddetti più volte, nascondendosi
dietro
alle solite risposte elusive: “Non lo so”,
“Non
ricordo”, “Non ho visto” e “Non
voglio essere
coinvolto”. Non c’è voluto molto per
capire che i
due erano tossicodipendenti e che, con molta probabilità si
erano appena fatti di qualcosa.
Sono
stati sentiti altri due testimoni: due donne di circa
trent’anni.
Avevano appena parcheggiato a poche decine di metri dal punto in cui si
trovava il corpo della vittima e si stavano accingendo a entrare nel
locale. Hanno notato un veicolo fermo proprio in mezzo al parcheggio e
due uomini scendere dal mezzo per poi risalirvi di corsa e partire a
tutta velocità. Le testimoni non hanno fatto caso alla targa
dell’auto ma hanno dichiarato che sembrava un vecchio modello
di
Ford Mustang degli anni ’70, di colore scuro, forse blu.
Anche
queste due testimoni non sono sembrate attendibili al cento per cento.
Davano infatti l’impressione di essere un po’
alticce.”
A ogni riga,
a ogni
parola che leggeva, diventava sempre più dura per Cora
andare
avanti. Le informazioni, seppure frammentarie, componevano un quadro
che si andava via via più dettagliando e nella sua mente si
stavano formando chiare le immagini del luogo e il corpo esanime del
padre, abbandonato a terra senza alcuna pietà, trattato con
distacco anche dai suoi colleghi.
La giovane
era
consapevole che l'incartamento conteneva ben altro, o così
sperava, ma al tempo stesso temeva ciò che avrebbe trovato:
prove scentifiche, esami di laboratorio, fotografie dei vari reperti,
della scena del crimine e... anche della vittima.
Vedere il
cadavere di suo padre avrebbe cancellato il ricordo di quando era
ancora vivo?
Chiuse il
fascicolo e se
lo strinse al petto. Di nuovo gli occhi erano velati di lacrime, ma
dentro di sé sentiva crescere un'incomprensibile rabbia. Non
comprendeva se fosse dovuta al lavoro così superficiale di
quegli agenti, o al vuoto che provava per non avere il padre nella sua
vita.
Scese dal
letto e prese a
camminare per la stanza: lo spazio non era molto, ma sufficiente
perché potesse inscrivere un cerchio al suo interno e
contarne i
passi. Quindici. Tanti le erano concessi per fare il giro. Ma non si
era data alcuna restrizione per quante volte avrebbe fatto il
percorso per ritrovare un poco di calma. Prima di riprendere a leggere
“il caso” del padre, prese il block notes e
stilò un
elenco di punti: l'indirizzo di quel parcheggio, il modello dell'auto,
fare una ricerca sulle denunce alle assicurazioni di danni riguardanti
dei fanalini rotti e ammaccature della carrozzeria...
A ogni punto
che
aggiungeva, annuiva convinta. Rilesse con attenzione quegli appunti:
ora aveva un punto di partenza. Si ripromise, non appena messo piede
nel magazzino dell'agenzia investigativa, di fare quei primi controlli
sfruttando l'accesso all'archivio nazionale tramite l'account
dell'agenzia. Si sentiva entusiasta per quell'idea. Poi, all'improvviso
si afflosciò sulla sedia, demoralizzata.
«Ma
chi voglio
prendere in giro. Cosa potrò mai trovare dopo tutti questi
anni,
che non sia già venuto fuori con le indagini di
routine?»
si lamentò, scrollando debolmente la testa.
Alzò
lo sguardo
sullo schermo del computer: l'orologio segnava poco dopo l'una e un
quarto del pomeriggio. Aveva saltato il pranzo ma non aveva fame. La
musica continuava a fare da sottofondo, in un loop infinito.
Valutò
che aveva
appena il tempo per risistemare le carte, prepararsi e uscire per
prendere l'autobus. Si avvicinò di nuovo al letto, prese il
fascicolo e lo inserì nella busta. Nel fare quell'operazione
da
sotto l'incartamento cadde qualcosa che planò a terra,
scivolando sotto il letto. Quando riuscì a raggiungerlo e
recuperarlo, si accorse che si trattava di una fotografia. E nel
momento in cui la vide, il mondo le crollò addosso.
Si
accasciò a
terra, con la schiena appoggiata al bordo del materasso e gli occhi
dolorosamente incatenati su quell'istantanea.
Il
corpo era mostrato in posizione supina, col volto leggermente girato
verso destra. Era sdraiato per terra accanto a un'auto parcheggiata
della quale si vedeva solamente parte della fiancata e lo pneumatico
posteriore destro. La parte bassa della carrozzeria, vicina ai fanalini
di coda, era sporca di sangue. Erano delle strisciate, come se Greg
avesse cercato di aggrapparsi per tentare di rialzarsi, ma fosse poi
caduto. Gli occhi erano vitrei, ancora spalancati e sembravano guardare
dritti l’obiettivo della macchina fotografica. Sotto quella
maschera di sangue e fango era ancora ben riconoscibile il suo viso:
pallido e tumefatto. Aveva riportato diversi tagli e abrasioni, causati
dall’impatto con l’auto che l’aveva
travolto e dalla
conseguente caduta sull’asfalto, che ne distorcevano un poco
i
tratti. Sul lato sinistro, quasi in primo piano, le ferite erano
più marcate.
Dalla
bocca era colato un rivolo di sangue ormai rappreso, scivolato poi
lungo il mento e il collo. La camicia bianca, sotto la giacca e il
cappotto, aperti e rimasti in una posizione fin troppo disordinata, era
intrisa di sangue. Il braccio sinistro ricadeva sul corpo. La
fotografia mostrava chiaramente una grossa ecchimosi sul dorso della
mano, soprattutto all’altezza delle nocche, e sulle dita: tre
erano spezzate. Erano chiaramente gonfie e un poco distorte. Da sotto
il corpo si poteva vedere, nonostante la morte fosse avvenuta di notte,
una grande chiazza rossastra che era strisciata sull’asfalto
del
parcheggio, arrivando a macchiare anche dei piccoli cumuli di neve
sporca di smog.
Cora non
sapeva dire da
quanto tempo avesse smesso di respirare. Sentiva freddo dentro. Il
cuore non batteva più, o così le sembrava. Tutti
i
muscoli del suo corpo erano molli e privi di forze. La sua mente
svuotata di ogni cosa. Persino le parole di fiducia dello zio Phil
erano divenute un eco lontano.
*****
«Cora!
Cora!»
Le
sembrò che
qualcuno la stesse chiamando, ma quella voce le arrivava lontana e
ovattata. Lentamente abbassò la testa sul petto e chiuse gli
occhi, pesanti e dolenti per le lacrime versate. Era stanca e poco
lucida, ma ancora poteva distinguere a tratti la musica che continuava
a essere riprodotta.
«Cora!»
La giovane
si
ridestò di colpo da quel suo torpore sgranando gli occhi.
«Saga? Cosa ci fai qui?» domandò,
confusa nel
trovarsi di fronte il ragazzo che la stava scuotendo con delicatezza.
Si
passò i palmi
delle mani sugli occhi, stropicciandoli e cancellando ogni traccia di
lacrime, tornando a guardarlo e abbozzando un sorriso tirato.
«Sono
tornato a
prendere il cellulare che ho dimenticato questa mattina, per la fretta.
E tu invece, cosa fai in casa? Credevo fossi andata al
lavoro»,
le disse, aiutandola a tirarsi su da terra.
«Certo!
Sì!
Stavo giusto per prepararmi», rispose lei, sempre
più
confusa, raccogliendo alla rinfusa la posta che ancora stava sul letto.
«Sono
quasi le sei
del pomeriggio. Penso che ormai sia un po’ tardi»,
replicò lui, con voce calma e gentile. «Cosa
c’è che non va?» Saga la fece girare
verso di
sé, scrutandola con attenzione. «Lo vedo che hai
pianto.
Qui non ci dovrebbe essere nulla che ti possa dare preoccupazioni,
perché allora non riesci a essere serena?»
Il
comportamento
sfuggente della ragazza gli diede la conferma, ma non voleva demordere.
Le accarezzò una guancia e le sorrise, cercando di
rassicurarla
che non doveva avere timore di dirgli ciò che la tormentava.
Gli occhi di
Cora si velarono nuovamente di lacrime.
«Ho
bisogno di
restare sola», mormorò, cercando di sfuggire allo
sguardo
interrogativo del giovane. «Per favore, non guardarmi in quel
modo, non commiserarmi», lo implorò, trovando un
poco di
coraggio per incrociare il suo sguardo: era così limpido e
innamorato che in quel momento la faceva stare ancora più
male.
Si
allontanò da
lui e uscì dalla stanza senza più dire una
parola,
trattenendosi a stento dallo scoppiare in lacrime.
«Perché
ogni
volta che la incontro si comporta in questo modo? È
arrabbiata o
cosa? Mi è quasi venuta addosso e non ha fatto una
piega»,
commentò a mezza voce Aiolia, affacciandosi un secondo dopo
nella cameretta.
«Non
è
arrabbiata», rispose Saga, raggruppando di nuovo la posta in
un
unico mucchio e posandolo poi sulla scrivania con un sospiro.
«Non so cosa le sia preso. Però
c’è qualcosa
che la turba e la fa stare male», ammise, massaggiandosi
nervosamente la tempia.
Il giovane
Cooper
affiancò Saga e, con un buffetto sul braccio gli impose di
smettere di tormentarsi la cicatrice. Poi, si mise a dare
un’occhiata in giro.
La sua
attenzione fu
subito attirata dalle fotografie che sbucavano dalla busta grande. Con
la punta di un dito allargò un poco l'apertura giusto per
sbirciare meglio.
«Sarà
come
dici, del resto sei tu quello che la frequenta, però io
l’ho sempre vista così, sia a Philadelphia che
qui.»
Quando si accorse che l'altro lo stava osservando con un'espressione
stupita, si sentì un completo idiota. «Non te ne
avevo
parlato? Ma sì che ti ho raccontato della nostra
disavventura
nella metropolitana a Philadelphia!» insistette, ficcandosi
le
mani nelle tasche dei jeans.
«Non
mi hai mai
detto che ti riferivi a lei. Non ne hai accennato neppure dopo che sei
tornato dal suo appartamento, quando ti ho chiesto quel favore; e anche
ieri, nel negozio, hai perso un’altra occasione per dirmi che
l’avevi già conosciuta»,
replicò Saga, con
una punta d'infantile risentimento nella voce e fissandolo torvo.
Il giovane
aveva sempre
ritenuto Aiolia più di un amico, erano quasi fratelli. Si
frequentavano praticamente da tutta la vita, ma venire a conoscenza che
gli aveva taciuto una cosa così importante, metteva in
discussione tutto il loro rapporto.
«Allora
credo di
essermi dimenticato di dirti che anche quella volta era presente
Aiolos», rispose con un certo imbarazzo l'altro. Sentendosi
sotto
accusa, si affrettò a giustificarsi come poté.
«Te
lo giuro, non l’ho chiamato io! Me lo sono ritrovato davanti
proprio di fronte alla casa di nonno Dohko! Non ho potuto far nulla per
impedirlo. Ma non è successo niente di male,
davvero!»
aggiunse, con voce piena di panico. Abbassò lo sguardo
aspettandosi una sfuriata.
«La
cosa importante
è che non ci siano stati problemi», disse Saga con
voce
mesta, lasciando di stucco il giovane.
Per alcuni
minuti
calò un silenzio teso fra i due, rimasti soli in quella
stanza.
Nonostante le sue parole concilianti il rampollo Hayes provava una
strana gelosia; ma a occupare i suoi pensieri era più la
preoccupazione per Cora che il bisogno di approfondire il significato
delle parole di Aiolia.
Scampato il
pericolo, il
giovane Cooper riprese a curiosare in giro. Era un amante delle serie
poliziesche e quelle fotografie lo attiravano molto.
«Wow!
Questo
materiale è fantastico!» esclamò,
prendendone una.
Poi ne visionò un’altra. «Sembrano vere!
Si vedono
anche i contrassegni a terra. Chissà da quale episodio di
CSI
sono tratte», commentò; ma quando poi ne prese una
terza,
che ritraeva il volto esanime di Gregory Miller, sussultò,
sgranando gli occhi. «Mio Dio. Questo
è… questo
è…» balbettò con labbra
tremanti.
Fece un
cenno a Saga e gliela mostrò.
«Ci
aveva raccontato che era morto in servizio, ma…»
Saga gli
prese la
fotografia dalle mani e la studiò con attenzione. Lui non
sapeva
nulla di quella storia, ma aveva già visto il viso di
Gregory
Miller prima di allora. Alzò lo sguardo sul ripiano della
libreria di fronte a sé, dove era riposto il ritratto del
padre
di Cora e il suo sguardo si perse nel vuoto.
Lasciò
cadere la
fotografia sulla scrivania e, a passi lenti, si diresse verso la camera
da letto principale, nella quale immaginava si fosse barricata Cora.
Mise la mano sulla maniglia. Gli sarebbe bastata una leggera pressione
per abbassarla e aprire la porta. Sospirò, appoggiandosi con
la
fronte sul legno lucido.
Kitty si era
materializzata fra i suoi piedi e aveva iniziato a strusciarsi sulle
sue gambe, facendo le fusa.
«Se
solo avessi
immaginato…» Riusciva perfettamente a sentire la
ragazza
piangere, al di là di quella barriera che li separava.
«Non posso obbligarti a parlarmene, a condividere con me
questo
peso così doloroso; quando vorrai, quando sarai pronta ad
aprirti, io sarò al tuo fianco, ad ascoltarti e aiutarti.
Solo…» sospirò ancora una volta.
Sentiva gli occhi
pizzicare. «Ti prego, non torniamo al punto di partenza, non
lasciarmi fuori dalla tua porta di nuovo.»
Saga rimase
ad aspettare
una reazione da parte di lei, disilluso. Quell’attesa era
pesante
e straziante per lui. Si rammaricava di non poter essere
d’aiuto
a Cora.
«Attenderò
tutto il tempo di cui avrai bisogno. Però, ti prego, esci
almeno
un momento. Fammi stare tranquillo che posso lasciarti qui da sola per
il tempo che ti serve.»
La porta
della camera si
aprì dopo qualche minuto, prima solo uno spiraglio nel quale
la
gattina si intrufolò subito, poi la giovane
l'aprì quasi
completamente, ma lei rimase sulla soglia. I suoi occhi erano arrossati
e le guance bagnate di lacrime. Senza dire nulla, accarezzò
il
viso triste di quel ragazzo che sentiva di amare così tanto.
Si
sforzò di fargli un sorriso e gli diede un bacio leggero
sulle
labbra, indugiando infine in un abbraccio triste, prima di rientrare in
camera e chiudere nuovamente la porta.
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Capitolo 18 *** Capitolo XVII ***
XVII
«La questione
che mi stai ponendo è molto delicata e comporta delle
implicazioni non da poco.»
L’uomo,
accomodato su una delle poltrone di pelle dello studio privato
nell’attico di New York della famiglia Hayes, aveva posato il
bicchiere di cognac sull’antico tavolino in radica di noce e
si
era allungato per prendere un “Re”, un
pregiatissimo sigaro
Montecristo, dall’elegante scatola di legno intarsiata che
gli
stava offrendo Shion Hayes. Ne aveva annusato l’aroma e
saggiato
la consistenza con le dita, prima di morderne
un’estremità
e accenderlo. Per qualche attimo si era lasciato trascinare dal piacere
intenso di quell’opera d’arte fra le sue dita.
Il
padrone di casa si era avvicinato a una delle grandi finestre che
davano sul terrazzo. Con le mani dietro la schiena e
un’espressione seria e concentrata osservava i suoi giovani
ospiti fare conversazione con Kanon: alcuni erano diffidenti nei
confronti del figlio, altri invece più aperti e amichevoli.
La
giovane Saori, un poco in disparte, era guardata a vista dal loro
accompagnatore, teso come una corda di violino. Shion aveva soffermato
per un momento l’attenzione su di lei, così
introversa e
rassegnata. Per certi versi le ricordava Saga. Poi, aveva osservato
Kanon, spavaldo e sicuro di sé, arringare quei ragazzi
sfoggiando la sua competenza nell’ambito finanziario;
passando in
seguito, con assoluta disinvoltura, a parlare di sport, cultura e
gastronomia.
Si
era domandato quando il figlio fosse diventato un tale esperto di cibo,
frequentando fast food e steak house. Aveva fatto un respiro profondo,
alzando il mento e guardando più in lontananza lo skyline
ancora
ferito della città, chiedendosi se stesse facendo la cosa
giusta
nel continuare con i suoi programmi.
Il suo ospite, nello
studio, aveva tirato un’altra lunga boccata, sbuffando fuori
del fumo grigiastro.
«Gli
scenari sono tanti e nessuno positivo», aveva ripreso a
spiegargli. «Non è possibile uscirne con le mani
pulite e
la reputazione immacolata.»
Si
era servito ancora un dito di cognac e si era portato lo snifter sotto
il naso, roteandolo un poco, inebriandosi con quell’aroma
intenso
e antico.
«C’è
modo di limitare i danni?» gli aveva chiesto Shion, con lo
sguardo sempre fisso verso l’esterno.
L’uomo
aveva riflettuto per qualche secondo, continuando a far movere
lentamente il liquido ambrato. Poi, si era alzato dalla poltrona e
aveva raggiunto l’amico, nella sua mano sinistra il bicchiere
e
fra le dita della destra il sigaro pregiato.
«Da quanti
anni ci conosciamo, ormai?» gli aveva chiesto.
«Più
di trent'anni.»
L'avvocato
aveva spostato lo sguardo sul gruppetto che stava diventando un
po’ troppo rumoroso. Con la coda dell’occhio
però,
non aveva perso di vista Shion, studiando le sue reazioni.
«Tuo
figlio è cresciuto bene. È diventato un
bell’uomo
che sa affascinare le persone. Immagino che ne sarai molto
orgoglioso», aveva commentato. Il tono che aveva usato
però non era di sola ammirazione.
Shion
Hayes aveva fatto uno strano ghigno. Sì, poteva dire di
andar
fiero di come era cresciuto Kanon, anche se ancora il ragazzo si
divertiva a procurargli qualche grattacapo,ma era un aspetto che
talvolta lo divertiva.
L'ospite
aveva preso una nuova boccata dal sigaro, trattenendo nei polmoni tutto
il gusto del tabacco, espirandolo poi dal naso, senza fretta.
«La
giurisprudenza in Massachusetts, per questi casi, è
abbastanza
complessa e imprevedibile. Non tanto per i reati, ben codificati,
quanto invece per il fatto che alcune decisioni sono a discrezione del
giudice e del tribunale. Dalle carte che mi hai mostrato, direi che di
attenuanti ne hai a tuo favore. Anche se, purtroppo, sono solo delle
scritture private che poca rilevanza avrebbero in un procedimento.
Potrebbero venire dichiarate contraffatte con estrema
facilità.
Per tua sfortuna ci sono anche aggravanti di non poca rilevanza che
potrebbero pendere su di te. Anche a legalizzare la cosa
all’epoca, avrebbe cambiato poco. Posso darti un solo
consiglio,
per cercare di mitigare l’eventuale pena derivante dalla
sicura
condanna, se si dovesse arrivare davanti a una giuria: trova una
ragione valida e convincente che possa spostare l’ago della
bilancia a tuo favore. Ti basterebbe dimostrare che pur
nell’illegalità, hai agito per un bene superiore,
per
salvare delle vite. Sulle giurie popolari cose di questo tipo fanno
sempre colpo. Questo non ti assolverà da tutti i reati, ma
potrebbe alleviarti parte del peso più grosso.»
Si
era avvicinato all’angolo bar e aveva posato il bicchiere
ormai
vuoto. Poi, era ritornato alla poltrona per prendere la sua
ventiquattrore.
«Questo
consiglio, naturalmente, vale se i prossimi eventi dovessero prendere
una piega, diciamo… legale. Conoscendo tutte le parti
coinvolte,
parlando non da avvocato penalista, ma esclusivamente da amico
disinteressato, ti consiglierei di trovare qualcosa di scottante nei
loro riguardi; qualcosa che ti permetterebbe di prenderli per le palle
e tenerli a bada per il resto dei loro giorni.»
Shion
non aveva risposto nulla, ma all’avvocato non era sfuggita
quell’improvvisa rigidità nella schiena
dell’altro,
così come le contrazioni delle sue mani.
«Ho
sentito qualche voce che vuole il vecchio con un piede nella fossa.
Pare che con l’avvicinarsi del grande momento sia diventato
innocuo e molto sentimentale. Forse è per questo che ora
vuole
conoscere la verità. Ciò che invece muove gli
altri...
sinceramente non lo so.»
L'avvocato
aveva preso un’ultima boccata dal sigaro e ne aveva
schiacciato
il mozzicone nel portacenere di cristallo, posto sul tavolino accanto
alla poltrona che aveva occupato poco prima.
«Vorrei
saperlo anch’io», aveva commentato Shion, con tono
pensoso.
«Sono passati così tanti anni… mi
auguravo che
fosse tutto morto e sepolto, dimenticato. Invece mi sono solamente
illuso. E ora, quei due sono tornati alla carica
all’improvviso.
Non riesco a capire perché proprio ora. In passato
è vero
che si sono adoperati per ritrovarli, mettendo in campo grandi risorse,
ma passati un paio di anni, hanno fatto di tutto per farli dichiarare
legalmente morti prima del termine di legge», aveva
raccontato
Shion, passandosi una mano a stropicciarsi il volto.
«Hai
mai pensato che possano essere mossi dal motivo più vecchio
del
mondo? Soldi, magari un’eredità», aveva
ipotizzato
l’avvocato. «Non l’ho conosciuta
personalmente, ma in
giro si diceva che la madre, nonostante la giovane età,
fosse
molto astuta. Così tanto che era riuscita ad accentrare su
di
sé l’intero patrimonio di famiglia.»
Shion si era
voltato di scatto, inchiodando l’altro con uno sguardo
feroce,
abbozzando poi un sorriso stentato.
«Eredità
dici? Loro non possono aspirare a nulla che i miei figli e io non
abbiamo già; e decuplicato nel suo valore.»
«Sai
com’è, i ricchi sono avidi. Soprattutto se si sono
fatti
da sé e sono avvocati.» Dicendo quelle parole, sul
volto
dell’amico di Shion era comparso un sorriso malizioso.
«Beh, quando scopri il vero motivo, fammi un fischio! Buon
ritorno a casa, Shion», aveva infine concluso, varcando la
soglia
dello studio e salutando l'altro con un gesto della mano.
*****
Se non avesse dovuto
necessariamente tornare a Boston, Shion Hayes avrebbe preferito di gran
lunga rimanere a New York. Ormai, il centro nevralgico dei suoi affari
era stabilito nella Grande Mela da anni, non avrebbe avuto quindi alcun
problema a nominare un vicepresidente che si occupasse della vecchia
sede nella sua città natale, in modo da rimanere il
più
lontano possibile dal suo pesante passato e dalle complicazioni che i
Taylor rappresentavano per lui e la sua famiglia. Ora però,
quello stesso passato, con tutti i suoi segreti, rappresentato dai due
gemelli Taylor, aveva varcato i confini dello Stato e lo aveva
raggiunto anche a New York, dove credeva di essere al sicuro.
Era certo di essere stato
bravo a tener loro testa, per tutta la durata di quello spiacevole
incontro. Ma con loro non si poteva mai abbassare la guardia e quel
particolare, quella strana telefonata che aveva ricevuto Richard, in
qualche modo lo aveva messo in allarme. Poteva essere un bluff,
oppure davvero qualcosa si era messo in moto, a distanza di
così
tanti anni. Era stato per questo motivo che non aveva perso ulteriore
tempo e, il giorno seguente, aveva subito convocato
l’avvocato
Stone. Non faceva parte dello studio di avvocati che curava gli
interessi della famiglia e delle imprese, ma era uno fra i
più
famosi e competenti penalisti di New York, ed era un suo amico
personale di lunga data.
Le indicazioni che Stone
gli aveva dato non erano state fra le più rassicuranti, ma
questo se l’era aspettato. Per i vari casi ipotizzati,
perché Shion inizialmente aveva imbastito dei discorsi
ipotetici, che andavano dal rapimento – e più
nello
specifico, complicità in rapimento, cambiava solo la
dicitura ma
portava alla stessa pena – alla falsificazione di documenti,
fino
all’accusa di intralcio in un’indagine ufficiale,
le
prospettive non erano affatto rosee. Le pene previste erano pesanti e
andavano da un minimo di quindici anni, all’ergastolo: nel
caso
fossero state accumulate. Di scappatoie ce n’erano. Ce
n’erano sempre per un buon avvocato che si rispetti, ma nel
caso
di Shion Hayes erano difficili da adottare; e oltretutto, a pagarne le
conseguenze non sarebbe stato solamente lui. C’era poi la
concreta possibilità di perdere tutto.
«Al diavolo il
perdere tutto!» borbottò stizzito, sbuffando come
un
bufalo mentre rimuginava ancora sulle parole dell’amico
avvocato.
Si mosse a disagio sul
sedile nel grande jet privato sul quale stava viaggiando assieme a
Kanon e agli ospiti straneri per tornare a Boston. Con un gesto secco
rifiutò il drink che l’hostess gli aveva portato,
su sua
richiesta. La medesima insofferenza l'aveva usata anche con i
precedenti tentativi che la ragazza aveva fatto per rendergli
più confortevole il volo. Subito si rese conto di essersi
comportato come un bisbetico e alla fine decise di accettare il whisky,
lasciandolo però sul tavolino, accanto ai documenti che si
era
ripromesso di visionare durante il volo ma che, con la testa occupata
da altri pensieri, non vi era ancora riuscito.
Stava fissando quel
bicchiere continuando a rimuginare. Le leggere vibrazioni
dell’aereo increspavano in maniera quasi impercettibile la
superficie di quelle due dita di whisky. Con la mano strinse il
bracciolo del sedile. Poi, prese quei documenti e provò a
distrarsi col lavoro. Dietro di sé arrivavano indistinti i
brontolii del figlio: praticamente da quando erano partiti per
raggiungere l’aeroporto non aveva fatto altro che lamentarsi
e
stare attaccato al cellulare. Scrollò la testa con
rassegnazione, catalogando anche quello fra i fastidi che in quegli
ultimi giorni lo irritavano. Sbuffò, ributtando i fogli sul
tavolino e girandosi un poco per guardare il biancore accecante fuori
dal finestrino.
«Neanche questa
volta ha risposto», sentì il figlio lamentarsi. Lo
intravide con la coda dell'occhio passargli di fianco per la quinta
volta in meno di un’ora, sfiorando il bracciolo del sedile
con la
sua andatura vacillante, per poi sparire subito dopo dietro la tendina
divisoria.
L'uomo scrollò
ancora una volta la testa. Kanon non era mai stato un ragazzo quieto,
ma tutto quel movimento era davvero troppo anche per lui. Poteva solo
immaginare a cosa fosse dovuto; e in qualche modo gli dispiaceva, per
via dei progetti futuri a cui era destinato. L’hostess,
Kimberly,
che lavorava per una piccola compagnia specializzata nel fornire
equipaggi per i voli business e privati, era una bella ragazza, bionda
e con gli occhi azzurri. Gentile, intelligente e anche molto brava nel
suo lavoro. Per questo il figlio aveva insistito molto
affinché,
in tutti i loro voli, lei risultasse come membro fisso
dell’equipaggio. E non era difficile capire di cosa potessero
“parlare” dietro quelle tendine scure.
«Kanon!» chiamò Shion, mentre il ragazzo
gli passava a fianco per l'ennesima volta.
«Che
c’è?» rispose lui, con tono irritato.
Allo sguardo
torvo del genitore replicò con un rapido sorrisetto.
«Siediti un
momento, per favore.» La voce dell’uomo era pacata,
ma al
tempo stesso nascondeva una punta di apprensione.
«Se ti stai
preoccupando che lì dietro possa aver fatto qualcosa di
sconveniente, tranquillizzati: oggi niente sesso ad alta
quota!»
E, facendo quell’affermazione, Kanon rincarò la
dose con
un ghigno impertinente, accennando ad allontanarsi da lì.
Shion Hayes lo
afferrò per un braccio e strinse un poco la presa,
facendogli
capire che avrebbe dovuto assecondare la sua richiesta. Poi, con la
stessa mano, e un'espressione fin troppo seria in volto, gli
indicò di sedersi nel posto di fronte a lui.
«Ascolta,
papà, se è per quello che ho detto l'altro giorno
a
proposito di mio fratello, lo so che non avrei dovuto e mi dispiace.
È solo che questa cosa del matrimonio... È una
pessima
farsa che mi irrita più del necessario»,
provò a
giustificarsi.
Nel pronunciare quelle
parole Kanon si sporse di lato per osservare gli ospiti giapponesi,
seduti poco più in là. Poi, sprofondò
comodamente
nel sedile, chiudendo gli occhi e sospirando.
Il capofamiglia Hayes
continuò a fissarlo in silenzio, più concentrato
a
cercare le parole adatte per iniziare il discorso che voleva fargli,
anziché ascoltare le sue lamentele.
«Lo so, lo so cosa
vuoi dirmi», lo anticipò Kanon, interrompendo il
flusso
dei pensieri del padre, facendolo irrigidire. «Che non dovrei
usare la condizione di Saga come termine di paragone, che non
è
colpa sua se è così e che conti su di me per
tenerlo a
bada e al sicuro. Lo so fin troppo bene che, anche se non è
tanto normale, Saga è il principino, il preferito di tutti.
Pensa, è persino il mio fratello preferito!»
Il giovane
sbadigliò annoiato, allungando le gambe e incrociando i
piedi.
Fece vagare lo sguardo qua e là, fra i passeggieri del volo
privato, aspettando la replica del padre che invece si faceva attendere.
«Devo presumere
allora che non è questo che ti preoccupa? Non è
per la
figuraccia di sabato? Ah, ho capito!» disse, rimettendosi
più composto. «È perché ti
ho detto che Saga
è innamorato, vero?»
A quelle parole Shion Hayes sembrò avere una minima
reazione, mantenendosi al tempo stesso composto e controllato.
«Beh, non posso
dire di aver scherzato. Lo hai notato anche tu che ultimamente si
comporta in modo strano, almeno per i suoi standard, vero? Di certo
c’è che una sbandata se l’è
presa,
così com’è vero che sta vivendo un
periodo di alti
e bassi. Devo ammettere che di tutte le relazioni che ha avuto in
questi anni… tutte fortemente disapprovate,
ovviamente!»
si affrettò a sottolineare, scimmiottando la tipica
espressione
arcigna degli Hayes, «non gli era mai successa una cosa del
genere.»
Kanon tornò ad
appoggiarsi allo schienale del sedile. Uno strano sorriso, diverso dai
suoi soliti da sbruffone, comparve sulle sue labbra, mentre ripensava
all’ultima volta che aveva visto il gemello: era un misto di
divertimento, orgoglio e soddisfazione.
«Hai visto come si
è ribellato? Non credevo che sarebbe mai successa una cosa
del
genere, ma finalmente il mio fratellino ha iniziato a mostrare un
po’ di carattere», commentò,
sogghignando.
«Kanon, ti prego…» si limitò
a dire Shion, passandosi una mano sul viso stanco e tirato.
«Ma dai,
papà, è un comportamento più che
normale, non puoi
pensare che si possa essere buoni e ubbidienti per tutta la vita. Prima
o poi arriva il momento di voler fare di testa propria; e poi, direi
che ormai siamo abbastanza grandi per vivere una vita tutta nostra, non
credi?»
«Perché con
te non si riesce a fare una conversazione seria una volta ogni
tanto?» Più i minuti passavano, meno era la voglia
e la
convinzione di Shion di affrontare lo spinoso argomento che gli dava
pensiero. Ma forse, senza volerlo, Kanon aveva centrato il punto, anche
se da un punto di vista diverso. Lo sguardo di Shion Hayes si fece
nuovamente serio. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era di
aggiungere problemi ad altri problemi, come la gestione di un figlio
che tutto d’un tratto voleva essere libero. Sentiva che le
cose
stavano andando lentamente a rotoli e non poteva far nulla per evitarlo.
«Questo è il
bello di essere in due, papà», lo riscosse dai
suoi
pensieri Kanon. «Nonostante i suoi problemi, Saga
è quello
serio e diligente, che ti dà le soddisfazioni migliori. Io
invece, sono quello simpatico e scapestrato, quello che si diverte a
crearti imbarazzo. Ci dividiamo i compiti e tutti sono soddisfatti.
Questo lo prendo io, a te non fa bene.» Il giovane
afferrò
rapido il bicchiere di whisky sul tavolino e lo bevve tutto d'un fiato.
Fra i due calò di
nuovo il silenzio per diversi momenti. Shion Hayes tornò a
fissare le nubi biancastre fuori dal finestrino. Il suo viso era una
maschera di preoccupazione.
Kanon notò
l'atteggiamento pensoso del padre. Inconsciamente strinse il bicchiere
che ancora teneva in mano. L'idea che l'uomo si preoccupasse
così tanto per Saga, quando invece di lui disponeva a
piacimento
senza farsi alcun problema, un po' lo infastidiva. Ma del resto, Saga
era quello tenuto nascosto. Saga era quello debole. Saga era quello da
proteggere, sempre.
Si rilassò a quei
pensieri, poiché lui stesso, dal risveglio dal coma del
gemello,
aveva giurato di proteggerlo a tutti i costi.
«Comunque, non ti
preoccupare troppo, papà. Se mai un giorno Saga dovesse
decidersi a fare il grande passo», disse, alludendo al
matrimonio, «non perderai il tuo prezioso figlio, ma anzi,
guadagnerai una figlia», concluse, con un sorriso compiaciuto
sulle labbra.
«Lo sai per certo,
oppure lo stai dando per scontato?» domandò
l'uomo, quasi
sotto voce, storcendo un po’ la bocca.
«Da come si stanno
evolvendo le cose, temo che succederà… e anche
presto.
Ultimamente è piuttosto sbadato con
“certe”
cose.» E, dicendo così, Kanon intendeva dire che
Saga si
dimentivava un po' troppo spesso di usare la testa e le precauzioni.
«Non ti piacerebbe diventare nonno e ritrovarti circondato da
tanti bei marmocchi festanti?»
Il giovane
sogghignò nel vedere ancora una volta il genitore
irrigidirsi
alle sue parole. Provava una sorta di divertimento viscerale.
«Sono troppo giovane per diventare nonno»,
ribatté Shion, in un mormorìo irritato.
«E io sono troppo giovane per diventare zio, ma come dicono i
francesi: c’est
la vie!» replicò, facendo spallucce.
Si alzò dal sedile
con un movimento troppo sicuro e andò a sbattere con la
testa
sul tettuccio della cabina, lasciandosi sfuggire un
“ahi” e
degli improperi contro i costruttori di aeroplani che li facevano
troppo bassi per un povero ragazzo di quasi un metro e novanta come lui.
«Comunque, riguardo
al nostro Saga, se ti può far stare tranquillo puoi chiedere
a
Shura di tenerlo d'occhio. Mi sembra che ultimamente quella vecchia
suocera abbia troppo tempo libero», concluse Kanon, battendo
una
mano sulla spalla del padre e spostandosi poi verso la coda dell'aereo.
*****
Il volo per Boston fu
movimentato da qualche scossone di troppo, a causa del maltempo che
imperversava su buona parte del Massachusetts e copriva soprattutto
l'area metropolitana della grande città. L'inconveniente non
era
stato preso molto bene dai passeggeri del jet privato, che vivevano
queste turbolenze con differenti predisposizioni di animo.
Per l'intero viaggio
Shion Hayes non lasciò il suo posto, alternando infruttuosi
tentativi di lavorare, con lunghe pause nelle quali era più
pensieroso che mai. L’unica vera distrazione, da quel
turbinio di
crucci che affollavano la sua mente, fu una lunga telefonata a Shura,
per informarlo del ritardo sull’orario di arrivo. Ancora una
volta, non aveva mancato di domandargli come fosse la situazione in
casa. Soprattutto, gli premeva avere notizie dell’altro
figlio.
Dopo la chiacchierata con
il padre, e aver litigato con il cellulare per altri dieci minuti
buoni, dichiarando infine la resa dopo l’invio
dell’ennesimo minaccioso sms al fratello, Kanon si
buttò a
sedere su una delle poltroncine libere. Allungò i piedi su
quella di fronte a sé e si aggiustò gli
auricolari
dell’ipod. Dalle sue liste infinite selezionò
quella
speciale che gli aveva imposto Aiolos, come penitenza per aver perso
l’ultima scommessa, mandando la musica a tutto volume.
Reclinò lo schienale e chiuse gli occhi, iniziando a
canticchiare sommessamente le canzoni dei Culture Club. Non era certo
la sua musica preferita, anzi, non era mai stato un grande appassionato
di musica, ma nonostante ciò, quella musica
“chiassosa” si stava rivelando l’ideale
per sgombrare
la mente dalle sue personali preoccupazioni ed elaborare invece una
vendetta nei confronti dell’amico che lo stava obbligando a
quella tortura. Tutto sommato però, non era poi
così
dispiaciuto di aver lasciato vincere ancora una volta Aiolos. Forse, al
decimo passaggio, o giù di lì, gli sarebbe anche
potuta
cominciare a piacere.
Degli ospiti orientali il
più esagitato e rumoroso si era rivelato essere
Tatsumi,
l’accompagnatore, che oltre a ricoprire il ruolo di guardia
del
corpo, fungeva anche da tutore. Con occhi sgranati e le mani che non si
erano mai staccate un solo momento dai braccioli del sedile, che
stringeva come se volesse stritolarli, l'uomo pareva
sull’orlo di
una crisi di nervi. Era così teso che a ogni piccolo
sobbalzo
scattava allarmato. A stento la cintura di sicurezza – che
non si
era mai slacciato – riusciva a contenerlo. Digrignava i
denti,
pregando di arrivare presto a destinazione, che probabilmente al
momento dell’atterraggio se li sarebbe ritrovati tutti
consumati.
Ikki, il maggiore dei
ragazzi, sul quale gravavano le speranze e il futuro della famiglia
Kido, era seduto accanto al fratello. Aveva una perenne espressione
corrucciata sul viso. Mal sopportava quella situazione, così
come mal sopportava il dover stare in compagnia di
quell’americano che considerava solo un borioso e che presto
sarebbe entrato a far parte della famiglia. Cercava di ingannare il
tempo guardando fuori dal finestrino, ma il più delle volte
si
ritrovava a seguire con lo sguardo il rampollo degli Hayes che, doveva
ammettere a denti stretti, aveva un carisma eccezionale.
«Sei preoccupato per questa turbolenza, niisan?»
chiese con voce gentile e pacata, Shun.
Il ragazzo, nonostante la
giovane età, era forse il più calmo del gruppo,
quello
che stava affrontando la situazione con maggior serenità di
spirito. Con particolare piacere sfogliava una voluminosa guida delle
più importanti città americane. Nei giorni
precedenti
aveva quasi imparato a memoria tutto ciò che c’era
da
sapere su New York e ora era la volta di Boston. Distolse per un
momento la sua attenzione da quelle pagine piene di nozioni storiche,
notando con la coda dell’occhio come la gamba del fratello
maggiore si agitasse in continuazione, neanche fosse in preda a un tic
nervoso.
«Figurati se mi
preoccupo per una sciocchezza del genere!» rispose
l’altro
con tono seccato, senza nemmeno voltarsi.
«Mi pareva…»
Shun fece spallucce,
sorridendo indulgente. Non gli era sfuggito come il maggiore, fin da
quando avevano lasciato il Giappone, si sentisse un pesce fuor
d’acqua. Per lui invece, quel viaggio in terra straniera si
stava
rivelando molto interessante. Intravide il fratello fremere
d’impazienza, poco dopo un altro lieve scossone. Poi,
tornò a immergersi nella lettura.
Saori era tranquilla e
silenziosa. Cresciuta con un’educazione fin troppo
tradizionale e
formale, sedeva con rigida compostezza su un sedile un poco appartato
rispetto agli altri, con l’unica compagnia di Seiya, che le
stava
accanto. Ogni movimento, ogni respiro, e forse, anche ogni pensiero,
erano misurati e mai fuori posto. Per quasi tutto il tempo aveva tenuto
la testa bassa e lo sguardo posato su un libricino aperto sulle gambe,
facendo finta di leggere. In realtà, aveva continuato a
osservare con molta discrezione quello che le succedeva attorno e la
presenza di Seiya le dava l’occasione di compiere qualche
movimento più in libertà, sfuggendo allo sguardo
onnipresente della guardia del corpo. Sospirò debolmente,
posando una mano sul suo libricino.
«Non essere
così tesa, dovremmo atterrare presto», le
sussurrò
Seiya, sfiorandole appena il polso, cercando di rassicurarla.
La ragazza abbozzò
un sorriso e alzò lo sguardo. Inconsapevolmente i suoi occhi
andarono a cercare Kanon, ancora stravaccato sul suo sedile, poco
più avanti. Durante quasi tutto il volo lei si era trovata
più volte a indugiare sulla figura di quell'uomo che avevano
destinato a lei: quando si era alzato per prendere qualcosa dalla borsa
di viaggio; quando si era spostato per andare alla toilette in fondo
all’aereo; quando si era affacciato nella piccola cambusa,
senza
oltrepassare le tendine, e aveva preso un semplice tovagliolino di
carta. Persino quando era stato chiamato dal padre, Saori aveva seguito
con interesse quella conversazione, captando a dire il vero solo poche
parole; ma proprio per quel motivo, rimanendone più
incuriosita.
Per un istante si era domandata come fosse quel fratello di cui stavano
discutendo.
Era rimasta a fissarlo
anche quando, a causa di un piccolo vuoto d’aria,
l’hostess
gli era andata addosso, rovesciando a terra il vassoio con i bicchieri
vuoti. Aveva visto come Kanon si fosse chinato per aiutarla,
sfiorandole più volte la mano e sorridendole sereno. E, una
volta di nuovo in piedi, come lei fosse arrossita e si fosse sentita
strana nel vedere Kanon che raddrizzava la spilletta d’oro
sul
lato sinistro della divisa della donna. Neppure in quel momento, nel
quale lui era sdraiato comodamente e sentiva la musica, riusciva a
togliergli gli occhi di dosso.
Così com’era
stato previsto, dopo le modifiche al piano di volo che aveva portato il
jet a compiere un paio di giri sopra i cieli dello scalo,
l’aereo
era poi atterrato su una delle piste secondarie
dell’aeroporto di
Boston, adibite esclusivamente ai voli privati, rullando infine
stancamente verso l’hangar di proprietà della
famiglia. Ad
attenderli era pronte due auto scure, due modelli di SUV Porsche
Cayenne noleggiate assieme ai rispettivi autisti, per il tragitto verso
la villa di Mystic Lake.
Con grande sorpresa
– e disappunto da parte di Shion – ad attendere
all’interno dell’hangar c’era anche
Aiolos,
appoggiato alla portiera della Lamborghini rossa, con già il
portabagagli aperto. La presenza del giovane voleva dire solo una cosa:
Kanon aveva in mente qualcosa di diverso dai programmi prestabiliti.
Fece appena in tempo a toccare terra col piede e voltarsi verso i suoi
ospiti che il figlio, con la borsa in spalla, era subito corso verso la
macchina sportiva salutando l’amico con un gesto della mano e
scaraventando la borsa nel portabagagli. Poi, si affiancò
all’altro, che lo osservava con un ghigno poco raccomandabile
e,
con un movimento improvviso, gli passò il braccio sulle
spalle
avvicinandosi all’orecchio.
«And
you...; Are all I can see; this boy’s in love with you;
You're
everything; I can see; This boy's in love with you; You have taken it
all; Away from me…» iniziò
a canticchiare
Kanon, trasformando il sorriso in una smorfia quasi perfida, bloccando
ogni tentativo dell’altro di allontanarsi.
Voleva che Aiolos
ascoltasse la sua performance per intero. Infine, concluse con un
provocatorio bacio sulla guancia. E, non appena l'ebbe lasciato libero,
sgusciò via per evitare la reazione dell’altro che
aveva
già caricato il pugno, andato poi a vuoto. Scansò
agilmente anche il secondo tentativo di Aiolos, trovandosi
però
davanti a un ostacolo non previsto: non era riuscito ad aprire la
portiera con celerità, rimanendo così scoperto e
vulnerabile.
Aiolos non si
lasciò scappare l'occasione e subito gli mise una mano sul
sedere, stringendo forte, sogghignando nel sentire l'altro irrigidirsi.
Era più che sicuro che Kanon si sarebbe incazzato.
«Tesoro, quanto sei
audace! Ti prego, non davanti alla mia fidanzata!»
esclamò
invece il giovane Hayes, con un tono di voce fintamente scaldalizzato e
abbastanza alto affinché tutti gli altri udissero con
chiarezza.
Approfittando dell'attimo di smarrimento e imbarazzo di Aiolos, si
infilò rapido in auto, mettendo subito in moto.
«Dai, salta su o ti lascio a piedi!» gli disse,
sfottendolo con lo sguardo.
Aiolos si girò per
un momento verso Shion, abbassando contrito gli occhi
all’espressione contrariata dell’uomo. Non si fece
ripetere
l'invito due volte e prese posto sul sedile del passeggero, mentre
Kanon faceva sentire il rombo del motore, impaziente di sgommare via.
«Kanon!» lo chiamò a gran voce Shion.
«Dove stai andando?»
«Ho alcune faccende
urgenti da sistemare. Ci vediamo a casa!» rispose di rimando
il
figlio, partendo a tutta velocità e facendo stridere le
gomme
sull’asfalto asciutto dell’hangar, prima di uscire
fuori,
incurante dell’acquazzone che si era nuovamente scatenato.
*****
«Saga! Dove diavolo sei?»
Kanon spalancò la
porta di casa, scuro in volto, urlando il nome del gemello. Era
completamente fradicio nonostante avesse lasciato l'auto a pochi metri
dall'entrata. In pochi passi era arrivato fin sotto lo scalone
principale, alzando lo sguardo verso il piano superiore, pensando che
l'altro fosse su, in camera sua. Chiamò di nuovo, con voce
ancora più furiosa. Alla terza volta, ottenne solo di far
affacciare all'ingresso una preoccupata Nanny.
«Kanon! Mio dolce
tesoro, è questo il modo di entrare in casa e di chiamare
qualcuno?» lo rimproverò, con voce
tutt’altro che
severa.
«Ciao, Nanny.
Dov'è quel disgraziato di mio fratello?» le
chiese,
avvicinandosi per darle un bacio sulla guancia e per scusarsi di quella
sua irruzione.
La donna lo
ricambiò con una carezza, facendosi promettere di
comportarsi
bene, prima di lasciarlo e tornare in cucina a seguire il lavoro di
Francine, che stava preparando qualcosa di speciale per il pranzo di
Pasqua del giorno dopo.
Kanon attese ancora
qualche secondo, poi si diresse ancora una volta verso lo scalone,
guardandosi attorno con occhi che ardevano di rabbia. Aveva
già
messo un piede sul primo scalino quando gli parve di sentir aprire le
porte della biblioteca, alla sua sinistra. Subito si
precipitò
lì e vide il gemello che ne stava uscendo. Non fece caso
all'espressione triste sul suo viso. Lo spinse di nuovo dentro e gli
assestò un bel pugno in pieno viso. Poi, con tutta calma,
richiuse entrambi i battenti della doppia porta.
«Ma sei
impazzito?» si lamentò Saga, piegato sulle
ginocchia e con
entrambe le mani sul viso dopo il colpo ricevuto. «Il mio
naso…»
«Stai zitto!»
gli urlò Kanon, ansimando per la rabbia. «Dovrei
dartene
uno per ogni chiamata rifiutata e per ogni messaggio a cui non hai
risposto!» continuò con voce agitata.
«Non ti
consento di escludermi in questo modo!» sbottò,
puntandogli contro il dito accusatore.
Kanon rimase lì,
come una statua di marmo. La sua mano era dolorante, ma questo non era
nulla in confronto a ciò che aveva provato in quegli ultimi
giorni, passati senza avere alcuna notizia da parte del gemello.
Continuò a fissare la schiena di Saga per diversi secondi.
Poi,
con il rimorso che si faceva largo in lui, si avvicinò e
sfiorò la sua spalla.
«Ti ho fatto tanto
male?» gli chiese con tono pentito. Lo fece girare verso di
sé e corrugò la fronte nell'intravedere fra le
dita di
Saga alcune tracce di sangue. «Fammi dare
un'occhiata»,
disse, allontanandogli le mani. Toccò con molta attenzione
e, a
parte un lieve naturale gonfiore per il colpo, il naso non sembrava
rotto.
«Perché lo hai fatto?»
«E me lo chiedi?
Tre giorni di totale silenzio. Tre giorni che non riesco a parlare con
te», rispose Kanon, accalorandosi. Sentiva di nuovo
l’irritazione salire. «Ero tremendamente in
pensiero», terminò in un soffio, abbracciando il
gemello
fino quasi a soffocarlo.
«Non avevo voglia
di sentire nessuno», sospirò Saga, toccandosi il
naso.
«Però mi pare di avertela scritta una
e-mail.»
Kanon lo scostò da sé, guardandolo con occhi
sgranati, incredulo per le parole appena pronunciate dal suo gemello.
«Non avevi voglia
di…» balbettò. «Io non sono
nessuno! Sono tuo
fratello!» Le sue mani si strinsero forte
nell’arpionare le
spalle di Saga.
Gli prese il volto fra le
mani e lo fissò negli occhi, nonostante l'altro facesse
fatica a
sostenere il suo sguardo arrabbiato. Non poteva però
rimanere
troppo in collera con lui, non di fronte a quel viso e a quegli occhi
arrossati, dove una lacrima era rimasta incastrata fra le ciglia. Col
pollice gli accarezzò la guancia che stava diventando calda.
E
una grossa goccia di sangue iniziò a colare dal naso.
«Prendi.»
Kanon gli offrì il fazzoletto, prendendolo dalla tasca dei
jeans. «Non farlo con la mano.»
«Non fa niente», replicò Saga, senza
dargli ascolto e passandosi sul viso il dorso della mano.
Si avvicinò alla
scrivania e prese un kleenex dalla scatola, tamponandosi il naso. Poi,
ne prese un altro e un altro ancora. Rapidamente i fazzolettini si
stavano riempiendo di sangue. Sbuffò, mentre ne prendeva di
nuovi con una mano e con l'altra buttava nel cestino quelli sporchi.
«Vieni, Saga, siediti qui e tieni la testa
indietro.»
Kanon prese una delle
sedie del tavolo intarsiato – sulla sinistra della doppia
porta e
posto vicino alle grandi finestre – e la piazzò
proprio
davanti al gemello che tirò per un braccio, costringendolo a
sedersi. Infine, dal mini frigo del mobile bar prelevò
alcuni
cubetti di ghiaccio, li raccolse nel fazzoletto e, poco delicatamente,
mise il fagotto sul viso dell'altro.
«Mi dispiace averti colpito.»
«Potevi non farlo», ribatté con tono
nasale Saga, iniziando a respirare a fatica con la bocca.
Chiuse gli occhi, mentre
il fratello si prendeva cura di lui, ma sentiva la testa che iniziava a
dargli sensazioni strane, come se avvertisse girare la stanza attorno a
sé. Si raddrizzò un poco, attendendo che passasse
quella
piccola vertigine. Il naso pulsava, lo sentiva chiuso e pieno, ma
almeno aveva smesso di sanguinare. Provò a fare un respiro,
ma
gli uscì solo una specie di rantolo. Allora tentò
di
alzarsi e barcollò per alcuni istanti, prima di
stabilizzarsi
sulle gambe.
«Come ti
senti?» gli chiese Kanon, controllando ancora una volta,
solamente con lo sguardo, dove lo aveva colpito. Rimpiangeva di averlo
fatto, non tanto perché aveva colpito il proprio fratello
per
una questione, tutto sommato, sciocca; la sua preoccupazione maggiore
in quel momento erano le eventuali conseguenze di quel pugno sulla
salute di Saga. Anche se erano passati ormai tredici anni dal trauma
cranico, non sapeva quali effetti avrebbe potuto avere un eventuale
altro colpo, di qualunque natura o intensità esso fosse.
«Mi gira un
po’ la testa. Il sangue mi fa impressione, soprattutto quando
è il mio», rispose Saga, arricciando il naso e
facendo
più volte delle smorfie, per sentirsi di nuovo a suo agio
nei
movimenti. «Piuttosto, scommetto che li hai piantati tutti
in
asso in aeroporto, vero? Dai, usciamo di qui e andiamo ad accoglierli.
Dovrebbero arrivare a momenti», disse, chiudendo l'argomento.
«Aspetta!»
Kanon fermò il gemello per un braccio. «Davvero,
vorrei
sapere come ti senti, come vanno le cose…»
lasciò
la frase in sospeso, sottintendendo la sua preoccupazione per gli
affari di cuore dell'altro.
«C’è qualche piccolo intoppo, ma sono
sicuro che presto si risolverà tutto.»
*****
Quando i due SUV
varcarono il grande cancello che delimitava la parte più
interna
della proprietà attorno alla villa, il tempo sembrava
essersi
rimesso al bello, con candide e vaporose nuvole che lasciavano
intravedere l'azzurro del cielo; ma il clima da quelle parti era solito
mutare rapidamente e non sarebbe stato affatto strano che prima del
calar del sole ci si sarebbe potuti ritrovare di nuovo sotto un
acquazzone. Nel breve tragitto che portava le vetture fino
all’ingresso vero e proprio della villa infatti, il tempo si
stava già guastando.
I SUV si fermarono sul
vialetto ghiaioso, uno a fianco all’altro, a meno di una
decina
di metri dall’entrata della villa. Una volta scesi, gli
ospiti
rimasero incantati dallo spettacolo del lago, che riluceva ai raggi del
sole quasi come oro liquido. La natura verdeggiante
dell’immensa
proprietà Hayes faceva da magnifica cornice a quel panorama
mozzafiato.
Fu l’anziana mrs
Foster ad accoglierli per prima, come una matrona d’altri
tempi,
scendendo lentamente i gradini del porticato, mentre Shura, che in
circostanze normali avrebbe adempiuto lui a tale compito, era stato
incaricato di presenziare ad alcuni meeting negli uffici in
città. Shion Hayes andò incontro alla donna
salutandola
con un bacio sulla guancia. Pochi attimi dopo, forse perché
rimasti nascosti dietro i tendaggi delle finestre a osservare gli
eventi, fecero la loro comparsa anche Kanon e Saga.
«Sono un gruppo di studenti in gita turistica?»
chiese a bassa voce Saga, avvicinandosi all'orecchio del fratello.
«Più o meno,
fratellino, più o meno», rispose l'altro con una
risatina,
senza staccare gli occhi dai giapponesi. «Vieni, te li
presento.»
Avanzarono l’uno a
fianco all’altro, i passi mossi quasi all’unisono.
Faceva
uno strano effetto vederli assieme, non solo perché erano di
aspetto identico, con l’unica differenza delle loro
capigliature
– come sempre, Saga portava i capelli più lunghi
rispetto
all’altro – ma in quel momento vestivano anche allo
stesso
modo, vista la “disavventura” occorsa poco prima in
biblioteca.
Per primo, Saga fu
introdotto all’accompagnatore dei giovani ospiti che lo
squadrò con molta diffidenza. Nei suoi pensieri, Tatsumi
probabilmente si stava già prefigurando una versione
fotocopia
dell’indisponenza e dell'arroganza che aveva imputato a Kanon
nei
giorni passati a New York. Si limitò a biascicare dei saluti
in
inglese, rifiutando la mano che Saga gli stava offrendo e preferendo il
tradizionale inchino.
Con i due fratelli, Ikki
e Shun, il saluto fu meno spigoloso, anche se molto formale da parte
del maggiore. Contraccambiò con molto vigore la stretta di
mano,
ma sembrava voler dire ben altro che un semplice saluto cortese, come
se si ritrovasse ad avere a che fare con un rivale pericoloso.
Shun Kido invece diede
segni di lieve imbarazzo nel momento in cui Saga gli rivolse la parola
tendendogli la mano: i suoi occhi si spalancarono dallo stupore senza
che potesse impedirlo. Forse era dovuto all’essere di fronte
a
entrambi i gemelli che, in quel momento, lo stavano guardando con
particolare intensità. Se con Kanon, nei giorni precedenti,
era
man mano riuscito a mantenere sotto controllo quelle strane sensazioni
che gli suscitava – per l’espansività e
la sicurezza
di sé che il ragazzo mostrava senza alcun problema
– con
Saga era fin da subito tutt’altra impressione. Il gemello non
difettava certo dello stesso carisma di Kanon, ma emanava maggiore
cordialità e un carattere più disponibile che
metteva
subito a proprio agio.
«Non è il
tuo tipo», gli sussurrò maligno Kanon, chinandosi
un poco
verso il giovane Shun, che arrossì.
Con Saori le cose non
andarono molto diversamente. La ragazza parve persino più
imbarazzata del cugino, quando il rampollo Hayes le rivolse la parola.
«Miss, lui è
Saga, mio fratello», le disse Kanon, presentando il gemello,
appellando la ragazza così come aveva fatto la sera del loro
incontro e come aveva fatto anche durante il soggiorno a New York.
Sorrise divertito alla reazione compassata di lei che sapeva
però celare un certo fastidio.
«Buon pomeriggio, miss Kido. Benvenuta a villa
Hayes», la salutò Saga, con quel suo sorriso dolce
e affabile.
Era stata la prima cosa
che la giovane aveva notato non appena i due si erano avvicinati. Era
molto simile a quello che Kanon aveva sfoggiato con lei quando
l’aveva invitata a mangiare una pizza, ma non aveva la stessa
sfumatura di impertinenza del suo promesso. Nel vederli assieme,
così vicini, aveva la netta impressione che anche Kanon
mostrasse una maggiore dolcezza nei modi; soprattutto, era ben visibile
una scintilla di orgoglio fraterno che brillava nei suoi occhi. E quel
verde, già così intenso e affascinante, lo
diventava
ancora di più, mettendola in maggiore soggezione.
L’ultimo a essere
presentato a Saga, neanche il gemello fosse stato un principe che
passava in rivista le sue truppe – ma forse era il contrario,
ovvero era Saga stesso a essere messo in mostra – fu Seiya.
Col
giovane giapponese non ci fu alcun problema: né imbarazzo di
sorta, né tensione o fastidio. Solo un saluto rapido,
formale e
cordiale al tempo stesso.
Shion Hayes invitò
tutti dentro; mentre Kanon assolveva alcune formalità per
quel
che riguardava le auto e gli autisti, a Saga – come padrone
di
casa – spettò il compito di accompagnare gli
ospiti. Il
giovane offrì il braccio a Saori e si incamminarono verso la
villa, seguiti dagli altri.
«Mi aspettavo fosse
molto più grande», commentò Ikki, con
un tono di
voce volutamente alto e un’espressione per nulla soddisfatta
sul
viso, continuando a guardare la villa dall’esterno.
«Temi che non ci
siano abbastanza stanze per voi? Guardati attorno, il parco
è
molto grande, un angolino per piantare una tenda per te lo possiamo
trovare!» rispose beffardo Kanon, dopo che si era attardato
nel
dare istruzioni ai due autisti di portare i bagagli degli ospiti nella
struttura alberghiera del Country Club, a un paio di miglia dalla
proprietà. «Muoviti a entrare in casa, prima che
si
rimetta a piovere», gli disse, scrutando per qualche momento
il
cielo che si stava rapidamente rannuvolando.
*****
Quella lunga giornata era
stata stressante per tutti. La casa si era riempita di persone
estranee, scombussolando la tranquilla e rassicurante routine a cui
alcuni membri della famiglia erano abituati. Erano state solo poche
ore, culminate in una cena formale, con gli ospiti che infine erano
stati accompagnati all’albergo del Country Club, nel quale
avrebbero alloggiato per i restanti giorni della loro permanenza sul
territorio americano. Alle undici della sera, l’intera casa
era
finalmente tornata calma e silenziosa. I gemelli si erano ritagliati
una nuova occasione per stare assieme e parlare come da tempo non
succedeva più. Kanon raccontò più nel
dettaglio
com’era stato il suo primo approccio con Saori e la sua
famiglia
e dei giorni successivi. Saga rise di gusto nell’ascoltare le
parole del fratello, seguendo con vivo interesse, ma quando l'altro gli
riferì che il padre voleva ugualmente portare avanti quel
progetto, fra loro calò il silenzio.
«Lei è carina e piuttosto riservata»,
commentò Saga, spostando lo sguardo alla finestra.
Entrambi i ragazzi erano
seduti per terra, l’uno di fronte all’altro, con le
gambe
distese e una spalla appoggiata alla grande finestra che dava sul
balconcino della camera di Saga.
«È giovane
però, forse un po’ troppo per te e non credo tu
possa… beh, hai capito, no?» continuò
con un certo
disagio nella voce, mentre il fratello prendeva un altro sorso della
sua birra, direttamente dalla bottiglia.
Kanon sorrise alla pudica
discrezione dell’altro, benché questi non fosse un
verginello. Anzi, gli ultimi avvenimenti che avevano coinvolto Saga lo
avevano mostrato sotto una luce diversa, svelando una natura molto
più simile a quella di Kanon di quanto sarebbe potuto
sembrare a
prima vista.
«C’è
ancora tempo per rompere questo accordo assurdo. In fondo, a me lei non
interessa e sembra che la cosa sia reciproca.»
Bevuto anche
l’ultimo sorso, Kanon appoggiò la bottiglia per
terra,
iniziando a farla rotolare avanti e indietro con piccoli colpetti della
mano.
«Non ne sarei
così sicuro. Devi lasciarle il tempo per
conoscerti.» Saga
mosse la gamba, sistemandosi in una posizione più comoda.
«Hai notato come ti ha guardato per tutta la
serata?» Col
piede diede qualche giocoso colpetto al fianco del fratello.
«Io ho visto come
guardava te! E ogni volta che si accorgeva di essere osservata, deviava
lo sguardo. Direi che hai fatto colpo, fratellino; e non è
stata
la sola oggi ad arrendersi al tuo fascino», disse, con un
sorriso
malizioso sulle labbra e lo sguardo acuto di chi ha individuato la sua
preda.
Saga ricambiò
quell'occhiata con genuino stupore. Era sicuro di non aver fatto nulla
per attirare l’attenzione, né per mettere in
secondo piano
il gemello.
«Devo ammettere che
il ruolo del “bravo ragazzo” attira più
consensi
rispetto al “bello e ribelle”. Oh, non cadere dalle
nuvole,
Saga. Non dirmi che non ti sei accorto di nulla quando ti ho
presentato; e anche per tutto il resto del tempo è stata la
stessa cosa.»
Kanon andò a
sistemarsi più vicino al fratello, appoggiandosi con la
spalla
alla sua. «Hai presente quel piccoletto, Shun, il cugino di
Saori? Ebbene, lo hai letteralmente folgorato. Neanche voleva
più lasciarti andare la mano. E l’altro, il
fratello, per
poco non gli veniva una sincope!» esclamò con
ilarità, mentre rievocava l’incontro.
«Secondo te, lancio
messaggi equivoci?» domandò Saga, lasciando che
l'altro
gli passasse il braccio sulle spalle e lo stringesse a sé.
Kanon scoppiò in
una risata divertita, ma smise subito quando lo vide corrucciato in
viso. «Finché si tratta di sguardi, non ho
problemi, ma se
l’interesse si dovesse fare più
esplicito… Chiunque
vorrà attentare alla tua virtù mascolina
dovrà
stare attento, perché lo ammazzo!» disse,
accarezzandogli
la testa.
Era così che gli
piaceva stare con Saga: uniti, vicini, averlo tutto per sé,
soprattutto quando mostrava il suo lato un po’ infantile. E
lui
si sentiva un poco come una mamma chioccia, indispensabile per il suo
fratellino.
«Parli da persona gelosa.»
«Tu sei solo mio e
non ho intenzione di dividerti con nessuno a meno che non sia una
persona davvero speciale, ma anche in quel caso dovrà
battersi
per averti.» Kanon accompagnò quelle parole appena
sussurrate con un sorriso lieve sulle labbra. Fece qualche lenta
carezza sulla schiena del gemello e terminò dandogli un
bacio
sulla testa; infine, nel sentire un sospiro rassegnato di Saga, si
rilassò chiudendo gli occhi.
«In fin dei conti
è poco più che un ragazzino e anche gracilino a
quanto
sembra. Non vedo perché debba essere io a… Oh, al
diavolo, Kanon! Che razza di discorsi mi fai fare! Mi hai riempito la
testa di pensieri ridicoli e ora non so più quello che
dico», si lamentò Saga, scostandosi di scatto
dall'altro.
Rimase per un attimo
stordito da quell'improvviso e brusco movimento e si
appoggiò
fiaccamente alla finestra. Forse erano ancora i postumi del pugno del
pomeriggio. Dopo qualche momento per rifiatare, si alzò in
piedi
e si diresse nel bagno.
Si sciacquò con
vigore e osservò il suo riflesso allo specchio: il viso
grondante d'acqua aveva assunto una lieve sfumatura di rossore. Si
sentiva caldo, ma non malato. Eppure quei discorsi lo avevano fatto
sentire strano. Lui e Kanon erano cresciuti con l'esempio di Shura che
non aveva mai nascosto loro le sue preferenze sessuali e dunque erano
stati abituati a mantenere una mentalità aperta. Crescendo
però, lui aveva iniziato a provare disagio riguardo certi
argomenti, mentre Kanon li aveva sempre affrontati con ironia. Che ora
il gemello iniziasse a prenderlo in giro, ad alludere certe cose nei
suoi riguardi, gli dava da pensare. Doveva forse preoccuparsi di un
significato nascosto per tutte quelle premure che riceveva da lui?
«Sciocco!»
disse, rivolgendosi alla sua immagine. Si sciacquò una
seconda
volta: ora il suo viso scottava più di prima.
Loro due erano fratelli,
gemelli; erano sempre stati molto uniti, una cosa sola. Era logico e
naturale un comportamento del genere fra di loro. Kanon amava scherzare
e prendere in giro le persone e lui non faceva eccezione.
Scrollò la testa. Non c’erano e non ci sarebbero
mai state
altre spiegazioni!
Contenne uno sbadiglio.
Già che era lì, ne approfittò per
prepararsi per
la notte. Si tolse il maglione, scompigliandosi un poco i capelli e
rimase in camicia. Poi, prese lo spazzolino elettrico e il dentifricio.
«Kanon, adesso
vattene in camera tua!» gli disse, senza far caso al silenzio
che
proveniva dalla camera, già con il ronzio elettrico nelle
orecchie.
Iniziava a sentire gli
occhi pesanti, forse per le troppe ore passate al computer a terminare
una relazione e a confrontare dati su dati, forse per la serata
“mondana”.
Con lo spazzolino in mano
e la bocca sporca di schiuma, si soffermò un'ultima volta a
fissare il suo riflesso impegnato a fare smorfie con il naso. Tutto era
a posto, non c’erano lividi o gonfiori antiestetici. Sorrise
soddisfatto. A poco a poco però, le sue labbra si
incurvarono
verso il basso, lasciando intravedere di nuovo la tristezza e la
solitudine che in quei giorni albergavano in lui. Doveva sforzarsi di
riprendere un'espressione serena, se voleva uscire di là,
altrimenti Kanon lo avrebbe subissato di domande alle quali non se la
sentiva di rispondere.
Kanon era ancora seduto a
terra, accanto alla finestra, dove fino a poco prima era stato in
compagnia del gemello. Fissò lo sguardo a osservare la
porzione
di panorama che le colonnine panciute del parapetto permettevano di
vedere. Lentamente alzò gli occhi, vacui per i pensieri che
gli
affollavano la mente, a osservare il cielo scuro che veniva rischiarato
da qualche lampo, al di sopra delle sottili nuvole grigie che si
stavano aprendo per far comparire le stelle. La pioggia era finalmente
cessata.
In una mano teneva il suo
cellulare che aveva preso dalla tasca dei jeans, nell’altra
invece, stringeva quello del fratello, che aveva trafugato dal suo
comodino dopo che l'altro si era allontanato. Gli aveva dato una rapida
occhiata. Quel pomeriggio, Saga gli aveva fatto capire che i suoi
problemi fossero delle sciocchezze, ma non era stato convincente.
Sperava di scoprire qualcosa di più per poterlo aiutare, ma
non
aveva fatto i conti con i propri sentimenti; e vedere lì,
sul
display, tutti i messaggi che gli aveva inviato, neppure aperti, lo
aveva demoralizzato.
Saga era sempre nei suoi
pensieri, ma lui… evidentemente non era così per
il
fratello. Si stavano allontanando e stava succedendo in maniera troppo
rapida.
«Se solo tu non
fossi così come sei…»
sospirò, mentre nella
sua testa passava un'altra ondata di pensieri malinconici. Chiuse gli
occhi per un attimo e si concesse un respiro profondo. Una lacrima
scivolò sulla sua guancia. Si sentiva solo. Era strano, lui
era
un adulto, faceva il pendolare da New York a Boston, aveva grandi
responsabilità, era apprezzato e stimato nel suo lavoro; le
relazioni amorose non gli mancavano e aveva l’affetto della
famiglia e di suo fratello, di questo ne era certo. Eppure, in quel
momento stava provando sulla sua pelle cosa fosse la vera solitudine.
Un tuono, più
intenso dei precedenti, lo fece sobbalzare, risvegliandolo bruscamente
da quello strano torpore. In quel momento si accorse che il cellulare
del fratello gli stava vibrando in mano. Sul display era comparsa la
scritta “CM”. Provò a frugare nei
ricordi per
trovare un nome da associare a quelle iniziali, ma non gli veniva in
mente nessuno fra le amicizie in comune. Allora premette su
“accetta” senza pensarci troppo e subito
selezionò
anche il vivavoce. La comunicazione era attiva, ma non sentiva alcuna
voce arrivare dall’altra parte, solo qualche rumore di fondo.
«Pronto?» azzardò, parlando a voce bassa
per non farsi sentire dal gemello.
«Sono io»,
esordì una voce femminile un poco titubante, lasciando
passare
diversi secondi di imbarazzante silenzio. «Lo so che anche se
avevi detto che avresti atteso il tempo necessario, probabilmente
adesso non vorrai parlare con me e non ti biasimo. In questi giorni ho
aspettato: che tu tornassi, che aprissi quella porta e invadessi il mio
spazio, che mi scuotessi e mi tirassi fuori a forza da questo momento
che sto vivendo. Ma tu non sei venuto e io mi sono sentita abbandonata.
Perché proprio ora hai deciso di rispettare la mia
privacy?»
La voce si interruppe e quell’ultima frase arrivò
a Kanon incrinata da un singulto di pianto.
Stava per risponderle,
per rivelarle che lui non era Saga, ma fu bloccato dalla mano del
gemello che senza fare alcun rumore si era avvicinato e aveva ascoltato
in silenzio e con gli occhi lucidi di commozione. Kanon lo
fissò
con preoccupazione; voleva scusarsi per essersi impicciato in qualcosa
che non lo riguardava, ma notò nel volto
dell’altro una
strana tranquillità e… speranza.
«Non avrei dovuto
rintanarmi nuovamente in un angolino ed escluderti, non avrei dovuto
lasciarti fuori ancora una volta. La mia reazione è stata
esagerata, lo so, ma tutto mi sembrava confuso e surreale. Quello che
ho letto, quello che ho visto… mi sono sempre ritenuta una
persona determinata e forte nella rabbia che provavo per
un’ingiustizia del passato. Ancora non riesco a superare quel
dolore e quella rabbia, ma proverei un dolore ancora più
forte
se questo mio comportamento dovesse allontanarti da me. Non voglio
perderti.»
Si udirono altri singhiozzi, nel silenzio che di nuovo era calato.
«Ho cercato
l’indirizzo di casa tua. Sono stata quasi tutto il pomeriggio
fuori dall’abitazione di Boston. Ci ho messo un po’
a
capire che non era frequentata da tempo. Il custode mi ha detto di
provare a Winchester; in paese mi hanno poi dato indicazioni per la
villa. Ero sicura di me, nella mia determinazione di parlarti, ma
quando mi sono trovata di fronte al cancello non sapevo più
cosa
fare. Sono rimasta ferma ad aspettare lì davanti nella
speranza
di trovare di nuovo quel coraggio che mi aveva fatto arrivare
così vicino a te. Me ne bastava solo un poco per suonare al
citofono e farti sapere che c'ero. Le mie mani però non si
volevano muovere, né i miei piedi volevano incamminarsi per
allontanarsi e riprendere la strada del ritorno. Poi ti ho visto
passare in macchina col tuo amico. Avete oltrepassato il cancello e
siete spariti. Non so per quanto tempo sono rimasta ancora
lì
fuori, a guardare da lontano. Nel profondo sentivo che non volevo
andarmene senza almeno aver provato a parlarti.»
Attraverso il microfono
dello smartphone si sentì distintamente un clacson e poco
dopo
il rumore dell’acqua di una pozzanghera che si increspava al
passaggio di una vettura, forse troppo vicino a lei, e un sussulto
spaventato. Infine, un silenzio spettrale.
«Cora! Ci sei ancora? Cora! Dove ti trovi?» disse
Saga, con voce ansiosa.
«Sono quasi a
Winchester. Poi chiamerò un taxi per tornare in
città», rispose lei con un profondo respiro,
cercando di
calmare la voce che sentiva nuovamente alterata dalla voglia di
piangere che la stava attanagliando.
Saga strappò il
cellulare di mano al fratello, si mise in piedi e spalancò
la
finestra, uscendo sul balconcino. Con lo sguardo cercò la
strada, ma forse quella non era la direzione giusta; e il fitto della
vegetazione, aggiunto al buio della notte e la poca illuminazione della
zona, non gli permettevano di avere una buona visuale.
«Incosciente», mormorò, allungandosi il
più possibile per cercarla con lo sguardo.
«Saga, che stai facendo?» A stento Kanon lo
trattenne per la camicia e lo riportò in camera.
«È ancora qui», disse Saga con voce
commossa al gemello: il suo viso esprimeva l'entusiasmo di un bambino.
«Sulla Main
street…» si rivolse alla giovane, ancora in linea,
«c’è una tavola calda appena dopo il
negozio di
articoli sportivi. Ti prego, aspettami lì, io
arriverò
subito.» Le sue labbra tremolavano un poco per
l’emozione.
Non chiuse subito la telefonata, ma rimase ancora qualche attimo in
attesa, sentendo il respiro di lei provenire dall’altra
parte.
«Cora… grazie.»
Si mise in fretta il
cellulare in tasca e si infilò nella cabina armadio,
saltellandone fuori un paio di minuti dopo con un nuovo maglione e le
scarpe, faticando ad allacciare la seconda. Sorrise al gemello e si
precipitò fuori dalla camera da letto, scendendo le scale di
corsa e attraversando l’atrio fino alla porta
d’ingresso.
Non si fermò neppure per chiuderla, lasciandola sbattere sui
cardini.
«Saga! Saga!» lo richiamò preoccupato
Kanon, affacciandosi al balconcino.
Il ragazzo non
poté far altro che osservarlo correre per il parco e
imboccare
uno dei sentieri che spariva nel boschetto che circondava quel lato
della proprietà. Batté contrariato la mano sulla
pietra
del parapetto. Poi, rientrò nella camera da letto, chiudendo
la
finestra. Doveva riflettere sulla situazione, ma l’unica cosa
che
vedeva erano problemi a non finire: per Saga che era scappato in quel
modo, per lui stesso che non era riuscito a impedirlo, per Shura che
era il responsabile della sicurezza della villa e della
famiglia…
Pochi minuti dopo, anche
Kanon si precipitò giù per le scale, fermandosi
però a prendere i cappotti dal guardaroba
dell’ingresso.
La notte, soprattutto quella notte, era umida e fredda.
«Eccoti qui,
Aiolos! Vieni con me!» ordinò all’amico
che proprio
in quel momento stava camminando per il vialetto, per tornare a casa.
Lo strattonò per un braccio e se lo trascinò
dietro.
«Veramente stavo per andare in…»
«L’abbuffata post sesso la farai più
tardi. Ora andiamo!»
«Smettila di
tirarmi!» si divincolò Aiolos, liberandosi dalla
presa
dell'altro complice anche il fatto che Kanon avesse i cappotti sul
braccio che gli intralciavano i movimenti. «Se non mi spieghi
cosa sta succedendo non vengo da nessuna parte! E già che ci
sei, perché hai il cappotto di tuo fratello?»
«È proprio
di lui che si tratta. È scappato via come un
furetto»,
spiegò Kanon, con un sorriso malizioso sul viso.
«Allora,
che fai, vieni con me a cercarlo?»
Aiolos non se lo fece
ripetere una seconda volta. Con le chiavi dell'auto ancora in mano
affiancò l’amico che già stava correndo
verso il
garage.
«Ma non con quella, vuoi che ci scopra? Prendiamo la golf
cart. Piccola, silenziosa…»
«Lenta come una lumaca e scoperta!» concluse per
lui Aiolos, sbuffando e sbattendo con forza la portiera.
Anche se non si sarebbe
perso per nulla al modo l’occasione di vedere come sarebbe
andata
a finire quella faccenda, non aveva alcuna voglia di prendersi una
vagonata di freddo per inseguire uno un po’ tocco. A
malincuore,
sotto lo sguardo impaziente di Kanon, fu costretto a sedersi sulla
minivettura.
«Ma in fondo, che
vuoi che sia una gita di notte non programmata e con appena quattro
gradi di temperatura!» aggiunse sarcastico, allacciandosi il
cappotto fino all’ultimo bottone e alzando il bavero.
*****
La Main Street di
Winchester era una bella via, allegria e piena di vita, con le vetrine
dei negozi decorate e illuminate a festa per la Pasqua.
A quell'ora di notte
c’era ancora molta gente in giro che passeggiava tranquilla,
si
fermava davanti alle vetrine, o usciva dai negozi aperti oltre il
solito orario.
Cora si strinse nel
cappotto, risistemandosi anche la stola di lana che aveva avvolto
attorno al collo e alle spalle come una sciarpa. Si fermò in
mezzo al marciapiede, girandosi a destra e a sinistra per individuare
il locale che le aveva indicato Saga pochi minuti prima al telefono.
Probabilmente l’aveva già passato. Si diede della
stupida
per aver camminato con la testa fra le nuvole per chissà
quanto
tempo, quando invece avrebbe dovuto prestare più attenzione
a
dove stava andando. Era anche vero che, una volta arrivata in fondo
alla strada, poteva sempre tornare indietro, ma forse avrebbe mancato
l’appuntamento con Saga. Fece qualche altro metro, cercando
il
famoso negozio di articoli sportivi. Forse avrebbe fatto meglio a
chiedere a qualcuno, ma in giro vedeva solo coppiette. Si
fermò
di nuovo, guardandosi attorno. Di fronte a lei c’era un
vecchio
cinema e subito a fianco si trovava una piccola libreria. Poco
più avanti c’era una biforcazione, quindi con
molta
probabilità la Main Street terminava in quel punto. E se
avesse
camminato sul lato sbagliato della strada?
Si avvicinò al
ciglio del marciapiede per attraversare. Dall’altra parte
della
strada c’era una pasticceria. I suoi occhi furono attirati
dalla
sua vetrina, mentre lo stomaco iniziava a farsi sentire. Sembrava
ancora aperta, o almeno, le luci al suo interno erano accese. Magari,
si disse, poteva entrare e, con la scusa di comprare qualcosa di
goloso, chiedere informazioni senza sembrare un'imbranata. Aveva
già un piede sulla carreggiata quando da dietro si
sentì
trattenere da un abbraccio, improvviso e geloso.
«Era duecento metri più indietro», le
disse una voce quasi irriconoscibile, carezzandole l’orecchio.
Cora si girò di scatto e lo vide, ansante e senza fiato, ma
con un meraviglioso sorriso a illuminargli il viso.
«Cosa ti è successo?» chiese lei,
preoccupata, portandosi le mani sulla bocca.
Saga le si era presentato
davanti stravolto dalla fatica, con i capelli in disordine e il viso
sporco e imperlato di sudore. I suoi vestiti non erano da meno, il
maglione aveva dei fili d’erba incastrati nella lana e i
jeans
erano fradici dalle ginocchia in giù, con una grande macchia
di
fango appena al di sotto del ginocchio sinistro e alcune strisciate su
entrambe le cosce, come se ci si fosse pulito le mani.
«Correre per il
bosco con il terreno zuppo e quasi completamente al buio non
è
affatto semplice come si possa pensare», rispose Saga, senza
accennare a smettere di sorriderle. I suoi occhi brillavano dalla gioia.
«Mio Dio,
sei… sei un disastro», si lasciò
sfuggire Cora,
trattenendo a stento una risatina per quel suo stato pietoso. Subito le
tornò in mente la prima volta che l’aveva visto e,
sovrapposto a quel ricordo, sentì nella sua testa le parole
di
Jade. Quella strana donna sosteneva di conoscerlo bene, le aveva
raccontato tante cose, eppure… il suo Saga era diverso da
quello
di Jade.
«Neanche tu sei
messa tanto meglio, sei bagnata come un pulcino. Sei stata sotto la
pioggia per tutto il tempo?» le chiese, passandole una mano
prima
sulla guancia gelida e poi sui capelli bagnati.
Cora abbassò lo
sguardo per l’imbarazzo. Erano lì che parlavano
come se
non fosse successo nulla, mentre una decina di minuti prima lei stava
camminando con la paura nel cuore di aver rovinato ogni cosa.
Rapidamente si tolse la
stola e la avvolse addosso a Saga, che sembrava iniziare a patire quel
freddo pungente e umido, ancora carico dell’abbondante
pioggia
che si era riversata sulla zona in quella lunga giornata. Abbracciati
l’uno all’altra, tornarono sui loro passi, fino ad
arrivare
alla tavola calda dell’appuntamento.
Dentro c’era un
piacevole calduccio. Si accomodarono a un tavolo in fondo alla sala, in
un angolo tranquillo e appartato. Saga ordinò per Cora
qualcosa
di caldo, una tazza di cioccolata e, guardando il bancone, anche una
fetta di torta alle noci. Per sé invece, anche se
solitamente
preferiva berne poco – ma data la situazione ne sentiva
estrema
necessità – chiese del caffè, prima di
andare in
bagno per darsi una ripulita.
Seduti l’uno di
fronte all’altra, tenendosi la mano come due fidanzatini, fra
imbarazzi mal celati, mezze lacrime, carezze e sorrisi, Saga e Cora
avevano parlato così tanto che le loro bevande erano
diventate
fredde. L’unica cosa che era sparita velocemente era stata la
torta, che si erano divisi un boccone ciascuno. Di tanto in tanto, Cora
sembrava perdersi in qualche pensiero, volgendo lo sguardo verso gli
altri pochi avventori della tavola calda, soffermandosi a guardarli per
cercare di capire se le parole di Jade, che ancora le frullavano per la
testa, potessero nascondere un fondo di verità. Certo,
l’aspetto avvenente di Saga attirava gli sguardi delle donne
come
un qualsiasi bel ragazzo – e questo era innegabile
–, ma
sarebbe stato così anche per gli uomini?
Il sospiro di Saga, appoggiato col gomito al tavolo e la mano sotto il
mento, la ridestò dai suoi pensieri.
«Sei stanca? Vuoi andare via?» le chiese lui,
accarezzandole dolcemente la mano che teneva nella sua.
Cora scrollò la testa, sorridendogli e portandosi la tazza
alla bocca, per prendere un sorso di cioccolata.
In quell'ora che erano
lì, trovò il coraggio di parlargli del suo
passato, di
quel terribile Natale che aveva segnato la sua vita per sempre, della
sua nuova vita a Philadelphia, condizionata però
dall’unico desiderio di tornare a Boston, nonostante fosse
felice. Gli parlò anche di Chris. E si sentì
lunsingata
della gelosia che comparve sul suo bel viso. Gli svelò anche
l’obiettivo che si era prefissata – ovvero quello
di
scoprire la verità sulla morte del padre – e
infine, di
quanto le fosse stato difficile leggere quei documenti ufficiali.
Pian piano, il locale si
stava svuotando anche dei più nottambuli. Da qualche minuto
non
si sentiva più la musica venire dall’antiquato
jukebox
posto sulla parete in fondo e come sottofondo arrivavano solo i rumori
di bicchieri e tazze dietro il bancone e spezzoni di frasi pronunciate
a voce troppo alta dalla cucina, quando le porte venivano aperte
dall’andirivieni delle due cameriere che stavano terminando
il
turno. I tavoli erano stati quasi tutti liberati e le sedie rovesciate
su di essi per permettere di completare le operazioni di pulitura,
prima della chiusura.
Facendo un ultimo giro,
la cameriera più anziana si avvicinò al loro
tavolo con
il bricco di caffè, ancora fumante, rabboccando con un gesto
fulmineo la tazza di Saga, senza attendere che le venisse chiesto,
né lasciando il tempo al ragazzo di rifiutare.
«Lei signorina, vuole un po’ di
caffè?» domandò a Cora.
Al cortese rifiuto della ragazza, la donna si allontanò
portando via il piatto e la tazza vuota.
Saga osservò la
donna quasi fosse stata un alieno. Poi, abbassò lo sguardo
rassegnato sulla sua tazza, chiedendosi cosa fosse successo. Tanta era
stata la rapidità della cameriera che neanche se
n’era
accorto. Ed ora si ritrovava di nuovo la tazza ricolma.
Cora rise piano, si avvicinò la tazza e ne bevve un sorso.
«Dicevi che non ti piace il caffè in questo
modo», disse il giovane, sorridendo.
«Avevo detto che
non sono abituata a bere questo tipo di caffè.
Però
è vero, non mi piace, ma bisognerà finirlo,
adesso che te
ne ha appena versato dell’altro. O forse vedi qualche vaso
con
tanto di pianta, in cui versarlo dentro
“accidentalmente”,
facendo finta di nulla? E poi, chissà che non mi tenga
sveglia
abbastanza a lungo per tornare a casa.»
Ne sorseggiò ancora un po’, prima che Saga le
togliesse la tazza dalla mano e ne bevesse anche lui un lungo sorso.
Le prese la mano nella
sua e si stava avvicinando a lei con la voglia di baciarla
lì,
davanti a tutti, quando un cappotto blu scuro venne appoggiato
malamente sullo schienale della sedia vuota al loro stesso tavolo,
accanto a dov’era seduto lui. Entrambi i ragazzi
sobbalzarono,
alzando all’unisono lo sguardo e trovandosi davanti Aiolos.
Subito, Saga lasciò la mano di Cora.
«Questo te lo sei
dimenticato a casa», disse il nuovo arrivato, slacciandosi il
cappotto e appoggiandolo, ben piegato, sullo schienale di una sedia del
tavolo vicino. «Buonasera, Caroline Miller»,
salutò
anche la giovane. Poi, si allontanò per andare alla
toilette,
ricomparendo al tavolo solo un paio di minuti dopo. «Non vi
dispiace se mi unisco a voi, vero?» disse, voltandosi con un
sorrisetto verso Saga. «Accidenti a Kanon che mi ha
trascinato
con sé senza lasciarmi neanche il tempo di andare in
bagno», borbottò, avvicinando una sedia e
sedendosi senza
tante cerimonie. Qualche attimo dopo arrivò la cameriera,
portando con sé una fetta di cheesecake, due birre alla
spina e
l’immancabile bricco di caffè.
Questa volta però,
Saga fu lesto a coprire con la mano la sua tazza, per non correre il
rischio di trovarsela nuovamente piena.
«Avevo chiesto un
sandwich ai gamberetti e cetriolo», si rivolse alla cameriera
con
tono sgarbato Aiolos, non appena gli fu messo davanti il piattino.
«Senti bello, a
quest’ora la cucina è chiusa e per nulla al mondo
il mio
capo ha intenzione di riaprirla, neanche per un bel faccino come il
tuo. Questo è rimasto, prendere o lasciare.»
Aiolos fissò
quella fetta di dolce, dall’aspetto sembrava molto buona e
invitante, ma non era quello che voleva.
«Com’è
fatta?» domandò alla cameriera, fermandola poco
prima che
lasciasse il tavolo.
«Tesoro, non
troverai niente di meglio di questa torta in tutto il Massachusetts!
È fatta con vera ricotta e limone.» La donna lo
squadrò per alcuni secondi, poi alzò gli occhi al
cielo:
sapeva riconoscere a un miglio di distanza i clienti portaguai.
«Fra dieci minuti si chiude», avvertì,
prima di
allontanarsi e sparecchiare un tavolo che si era appena liberato.
«Allora, cosa si
dice di bello?» disse Aiolos, guardando prima l'uno e poi
l'altra, allontanando da sé il dolce e prendendo invece un
grande sorso di birra.
«Si dice che questo
non è il tuo posto! Dovevamo solo portargli il cappotto,
dare
una sbirciatina per vedere se tutto procedeva bene e filare via! Non
rovinare il loro appuntamento romantico», intervenne Kanon,
presentandosi anche lui al tavolo, borbottando alla fine un
“imbecille”.
«A questo punto
siediti anche tu», disse in tono deluso Saga, cedendo il
proprio
posto al fratello e occupando la sedia libera accanto a Cora, rimasta
letteralmente a bocca aperta.
«Su, su,
fratellino, non fare così. Non avrai davvero pensato che ti
lasciassi andare via in quel modo, vero? Ti sei precipitato fuori casa
praticamente senza metterti nulla addosso. È forse un
tentativo
di suicidio per polmonite?»
La giovane sbatté
gli occhi diverse volte, incredula nel trovarsi di fronte un perfetto
doppione di Saga. Forse era la stanchezza che le stava giocando un
brutto scherzo. Il sorriso del nuovo arrivato era bello, dolce e
ammaliatore come quello che l’aveva fatta innamorare di Saga.
Kanon Hayes non smise di
sorridere, né mentre si allentava la sciarpa e slacciava il
cappotto, né mentre si sedeva. «Non la mangi,
vero?»
disse ad Aiolos, mettendosi davanti la cheesecake. Subito ne prese una
bella forchettata, che non esitò a mettersi in bocca.
«Ciao, tu devi essere la ragazza della…»
si rivolse
a Cora, con la bocca impastata dalla ricotta dolce. Vide
l’espressione di Saga e si interruppe, cercando di correre ai
ripari. «degli sms, vero? Piacere, io sono
l’affascinante,
simpatico, incredibilmente stupendo Kanon Hayes! Ovvero, il gemello
bello di Saga», si presentò, stringendole la mano.
Poi,
ammiccando, tornò a divorare la torta, mentre Cora
continuava a
fissarlo imbambolata.
Immaginava cosa la
facesse reagire in quel modo: tutte rimanevano interdette quando li
vedevano assieme. «Tranquilla, non ho letto di
imbarazzante», disse, facendola arrossire.
«Non starlo a
sentire, gli piace prendere in giro gli altri, ma è una
brava
persona», le sussurrò all’orecchio Saga,
stringendole la mano.
«Sì, mi
piace scherzare», confermò Kanon, che aveva udito
le
parole del gemello. «Allora, miss… CM,
giusto?»
«Caroline. Caroline Miller», rispose Cora, un poco
rassicurata.
*****
Si erano intrattenuti in
chiacchiere fin oltre l’orario di chiusura e solo grazie alla
simpatica sfacciataggine di Kanon, che si era messo a fare il
cascamorto con le due cameriere, erano riusciti a evitare di essere
messi alla porta.
Nonostante il grande
imbarazzo di trovarsi lì, fra loro, Cora si era trovata bene
e
con Saga al suo fianco che le dava il suo sostegno era stato
più
facile. Anche se non aveva partecipato molto alla conversazione, era
stata grata a Kanon per aver tenuto allegra l’atmosfera,
nonostante la sua mente avesse preferito vagare per strani pensieri;
forse per la stanchezza di quella giornata particolare, forse per il
freddo e la pioggia accomulati in quelle lunghe ore di attesa, piene di
timori e incertezze. Per quasi tutto il tempo si era appoggiata a Saga,
faticando a tenere gli occhi aperti, ma felice di averlo vicino che le
stringeva la mano e giocherellava con le sue dita.
«Che cosa non si fa
per il proprio fratello», sospirò Kanon in modo
teatrale,
aprendo la porta del locale e uscendo in strada all'aria frizzantina
della notte.
Sbadigliò e si
stiracchiò, incurante dei passanti. Fece qualche passo sul
marciapiede, con la testa all’insù a guardare il
cielo:
non c’era più l’ombra di una nuvola e si
potevano
vedere le stelle brillare come non mai.
Pochi minuti prima, Saga
aveva prenotato un taxi che ora stava già attendendo il suo
passeggero, parcheggiato lì vicino. Si avviò
all'auto,
mano nella mano con Cora. Parlò all’autista,
dandogli
l’indirizzo e pagando in anticipo la corsa. Poi, aprendo lo
sportello alla ragazza, si intrattenne ancora qualche attimo con lei.
«Sei proprio bello
con indosso questo cappotto», gli disse Cora con voce un poco
assonnata, lisciando la stoffa morbida di cashmere di quel capo blu
scuro. «Hai un’aria distinta.» Con le
mani gli
risistemò il bavero, approfittandone poi per accarezzargli
le
guance.
Saga le sorrise, ricambiando quelle premure, passandole le dita fra i
capelli e giocando con un ricciolo.
«Ce la farai ad
arrivare fino a casa o mi devo preoccupare?» Si
avvicinò
di un passo e l'avvolse in un abbraccio, inspirando l’odore
dei
suoi capelli.
La sentì mormorare
qualcosa e sorrise. Erano così vicini, se lei gli avesse
offerto
la bocca, l’avrebbe baciata con passione; se fosse accaduto,
non
l’avrebbe lasciata andare da sola, ma sarebbe salito sul taxi
con
lei e avrebbe ordinato all’autista di partire a tutta
velocità verso Boston. Nessuno avrebbe potuto impedirglielo,
né Aiolos, né suo fratello. Si limitò
invece a
stringerla forte, a sospirare e a dirle senza alcun imbarazzo quanto
l’amasse.
«Te lo
prometto», disse lei, staccandosi un poco e guardandolo negli
occhi, «non rimarrai mai più fuori dalla
porta.»
«Lo so. Non succederà più,
perché io non permetterò che possa
accadere.»
Le sorrise e poi, contrariamente ai suoi propositi, la baciò
con passione, faticando a staccarsi da lei.
Kanon sospirò nel vedere i due piccioncini che si stavano
salutando.
«Guardalo Aiolos,
lo hai mai visto così innamorato e protettivo nei confronti
di
qualcuno, prima d’ora?»
Per quella notte
probabilmente lo avrebbe graziato, ma l’indomani, alla prima
occasione buona, gli avrebbe fatto il terzo grado e l’avrebbe
tormentato finché non si fosse ritenuto soddisfatto.
Aiolos rispose con uno
sbuffo scocciato, stringendosi nel cappotto, troppo intento a
rabbrividire di freddo, guadagnandosi così una gomitata al
petto
da parte dell’amico.
«Hai il senso del
romantico di un asino da soma! Vai a prendere la macchina, è
parcheggiata dietro l’angolo. Io aspetto il nostro
Romeo.»
Note:
Sigari Montecristo A:
sono una
marca di sigari cubani molto pregiati, conosciuti anche come "Re". Qui
trovate la pagina specifica, mentre qui troverete qualche nozione
più in generale sulla marca Montecristo.
Snifter:
è il nome tecnico del classico bicchiere da Brandy o Cognac.
“And you...
Are all I can see
this boy’s in love with you
You're everything
I can see
This boy's in love with you
You have taken it all
Away from me…”
è una strofa del brano Boy
Boy (I'm the boy) dei Culture Club.
Main street:
è la
denominazione comune, entrata anche nel nostro lessico comune, della
strada principale dei piccoli centri abitati soprattutto del Nord
America.
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Capitolo 19 *** Capitolo XVIII ***
XVIII
«Per
la
miseria! Ancora continuo a ricevere lamentele da parte del direttore
del Country Club, per quei dannati giapponesi! E questa volta non si
è limitato alla solita e-mail. No! Una lettera su carta
intestata del Club!»
Shion
Hayes
sbatté con foga i fogli che aveva in mano sulla scrivania,
rischiando di mandare all'aria documenti ben più importanti.
«Calmati
Shion, non è poi la fine del mondo. Presto partiranno per
tornarsene nel loro Paese e non dovrai più sopportarli. E
comunque, anche se la tua immagine dovesse subire qualche piccola
crepa, fra i soci-membri del Country Club, dovresti ricordare a
quell’uomo che è solo un tuo dipendente, visto che
possiedi le quote maggioritarie e potresti farlo sostituire in un
batter d’occhio! Il cinquantotto per cento, con le ultime
acquisizioni che ti ha suggerito Saga, vero?» disse Shura,
alzando lo sguardo e distogliendosi per l’ennesima volta dal
resoconto delle spese dell’ultimo trimestre per la gestione
della
villa e della residenza di città. Detestava fare quel
lavoro,
perché non era mai andato d’accordo con i numeri,
ma era
fra i suoi compiti; e l’irrequietezza di Shion gli stava
rendendo
le cose ancora più difficili.
Il
capofamiglia
Hayes continuava ad andare avanti e indietro per la stanza, borbottando
a più non posso e massaggiandosi le tempie.
«Cosa
avresti
fatto, tu?» chiese in un mormorio, alzando lo sguardo sul
ritratto del vecchio padre che sempre lo giudicava e lo scherniva con
la sua espressione severa, mentre si versava un bicchiere di whisky.
Aveva
dannatamente
bisogno di qualcosa di forte da bere. Si lasciò andare a un
sospiro, abbassando il capo. Sapeva bene cosa avrebbe fatto
quell’uomo, se fosse stato al posto suo; non avrebbe permesso
a
nessuno di interferire con i suoi piani: avrebbe fatto sposare Kanon il
prima possibile. E per quanto riguardava Saga…
l’avrebbe
rimesso in riga con ben altri metodi, altro che tenerlo nascosto e al
sicuro; e avrebbe fatto di tutto per unire il nome della sua famiglia
ai Perkins di New York, poco gli sarebbe importato se quella Jennifer
era un’oca viziata. Avrebbe portato vantaggi e prestigio alla
famiglia.
Ma
lui, Shion Hayes,
non era come suo padre. Voleva certo il prestigio, voleva anche
vantaggi, ma non a quel prezzo. Ora che aveva conosciuto di persona la
giovane Saori, si era convinto che fosse la scelta giusta per Kanon.
Doveva solo aspettare che il figlio imparasse a conoscerla meglio e
l’avrebbe accettata.
Il
ghiaccio nel suo
bicchiere si mosse con un leggero scricchiolio, sufficiente per
risvegliarlo dai suoi pensieri. Corrugò la fronte e
posò
il bicchiere sul mobile bar: non aveva più voglia di bere.
«Ho
la netta
impressione che quel maledetto vecchio abbia architettato tutto per
vendicarsi perché ho rifiutato di rinegoziare
l’accordo di
partership, scaricandomi il suo gorilla solo per rendermi la vita un
inferno nei pochi giorni che starà qui. Comunque, stando
agli
ultimi documenti che ho ricevuto, attualmente è al
sessantuno
per cento; Saga sta inoltre acquistando diversi terreni attorno al lago
e vari lotti nei paesi vicini. Ma non chiedermi perché lo
stia
facendo, non capisco proprio cosa abbia in mente quel
ragazzo.»
«E
con questo ho finito!» esclamò soddisfatto Shura,
chiudendo finalmente con i conti.
Raccolse
il
materiale nella cartelletta e ripose il tutto nel cassetto centrale
della scrivania di mogano, sprofondando poi nella poltrona. Non
c’era nulla di più stressante e faticoso per lui
che fare
la contabilità delle spese.
«Shura
ha
ragione», si fece sentire Saga, affacciandosi dalla porta
della
biblioteca, intervenendo nella discussione. «Qualche ospite
“capriccioso” non è la fine del mondo.
Il direttore
si sarebbe lamentato in ogni caso. È da quando abbiamo fatto
aprire il maneggio, l’anno scorso, che non perde occasione
per
dire la sua su tutto quello che accade al club. Vorrebbe mantenere il
luogo più “esclusivo” e ridurre le
strutture. Vedrai
che quando l’ampliamento del centro sportivo sarà
ultimato, darà di matto ancora di più, tranne poi
placarsi quando si renderà conto che, proprio grazie a quei
lavori, il fatturato aumenterà del venticinque per cento,
soprattutto con le manifestazioni che vi si svolgeranno.»
I
due uomini si
girarono di scatto nel sentire la voce del ragazzo, guardandolo per
qualche istante con occhi sgranati. Shion, soprattutto, era quello
più sorpreso.
«Scusate,
non volevo intromettermi. Ho bussato, ma forse non mi avete
sentito.»
Era
un Saga
sorridente e sicuro di sé, quello che se ne stava a
metà
sulla soglia della biblioteca, con in mano diversi fascicoli e una
chiavetta usb nella quale aveva caricato una dettagliata presentazione
per il prossimo consiglio di amministrazione, per
l’autorizzazione dei nuovi progetti. Si avvicinò
alla
scrivania e vi lasciò il tutto. In cima al mucchio, aveva
preparato anche alcuni documenti che necessitavano la firma del padre.
«Se
dovessi
aver bisogno di qualche chiarimento per questi documenti, potrai
chiedere a Kanon quando rientrerà in casa, sono sicuro che
risponderà in maniera esauriente.»
«Ora
dove si trova?» chiese Shion.
«L’ho
lasciato che prendeva il sole sul pontile», rispose con
pacatezza Saga.
«Anche
tu eri
lì a prendere il sole?» domandò Shura
in tono
divertito, alzandosi dalla poltrona e facendo il giro della scrivania,
per poi raggiungere una delle grandi finestre da cui si poteva vedere
bene sia il pontile che la rimessa delle barche.
«Per
me fa
ancora troppo freddo. Anche per Kanon fa troppo freddo, ma non ha
voluto ammetterlo quando gliel’ho fatto notare»,
ridacchiò il giovane.
Non
aveva altro da
fare, lì. Si guardò un attimo in giro, poi si
mise le
mani in tasca e fissò il ritratto del nonno: era
un’abitudine che aveva preso da Shion, ma a differenza del
genitore la sua era mera curiosità per una persona che non
aveva
mai conosciuto e che, tutto sommato, non gli incuteva alcun timore, ma
solo curiosità.
«Aspetta,
non
te ne andare. C’è qualcosa che vorrei
chiederti», lo
trattenne Shion, vedendo il figlio che stava per uscire. Si
avvicinò alla scrivania e, sovrappensiero,
accarezzò una
vecchia cartelletta di cuoio, semi sepolta da altre carte.
«Come
giudicheresti una persona che…» fece una pausa
cercando le
parole adeguate, senza staccare gli occhi da quella cartelletta,
«una persona che credi di conoscere e di cui ti fidi
ciecamente e
poi scopri che ti tiene nascoste delle cose, magari delle cose
importanti?»
Era
strano per Saga
vedere il proprio padre non avere quasi il coraggio di guardare negli
occhi una persona quando le rivolgeva una domanda. Soprattutto se stava
parlando con uno dei suoi figli. Rimase in silenzio per un attimo, per
cercare di capire se quella domanda fosse in qualche modo un
trabocchetto, ma l’atteggiamento del padre non sembrava
proprio
avvalorare quell’ipotesi.
«Ognuno
di noi
ha dei segreti, papà», rispose, sempre in tono
pacato e
sereno. «Alcuni sono piacevoli, altri dolorosi, altri ancora
sono
vergognosi o terribili; e non sempre si è disposti, o si ha
la
possibilità, di condividerli. Ma se questa persona
è
arrivata a tanto, deve avere le sue ragioni.»
Qualcosa
gli diceva
che stavano per affrontare un argomento importante. Fissò il
genitore negli occhi, dopo che questi aveva alzato la testa di scatto,
nell’udire la sua risposta e lo vide diventare serio. In quel
momento sentì una strana tensione nella biblioteca, arrivare
sia
dal padre, sia da Shura che, nonostante fosse più appartato,
stava seguendo il discorso con un certo interesse. Era la conferma ai
suoi sospetti, quindi anche lui avrebbe mantenuto la stessa
serietà degli altri.
«Quando
però questi segreti vengono a galla, se essi sono negativi
per
chi ci sta vicino, allora bisogna pagarne le conseguenze»,
aggiunse.
A
quelle parole
Shion si irrigidì ancora di più. Non era sicuro
di
riuscire a interpretare l’atteggiamento improvvisamente
così enigmatico del figlio, né tantomeno a
decifrare e
comprendere il significato di ciò che aveva appena detto.
C’era forse un messaggio sottinteso in quelle sue parole?
Il
comportamento che
Saga stava tenendo in quel momento era davvero insolito. Negli anni si
era sempre dimostrato un libro aperto per i membri della sua famiglia e
ora… ora sembrava più chiuso e guardingo, per
ciò
che lo riguardava.
Che
si fosse
sbagliato nel giudicarlo? O forse, era solamente diventato adulto e lui
non se ne era accorto, troppo intento a tenerlo sotto controllo e
limitarlo in quello che faceva, che vedeva solo ciò che
voleva
vedere?
«Tu
hai qualche segreto, Saga?» gli chiese Shion, per metterlo
alla prova.
«Sì,
ne
ho», rispose il giovane, tornando a sorridere lievemente,
avvicinandosi alla scrivania, senza mai staccargli gli occhi di dosso e
compiendo lo stesso gesto fatto poco prima dal padre.
«E
saresti disposto a condividerli?»
Anche
se non aveva
detto una parola, né si era scomposto, Saga fece intendere
con
chiarezza che non avrebbe risposto a quella domanda.
«Vado
in città», disse invece, all’improvviso.
«Non sono sicuro di tornare questa notte.»
Picchiettò
un
paio di volte le dita sulla cartelletta di cuoio e si girò,
allontanandosi di qualche passo dalla scrivania. «Non sono
ancora
pronto», mormorò fra sé.
«Forse un giorno, se
qualcuno non farà la spia prima», rispose infine,
girandosi di tre quarti e mostrando al padre un sorriso enigmatico.
Poi,
il suo sguardo
si focalizzò quasi per caso su qualcosa che si intravedeva
per
terra, vicino a una delle gambe del mobile. Si chinò e
raccolse
un pezzo di carta molto rovinato. Lo studiò per qualche
momento
e lo gettò sopra le altre carte presenti sulla scrivania
senza
dargli troppo peso, uscendo dalla biblioteca.
Nella
biblioteca
calò un silenzio tombale, nel quale i due uomini si
scambiarono
uno sguardo incredulo per ciò che era avvenuto pochi attimi
prima. Shura sentì i sudori freddi corrergli lungo la
schiena.
Si affannò a raggiungere la scrivania e verificò
ciò che la sua mente aveva immaginato.
«Accidenti
alla tua mania di tirarla fuori e guardarla in continuazione,
Shion!» esclamò con una punta di panico.
«Ti
è andata bene che ormai non si distingue quasi
più
nulla!»
Tirò
un sospiro di sollievo e riconsegnò la fotografia
all’amico, che sembrava ancora impietrito.
Shion
infatti era
perso nei propri pensieri. D’un tratto gli tornarono in mente
le
parole che Kanon aveva pronunciato sull’aereo, quando aveva
sottolineato il comportamento strano di Saga. Lo aveva notato anche lui
che negli ultimi tempi il figlio era diverso: meno concentrato, meno
attento, meno emotivamente stabile…
«Ha
detto che
va in città», mormorò. «Non
aveva mai
manifestato il desiderio di andare in città. Sarà
il caso
che tu lo accompagni», suggerì a Shura,
riprendendo una
maggiore padronanza di sé; e quello sembrò in
tutto e per
tutto un ordine.
«Credo
che
Saga non accetterà la mia presenza. E non sarà di
certo
per una questione di “passaggio con la
macchina”»,
rispose Shura. «Del resto, da quello che sono venuto a
sapere,
finora è sempre andato avanti e indietro con mezzi propri,
ma se
ti farà stare più tranquillo, proverò
a chiedergli
se posso accompagnarlo», concesse, in tono più
conciliante.
«Sai
qualcosa
a riguardo?» chiese Shion, squadrandolo con espressione
stupita:
lui di tutto ciò non sapeva nulla.
«Non
credo ci sia nulla di cui preoccuparsi, Shion.»
D'improvviso
qualcuno bussò alla porta, erano stati due colpi con le
nocche e
Aiolos fece capolino. «Shura, avrei bisogno di
parlati»,
disse in tono serio, ma senza lasciar trapelare nulla che potesse
mettere in allarme il capofamiglia Hayes. «È
piuttosto
importante.»
*****
Cora
posò una
grande ciotola di popcorn, appena usciti dal microonde e ancora
fumanti, sul tavolino e subito dopo si buttò a peso morto
sul
divano.
«Ieri
sono
stata all’agenzia di mr Price per vedere se il mio posto di
lavoro era ancora salvo. Sai, dopo tutti questi giorni in cui non mi
sono presentata, anche se avevo avvertito, temevo il peggio. Il
titolare mi ha fatto una ramanzina tale che avrei voluto
sotterrarmi.»
Si
lasciò
andare a una risatina imbarazzata mentre raccontava a Saga quanto era
accaduto nei giorni in cui non si erano sentiti. Dopo quella strana e
splendida serata alla tavola calda di Winchester, aveva iniziato a
raccontargli tutto: di come passava le giornate, di quello che faceva
al lavoro e anche di quello che raccontava alla sua famiglia.
Sbadigliò e si risistemò più composta,
occupando
il cuscino centrale del divano. Indossava una felpa rovinata
–
che un tempo era la parte superiore della sua vecchia tuta di scuola
– e i pantaloncini arancioni; e i capelli erano ancora umidi
per
la doccia che si era fatta solo una mezz’ora prima. Non le
importava di apparire trasandata di fronte al suo ragazzo,
poiché sembrava non dare alcuna importanza a quell'aspetto.
«Ci
ho pensato
molto, in questi giorni», continuò, protendendosi
verso la
ciotola e prendendo una grossa manciata di popcorn.
«Nonostante
mi piaccia quel lavoro tranquillo, defilato e con orari che mi
permettono di fare il mio comodo, ho deciso di accettare il consiglio
di mr Price e iscrivermi ai corsi di criminologia.»
Piegò
la
testa un poco all’indietro, girando lo sguardo oltre lo
schienale
del divano, cercando di inquadrare Saga per vedere la sua reazione alla
notizia, ma lui si infilò in bagno. Sbuffò
annoiata,
rimettendosi dritta. Terminò in fretta i popcorn che aveva
in
mano e concentrò la sua attenzione su un angolo del plaid
sul
quale Kitty dormiva acciambellata e incurante dei movimenti bruschi che
faceva. Era incredibile come quella gattina avesse subito preso
possesso della sua vecchia coperta di pile. Ogni volta ci giocava, la
tirava, la mordeva, vi affondava dentro le unghiette e poi ci si
sdraiava sopra, lasciandoci su un sacco di peli. Talvolta, Cora la
trovava arruffata per terra in un angolo, fuori dalla porta della
camera da letto, oppure vicino alla ciotolina dell’acqua,
oppure
ancora dietro la porta del bagno. Quello era da sempre il suo plaid
preferito e avrebbe voluto usarlo ancora per tanto tempo. Invece, pochi
giorni nelle zampe di quella bestia ed era già da buttare.
Scrollò
la
testa, sbuffando di nuovo, ma questa volta di rassegnazione: il plaid
era diventato di proprietà di Kitty. Punto. Stop. Fine della
discussione!
«Lascerai
il lavoro?» le chiese Saga, tornando nel salotto e
strofinandosi i capelli con l’asciugamano.
Era
arrivato nella
tarda mattinata per stare un po’ con lei, pranzare assieme e
parlare ancora un po’ di quello che Cora gli aveva raccontato
la
sera prima di Pasqua. L’aveva trovata mezza addormentata che
usciva dalla cucina con solo le mutandine e la canottiera addosso, dopo
che aveva dato da mangiare a Kitty. L’aveva vista molto
stanca e
le aveva fatto tenerezza. Avevano quindi deciso di prendersela
più comoda, tornando a letto e passando il tempo a farsi un
po’ di coccole.
Si
avvicinò
al tavolino e pescò alcuni popcorn dalla ciotola,
mangiandoli
però senza tanta voglia, considerando che non approvava quel
genere di cose, riprendendo subito dopo ad asciugarsi.
«No,
il lavoro
che ho mi piace. È interessante e stimolante e poi mi
è
utile per imparare, ma soprattutto mi serve!»
spiegò Cora,
allungandosi a prendere altri popcorn: ne avrebbe mangiati fino a
scoppiare se avesse potuto. «Saranno anche solo
trecentocinquanta
dollari alla settimana, ma non li disdegno. Però
dovrò
modificare un po’ gli orari. I corsi ad Harvard sono al
pomeriggio, per tre giorni alla settimana. Quindi, in quei giorni
pensavo di lavorare di mattina. Poi naturalmente dovrò
studiare
e probabilmente fare anche qualche esercitazione pratica assieme agli
altri studenti.»
Cora
alzò lo
sguardo verso Saga e gli vide una strana espressione sul viso. Timorosa
di aver detto qualcosa di male, iniziò a tormentarsi
l’unghia del pollice con i denti, aspettando una sua risposta.
Il
ragazzo
continuò a sfregarsi i capelli; in apparenza dava
l’impressione che non gli importasse molto
dell’argomento.
Le diede le spalle e si diresse in cucina per prendere qualcosa da
bere. Si tolse l’asciugamano e quasi lo sbatté sul
piano
di lavoro, passandosi poi le mani fra i capelli, pettinandoli
all’indietro, esprimendo in quel modo i suoi veri
sentimenti. Fece qualche respiro profondo, forse uno sbuffo, e
aprì il frigorifero, studiando quello che c’era
dentro.
«Va
tutto bene?» chiese Cora.
Si
era alzata dal
divano, incurante di disturbare la gattina che ancora dormiva beata e
si era affacciata in cucina, percependo quel rumore strano e
improvviso, come una frustata, provenire da lì.
«E
se te ne
dessi io… cinquecento alla settimana?» le propose
Saga,
senza voltarsi. Sentiva gli occhi della ragazza su di sé e
poteva ben immaginare la sua espressione stupita e dubbiosa.
«E
cosa dovrei
fare, restarmene a casa a fare la mantenuta?» ripose lei, con
tono seccato e al tempo stesso sconcertato.
«Non
sarebbero
certo per te, ma per il mantenimento di Kitty!»
replicò
Saga voltandosi e guardandola con una certa sorpresa. «Ma se
ti
può far sentire meno a disagio, posso sempre farti un
regolare
contratto di assunzione come catsitter», aggiunse con il
sorriso
da monello sulle labbra. Trattenne una risata nel vedere la reazione
oltraggiata di lei.
«Dai,
vieni
qui», le disse, allargando le braccia in un invito ancora
più esplicito ad avvicinarsi; Cora però si
girò
dall’altra parte, offesa.
Il
ragazzo la
raggiunse in un attimo e l’abbracciò, catturandola
completamente e facendola indietreggiare assieme a lui fino a tornare
ad appoggiarsi ai mobiletti della cucina. Le baciò il collo,
sopra i capelli. Poi, glieli scostò, scoprendo la pelle
umida,
così com’era umido lo scollo della felpa.
Iniziò a
solleticarla con la punta del naso, facendola ridacchiare.
«Con
questo
tuo nuovo impegno, come dovremo organizzarci?» le chiese,
rattristandosi. «Staremo assieme ancora meno di quanto
riusciamo
a fare adesso», sospirò. Era stato un soffio caldo
che
aveva accarezzato il collo della ragazza provocandole dolci brividi.
«Siamo ancora solo all’inizio e già
dobbiamo
ritagliarci a fatica qualche momento per noi…»
Cora
posò le mani su quelle di Saga, rilassandosi e
abbandonandosi fiduciosa fra le sue braccia.
«Questa
casa
è più che sufficiente per tutti e tre; e il letto
è grande e troppo vuoto per una sola persona. Vivi qui con
me.» Il tono di Cora era serio e convinto, ma vi era anche un
pizzico di timore per un eventuale rifiuto.
«Vorresti
davvero un uomo che ciondola per casa tutto il giorno, aspettando il
tuo ritorno a casa, magari con la cena pronta in tavola?»
ribatté Saga. Senza volerlo ci mise una punta di fastidio
nel
tono della sua voce.
«Perché
fai così, adesso?» Cora provò a girarsi
ma si
sentiva blccata fra le braccia del ragazzo. «Io non chiedo
certo
questo. Ti ho semplicemente proposto di stare con me, sotto lo stesso
tetto, in questo appartamento che in fin dei conti è
tuo.»
«Ti
stancheresti presto della situazione e io lo stesso!» disse
lui,
con tono secco, quasi offeso. La lasciò andare, riprese
l'asciugamano e uscì dalla cucina senza aggiungere altro,
chiudendo in quel modo l’argomento.
«Sono
quasi le
due, sbrigati a vestirti anche tu, così facciamo la strada
assieme», le disse dalla camera da letto.
A
Cora sembrò
una situazione surreale: Saga le aveva parlato con naturalezza, come se
ciò che era successo solo pochi attimi prima non fosse mai
accaduto; o forse, come se per lui non avesse avuto alcuna importanza
quella discussione.
«Dai,
così ne approfitto per fare anche alcune commissioni. E
magari,
se faccio in tempo, passo da Aiolia al campus», le disse,
affacciandosi di nuovo in cucina mentre si infilava il maglione a collo
alto. «Lo sai che fa parte della squadra di atletica
dell'Università? Fra qualche giorno ci saranno delle gare.
Potremmo andare a vederle, che ne dici?»
Non
notando alcuna
reazione da parte di Cora, ancora a piedi scalzi si avvicinò
a
lei e le alzò la testa, vedendola con un'espressione
avvilita.
Le diede un piccolo bacio sulle labbra imbronciate.
«Ti
ha dato fastidio che ti abbia chiesto di vivere qui con me? Sono stata
forse invadente o troppo precipitosa?»
In
quelle parole Saga avvertì tutto il dispiacere di Cora.
«No,
assolutamente no. Ne sono stato molto lusingato a dire il vero,
però… non mi è possibile
accettare», le
disse, mostrandole tutta la serenità e la
sincerità di
cui era capace. «La tua vita si sta riempiendo
così in
fretta di impegni importanti e io sono felice per te, ma saresti sempre
fuori casa. Io non voglio limitarti nelle tue aspirazioni, ma non
voglio neanche rimanere indietro, ad aspettarti qui da solo.
È
forse troppo egoistico da parte mia volerti per me per il maggior tempo
possibile?»
«E
allora, la soluzione perfetta non sarebbe condividere la stessa
casa?» insistette lei, con voce quasi implorante.
Saga
la guardò negli occhi, le sorrise accarezzandole i ricci
umidi e la baciò.
«Non
posso accettare... per ora.»
*****
Il
tempo del
tragitto fino all’agenzia lo trascorsero mano nella mano.
Eppure,
in quei minuti si sentirono più distanti che mai. Saga la
salutò con un bacio, sorridendole come faceva sempre,
aspettando
lì davanti al portone finché lei non fosse
entrata. Poi,
iniziò a incamminarsi. Poco prima di uscire di casa, facendo
attenzione a non farsi vedere da lei, aveva preso alcuni documenti che
si era subito messo in tasca. Voleva sistemare le cose rimaste in
sospeso ed era certo che lei, se gliene avesse parlato, avrebbe
protestato vibratamente. Ne avrebbe approfittato anche per chiarire
l’equivoco dal quale erano poi scaturiti tutti quei
cambiamenti
nelle loro vite. Quando ripensava a quella sera, non riusciva a capire
perché fosse successo e la sua mente si riempiva di domande.
A
pochi metri
dall’incrocio Saga si voltò indietro,
soffermandosi a
guardare ancora una volta l’ingresso nel quale era entrata
Cora,
pensando a come lei avrebbe reagito se avesse saputo di quelle sue
intenzioni. Percorse ancora un centinaio di metri, poi fermò
un
taxi.
*****
Il
taxi lo
scaricò proprio davanti al portone dello stabile di Dohko.
Si
sentiva un po’ nervoso se ripensava a quando, quella sera, il
cinese si era sentito male davanti a lui. Sperava di non dover
assistere a una replica. Chiuse gli occhi e fece un grosso respiro.
Prima di incamminarsi verso il portone, controllò di aver
portato con sé tutta la corrispondenza. Poi, sentendosi
pronto
ad affrontare il padrone di casa, alzò lo sguardo e si
ritrovò davanti una vecchia conoscenza che lo stava
squadrando,
braccia incrociate al petto.
«Cosa
ci fai qui?» chiese.
«Nulla
di
particolare», rispose Aiolos, con noncuranza.
«Passavo da
queste parti. È forse un reato? E tu invece, sei venuto a
trovare la tua ragazza?» domandò a sua volta, con
un mezzo
sorriso di scherno.
Non
aveva davvero la
necessità di porgli quella domanda, perché la
risposta la
conosceva bene, ma si chiedeva se Saga fosse a conoscenza di
ciò
che sapeva lui. L’effetto che conseguì con le sue
parole
lo vide nel viso irrigidito dell'altro e gli fece provare una certa
soddisfazione, ripagandolo anche del tempo perso a bussare alla porta
dell’appartamento di Cora.
A
Saga non piacque
affatto il tono di Aiolos, né tantomeno una tale
intromissione
nelle sue faccende personali. Se fino a quel momento, ovvero da quando,
settimane prima, l'amico gli aveva confessato il proprio malumore nei
suoi confronti facendolo poi sentire in colpa, ora per la prima volta
era lui stesso che iniziava a provare un certo fastidio nel
ritrovarselo di fronte. Rimase a fissarlo, aspettando –
sperando
– di vederlo andar via. Invece, imperterrito, Aiolos
continuava a
sostenere il suo sguardo, aspettando a sua volta. Sospirò
con
rassegnazione e salì i gradini di cemento che lo separavano
dal
portone. Lo vide socchiuso, quindi non indugiò ed
entrò
nella palazzina.
Bussò
alla porta di Dohko con tocchi leggeri e rimase ad aspettare.
«Non
ho bisogno della guardia del corpo.»
«È
il
mio lavoro», rispose Aiolos, impassibile. Dalla tasca del
cappotto prese il pacchetto di chewing-gum, ne scartò una e
se
la mise in bocca. «Uno dei tanti»,
mormorò,
trattenendo un mezzo sorrisetto nel sentire sospirare Saga.
Lo
vide mettersi le
mani nelle tasche del cappotto e attendere con stoica pazienza davanti
alla porta. Lui non era stato altrettanto bravo quando gli era toccato:
aveva bussato così tante volte e così forte che
quasi la
scardinava.
Si
sentì un
gran trambusto di porte che sbattevano, rumori varie e uno scalpiccio
affannoso. Poi, all'improvviso ci fu di nuovo silenzio e infine, il
catenaccio che veniva tirato e il padrone di casa che, contrariamente
alla sua solita prudenza, spalancò la porta.
«Ti
ho
già detto che la ragazza non abita più qui e non
so dove
sia andata!» disse veemente il vecchio cinese, con voce roca
e
nasale, iniziando a tossire senza tregua.
Si
era presento col
viso arrossato e imperlato di sudore, un asciugamano attorno al collo
che emanava uno strano odore di erbe e il respiro ansimante. Anche
dall'appartamento arrivava il medesimo odore. Quando finalmente quella
crisi passò, alzò gli occhi sulle persone che gli
stavano
davanti e, ancora una volta, nel vedere Saga si sentì
mancare.
«Di
nuovo tu?» balbettò, coprendosi la bocca con un
lembo dell’asciugamano.
I
suoi occhi
febbricitanti si velarono di lacrime e, trattenendo a stento altri
colpi di tosse, si avvicinò a Saga. Allungò la
mano
tremante provando a sfiorargli la guancia, ma il ragazzo
scacciò
la sua mano e si ritrasse.
Aiolos
osservò stupito e al tempo stesso incuriosito il
comportamento
di entrambi. Quando lui, qualche giorno prima, aveva nominato la
famiglia Hayes, il vecchio gli era parso molto spaventato; ora invece
sembrava sì, ancora spaventato, ma era anche commosso nel
vedere
Saga. Cosa c’era sotto che gli sfuggiva?
Dohko
impallidì d'un tratto e barcollò indietro,
iniziando a
respirare male. Grondava sudore dalla fronte. Provò ad
arrivare
fino a un mobiletto lì vicino, ma le sue gambe cedettero e
si
accasciò a terra. Anche in quel momento, il vecchio non
smise di
fissare gli occhi su quel ragazzo così somigliante a uno
spettro
del suo passato. Ormai sapeva che Saga era concreto e reale; eppure,
quella straordinaria rassomiglianza l’aveva scioccato di
nuovo.
Saga
rimase immobile, distante. Neanche provò ad avvicinarsi per
prestargli soccorso.
«Cadono
proprio tutti ai tuoi piedi!» mormorò Aiolos con
studiata
malizia, affacciandosi sulla soglia e osservando anche lui la figura
pietosa del vecchio. «Che facciamo, gli diamo una
mano?»
Senza
aspettare una
risposta si accovacciò accanto a Dohko, accertandosi delle
sue
condizioni. Poi, si guardò un attimo attorno:
l’ingresso
era piccolo e spoglio, vi erano tre porte una delle quale era socchiusa.
Sbuffò
e si
grattò la testa. Lo prese sotto l'ascella sinistra e lo
aiutò ad alzarsi. In quel momento vide Saga fare
altrettando, ma
non sembrava molto convinto. Portarono l'uomo nel salotto e lo fecero
accomodare su una vecchia poltrona reclinabile, di quelle che si
vedevano nelle televendite.
La
stanza era molto
pacchiana, nel tipico stile cinese, dalle tinte rosse e nere, con
statuette di giada verde appoggiate ovunque e bastoncini
d’incenso accesi sulla mensola del caminetto che emanavano
odori
pungenti. Le pareti erano piene di pannelli di carta di riso, lunghi e
stretti, dipinti a mano e raffiguranti scene campestri, animali
fantastici e fiabe tradizionali.
Nella
stanza l'aria
era pesante, non solo per l'incenso, sul tavolo giaceva ancora la
bacinella per i suffumigi – l'acqua ormai fredda –
nella
quale erano state mischiati essenze e oli balsamici.
Aiolos
portò
dalla cucina un bicchiere d’acqua ma il cinese gli chiese la
sua
tisana, indicandogli il vassoio con il thermos e un paio di tazze,
posto sulla credenza lì vicino. Poi, si mise in un angolo
appartato. Osservò Dohko che teneva la testa bassa, il mento
appoggiato al petto e le mani giunte abbandonate sulla pancia: sembrava
essersi assopito. Spostò l'attenzione su Saga e vide quanto
fosse taciturno, seduto sul bracciolo del divano mentre guardava fuori
dalla finestra con occhi vacui. Provò una strana sensazione
nel
vederlo in quello stato. Notò anche un insolito pallore sul
suo
viso. Continuò a sturdiarlo per diversi secondi e vide come
lentamente quella maschera di apparente calma – che sembrava
indossare – svanisse per mostrare ben altro. Pochi momenti
dopo
infatti, iniziò a sudare e a respirare con affanno.
Dohko
riaprì
gli occhi e, con mano tremante, avvicinò a sé la
tisana,
fissando quel liquido ambrato, ancora fumante, con occhi tristi e pieni
di nostalgia. Poi, guardò Saga e sorrise lievemente ai
ricordi
che nella sua mente si facevano più chiari.
«È
passato tanto tempo. Quasi una vita, eppure…»
All’improvviso il vecchio diede due colpi di tosse e si
sentì un rantolo stanco. «Sei uguale a
com’era tuo
padre quando l’ho visto la prima volta. Si
presentò alla
mia porta una notte, era un bel giovane dai capelli biondi, lunghi come
i tuoi adesso, timido e con lo sguardo innocente. Era fine estate, ma
lui portava un cappotto di lana scuro e teneva fra le braccia un
neonato», continuò Dohko, con voce più
libera.
Avvicinò
la tazza alla bocca e sorseggiò piano.
«Lei
si sta sbagliando», disse Saga, sempre con lo sguardo fisso
sulla finestra.
Dohko
sorrise,
abbassando di nuovo gli occhi sulla tazza e su quelle lievi volute di
vapore che poco alla volta si alzavano e si dissolvevano nell'aria.
«Andiamocene,
Saga», lo esortò Aiolos, muovendosi dal suo angolo.
«Perdonate,
sono un pessimo ospite. Non vi ho ancora offerto nulla. Gradite una
tisana?» disse il vecchio.
Provò
ad alzarsi, ma ricadde pesantemente sulla poltrona.
«Lascia
stare
vecchio», ribatté Aiolos, continuando
però a
guardare Saga. Lo vide sempre più pallido e iniziare a
tremare.
«Va tutto bene?» chiese, avvicinandosi a lui.
Saga
deglutì
a fatica, serrando le labbra per bloccare il senso di nausea che
aumentava ogni secondo di più. Da quando erano entrati aveva
iniziato a sentirsi male.
Aiolos
aprì la finestra e subito Saga si precipitò,
respirando a pieni polmoni aria pulita.
«Sei
proprio
tu, non mi sbaglio», sorrise Dohko, osservando il ragazzo.
«Fin da piccolo non sopportavi l’odore delle mie
erbe.»
«Se
qui non abbiamo nulla da fare, è meglio
andarcene», propose Aiolos.
«Hai
ragione.
Ero venuto per sistemare delle cose», disse Saga, grazie a
quei
pochi momenti a contatto con l'aria fresca di quel pomeriggio stava
riprendendo colorito sulle guance. «Sono venuto per saldare i
conti di Caroline Miller.»
Dalla
tasca interna
del cappotto estrasse il libretto degli assegni e lo posò
sul
tavolo. Poi, cercò ancora nelle tasche, accigliandosi.
Iniziò a sentire di nuovo un cerchio alla testa e la nausea
tornare a farsi viva. Aiolos affiancò l’amico e
gli porse
la sua penna d’oro, ricevuta in regalo da Shion Hayes il
giorno
della laurea.
Saga
la prese senza
batter ciglio e, con pochi rapidi tratti, compilò un assegno
da
cinquemila dollari. «Dovrebbe coprire anche la parte di spese
arretrate per i lavori di ristrutturazione e per il suo
disturbo», disse, porgendoglielo.
Il
vecchio rimase a fissare quel braccio teso, con una strana luce di
avidità negli occhi.
«Prendilo!»
lo esortò Saga con tono secco. L’odore delle erbe
che
impregnava la casa lo stava facendo sentire di nuovo male e irritabile.
Dohko
si alzò
a fatica dalla poltrona e fece qualche passo verso di lui, prendendogli
la mano nelle sue. «Assomigli molto anche a tua madre, sai?
Aveva
una grande determinazione, la stessa che hai mostrato in questo
momento. Si era presentata assieme a tuo padre e a un altro ragazzo, un
giovane ispanico che all'epoca bazzicava da queste parti molto spesso.
Ti teneva fra le braccia, me lo ricordo bene perché
più
volte aveva sussurrato il tuo nome per calmarti e farti smettere di
piangere. Anche lei mi aveva offerto dei soldi, perché vi
dessi
asilo per qualche tempo, a voi due e a vostro padre.»
Dohko
interruppe il
suo racconto e tossì forte più volte, fino a
piegarsi
quasi sul tavolo. Sentiva su di sé due paia di occhi che lo
fissavano; avvertiva il timore di Saga e l'ostilità
dell'altro.
«Quando
ti ho
rivisto, pochi giorni fa, ho creduto di vedere un fantasma, soprattutto
dopo quello che successe in seguito», sospirò.
«Tutto di te mi ricorda com’era Anthony: la tua
voce, il
tuo viso, lo sguardo triste e spaventato che hai in questo
momento…»
«Sta
dicendo
delle sciocchezze! Mio padre è Shion William Hayes e non
credo
proprio potrebbe mai avere a che fare con...»
«Basta
così, Saga, non è il caso di continuare questa
conversazione assurda», interuppe Aiolos, trascinando l'amico
fuori dalla stanza per un braccio. Sapeva che c’era qualcosa
di
strano e, quando quella mattina ne aveva parlato con Shura, aveva
trovato la conferma nel momento in cui aveva ricevuto
l’incarico
di tenere d’occhio Saga.
«Ti
prego,
ascoltami, ti sto dicendo la verità! Siete stati qui per
quasi
tre mesi. Tante volte mia figlia ti ha cullato, tu e tuo fratello,
proprio nell'appartamento che occupava quella ragazza. Ecco
perché...»
Dohko
si reggeva a
fatica sulle gambe malferme, per l’età ma
soprattutto per
quell’influenza che in quei giorni lo aveva indebolito.
Provò a raggiungerli, strascicando i piedi, ma
incespicò
su una delle sedie del tavolo.
«Ti
posso dare altre prove!» gridò, sperando di
sortire effetto.
Nonostante
i
ripetuti tentativi del cinese, Saga non si fermò,
né lo
ascoltò, ma non appena mise piede fuori dalla palazzina fu
costretto a reggersi alla cancellata di ferro. D'un tratto tutto il
malessere di cui aveva sofferto nell'appartamento di Dohko si
ripresentò e più forte. Di slancio raggiunse il
cestino
dell'immondizia lì vicino e diede di stomaco.
«Senti,
vecchio», disse Aiolos, rivolgendosi a un Dohko spaventato,
afferrandolo per la casacca e quasi alzandolo di peso. «Se
credi
che questo tuo patetico tentativo di sconvolgere il mio amico ti
farà guadagnare soldi facili, ti sbagli di grosso! Non
sarà certo qualche banale trucco da imbonitore che
farà
di te un uomo ricco. Anzi, ti porterà solamente un mucchio
di
guai. Agli Hayes non piace essere presi in giro», lo
minacciò.
Quando
scese per
strada, trovò Saga che attendeva appoggiato al corrimano di
ferro, la testa bassa e lo sguardo fisso sul cemento dei gradini.
«Immagino che tu sia venuto qui con i mezzi pubblici o in
taxi.
Se hai bisogno, posso darti un passaggio fino a casa. Ho la macchina
poco più avanti», gli disse; nella sua voce e nel
suo modo
di fare non c'era il minimo accenno di malizia.
Non
si stupì
di non ricevere risposta da parte di Saga. Nonostante il tempo passato,
lo conosceva ancora bene e sapeva che quando era turbato si chiudeva in
se stesso. Chiunque lo sarebbe stato nel sentire le parole di Dohko.
Pian piano, nella sua mente si formava una strana idea: quel nome,
Anthony, iniziava a incontrarlo troppo spesso, nel quadernetto di
Gregory Miller, nel resoconto di Kanon di quando il padre si era
ubriacato, e ora dal vecchio. E poi, quella storia dei gemelli, il caso
di rapimento di cui stava leggendo…
Ora
che ci
rifletteva meglio, Saga e Kanon non assomigliavano per nulla a Shion
Hayes, né al vecchio Abraham Hayes. Ma forse, quel fatto non
era
poi così rilevante, avrebbero potuto prendere tutto dalla
madre.
Guardò
Saga di sottecchi: camminava lentamente, sempre con lo sguardo fisso
nel vuoto, i tratti del viso inespressivi.
«Siamo
arrivati», disse, scendendo dal marciapiede e facendo il giro
dell'auto.
Saga
si fermò poco più avanti, fece un respiro
profondo e si voltò a guardare l’amico.
«Non
badare a
quello che ha detto quel tipo. Hai visto com’era conciato,
no?
È vecchio e malato. Chissà cosa si stava fumando
quando
siamo arrivati», disse Aiolos appoggiandosi con il braccio al
tettuccio dell'auto.
«Vorrei
fare
due passi a piedi per schiarirmi le idee. Tu vai pure, grazie lo
stesso.» Con le mani ben ficcate nelle tasche del cappotto,
Saga
riprese a camminare lungo il marciapiede.
*****
Saga
si sentiva
frastornato. Camminava a testa bassa, senza una meta vera e propria. Ci
mise quasi un'ora, ma alla fine si ritrovò di fronte a
quelle
vetrine a lui tanto familiari della bottega del vecchio Josh.
Scostò il lembo del cappotto e prese un piccolo mazzo di
chiavi
dalla tasca dei pantaloni. Lo soppesò per alcuni secondi:
quel
giorno non aveva programmato di andare nel laboratorio, ora
però
aveva bisogno di riflettere e passare del tempo impegnato nel creare
qualcosa lo aiutava. Girò la chiave nella serratura della
porta
del negozio e vi entrò, richiudendosela subito alle spalle.
Sospirò. Il buio del locale lo faceva sentire al sicuro. Si
diresse nel retrobottega e subito varcò la porta laterale
che
dava sulle scale interne. Salì fino all'appartamento. Come
d'abitudine si cambiò e vestì abiti
più comodi,
quelli che cosiderava “da lavoro”, ma non
tornò
subito al piano di sotto, ma si buttò sul divano, chiudendo
gli
occhi. C'era qualcosa che non andava anche in casa, in qualche modo la
sentiva diversa, come se non fosse più sua.
Kitty
sbucò
dalla cucina e subito lo raggiunse, sedendosi ai suoi piedi. Quando non
ottenne attenzione si fece sentire miagolando e grattando con le
unghiette sulla stoffa dei jeans.
«Ciao,
piccolina.»
Saga
la prese e se
la portò al petto. Era ancora talmente piccola e leggera che
le
stava quasi in una mano. La gattina ricambiò con delicate
fusa
che lo fecero sorridere. Nonostante questo però, quella
tenera
compagnia non riusciva a farlo sentire meglio. Il giovane provava un
profondo senso di smarrimento, come se fosse diventato d'un tratto
consapevole che stava vivendo la vita di un altro e lui non avesse un
posto tutto suo nel mondo. Sospirò, passandosi le mani sul
viso,
mentre Kitty si acciambellava sul plaid tutto arruffato lì
vicino a lui.
Lasciò
la
piccola di casa immersa fra le pieghe di quel morbido pile e scese nel
laboratorio: forse impegnare la mente in qualcosa di concreto lo
avrebbe aiutato a capire la situazione.
Accese
le luci al
neon e si avvicinò agli scaffali in ferro dov'erano riposte
le
scorte dei materiali, soffermandosi a studiare cosa gli sarebbe
occorso. Una volta preso ciò che gli serviva, si sedette al
tavolo e stese davanti a sé un grande foglio per progetti.
Dapprima lo divise a metà e, sulla parte destra
abbozzò
il disegno, ombreggiando alcune parti per dare profondità.
Appuntò alcune cifre e note sui lati, anche di sbieco;
cancellò, ridimensionò qualche dettaglio,
modificò
l'angolo superiore... Ci mise una mezz'ora buona per terminare quel
primo step e avere un'idea generale di ciò che sarebbe stato
in
seguito. La restante parte del foglio la riempì di calcoli e
altre misure, elencando infine quantità e grandezze dei
singoli
pezzi da realizzare.
Si
sgranchì
gambe e schiena per qualche minuto, da quel momento in avanti la sua
concentrazione sarebbe dovuta essere al massimo. Prese la sua solita
bandana e se la legò in testa. Poi, si rituffò
nel lavoro.
*****
Fuori,
in strada,
parcheggiato sul lato opposto della strada quasi di fronte
all’entrata del negozio, Aiolos sedeva in auto e controllava
la
situazione. Anche se con molta riluttanza aveva permesso che Saga se ne
andasse via da solo. Non era riuscito a spiegarsi il perché
vederlo allontanarsi in quello stato gli aveva fatto sentire quella
strana tristezza addosso, ma aveva deciso di seguirlo. Quel pomeriggio
tardo avrebbe dovuto incontrarsi con Aiolia fuori dal campus e fare poi
una capatina a casa – la madre Georgina era riuscita a
estorcergli quella promessa – ma quando era stato il momento
di
svoltare a destra al semaforo, aveva invece preso la direzione opposta.
Era
seduto in auto
da più di un'ora. Ogni tanto alzava la testa dalla sua
lettura e
fissava dal finestrino chiuso la vetrina di quel negozio che sembrava
abbandonato da anni, domandandosi più volte cosa stesse
combinando Saga lì dentro. Scese dall'auto e fece un giro
nei
dintorni. Non conosceva quel quartiere. Non c'era quasi nessuno per
strada. Camminò per qualche decina di metri lungo il
marciapiede, poi entrò in un videonoleggio e chiese qualche
informazione, uscendone poco dopo senza nulla di utile.
Provò
allora dal barbiere a fianco; il padrone era un uomo anziano
decisamente cordiale che di sicuro avrebbe potuto soddisfare le sue
curiosità meglio che il ragazzo indiano interpellato prima,
ma
ottenne lo stesso risultato: quando chiese del negozio chiuso il
barbiere lo liquidò senza tanti preamboli.
L'unica
cosa che gli
rimaneva da fare era tornare all'auto e pazientare: sarebbe rimasto
lì finché l’altro non fosse uscito.
«Gregory
Miller», mormorò, accarezzando la copertina del
quadernetto «dimmi quello che voglio sapere.»
Diede
un'ultima occhiata alla porta del negozio e si immerse nella lettura.
“agosto
1984
…
Anthony
Young, se questo è il suo vero nome, è una
persona
avvolta nel mistero più assoluto. Prima di adesso non
c’è mai stato niente a suo carico, nemmeno una
multa per
eccesso di velocità o sosta vietata. Più cerco
qualcosa
su di lui, più mi ritrovo punto e a capo. Se almeno
riuscissi ad
accedere agli atti del suo processo...”
“15
agosto
…
Alla
fine, dopo infinite richieste e delle concessioni che ora, col senno di
poi, mi pento di aver fatto, sono riuscito a ottenere ciò
che mi
serviva: in mano ho la copia del suo fascicolo. È stato
davvero
faticoso convincere il guardiano notturno degli archivi del tribunale
dei minori, ma sono stato fortunato. Per una volta, la mancanza di
personale ha giocato a mio favore. Mi vergogno un po’ per
quello
che ho fatto, mi sembra quasi di aver commesso una corruzione. Non sono
stato educato in questo modo e se lo venisse a sapere mio padre sarebbe
il primo a denunciarmi alla disciplinare, ma sento che per me
è
importante trovare queste informazioni.
Forse,
agendo in
questo modo, sono andato oltre le mie competenze, però credo
proprio che ne sia valsa la pena. Chissà che non scopra il
movente dietro a tutto questo e chiarisca se quel ragazzo è
davvero colpevole come tutti ormai sono certi, oppure se è
innocente.”
“20
agosto
…
Solo
oggi, dopo mille sotterfugi, sono riuscito finalmente a esaminare le
carte. Sono rimasto molto sorpreso da ciò che ho letto. Ho
provato un forte disagio, ma in un certo senso è stata anche
una
delusione. So che prima o poi dovrò abituarmi a frugare
nella
vita degli altri, è un aspetto fondamentale del mio lavoro,
ma
questo non mi fa stare meglio.
Anthony
non ha
avuto vita facile fin da ragazzino. A soli tredici anni è
stato
coinvolto nella rapina di una farmacia nella quale sono state uccise
delle persone: il proprietario e una delle commesse. Gli agenti di
polizia intervenuti lo hanno trovato chino accanto al cadavere della
donna, con le mani sporche di sangue e in pugno ancora l’arma
del
delitto: un coltello a serramanico.
L’arresto
è stato immediato e pare, dalla foto segnaletica allegata,
non
ci siano andati tanto per il sottile, nonostante la sua giovanissima
età. Nel rapporto del procuratore distrettuale di quel tempo
c’è la raccomandazione, basata sul rapporto
preliminare
degli agenti che hanno investigato, di processarlo come adulto per
l’efferatezza del delitto compiuto.
Ho
già
sentito parlare di questo procuratore, è rigido e
intransigente
fino all’eccesso nell’applicare la legge, arrivando
anche a
distorcerla per dare l’esempio, se necessario. Qualche anno
fa si
è dato alla politica e si è trasferito a
Washington.
È una fortuna per noi. Purtroppo però sta
spingendo molto
per inasprire le leggi, soprattutto quelle per i reati commessi da
minori.
Ulteriori
indagini hanno invece portato alla luce il coinvolgimento, sia per la
rapina che per gli omicidi, di altri tre ragazzi, poco più
che
maggiorenni, che parlavano con un accento straniero. Grazie alle
dichiarazioni dei testimoni che hanno riferito la reale
entità
del ruolo di Anthony, la sua posizione è stata
ridimensionata.
Faceva solo da palo. Dopo le due brutali aggressioni, invece di
scappare assieme agli altri, si è seduto accanto alla donna,
ancora agonizzante, cercando di salvarla. Su questo fatto sono stati
tutti concordi, anche se è strano da credere che un
ragazzino di
quell’età potesse avere delle nozioni di pronto
soccorso.
Un uomo ha detto agli agenti che il giovane Anthony borbottava alcune
frasi, sembrava che parlasse con qualcuno e a un certo punto gli
è parso di sentirlo pronunciare il nome di un dottore.
Un
altro
testimone, una donna anziana, ha detto che il ragazzo sembrava
spaventato dagli altri della banda e durante quei momenti di grande
confusione e agitazione per tutti, si era nascosto, uscendo solamente
dopo la fuga dei ragazzi più grandi; catturati poi a pochi
isolati di distanza dal luogo del crimine.
Alla
fine,
valutate le prove e grazie ad alcune attenuanti, il procuratore
è stato costretto a passare la competenza del caso, per quel
che
riguardava il bambino, al tribunale dei minori, che però non
gli
ha evitato un periodo detentivo in riformatorio da scontare fino alla
maggiore età. L’atteggiamento che ha tenuto per
tutta la
durata del processo, un ostinato mutismo e un oltraggioso disinteresse
per ciò che gli accadeva, ha indispettito la Corte al punto
che
fu comminato il massimo della pena concessa dalla legge.
Nel
fascicolo
sono presenti anche dei rapporti dell’unico psicologo della
struttura detentiva nella quale era stato affidato Anthony. Si parla di
lui come un elemento restio a collaborare, schivo ed emotivamente
chiuso. Incapace di relazionarsi con gli altri e nessun interesse a
tornare nella società. Lo psicologo lo ha valutato ogni
quattro
mesi, durante la sua detenzione e non ha riscontrato alcun cambiamento
sostanziale che potesse far sperare in un recupero positivo. Ha
evidenziato invece una marcata chiusura, accompagnata da una
sconcertante passività.
Di
queste
valutazioni però, ce ne sono solo quattro nel fascicolo.
L’ultima è stata redatta poco prima
dell’affidamento, con una nota ufficiale di raccomandazioni
che
ne sconsiglia vivamente l’affido, valutando il ragazzo come
potenzialmente pericoloso perché profondamente
traumatizzato, a
favore invece di una terapia in un istituto psichiatrico.
In
una nota a
margine invece, scritta a matita come fosse un qualcosa di poco conto,
lo psicologo ha annotato alcune informazioni che gli sono state
riferite dalle guardie: in due anni e mezzo circa, il ragazzo
è
stato vittima di continue violenze e vessazioni, ma non ha mai detto
una parola di denuncia contro i suoi aguzzini. A dire il vero,
riferiscono che non ha mai pronunciato una sola parola.
Non
posso
neanche immaginare come possa essere non parlare per così
tanto
tempo. Forse, la scoperta di questi nuovi fatti sul passato di Anthony
dovrebbero farmelo vedere in modo diverso, eppure rimango della mia
idea: un errore del passato non può essere un marchio
d’infamia per un’intera vita e lui ha pagato per il
suo
sbaglio, ma ha pagato un prezzo troppo alto!
La
nota
continuava ancora, c’erano forse maggiori dettagli, ma la
parte
finale è stata cancellata con molta insistenza.
Quello
che mi ha
stupito nell’osservarla è che progressivamente il
tratto
con cui sono state scritte quelle frasi si faceva sempre più
marcato, come se l’uomo fosse via via sempre più
nervoso,
o furibondo. Ho provato a studiare meglio quella parte del foglio, a
vederla con una lente di ingrandimento, ma si distinguevano a fatica
davvero pochi tratti per poterne decifrare il segreto. Purtroppo in mio
possesso ho solamente una copia, non posso neanche provare a scoprire
qualcosa tastando la superficie del foglio o annerendo il foglio
sottostante. Questi dettagli non si sono impressi nella fotocopia, che
purtroppo non è neanche di buona
qualità.”
«Un
criminale
fin da piccolo. Con tutto quello che deve aver passato non mi stupisco
che fosse taciturno, riservato e anche ostinato.»
Aiolos
appoggiò il quadernetto sul sedile del passeggero e
fissò
ancora una volta – con insistenza – la vetrina
oscurata del
negozio. Il suo sguardo in quel momento era molto concentrato e nella
sua mente iniziavano ad accavallarsi strane e terificanti immagini.
«Certo,
anche
Saga è molto riservato e qualche volta bisogna cavargliele
con
le tenaglie le parole dalla bocca, ma non ha nulla a che fare con
questo tizio, questo Anthony. Il nome è molto comune,
così come il suo cognome, Young. Sembra quasi uno di quei
nomi
che vengono dati agli orfani», considerò.
«E
poi…»
Si
bloccò
nelle sue considerazioni, perché vide la porta del negozio
aprirsi e uscirne un ragazzo. Faticò a riconoscere l'amico,
conciato in quella maniera così trasandata. Lo vide
attraversare
la strada di corsa e incamminarsi lungo il marciapiede. Ebbe l'impulso
di avviare il motore e seguirlo, ma preferì attendere: era
certo
che sarebbe tornato indietro, prima o poi. Intanto, ne avrebbe
approfittato per soddisfare la sua curiosità ed entrare a
dare
un'occhiata in quel locale così misterioso.
Ci
mise qualche
attimo di troppo a decidersi e quando infine scese dall'auto, Saga era
già sulla via del ritorno. Lo osservò sostare
davanti
alla vetrina per alcuni secondi, togliersi la bandana e grattarsi la
testa, prima di sparire di nuovo dietro quella porta a vetri coperta di
giornali.
Aiolos
si
ritrovò così ancora una volta in attesa, seduto
su quel
sedile che d’un tratto era divenuto scomodo e stretto.
Riprese in
mano il quadernetto, ma in quel momento non aveva più voglia
di
andare avanti nella lettura. Con un movimento scocciato
controllò l'ora: erano le sei e mezza del pomeriggio.
Sbuffò. Nei suoi programmi aveva ben altro di meglio da fare
che
stare dietro alla “principessina” Saga, ma doveva
ammettere
che l'aveva scelto lui.
Di
sfuggita
notò dei movimenti alla finestra del piano superiore e poco
dopo
affacciarsi proprio Saga. Le sue labbra si piegarono in un accenno di
ghigno, quando la figura dell'amico svanì dietro la tenda
bianca. Venti minuti più tardi lo vide uscire da un portone
di
legno, vestito così com'era arrivato, e incamminarsi a testa
bassa lungo il marciapiede.
«Finalmente»,
si lasciò sfuggire, Aiolos. Per qualche minuto lo
seguì
con lo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore; poi, quando fu a
una certa distanza, avviò il motore, fece inversione a U e
riprese a seguirlo.
*****
Le
parole di Dohko
avevano fatto presa su Saga più di quanto lui stesso avesse
creduto. Nonostante i suoi sforzi non era riuscito a scrollarsi di
dosso quelle insinuazioni che erano andate ad aggiungersi a vecchie
paure di quando era solo un adolescente e a un senso di non
appartenenza che talvolta, in determinati momenti, lo coglievano alla
sprovvista. Voleva chiarire la situazione, ma al tempo stesso non era
certo di voler sapere. Eppure, si stava incamminando di nuovo verso la
palazzina dove viveva il vecchio cinese.
Quando
arrivò
di fronte al portone, erano già le sette e mezza della sera;
lo
vide che stava rientrando, sul braccio teneva una casacca appena
ritirata dalla lavanderia e ancora nella plastica e in mano un
sacchetto con il logo del ristorante.
«Sei
tornato.
Speravo che lo facessi», disse Dohko nel vederlo
lì in
piedi, di fronte a lui. «Vieni. Ti prego, vieni
dentro.»
Sul suo volto rugoso affiorò un sorriso sincero, aveva
così tante cose da raccontare a quel ragazzo, ormai uomo,
che
non vedeva da quando era in fasce. Tante cose soprattutto che
riguardavano il padre, che nei pochi mesi che era rimasto nel quartiere
era riuscito a farsi voler bene da tutti.
Aprì
il portone d'ingresso e lo invitò a entrare.
Saga
lo fissò
per diversi secondi, in silenzio. Non condivideva affatto gli stessi
sentimenti di quell'estraneo. Strinse i pugni nelle tasche del
cappotto, indeciso se assecondarlo o riprendere la strada. Poi, lo
seguì. Ne uscì quasi un'ora più tardi,
di nuovo
nauseato per l'effetto delle erbe e pallido in volto.
«Ora
sei
pronto per tornare a casa?» gli chiede Aiolos, appoggiato
allo
sportello dell'auto, parcheggiata proprio lì di fronte,
risparmiandogli la solita inflessione sarcastica che gli veniva
naturale quando parlava con lui.
Saga
sgranò
gli occhi. «Sei rimasto qui ad aspettare tutto il pomeriggio,
oppure mi hai seguito?» replicò Saga, con tono
diffidente,
già sulla difensiva.
Aiolos
rifletté un momento su quale risposta dare.
Scrollò piano
la testa e gli fece cenno di salire in auto. Non era lui che doveva
dare spiegazioni.
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Capitolo 20 *** Capitolo XIX ***
XIX
Quella sera
il traffico
che si era riversato sulle strade era stranamente intenso.
Più
di una volta si erano formati degli ingorghi, neanche fossero
transitati per le strade di New York all’ora di punta.
Sembrava
come se tutti i bostoniani si fossero mossi per scappare dalla
città in un immenso esodo per raggiungere le zone di
villeggiatura. Quella piccola odissea, vissuta dai due ragazzi, stava
mettendo a dura prova la loro pazienza, di Aiolos soprattutto, che mal
sopportava quel tipo di inattività e l’atmosfera
nell’auto non aiutava certo a far passare prima il tempo.
In uno di
quei momenti di
pausa forzata, Saga tirò fuori il cellulare: il display
segnava
due chiamate perse. Nel controllarle si lasciò sfuggire uno
sbuffo, massaggiandosi sovrappensiero la tempia. Nuovamente aveva
mancato di rispondere a Kanon e non aveva certo voglia di una replica
del bentornato che il gemello gli aveva servito, perché
probabilmente non sarebbe stato così fortunato come la prima
volta e il naso glielo avrebbe rotto. Al solo ricordo, già
gli
faceva male. L’altra invece, era di Cora. Avrebbe voluto
richiamarla subito, ma dopo un sospiro – che sembrava
più
uno sbuffo rassegnato – preferì mandarle un sms.
Con Kanon
avrebbe parlato di persona una volta arrivato a casa.
«Dovresti
pensare
di inserire una suoneria, è evidente che la sola vibrazione
non
basta», disse Aiolos, interrompendo i suoi pensieri.
«L’ho
tolta
apposta perché mi dava fastidio», rispose Saga,
terminando
di comporre il messaggio per la sua ragazza. «Normalmente non
ho
problemi ad accorgermi quando arrivano le chiamate.»
Si
rigirò lo
smartphone fra le mani per qualche altro minuto, poi lo
ritirò
nella tasca interna del cappotto, prendendo al suo posto il
portafoglio. Lo fissò per diverso tempo, mentre ne
accarezzava
la superficie di pelle nera, morbida ed elegante, ma senza trovare il
coraggio di aprirlo e prendere il documento
d’identità sul
quale vi erano riportati i suoi dati anagrafici. Ma erano davvero i
suoi?
In quel
momento si sentiva estraneo al mondo.
«Forse
allora non
te ne sei accorto perché avevi la testa altrove»,
riprese
l’altro, spezzando quel mesto silenzio, continuando a
osservarlo
con discrezione con la coda dell’occhio, prima di rimettersi
in
marcia e imboccare finalmente la strada per uscire dalla
città,
in direzione del lago.
Il tragitto
fino alla
vasta proprietà degli Hayes continuò di nuovo nel
silenzio e senza ulteriori intoppi, anche se non si poteva dire che
trascorse in modo piacevole.
«Se
fosse
vero», intervenne ancora una volta Aiolos, mentre svoltava
per la
strada privata che portava alla villa, «se quel vecchio,
nelle
sue farneticazioni, avesse detto la verità, tu
e…»
Lasciò
in sospeso
la frase, fermando l'auto a pochi centimetri dal cancello automatico.
Rilassò le braccia, appoggiando le mani sulla parte bassa
del
volante. In quel momento avrebbe voluto voltarsi verso
l’altro e
vedere come stava, ma stranamente non trovava il coraggio necessario
per farlo, rimandendo a fissare il cancello davanti a sé. Si
passò una mano fra i capelli, grattandosi la nuca per
nascondere
l’imbarazzo crescente.
«Essere
adottati
non è un dramma come si possa pensare», rispose
Saga,
facendo una pausa prima di pronunciare la parola
“adottati”.
Nella sua
testa erano
però ben altri i termini che avrebbe voluto usare e che
risuonavano insistenti e dolorosi: abbandonato, scambiato, venduto, non
voluto…
Continuava a
mantenere lo
sguardo fisso, perso nel vuoto, e un’espressione assente che
contraddiceva l’affermazione appena fatta. Perché
non ci
credeva neppure lui a quello che aveva detto.
«Allora
cos’è che ti turba tanto? È
perché Shion
Hayes ha tenuto il segreto, o perché sei venuto a scoprirlo
in
questo modo? O forse, perché hai paura che le cose possano
cambiare e tu perdere quello che hai?» insistette Aiolos,
dopo un
momento di titubanza, mentre osservava l’altro dimostrare ora
una
calma stonata per quella situazione. Se ci fosse stato lui al posto
dell’amico, sarebbe stato furioso. Saga invece, sembrava
tutto
sommato aver incassato bene la notizia.
«Perdere
quello che
ho…» mormorò Saga, ripetendo le parole
di Aiolos,
voltando lo sguardo a osservare quello scorcio di boschetto che
nascondeva il muro in mattoni che cingeva la parte più
interna
del parco della villa. «Cambierebbe la tua opinione su di me,
o
su Kanon, se quelle cose dovessero essere confermate? Pensi che tua
nonna ci guarderebbe in modo diverso e muterebbe il suo affetto nei
nostri confronti?»
«Stai
parlando con
uno che è stato scaricato da una madre adolescente e da un
padre
che è scappato all’estero per non prendersi le
proprie
responsabilità. Devo forse ricordarti che sono stato
cresciuto
dallo stesso uomo che ha cresciuto te e Kanon e dalla stessa donna che
ha fatto da madre a tutti quanti, Shion Hayes compreso, in questa
famiglia?» Il volto di Aiolos si era fatto serio e la voce
era
stata ferma e risoluta, nella sua estrema convinzione di quanto aveva
appena detto. «Non ci vedo nulla di diverso da
com’eravamo
questa mattina. Anzi, questo ci rende più uguali.»
«Allora,
siamo ancora fratelli?»
«Abbiamo
mai smesso
di esserlo?», ribatté Aiolos, girandosi verso
l’altro. Posò la mano su quella di Saga, che
teneva
appoggiata mollemente sulla coscia, e gliela strinse un poco.
«Come
vedi, le cose
veramente importanti non me le può portare via
nessuno»,
rispose Saga, sospirando e chiudendo gli occhi, ricambiando quella
stretta.
«E
Caroline
Miller?» Aiolos assottigliò lo sguardo, tornando a
guardare dritto davanti a sé, portando la mano sulla leva
del
cambio. «Di lei, che mi dici? Non è da molto che
la
conosci, non credi che potrebbe perdere interesse
se…» Si
trattenne dal completare la frase, temendo di ferire Saga con parole
sconvenienti.
«È
vero, la
conosco poco. Entrambi ci conosciamo poco»,
confermò; e
sul suo viso comparve un sorriso impacciato. «Ma quello che
so di
lei, che ho capito fino a questo momento, mi fa essere fiducioso
nell’onestà dei suoi sentimenti nei miei
confronti»,
disse in un sospiro, abbassando gli occhi sul tappetino
dell’auto. «Se sapessi come ci siamo conosciuti,
non ci
crederesti. E poi…»
«Tu
ti innamori
troppo facilmente», commentò distrattamente
Aiolos,
riavviando il motore e azionando il comando del cancello che
iniziò ad aprirsi davanti a loro.
«È
la stessa cosa che dice anche Kanon, ma credo che lo faccia per
prendermi in giro.»
Aiolos non
se la
sentì di replicare e dare ragione a Kanon, che ben poche
volte
nella sua vita si era innamorato. Del resto, lui stesso non aveva mai
vissuto quel sentimento nella maniera limpida e genuina come faceva
invece Saga. Aveva sempre attribuito quella sua facilità di
innamorarsi alle conseguenze dell’incidente e forse non era
poi
così lontano dalla verità. Non ci voleva una
laurea in
medicina per rendersi conto che da quel giorno, o meglio, dal giorno
del suo risveglio, era cambiato.
Lo vide
toccarsi la
tempia destra, massaggiandosela ripetutamente e si accigliò.
Forse era per quella natura sospettosa che ormai era tanto radicata in
lui, a causa dell’ambiente in cui era sempre vissuto e delle
persone con le quali aveva a che fare nel suo lavoro, che faceva fatica
a credere nella sincerità delle persone. Soprattutto poi
quando
entravano così all’improvviso nella vita altrui.
Ma quella
ragazza, Caroline Miller... la gente che frequentava… il
lavoro
che faceva…
Scrollò
la testa, cercando di accantonare quelle idee e pensare solamente a
guidare.
«Con
Shura cosa pensi di fare?» chiese, mentre l'auto imboccava il
vialetto che portava al garage.
Saga fece un
respiro
profondo. «Lo dovresti sapere. Sia negli affari che nel
privato,
mio padre e Shura sono amici inseparabili; proprio come lo siete tu e
Kanon. Se mio padre ha qualche segreto, Shura ne è
sicuramente
al corrente.»
Poi,
serrò le
labbra, stringendosi il cappotto addosso, facendo capire all'altro che
non aveva più voglia di parlare dell’argomento.
*****
Non appena
l'auto si
fermò di fronte alla porta basculante aperta della rimessa,
Saga
scese e si diresse subito in casa, camminando in fretta, a testa bassa
e con le mani nelle tasche del cappotto. I suoi capelli ondeggiavano
stanchi sulle spalle, nell’ombra dell’ultimo
squarcio di
tramonto.
Aiolos lo
seguì
con lo sguardo, prima attraverso lo specchietto retrovisore, poi,
scendendo e appoggiandosi allo sportello aperto. Lo vide arrestarsi a
pochi passi dalla porta d’ingresso, esitare per qualche
secondo,
quasi avesse cambiato idea e volesse fuggire da lì, infine
riprendere ed entrare in casa.
«Sta
forse per arrivare la fine del mondo?»
La voce di
Shura arrivò dall’interno del garage con un vago
tono ssarcastico, cogliendo di sorpresa Aiolos.
«Di
cosa
parli?» chiese il giovane, girandosi di scatto e strizzando
un
poco gli occhi per provare a scorgere l’altro, ben
mimetizzato
nella penombra.
Faticò
a
individuare Shura, ma infine, lo vide appoggiato alla carrozzeria
dell’auto preferita di Shion Hayes: un’autentica
Rolls
Royce degli anni ’20, perfettamente funzionante.
«Parlo
di te e
Saga, seduti in macchina a chiacchierare tranquillamente, a scambiarvi
confidenze mano nella mano. Parlo di te che non lo hai stuzzicato
neanche una volta. Cosa sta succedendo?»
«Come
fai a sapere che noi…»
Shura
sogghignò.
Uscì allo scoperto e si avvicinò ad Aiolos.
«Ti sei
dimenticato che da dopo l’aggres…» si
interruppe
all'improvviso, mordendosi la lingua per non svelare troppo,
«che
da dopo l’incidente di Saga, sono state messe delle
telecamere di
sicurezza tutt’attorno alla proprietà, nei punti
di
accesso soprattutto? E non devo ricordarti che è mio compito
tenere tutto sotto controllo», concluse, recuperando in
fretta da
quella sua leggerezza.
Ad Aiolos
però non era sfuggito il nervosismo che aveva permeato la
voce dell’uomo, solo pochi momenti prima.
«Mano
nella mano con Saga», ripeté a bassa voce Shura,
con un tono di vago disprezzo, scuotendo la testa.
«Sei
forse geloso?»
«Geloso,
io? E per
quale motivo, per qualcosa che non succederà mai?»
ribatté tranquillamente l'uomo. Ma il suo sguardo, in quel
momento esprimeva tutt’altro. «A Saga fanno
ribrezzo i
finocchi. Chissà cosa penserebbe se conoscesse la
verità
su di te.» A quelle parole, Shura lo vide serrare le mascelle
e
fece una smorfia di compiacimento, nel rendersi conto che l'altro aveva
subito il colpo.
«Cosa
vuoi che mi
importi di ciò che pensa quello!»
replicò Aiolos,
sostenendo lo stesso atteggiamento dell’altro.
Se Shura
pensava di
umiliarlo con quelle sue parole, aveva sbagliato i conti. Fin dal primo
anno di università Aiolos aveva imparato a ignorare i
commenti
sprezzanti, gli epiteti denigratori e le frecciatine, detti a mezza
voce, che riguardavano le sue preferenze sessuali. Se li era sempre
sentiti strisciare addosso, nonostante fosse stato attento a celare
tutto ciò che riguardava la sua vita privata. E ora, detti
apertamente dal suo amante, lo facevano essere ancora più
determinato. Spinse Shura contro il cofano dell'auto e premette il suo
corpo su quello dell’altro, facendogli sentire tutto il suo
peso
e la sua prestanza fisica.
«Abbiamo
ancora un po’ di tempo prima di cena»,
sussurrò con tono sensuale.
Gli occhi
dell’uomo
si animarono di una scintilla lussuriosa. Benché
più
volte si era detto di volere una relazione più stabile e
matura,
quel ragazzo lo faceva andare su di giri, soprattutto quando voleva
fare il duro.
«Allora
andiamo di
sopra», propose Shura, afferrandogli una natica e stringendo
con
forza, avvicinandolo ancora di più a sé.
«Nella
tana del
lupo», commentò Aiolos, percependo
l’eccitazione del
momento. «L’idea non è affatto
male.»
*****
«Sei
stato
particolarmente silenzioso, ma forse dovrei dire pensieroso»,
considerò Shura, stiracchiandosi e lasciandosi andare a uno
sbuffo, appoggiandosi con le spalle alla testata del letto.
«Avresti
preferito che gemessi e urlassi come una ragazzina eccitata?»
Aiolos non
sembrava in
vena di fare conversazione. Fissava il soffitto, respirando lentamente.
Avrebbe dovuto decidersi ad alzarsi e rivestirsi, per rientrare in casa
senza destare troppi sospetti, ma preferì girarsi dall'altra
parte.
«Sarebbe
stato
almeno qualcosa. Non è la prima volta che noto che sei poco
coinvolto. Dunque è arrivato il momento di lasciarti
prendere la
tua strada?»
L’uomo
si
passò le mani sul volto e si alzò dal letto,
dirigendosi
nel piccolo cucinino dell’ampio open-space sopra il garage,
che
in quegli ultimi anni era stato trasformato in centro di sorveglianza e
tana personale di Shura. Si prese una birra ghiacciata e la bevve a
grandi sorsi.
«Dai,
alzati!» gli disse, dando una pacca sul sedere del giovane,
che
pareva essersi appisolato. «Se non ti sbrighi arriverai tardi
a
cena e rischierai di sorbirti la ramanzina da tua nonna.»
Con un
movimento lento e
pigro, Aiolos si grattò la testa, scompigliando ancora di
più i suoi riccioli castani, e si mise seduto sul bordo del
letto, sbadigliando. Cercò i suoi vestiti e si
domandò
come facessero ogni volta a volare dappertutto.
«E
tu invece, non ti prepari?» chiese a Shura, mentre si
infilava i boxer.
«Io
ho altri
programmi, per stasera», rispose l’altro,
ributtandosi sul
materasso e continuando a bere la sua birra.
Aiolos
mugugnò
qualcosa, mentre si infilava i pantaloni e si chinava a prendere la
camicia tutta sgualcita che era caduta per terra lì vicino.
Se
la rigirò per qualche secondo fra le mani, senza riuscire a
trovare il verso giusto.
«Accidenti,
mi hai
strappato un bottone! Se la nonna vedesse questo pasticcio…
non
oso immaginare a cosa penserebbe!»
«Puoi
sempre dirle
che sei stato “aggredito” da una bruna
màs caliente.
La renderesti felice!» lo schernì Shura, alzandosi
e
iniziando a rivestirsi anche lui. «Lo sai che non vede
l’ora di vederti sistemato.»
Il giovane
sbuffò
contrariato, senza però dare molto peso a ciò che
aveva
detto l’amante. Sbottonò la camicia e se
l'infilò,
guardando insoddisfatto il piccolo bottone scuro che penzolava
miseramente appeso a uno stoico filo che ancora resisteva,
stuzzicandolo e riflettendo se fosse meglio toglierlo del tutto, oppure
cercare di nascondere il danno.
«Aggredito…»
borbottò distrattamente, neanche fosse stata una parola
banale.
D’un tratto si bloccò corrugando la fronte, mentre
con le
mani sistemava la camicia nei pantaloni. Era stato come se avesse avuto
un flash che lo aveva sorpreso e stordito. «Di quale
aggressione
stavi parlando, prima?»
Sul suo
giovane volto
incorniciato dai riccioli spettinati comparve la stessa
perplessità di chi sta cercando di capire una cosa che
sfugge in
continuazione dalla mente.
L’uomo
si
irrigidì, stringendo fra le mani il maglione, dopo averlo
già infilato per la testa. «Non ho mai parlato di
alcuna
aggressione. Ti stai sbagliando», rispose, terminando
l’operazione con movimenti nervosi.
«No!
Hai parlato di
aggressione, lo hai fatto prima, riferendoti a Saga!»
insistette
Aiolos, gettandosi sull'altro e afferrandolo per il maglione. Non si
era reso conto che la sua voce era diventata più acuta.
Shura si
liberò
con uno strattone, squadrandolo in modo duro, mentre il suo vecchio Io,
quello violento e attaccabrighe, voleva riemergere con prepotenza.
La
determinazione che
vedeva negli occhi dell'amante gli stava facendo nascere di nuovo un
sospetto: gli suonava troppo strano, un interesse così
acceso
nei confronti di Saga da parte di Aiolos, considerato che poco
più di una mezz’ora prima ne aveva parlato quasi
con
disprezzo.
«Credevi
forse che
per ridursi in quello stato, Saga fosse semplicemente inciampato per
terra?» sbottò, spingendolo via, per uscire
dall’angolo in cui era andato a cacciarsi con le sue stesse
parole. Non avrebbe dovuto dargli corda, eppure, era stato
più
forte di lui.
«E
chi…» provò a insistere Aiolos,
visibilmente sorpreso da ciò che aveva appena appreso.
«Non
ti impicciare
degli affari che non ti competono!» gli urlò in
faccia
Shura, afferrandolo per la camicia e alzandolo di peso.
La rabbia
che stava
provando in quel momento era incontenibile. Non solo verso
l’altro, che stava rivangando un episodio del passato che
ancora
protraeva i suoi effetti sulla famiglia, ma provava rabbia anche contro
se stesso, perché in quell'occasione aveva mancato il suo
dovere. Per non pentirsi in futuro di ciò che avrebbe potuto
fare o dire, preferì uscire da lì.
Aiolos
rimase scioccato.
Era la prima volta che vedeva Shura reagire in quel modo
così
violento. Avvertì il suo corpo tremare e per un attimo, solo
per
un breve attimo, sperimentò la stessa paura che aveva
provato a
Philadelphia. Si accasciò sul letto, con il respiro pesante
e la
mente svuotata di ogni pensiero.
Quando
finalmente riprese
padronanza di sé, uscì dalla stanza e scese le
scale. Si
ritrovò Shura appoggiato con le spalle alla parete, fermo
sul
primo gradino; la sua espressione ancora torva.
«Mi
sono lasciato
andare. Non dovevo reagire in quel modo. Devi capire che quello
è un argomento molto delicato, del quale sarebbe bene non
parlare, almeno per il momento. Perdonami.»
Gli diede le
spalle e,
con le mani ben calate nelle tasche dei pantaloni, si
incamminò
fuori dal garage, prendendo il vialetto per la dependance.
Aiolos lo
seguì
con lo sguardo, mentre nella sua mente iniziava a rivalutare alcune
cose: riguardo a Saga e alla sua vita, alle allusioni di Kanon, alle
mezze parole e gli atteggiamenti troppo cauti di Shion e di Shura
stesso nei confronti della “principessina”...
In quegli
ultimi tredici anni c’era stata una fin troppo marcata
cautela per tutto ciò che riguardava Saga.
*****
«Hai
acceso il
camino. Hai così tanto freddo?» chiese Kanon,
entrando
nella biblioteca e notando che Saga era intento ad attizzare il fuoco.
«Non
particolarmente», rispose il gemello, con tono tranquillo e
pacato, senza voltarsi. «Ma stasera avevo voglia di guardarlo
scoppiettare. Vuoi unirti a me?» disse, invitandolo con un
gesto
della mano a sedersi sulla poltrona.
«Solo
se bevi
qualcosa con me!» replicò con enfasi
l’altro,
avvicinandosi al mobile bar; rovistò al suo interno e
versò in due bicchieri la prima cosa che aveva trovato di
suo
gusto, poi si mise sotto braccio l’intera bottiglia e
raggiunse
l'altro.
Dopo una
cena passata un
po’ sottotono, alla sola presenza di Nanny, Aiolos e del
gemello,
Kanon aveva deciso di dare un po’ di brio almeno alla serata,
approfittando dell’assenza del padre – complice una
cena
d’affari che lo aveva tenuto lontano – per bere
qualcosa di
speciale. Per quel motivo si era recato a quell’ora della
sera,
quasi mezzanotte, in biblioteca, certo di non trovare nessuno. Ma
quando invece vi trovò il gemello, decise di modificare un
poco
i programmi. E quale occasione migliore gli si poteva presentare, per
una serata divertente, se non bere in compagnia del suo amato fratello?
«Ah,
la cassaforte
del vecchio gufo è aperta!» esclamò,
alzando lo
sguardo sul dipinto, notando come la grossa cornice fosse scostata dal
muro e facesse intravedere lo sportello blindato della cassaforte,
anch’esso un poco aperto. «Non posso credere che
papà o Shura siano usciti e l’abbiano dimenticata
aperta.
Saga, l’hai forse aperta tu? Hai trovato la
combinazione?»
chiese, con tono ammirato, frenando a stento la curiosità.
Fin
da ragazzino era sempre stato attratto da quello scrigno segreto e
nascosto, al quale non aveva mai potuto avere accesso. Quando, tanti
anni prima, aveva provato a forzarla, era stato subito beccato in
flagrante e strigliato a dovere da Shura.
«E
dimmi,
c’è qualcosa di interessante dentro?»
domandò
ancora, lasciando perdere i drink e iniziando a frugare lui stesso al
suo interno.
«Non
ci troverai
nulla di quello che ti aspetti», disse il gemello, vagamente
annoiato, continuando a concentrare il suo sguardo sulle fiamme del
camino. «Non c’era nulla allora e non
c’è
nulla adesso. Ci sono solo le solite cose: certificati, polizze,
azioni, documenti delle varie proprietà, copie del
testamento…» Nella mano teneva una pallottola di
carta,
che buttò pigramente fra le fiamme.
«Da
quanto tempo
sei al corrente del suo contenuto?» Kanon si voltò
di
scatto verso l'altro, lasciando perdere la cassaforte. In fin dei
conti, non era più ragazzino da un pezzo.
«Pazienza, in
fondo era solo una curiosità. Strano però, ero
sempre
stato convinto che ci fosse qualcosa di più compromettente,
se
quei due adottavano tanta segretezza.»
Tornò
al mobile bar e prese i bicchieri che aveva preparato.
«Et
voilà!
Per il mio adorato fratello. Con ghiaccio e soda, come piace a
lui!» lo servì, con tanto di sorriso e di lieve
inchino
cerimonioso. «Certo però, sprecare del buon whisky
in quel
modo…» non mancò di borbottare, con
vaga malizia,
nei suoi confronti. «Accidenti, ho lasciato la cassaforte
aperta!», esclamò, notando con la coda dell'occhio
che il
ritratto era ancora scostato dalla parete, mentre si lasciava cadere
sulla poltrona, pregustando il sapore forte e pregiato del suo drink.
«Sarà meglio rimetterla a posto prima che qualcuno
se ne
accorga. Sono troppo grande per prendermi delle sculacciate»,
disse, alzandosi nuovamente.
«Lasciala
pure così», lo fermò Saga, posando il
suo bicchiere accanto a quello del gemello.
Il crepitio
delle fiamme
riempiva il silenzio nella stanza; le vivide lingue di fuoco, nella
penombra di quell’antro dalle sembianze antiche, animavano
gli
occhi dei gemelli e facevano loro compagnia, seduti al suo cospetto
come due giovani re in esilio. Kanon trasse un sospiro di apprezzamento
nel gustare il suo whisky, riserva speciale del padre; Saga invece, era
taciturno.
«Eravamo
d’accordo che avresti bevuto anche tu», gli
ricordò con tono tranquillo.
Non era
passato
inosservato ai suoi occhi, nonostante Saga potesse apparire calmo e
riflessivo, che qualcosa gli stesse dando pensiero. Il respiro lento e
trattenuto non indicava sicuramente che si stesse godendo la serata.
«Stavo
riflettendo…»
«Lo
so. Sento le
rotelle del tuo cervello che stanno facendo gli
straordinari»,
scherzò Kanon. «Ma questa
notte…» disse,
controllando l'ora sul suo nuovo Rolex Submariner dalla ghiera verde
smeraldo, che indicava ormai l’una passata, «non
è
consentito pensare, né riflettere, né rimuginare,
né fare qualsiasi cosa ti venga in mente come sinonimo per
rovinarmi questo momento! Quindi, caro fratellino»,
continuò, prendendo il whisky e soda e mettendoglielo sotto
il
naso, «manda giù, che poi te ne preparo un
altro!»
Saga
ubbidì senza ribattere, bevendo lentamente il suo drink.
«E
ora, avanti,
sputa il rospo», concesse Kanon: non poteva vedere oltre
l’espressione rattristata dell’altro.
Saga prese
un altro
sorso, poi fissò il suo bicchiere per lungo tempo, facendo
tintinnare i cubetti di ghiaccio, mentre con la mano destra si
massaggiava la piccola cicatrice bianca, leggermente nascosta
dall’attaccatura dei capelli.
«Se
noi non
avessimo tutto questo: case, proprietà, soldi, mezzi di
lusso,
istruzione superiore… tu, come la prenderesti?»
chiese con
voce seria e allo stesso tempo anche titubante.
«Ancora
con questo
discorso, Saga?» ribatté Kanon, muovendosi
incomodo sulla
poltrona. «Mi sembra di tornare indietro nel tempo. Se noi
fossimo qualcun altro. Se questa non fosse la nostra vita. Se ci
togliessero tutto… credevo ci fossimo lasciati questi
discorsi
alle spalle, assieme all’adolescenza. Cosa ti passa per
quella
tua testa matta, fratellino?» gli chiese, scrollando la testa
e
sorridendo condiscendente al mesto silenzio del gemello. «Ti
fai
scrupoli di coscienza per qualcosa che non esiste. Perché
credi
di non meritare quello che hai?»
«Non
hai intenzione di prendermi sul serio, vero?»
«Non
quando torni su queste sciocchezze!» lo rimbrottò
Kanon.
Scrollò
di nuovo
la testa nel vedere gli occhi del suo adorato gemello farsi lucidi.
Mise la mano su quella di Saga, appoggiata sul bracciolo della poltrona
e rimase a osservarlo per un po'. Poi, spostò lo sguardo
sulle
fiamme nel camino che gradualmente perdevano la loro forza e
sospirò.
«Niente
più
tennis e nuoto al Country Club, o qualsiasi altro sport; niente
più ristoranti di lusso; feste ed eventi vari neanche a
parlarne… dovremmo ricominciare tutto da zero: trovare un
lavoro
comune, magari dividere un monolocale e usare i mezzi pubblici.
Risparmiare… per non parlare poi che non potremo
più
permetterci l'assicurazione sanitaria decente!» Tacque per
qualche secondo, assaporando un altro sorso di quel whisky pregiato del
padre. «No, la prenderei decisamente male!» disse,
sogghignando. «Prima di rinunciare a tutto questo ben di Dio,
possiamo trasferire i nostri conti alle Cayman? Giusto per assicurarci
una pensione decente.»
«Oh,
Kanon»,
rispose Saga, facendo una pausa e rattristandosi ancora di
più.
«Così mi deludi. Ero convinto che tu lo avessi
già
fatto da tempo!»
Il rampollo
Hayes
sgranò gli occhi. Ci mise qualche secondo per capacitarsi
del
tono di scherno che aveva usato l'altro, ma poi scoppiò in
una
bella risata.
«Il
mio fratellino
che si prende gioco di me! Questa sì che è una
cosa che
merita di essere festeggiata!» Afferrò la
bottiglia di
whisky e l'alzò in direzione del fratello. «Al mio
gemello
preferito!» Si prese un grosso sorso, direttamente dalla
bottiglia, poi la passò all’altro. «Ora
tocca a
te!» lo esortò; e Saga, anche se un po’
riluttante,
non si tirò indietro, prendendone anche lui un sorso.
*****
Shion Hayes
rientrò molto tardi a casa quella notte e salì
subito in
camera da letto, per concedersi una buona notte di riposo; ma non
appena la testa toccò il cuscino, la stanchezza e il sonno
che
quasi lo avevano avvinto già durante la strada del ritorno
sparì di colpo. Neanche la lettura del noiosissimo libro che
teneva sul comodino da più di un anno e che spesso fungeva
da
rimedio all'insonnia, questa volta sortiva alcun effetto. Si
infilò la vestaglia e decise di scendere in cucina per un
bicchiere di latte caldo. Avrebbe dovuto passare per le scale di
servizio; invece, sovrappensiero, passò per lo scalone
principale e udì un leggero vociare e brevi risate provenire
dalla biblioteca. Vi si avvicinò alla porta socchiusa e
riconobbe i due figli.
Sorrise.
Anche se dalla
sua posizione aveva una visuale limitata, potè comunque
osservarli parlare e scherzare serenamente. Vide Kanon alzarsi dalla
poltrona e spostarsi verso il fratello, in mano reggeva la bottiglia
ormai vuota di whisky che riluceva alle deboli fiammelle del camino.
«...
E allora il
direttore ha chiamato di nuovo facendo il diavolo a quattro. Shura mi
ha raccontato che era la terza telefonata nel giro di un paio
d’ore. Quel gorilla si era lamentato un’altra volta
della
camera. Era la quarta! La quarta che gli cambiavano negli ultimi due
giorni!» Si lasciò andare a un’altra
improvvisa
risata. «E allora papà, trattenendosi dallo
scoppiare, gli
ha chiesto cosa non andasse questa volta; e il direttore:
“Gli
ospiti stranieri si sono lagnati perché gli occupanti della
suite attigua fanno troppo baccano! Pretendono una sistemazione
più adeguata e tranquilla!”», disse,
scimmiottando
con maestria il modo di fare del direttore. «Ma
l’hotel del
Country Club in questi giorni è praticamente al
completo!»
interruppe per un momento il resoconto, per spiegare la situazione al
gemello, dimenticandosi che Saga era praticamente di casa,
lì.
«A quel punto, bocciate varie possibilità,
papà ha
chiesto se c’erano altre alternative. Il direttore
però,
sulle prime è stato molto restio. Alla fine ha dovuto tirare
fuori l’asso nella manica e proporre l’unica
soluzione
possibile.»
Si
interruppe di nuovo,
spostando la sua attenzione sul camino, senza però perdere
di
vista con la coda dell’occhio il gemello che pendeva
letteralmente dalle sue labbra. Si schiarì la voce, per
prendere
altro tempo: sentiva l’attesa dell’altro crescere
per
conoscere il resto del racconto.
«Saga…»
disse, aumentando la suspense. «Sii forte, quanto sto per
dirti
credo non ti piacerà.»
Prese
coraggio con un
lungo respiro e si inginocchiò di fronte a lui, prendendogli
entrambe le mani. Vedeva come Saga iniziasse ad avere qualche sospetto.
Era come un libro aperto per lui e sapeva di non sbagliarsi davanti a
quegli occhi impauriti e quella bocca tremante che iniziava a mormorre
dei “no”.
«Lo
so che per te
questo sarà tremendo», continuò, ben
sapendo quanto
quel suo fratello debole fosse tanto attaccato alle cose di sua
proprietà. «Siamo stati costretti a dare il
permesso di
usare la suite indipendente, quella con la terrazza privata che si
affaccia a ovest, che il direttore ha detto essere di tua esclusiva
proprietà. Devi credermi, è stato necessario per
preservare la sanità mentale di papà!»
si
giustificò Kanon, stringendo più forte le mani
del
fratello.
Saga rimase
immobile,
rigido, neanche respirava più. Il viso era una maschera di
pallore e gli occhi fissi su quelli del gemello. Neppure un gemito
usciva dalla sua bocca.
«C’è
di buono che sono rimasti molto entusiasti della nuova
sistemazione», provò a sdrammatizzare.
«Saga, Saga,
fratellino… sei ancora vivo?» disse Kanon, con
evidente
preoccupazione, perché non vedeva alcuna reazione da parte
dell'altro.
Lentamente,
Saga si
portò le mani alle tempie, cominciando a massaggiarle piano,
chiudendo gli occhi e facendo respiri profondi.
«Meglio
adesso che
dopo», mormorò fra sé e sé
Saga,
riconquistando pian piano la calma, prima di riaprire gli occhi e
fissarli di nuovo in quelli del gemello, per lunghi e interminabili
secondi. «Sei fortunato Kanon, davvero molto
fortunato!»
L’altro
sbatté le palpebre, non riuscendo a capire il motivo di
tanta fortuna attribuitagli.
«Era
mia intenzione
ristrutturare completamente quell’appartamento, ma per alcuni
contrattempi i lavori sono stati rimandati alla fine di aprile. Almeno
mi risparmierò il disturbo di far fare la disinfestazione,
quando se ne andranno via!» spiegò a denti stretti
Saga.
Kanon
scoppiò in
una fragorosa risata, sbilanciandosi all’indietro e finendo
per
terra col sedere. Condivideva appieno il pensiero dell’altro
a
proposito di quei giapponesi.
«Lo
sapevo che con
questo bel faccino non avresti potuto prendertela più di
tanto», disse, rialzandosi e dandogli un bacio sulla guancia.
«Ma toglimi una curiosità: perché
diamine hai un
appartamento privato al Country Club, quando hai a disposizione la
villa che è a cinque minuti di macchina? Ma
soprattutto»,
e dicendo quello si ributtò a sedere sulla poltrona, mentre
le
sue belle labbra si deformavano in un ghino e il suo sguardo si faceva
più sottile, «perché non ne hai mai
fatto parola
con me?»
Saga
sbuffò a
disagio, soppesando la risposta da dare. «Pretendevi forse
che
portassi Jenny nella mia camera da letto come un adolescente qualsiasi
porta la sua amichetta del cuore?»
«Ma
non mi dire: il tuo letto è ancora vergine?»
disse, scoppiando di nuovo a ridere.
«Come
il tuo, del resto!» ribatté in tono offeso Saga.
«È
vero! Ma
la mia camera è il mio rifugio: off-limits per tutti, uomini
e
donne! E comunque sia, non potrei mai “divertirmi”
sapendo
che tu sei nella camera accanto. Certo non si può dire lo
stesso
per New York: quello di letto ne ha viste davvero tante! Ma tu non sei
stato da meno, non ti sei forse fatto un’alcova
segreta?»
«Siamo
arrivati alle confidenze sul sesso?»
«Hai
iniziato tu, fratellino!» rispose Kanon, continuando a ridere.
Con lo
sguardo che
appannato dall'alcol, fece un paio di tentativi goffi di afferrare la
bottiglia vuota di whisky che giaceva a terra. E, quando ci
riuscì, storse il naso nel constatare che fosse terminata.
«Credo che ce ne vorrà
un’altra», disse,
barcollando un poco. «Oh, abbiamo svegliato il gran
capo!»
esclamò, tirando le labbra in un enorme sorriso, nel vedere
il
padre in piedi accanto alla porta, le braccia incrociate al petto e uno
sguardo severo. «Quando sei tornato?» gli chiese,
incespicando con la lingua.
«Avete
bevuto
finora?» domandò Shion, arrivando fino alla
scrivania di
mogano, dirigendo poi lo sguardo al mobile bar. «La mia
riserva
speciale, invecchiata vent’anni…»
sospirò.
«In
verità
sembrava molto più vecchio. Diciamo più o meno
come
te!» scherzò Kanon, trattenendo a stento
un’altra
risata, ma gli diventava più difficile ogni momento che
passava.
«Te ne offrirei un po’, ma temo sia finito!
Però, se
mi dici dove trovarne un’altra…»
«Tu,
Saga, non hai nulla da aggiungere? O forse sei conciato come
quell’altro?» disse in tono alterato l'uomo.
Il ragazzo
si alzò
lentamente e si girò verso il padre. Non si sentiva
certamente
in piena forma, era un po’ brillo, ma non quanto il gemello.
Nessuno poteva arrivare al livello di Kanon e riuscire a rimanere
ancora in piedi. Non dubitava affatto che il gemello avesse fatto
apposta a farlo bere di meno di quanto avesse fatto lui,
perché
sapeva che non riusciva a reggere troppo bene l’alcol.
«Non
è stato
molto di mio gusto, ma ho fatto volentieri compagnia a mio
fratello», rispose, rimarcando quel secondo
“mio” con
uno tono di voce strano.
Kanon non
sembrava molto
interessato a quello scambio di battute fra padre e figlio,
benché in qualche modo stessero parlando anche di lui. Prese
dal
tavolino i due bicchieri e, con la bottiglia già in mano, si
mosse lentamente – sbandando un poco – verso il
mobile bar,
seguito dallo sguardo da Shion.
Con quel suo
sorrisetto
da sbornia passò vicino al genitore, pronto a elargire
qualche
battutina delle sue, ma non ebbe il tempo di aprir bocca che subito le
sue velleità si smorzarono nel vedere il suo volto farsi
rigido
e gli occhi diventare furenti. Gli ci vollero alcuni secondi per capire
cosa stesse fissando con tanta insistenza, girandosi infine anche lui
nella medesima direzione.
«Ops…»
si lasciò sfuggire, seguito poi da un'altra risatina, questa
volta più nervosa. «Noi non c’entriamo!
Era
già aperta, vero Saga? Forse Shura si è
dimenticato di
chiuderla.»
«Non
c’è bisogno di giustificarsi, Kanon»,
disse il
fratello, per tranquillizzarlo. La voce di Saga era pacata e limpida,
il suo volto rilassato e un leggero sorriso era disegnato sulle sue
labbra.
«Kanon,
è
molto tardi, vai in camera tua», ordinò il padre,
con tono
freddo, fissando negli occhi l’altro figlio.
«Senti,
papà, non credo sia così grave; e poi, dentro non
c’è nulla di…»
«Va
tutto bene, Kanon. Per favore, fai come ti ha detto», lo
interruppe Saga.
Kanon si
girò di
scatto verso il suo gemello guardandolo stupefatto. Forse, per la prima
volta da quando si era ripreso – almeno fisicamente
–
dall’incidente, Saga stava mostrando una sicurezza e una
maturità che si addiceva all’uomo adulto che era.
O forse,
in tutti quegli anni era solo lui che aveva continuato a vedere e a
trattare il fratello come qualcuno di limitato. Tutto quell'alcol che
aveva in circolo complicava la percezione di quanto stava assistendo.
«Se
hai bisogno… chiamami», gli disse, passando
accanto al padre per uscire dalla biblioteca.
Una volta
soli, Saga e
Shion rimasero per diversi secondi a guardarsi, come fossero stati al
centro di una strada polverosa, in attesa dello scoccare del
mezzogiorno, pronti a estrarre le pistole per la resa dei conti.
Il
capofamiglia Hayes si
avvicinò alla cassaforte a muro e aprì
completamente lo
sportello. Gli bastò una rapida occhiata per capire che
mancava
la cosa più importante. Il suo cuore perse un battito.
«Dimmi
dov’è», disse con voce alterata.
«Dove
l’hai messo?» E quella seconda esortazione
sembrò
un’accusa esplicita.
Gli si
avvicinò a grandi passi e lo afferrò per il
maglione, strattonandolo con forza.
Saga rimase
in silenzio,
si limitò a deviare lo sguardo di lato e concentrarsi sulle
fiamme che languivano ora abbandonate nel camino. In quel momento,
Shion sentì una stretta al cuore e il petto iniziare a
dolergli.
Si era forse
materializzato davanti ai suoi occhi il suo desiderio più
recondito?
Quante
volte, in tutti
quegli anni, aveva provato l’irresistibile voglia di prendere
lui
stesso quei documenti così pericolosi per tutti e bruciarli,
liberandosi così da un peso a volte troppo insostenibile; ma
anche se sarebbe stata la soluzione più facile e logica, per
evitargli qualsiasi conseguenza futura, non ne aveva mai avuto il
coraggio. Del resto però, nonostante fossero una costante
spada
di Damocle per lui, quei documenti rappresentavano anche dei preziosi
– seppur spesso dolorosi – ricordi; ed erano
l’unica
prova della vita che sarebbe dovuta spettare ai gemelli: il loro
retaggio, le loro origini.
Si
lasciò cadere
in ginocchio, davanti al camino, osservando inerme quelle braci ancora
incandescenti fra i ciocchi carbonizzati che iniziavano a lasciare
piccoli fili di fumo nero e acre. Sentiva il viso andare in fiamme per
l’intenso calore dell’aria. Eppure, il suo sangue
in quel
momento era come congelato nelle vene. Provò ad allungare le
mani, tremanti, in tentativi infruttuosi di recuperare qualcosa, mentre
i suoi occhi bruciavano di lacrime represse, ma non riuscì
neppure ad avvicinarsi a quelle braci.
«Era
così
tanto prezioso per te quel plico?» chiese Saga, con insolito
distacco, rimanendo lì in piedi, dove solo un attimo prima
era
stato aggredito. «Eppure, in questo modo non dovrai temere
più nulla.»
«Non
hai idea di
quello che hai fatto», mormorò Shion con un filo
di voce.
«Sì, quei documenti erano preziosi più
di quanto tu
possa immaginare.»
«Allora
non ti
affannare a disperarti per qualcosa che non è andato
perduto», ribatté Saga, lasciando cadere a terra,
accanto
alle ginocchia del padre, la cartelletta di cuoio.
L’uomo
sussultò nel vederla. Per un attimo trattenne il respiro e,
con
mano ancora tremante, la prese, lisciandone la superficie con eccessiva
devozione.
«Da
quanto tempo
sei al corrente dell’esistenza di questi
documenti?» gli
chiese, rimanendo ancora inginocchiato di fronte alle braci del camino,
ma non ottenne risposta.
Sospirò.
«Allora
è
questo il motivo del tuo comportamento così distante e
accondiscendente di questa mattina», considerò,
ricordando
i discorsi della mattina. «Devo quindi presumere che tu ne
abbia
anche letto il contenuto.»
«Non
ero sicuro di voler sapere, ma alla fine… sì, ho
letto.»
Saga si
concesse qualche
momento per riflettere e per fare dei respiri profondi. Si
avvicinò al mobile con le foto di famiglia, contemplandole
tutte, soffermandosi su quella che per lui più rappresentava
la
famiglia: ritraeva Kanon, lui stesso e Shion Hayes accovacciato fra
loro due, tutti e tre in posa davanti all'obiettivo e li abbracciava
stretti. Era stata scattata allo Zoo di Boston, quando erano solo due
bambini di neanche sei anni. Quella giornata di primavera era stata
memorabile per loro, non solo per la gita del tutto inaspettata, ma
anche perché l'avevano passata assieme al padre; e, per
finire,
a casa li aspettava una montagna di dolci, preparati da Nanny.
Aveva sempre
creduto che
lo strano sorriso del padre in quella foto fosse il frutto del suo
imbarazzo nel farsi vedere in atteggiamenti troppo familiari. Ora
invece, quel sorriso lo vedeva per ciò che era davvero,
così come capiva anche il significato di quegli occhi
tristi,
che stonavano in una fotografia tanto gioiosa. Si ricordò
che
era stato Shion stesso a insistere per andare allo Zoo, in quel giorno
particolare.
«Sai,
è
strano», riprese, sempre con lo sguardo fisso su quella
fotografia. «Per tanti anni avevo sospettato una cosa del
genere.
Erano perlopiù sciocche paure di un ragazzino, debole e
malato,
che aveva ascoltato per caso una conversazione che non avrebbe
dovuto», confessò. «Kanon mi prendeva in
giro quando
gliene parlavo. Diceva che viaggiavo troppo con la fantasia, che era
perché stavo tutto il giorno a letto, che leggevo troppi
libri… Col passare del tempo ci ho creduto
anch’io, mi ero
convinto che fosse frutto della mia immaginazione alterata dalla febbre
che andava e veniva senza darmi tregua. Questo pomeriggio ho parlato
con una persona: mi ha detto di aver fatto parte della mia vita; mi ha
raccontato alcune cose che mi hanno fatto riflettere. È
stato
solo a questo punto che ho deciso di iniziare a cercare per fare
chiarezza, benché avessi avuto la possibilità di
farlo
già da molto tempo.»
Shion
ascoltò in
silenzio, tenendo il suo sguardo fisso sulle braci che rapidamente
stavano morendo; morendo un poco lui stesso a ogni parola che il figlio
pronunciava.
«La
persona con cui hai parlato, chi è?» gli chiese.
«Un
vecchio cinese.»
«Un
cinese?»
ripeté l’uomo, con tono sorpreso. «E
come diamine
sei entrato in contatto con un cinese? Ragazzo mio, ti sei fatto
ingannare da un truffatore!»
«Anche
tu credi che
sia un ingenuo sprovveduto?» Saga si girò di
scatto in
direzione del padre, mostrandogli tutto il tormento che stava provando
in quel momento. Poi, addolcì lo sguardo. «Anche
Aiolos ha
detto la stessa cosa.»
«Aiolos
è al
corrente di questa faccenda?» La voce di Shion Hayes era un
misto
di sorpresa e fastidio. Era da tempo che valutava la
possibilità
di mettere a parte di quel segreto Aiolos, per poi affiancarlo a Saga,
così com’era sempre stato nei progetti fin da quel
lontano
giorno di tredici anni prima, ma essere stato anticipato in questo modo
lo indisponeva.
«Io
stesso,
all’inizio, non potevo crederci», riprese Saga,
senza dar
peso all’interruzione del genitore, «ma
quell’uomo ha
detto delle cose… ha detto che assomiglio a mio padre, al
mio
vero padre, ad Anthony. Ha parlato di cose, di aspetti particolari,
dettagli. Sembrava parlasse di me», disse, tornando a
guardare
quell'uomo che aveva sempre amato e ammirato, mostrandogli questa volta
una freddezza che non gli era mai appartenuta. Vide Shion Hayes
sussultare a quel nome e irrigidirsi, confermando in qualche modo che
qualcosa di vero c’era nelle parole di Dohko.
«Dimmi, Shion
William Hayes», disse, chiamando con il suo nome per esteso;
dalla tasca dei pantaloni estrasse un foglietto tutto spiegazzato.
«In quale aspetto potrei assomigliare a un uomo che ha
venduto i
propri figli per pagare un debito?»
Il respiro
di Saga si
fece più affannoso e irregolare. Gli occhi bruciavano di
rabbia
e di lacrime trattenute, mentre li teneva fissi su quell’uomo
che
lo aveva cresciuto; e la tempia… gli doleva come non mai.
Shion Hayes
sgranò
gli occhi: non poteva credere a quanto avesse detto l'altro;
quell’accusa gli provocò un altro forte dolore al
petto.
Era strano sentire il proprio figlio che parlava di quella persona;
ancora più strano e mortificante era avvertire
dell’astio
nella sua voce, quasi disprezzo per una persona che Saga neanche aveva
avuto modo di conoscere, ma che lui aveva amato in passato. Non poteva
sopportare che Saga, ignaro di tutto, si permettesse di giudicare senza
sapere. Eppure comprendeva la sua reazione.
«Non
è così, Saga. Qualunque cosa tu abbia letto,
l'hai mal interpretata.»
La
biblioteca cadde in un
silenzio assoluto. Le luci, già di per sé
soffuse,
sembravano aver perso ancora più intensità,
facendo
piombare la stanza in una penombra più scura.
L'uomo si
mise una mano
nella tasca della vestaglia ed estrasse la vecchia e sgualcita
fotografia che negli ultimi tempi teneve sempre con sé. La
fissò per diversi secondi con occhi pieni di commozione,
nonostante i volti ormai non si distinguessero più.
«Forse
avrei dovuto dirvelo molto tempo fa. Ma poi tu…»
«Io…
io sono
diventato difettoso», completò Saga, abbassando la
testa e
portandosi la mano alla tempia.
«No,
Saga», disse Shion, sorridendo mesto.
Si
avvicinò a suo
figlio e lo abbracciò. In quell’ora tarda della
notte non
gli importava di mostrarsi sentimentale. Con Saga gli veniva naturale
lasciarsi andare a quelle dimostrazioni di affetto, molto
più
che con altri; persino con Kanon e con Nanny non si sentiva molto a suo
agio, ma Saga… difettoso o meno che si ritenesse, era la
copia
vivente di Anthony.
«Ciò
di cui
parla quel biglietto è un debito morale. Anthony, il tuo
padre
naturale, tuo e di Kanon, era il mio migliore amico e… no,
non
è la verità. Lui era molto più di un
amico»,
sospirò. «Non era affatto in debito, ma si sentiva
tale; e
la colpa è solamente mia. Per tanti anni l’ho
ritenuto
responsabile di un tradimento nei miei confronti e gli ho voltato le
spalle quando lui e tua madre erano disperati e avevano tentato di
chiedere il mio aiuto. In realtà ero io a essere in
debito.»
Shion Hayes
fece una
pausa, passandosi una mano fra i capelli castani striati di bianco.
Provava un certo timore e vergogna nel guardare negli occhi il figlio,
ora che aveva ammesso ad alta voce i suoi tormenti.
«Tu
sei proprio
com’era lui alla tua età; e non parlo solo
dell'aspetto,
così straordinariamente simile al suo, ma anche nel
carattere.
Lui era buono e generoso, aveva fiducia nella gente e l'aiutava come
poteva, senza chiedere o aspettarsi nulla in cambio. Sempre col sorriso
sulle labbra.»
Alzò
gli occhi su
Saga e sorrise: in quel momento sul viso del giovane vi era la stessa
dolcezza un po' triste che aveva sempre caratterizzato Anthony.
«Se
come dici era tanto buono, perché ci ha dati via?»
«Anthony
vi ha
affidato a me come ultimo grande atto di amore nei vostri confronti.
Ancora oggi non so di preciso cosa possa averlo spinto a tale gesto,
nella mia cocciutaggine non ho mai voluto indagare, non mi sono mai
voluto preoccupare per la sua sorte, né prima e
né
tantomeno dopo che ha rinunciato a voi, se non dopo anni, quando ormai
per lui era troppo tardi.» Rovistò nella
cartelletta di
cuoio e prese un ritaglio di giornale, che porse al figlio.
«Non
riesco neppure a immaginare quale inferno debba aver passato. Quello
che so per certo è che è arrivato a prendere
quella
decisione tanto dolorosa solo per il vostro bene. Sapeva che io vi
avrei amati come figli miei e avrei fatto di tutto per la vostra
incolumità.»
«Non
mi pare che tu ci sia riuscito molto bene»,
commentò Saga.
«Di
cosa stai parlando?»
«Parlo
della gente
strana che tredici anni fa si aggirava nei dintorni del
parco.»
Saga si portò nuovamente la mano alla tempia destra,
iniziando a
grattare la piccola cicatrice fino a farla sanguinare. «Parlo
dell’uomo che è stato ucciso nella rimessa delle
barche,
da due sconosciuti che poi hanno tentato di uccidere anche me. Parlo di
due killer a sangue freddo che hanno massacrato quell’uomo
inerme, già a terra, infierendo su di lui senza alcun
motivo. Un
uomo la cui unica colpa, probabilmente, era stata quella di introdursi
nella nostra proprietà per scattare delle fotografie e per
questo ha trovato una morte orrenda. Parlo di quei due che, una volta
accortisi di me, mi hanno inseguito per tutto il parco, fino a
raggiungermi e colpirmi, lasciandomi poi a terra privo di sensi da
qualche parte e per chissà quanto tempo.» Man mano
che
andava avanti a raccontare, la sua voce si faceva più
nervosa e
acuta, come se in quel momento a parlare fosse l’adolescente
Saga
e non l’adulto.
«Ricordi…»
sussurrò Shion, con voce tremante e gli occhi gonfi di
lacrime.
«Finalmente ricordi? E poi, cos’altro?»
lo
incalzò.
«Solo
sensazioni,
odori, voci, dolore», sussurrò Saga. La sua mano
continuava a tormentare sempre di più la cicatrice e le
unghie
si stavano ombrando di rosso. «Qualcuno sopra di me. Puzzava
di
sigarette al mentolo. I suoi occhi erano assatanati. Ricordo qualcosa
di freddo che premeva sulla mia fronte e una voce sprezzante che diceva
che mi avrebbe ucciso… e rideva: forte, sguaiato.»
Ansimò.
Gli occhi
divennero vacui e qualche lacrima rigò le sue guance
divenute
mortalmente pallide. Stava tremando. Saga tremava nel corpo e
nell’anima, nel riportare a galla quei frammenti di ricordi.
Shion
accorse per
sostenerlo, notando come il figlio si reggesse in piedi a stento.
Provò a farlo avvicinare alla poltrona per farlo sedere, ma
Saga, con un brusco gesto del braccio, lo scacciò via,
tenendolo
a distanza con uno sguardo furibondo, benché i suoi occhi
fossero colmi di lacrime.
«Perché
non
abbiano portato a termine il loro lavoro e mi abbiano lasciato in vita,
non saprei dirlo. Forse... un contrattempo. Ricordo che
l’altro,
un ragazzo biondo, molto chiaro, gli disse qualcosa in modo scocciato.
E poi… credo di aver perso conoscenza»,
terminò il
suo racconto.
Shion rimase
scioccato da
quel resoconto così ricco di dettagli importanti, nonostante
il
figlio continuasse a sostenere di ricordare poco o niente. Finalmente
la verità su quell'avvenimento tanto misterioso stava
venendo a
galla. Mancava solo da capire chi fossero le persone che Saga aveva
visto quel giorno e soprattutto chi fosse la vittima.
Ma a che
sarebbe servito dopo tutti quegli anni?
Saga si
asciugò le
lacrime con il dorso della mano. Nell'altra teneva ancora l'articolo di
giornale che poco prima gli aveva dato il padre. La carta era
ingiallita e le lettere avevano i contorni sbavati, ma ancora le parole
si potevano leggere.
Il
trafiletto parlava di
un “incidente” avvenuto nel carcere di Boston, di
una rissa
fra detenuti che era degenerata in una mezza rivolta, sedata con troppo
zelo dalle guardie e di come ci era scappato il morto. Il giornalista
aveva riportato anche il nome del detenuto: Anthony Young. Aggiungendo
che al momento della morte era ancora in attesa di giudizio e che per
un errore di trascrizione era stato messo con i criminali
più
pericolosi.
A passo
incerto si
avvicinò alla scrivania e vi lasciò cadere il
pezzo di
carta. Poi, senza più rivolgere la parola a Shion Hayes, si
diresse alla porta, indugiando però ancora una volta di
fronte
alle foto di famiglia.
«Una
persona, non
molto tempo fa, mi ha detto che si può crescere felici anche
con
dei genitori adottivi», disse. In quel momento l'espressione
sul
suo viso divenne triste. «Sì, papà,
avresti potuto
dircelo tranquillamente, noi avremmo capito. Potevi seguire
l’iter per l’adozione. Ma falsificare dei
documenti…
hai reso le nostre vite una menzogna, fin dalle fondamenta.
Probabilmente anche i nostri nomi non ci appartengono
veramente.»
«Ho
fatto ciò che andava fatto per salvaguardare il vostro
bene», rispose l'uomo.
«E
quali
circostanze hanno richiesto un tuo così alto coinvolgimento
e
tanta segretezza? Un rapimento? Il programma di protezione testimoni
dell’FBI?» chiese Saga, permeando quelle parole di
un
sarcasmo innaturale per lui. «Dimmi un’ultima cosa:
era un
criminale?»
«Faresti
un grave
torto alla sua memoria se credessi questo di lui. No, lui era innocente
e puro di animo», rispose Shion.
«Capisco»,
fu
la risposta semplice e composta di Saga. Il ragazzo si voltò
verso il padre, mostrandogli una ritrovata serenità e uno
sguardo limpido. «30 maggio», mormorò,
con un lieve
sorriso sulle labbra. «Che strana coincidenza. È
una data
importante. E forse, in futuro, lo diverrà ancora di
più», disse, prima di uscire dalla biblioteca.
Quella era
infatti la
data di nascita sua e di Kanon, riportata su una scrittura privata,
convalidata da un piccolo e semisconosciuto studio legale di Boston.
*****
Rientrò
in camera
da letto con la sola voglia di infilarsi sotto le coperte e buttare
fuori dalla sua testa tutti quei pensieri che vi si stavano
accavallando. Sentiva che di lì a poco gli sarebbe
scoppiata,
avvertiva già quel dolore strisciare pian piano. Col capo
appoggiato al cuscino, il corpo lungo disteso sul materasso e le
braccia larghe, fissò il soffitto ammantato di ombre. Vi
passò diversi minuti in quella posizione, immobile, senza
decidersi a prepararsi per dormire; la stanchezza diventava sempre
più invadente e il torpore del whisky, bevuto in compagnia
del
gemello, iniziava a fare il suo dolente effetto, appannando ancora di
più i suoi sensi già storditi.
A fatica si
portò
un braccio alla fronte, sentendola un poco calda. Si girò su
un
fianco, con la nausea e il mal di testa che pretendevano il loro
tributo. Gli occhi, stanchi, caddero distrattamente sul comodino e sul
suo cellulare col display attivo e luminoso che vibrava producendo un
fastidioso ronzio. Rimase a osservarlo, ma forse non lo vedeva
realmente. Poi, di colpo spalancò gli occhi e si mosse per
prenderlo, ma quando premette il tasto per accettare la chiamata era
ormai troppo tardi. Sbuffò, ributtandosi sul materasso,
chiudendo gli occhi e passandosi una mano fra i capelli. Quella notte
sembrava non volergli dar tregua con i problemi.
Con molta
lentezza si
tirò su a sedere, accese la luce e controllò
meglio il
cellulare. Quella appena persa non era l’unica telefonata che
aveva ricevuto. Ve ne erano state altre, tutte da parte della stessa
persona, tutte molto ravvicinate.
Il display
indicava quasi
le tre del mattino. Era incerto se richiamare, oppure attendere qualche
ora e provare a dormire un po’. Si stese sul fianco sinistro,
il
cellulare stretto nella mano e la tempia che iniziava a pulsare
sommessamente. Il suo respiro si fece lento e impercettibile. Voleva
solo rilassarsi e riuscire a prendere sonno. C’era
però un
piccolo tarlo che non glielo permetteva: il pensiero di Cora che lo
aveva cercato a quell’ora tarda e con tanta insistenza.
Visualizzò
di
nuovo l’elenco delle chiamate. Il suo cuore prese a battere
tachicardico senza apparente motivo. Premette il tasto di chiamata
rapida, accostando poi il cellulare all’orecchio e rimanendo
in
febbrile attesa. Più passava il tempo, più
contava
mentalmente il susseguirsi degli squilli e più strani timori
nascevano in lui. L’impazienza li alimentava ed essi si
trasformavano in ansia. Dopo l'ennesimo squillo, con rassegnazione
– e la delusione nel cuore – abbassò lo
smartphone,
continuando però a fissarlo, senza riuscire a chiudere la
chiamata. Aveva già il pollice sull'icona, quando infine gli
giunse la voce della ragazza.
«Saga…»
«Cora,
finalmente!» esclamò lui, mettendo il vivavoce.
«Ho
trovato le tue chiamate. Mi dispiace di non aver potuto rispondere
prima. Cosa succede, dove sei?» le chiese, ansioso.
«Io…
non
volevo disturbarti così tardi…» Si
interruppe a
causa di un singulto di pianto. «Ma tu sei l’unico
che
può aiutarmi…»
Dall’altra
parte
della linea, nonostante le sue condizioni non proprio lucide, Saga
riusciva a percepire la disperazione della ragazza. Gli si
formò
un nodo allo stomaco.
«Sono
al… al St. Francis Clinic Center.»
Nuovamente
Cora si interruppe, questa volta però a Saga
sembrò che qualcuno l’avesse distratta.
«Cora,
cosa ti è successo? Stai bene?» le chiese, in tono
concitato.
Continuava a
sentire come
lei fosse sconvolta. Poi, uno strano vociare lì vicino si
intromise nella telefonata e le uniche parole che Saga
riuscì a
capire furono: medicare e operazione urgente.
«Ti
prego, vieni subito…»
La chiamata
si interruppe bruscamente.
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Capitolo 21 *** Capitolo XX ***
XX
Come se non gli fosse stata sufficiente la giornata appena trascorsa,
piena di eventi che avevano sconvolto quella che credeva essere la sua
vita, la telefonata di Cora gli aveva dato l’ennesimo colpo.
Rimase lì, seduto sul bordo del letto, impietrito e col
respiro
trattenuto, mentre fissava con occhi vacui il cellulare che stringeva
in mano. La sua testa era completamente svuotata. Lo stomaco gli
mandava una fitta di dolore e una strana sensazione di angoscia gli
premeva sul cuore, facendosi sempre più insistente ogni
momento
che passava. Sentiva il sangue gelarsi nelle vene, quasi smettere di
scorrere; e le mani diventare insensibili e fredde come il marmo.
Chiuse gli occhi, sbuffando fuori il fiato tutto d’un colpo;
la
situazione era cambiata poco. Quel nodo allo stomaco persisteva. Con
mano tremante e la testa ancora non troppo lucida, riprovò a
chiamare la ragazza. A ogni tentativo sentiva dall’altra
parte il
messaggio automatico che avvertiva che l’utente non era
raggiungibile. E ogni volta, la preoccupazione si faceva più
pesante.
Completamente in trance, si diresse in bagno per sciacquarsi il viso.
Forse, lo stress di quella giornata gli aveva fatto immaginare tutto.
Forse aveva sognato. Eppure, la sensazione che gli appesantiva lo
stomaco era reale, l’angoscia che provava era reale. Ancora
una
volta, selezionò il numero di Cora. Era cosciente che fosse
tardi e in circostanze diverse non avrebbe chiamato, ma in quel momento
non gli sarebbe importato di svegliarla, voleva sentire la sua voce,
accertarsi che stesse bene. Così com'era successo le volte
precedenti, si inserì il messaggio automatico e il suo cuore
perse un battito.
Spalancò la porta della camera del gemello e si
precipitò
a fianco del letto, dove Kanon dormiva un sonno scomposto e pesante. La
stanza era immersa nel buio più totale e solo la luce
lasciata
accesa nel bagno permise a Saga di vedere il corpo del proprio gemello,
ancora vestito, sdraiato sulle coperte tutte arruffate.
«Kanon! Kanon» Col cellulare stretto in mano
provò a
scuoterlo, ottenendo solo dei grugniti e qualche parola sconnessa.
«Kanon!»
«Sì, sì… ti voglio bene
anch’io… fratellino.»
Il ragazzo si girò lentamente su un fianco, gemendo, dando
poi le spalle all’altro.
«Kanon!»
Tutti i tentativi di Saga di svegliarlo fallivano miseramente, ma anche
se ci fosse riuscito, dubitava gli sarebbe servito a qualcosa, nelle
condizioni in cui era il gemello. Sospirò sconsolato. La
stanchezza si stava facendo sentire di nuovo, così come gli
effetti, seppur blandi, dell’alcol ingerito quella sera.
Uscì sul corridoio, scoraggiato più che mai, e si
guardò attorno, senza sapere cosa fare, né a chi
rivolgersi. Su Kanon, la sua àncora, non poteva fare
affidamento, al padre non poteva certamente chiedere, non dopo quanto
accaduto poco prima in biblioteca; Shura non l’aveva visto
per
tutta la sera, sospettava fosse andato da qualche parte a divertirsi e
chissà in quali condizioni lo avrebbe trovato.
I suoi occhi si fissarono sulla porta di fronte a sé, quella
della camera da letto di Aiolos. Anche se quel pomeriggio stesso
avevano parlato e in qualche modo sembrava si fossero riavvicinati,
come avrebbe preso ora l’amico una sveglia inopportuna come
quella che gli stava per fare? Sarebbe stato disposto ad aiutarlo?
Se solo si sentisse più sicuro a guidare l’auto,
se solo
non fosse così stanco e se non avesse bevuto quella
sera…
La sua mano era già alzata e pronta a bussare, ma esitava,
in
preda a troppi scrupoli. Poi, il pensiero di Cora prese il sopravvento
su tutto il resto e diede due, tre colpi con le nocche sul legno della
porta. Dall’altra parte non proveniva alcun rumore.
Riprovò, questa volta con colpetti, più
ravvicinati e impazienti. Ancora lunghi attimi di silenzio.
Saga non poteva permettersi di irrompere nella camera di Aiolos
così come aveva fatto prima in quella di Kanon. Di nuovo,
alzò la mano per ritentare.
Dall'interno della camera arrivò un “Chi diavolo
è?”, in tono assonnato. Poi, uno sbuffo e un breve
trambusto. «Chi è?» disse Aiolos, con
voce
strascicata, aprendo la porta di uno spiraglio.
«Aiolos. Ho bisogno di… un favore»,
disse sottovoce e con tono contrito Saga.
Al ragazzo occorse qualche secondo per mettere a fuoco la vista e
capire chi aveva davanti. Sgranò gli occhi quando riconobbe
Saga
e subito si ritrasse, tirandosi giù più
che poteva
la maglietta che aveva indossato poco prima, cercando di coprirsi le
parti intime. Ringraziava il cielo che non fosse invadente quanto
Kanon, altrimenti si sarebbe ritrovato la porta spalancata e lui
squadrato da capo a piedi e ricoperto da risate sguaiate.
«Cos’è, sta andando a fuoco la
casa?» chiese,
affacciandosi di nuovo e dando fondo a tutto il sarcasmo a cui le sue
condizioni permettevano di attingere. Poi, lo osservò meglio
e
vide quanto fosse sconvolto. «Cosa ti serve a
quest’ora di
notte? Non puoi aspettare dopo colazione?»
«Ti prego, accompagnami in un posto.»
«A quest’ora di notte? Ma tu sei fuori di testa!
Vattene a dormire!»
«Ti prego…» insistette Saga.
Aiolos titubò. Lo sguardo ansioso dell’altro, la
sua voce
addolorata e quel comportamento così inusuale, gli stavano
facendo capire che qualcosa non andava. Si girò per un
attimo
verso il letto.
«Vai a fare qualche moina a tuo fratello e chiedilo a lui.
Sono
stanco, me ne torno a dormire», disse con molta risolutezza
nella
voce, tornando a fissare Saga negli occhi. Stava già
richiudendo
la porta, sicuro che l’altro si sarebbe dato per vinto, come
faceva di solito; invece trovò un ostacolo che
bloccò la
porta. Alzando lo sguardo vide la mano di Saga, aggrappato con
disperazione, che tentava di fare resistenza con tutto il peso del
corpo.
«Per favore…» sospirò Saga.
«Lui… lui non può. Stasera ha bevuto
troppo,
neanche riesco a svegliarlo; e comunque non sarebbe in grado di
guidare.»
«Hai bevuto anche tu, a quanto sento», disse
Aiolos, in
tono sprezzante e con un sorrisetto malizioso sulle labbra.
«Non
è un problema mio!» Il suo sguardo si fece duro,
astioso.
«Sei abbastanza grande da risolverteli da solo i tuoi
casini.»
A quelle parole, l’opposizione che stava esercitando Saga si
fece
meno resistente, consentendo all’altro di chiudere finalmente
la
porta.
Nonostante avesse potuto tirare un sospiro di sollievo, per essere
riuscito a lasciare fuori quella scocciatura, Aiolos rimase
lì,
appoggiato alla porta, con lo sguardo torvo e la pessima sensazione di
essere solo un ripiego. Non era cambiato niente: come al solito per
Saga prima veniva Kanon; prima aveva bisogno di Kanon; la sua prima
scelta era sempre e solo Kanon. E allora al diavolo, che si rivolgesse
a Kanon!
Saga rimase lì, con gli occhi annebbiati di lacrime e la
disperazione nel cuore.
«Non è per me. Si tratta di Cora…
Caroline. Le
è successo qualcosa, mi ha chiamato da un ospedale e adesso
non
riesco più a contattarla. Per favore… Lo so che
non ho
alcun diritto di chiederti niente, ma Caroline non c’entra
nulla
con i problemi che abbiamo tu ed io.»
«Sei un idiota. Cieco, stupido,
ingenuo…» mormorò Aiolos, con rabbia e
gelosia.
Quelle parole gli sfuggirono dalla bocca come un pensiero segreto che
viene liberato nel vento. Con un sospiro stanco si staccò
dalla
porta. Le parole che si erano scambiati in auto, nel pomeriggio, quel
“non abbiamo mai smesso di essere fratelli” gli
rimbombava
nella testa. Ci aveva creduto davvero quando glielo aveva detto, oppure
lo aveva fatto solo per consolarlo in un momento di
difficoltà?
La risposta era stata chiara da come si era comportato.
«A volte mi domando se ti conosco davvero.»
Shura accese la luce nella stanza. Scostò le coperte e si
sedette sul bordo del letto per alcuni momenti, appoggiando i piedi sul
parquet scuro. Poi, si alzò e prese i vestiti del suo amante
ammonticchiati sulla sedia, butandoglieli addosso.
«Sei uno stupido», disse, con voce artificiosamente
calma.
«Ora vestiti alla svelta e raggiungilo, prima che possa
commettere una sciocchezza. Se gli dovesse capitare qualcosa, nessuno
te lo perdonerebbe. Kanon per primo.»
*****
Se fosse capitato in un altro momento e in altre circostanze, Saga non
avrebbe esitato in quel modo e si sarebbe fidato delle sue sole forze;
soprattutto non avrebbe cercato così disperatamente
l’aiuto di qualcuno. Ma ad acuire tutto c’era
l’ormai
costante angoscia che gli opprimeva il cuore e lo faceva agire con poca
lucidità. In quei momenti così drammatici per
lui, stava
vivendo la stessa paura che aveva provato quando non l’aveva
trovata nell’appartamento, quando non aveva risposto ai suoi
messaggi e alle sue telefonate, la sera prima del trasloco.
Era rimasto davanti alla porta chiusa di Aiolos ancora per diversi
secondi, consapevole che stava perdendo tempo prezioso, ma continuava a
sperare che l'altro cambiasse idea. Poi, provò a chiamare
Cora
un'ultima volta, ottenendo sempre il messaggio automatico, o la
segreteria. Sentiva di aver già perso troppo quella sera,
non
avrebbe sopportato di perdere anche Cora.
Si affrettò a scendere i gradini dello scalone principale;
il
suo respiro si faceva via via più affannoso, sentiva uno
strano
nodo alla gola. Si fermò per un attimo a metà
dello
scalone, aggrappandosi al corrimano di mogano. Sentiva le tempie
pulsare e la nausea salire. Il suo cuore batteva accelerato. Il tempo
di un respiro profondo, seppur doloroso, e riprese a scendere,
nonostante all’improvviso la vista gli si fosse sfocata un
poco.
Davanti a sé si ritrovò il padre che invece
saliva per
ritornare nelle sue stanze. Si guardarono negli occhi, ma non si
scambiarono una parola.
Negli occhi arrossati del figlio, Shion vi intravide tanto dolore.
Sospirò, pensando che forse, quel suo stato così
agitato,
era dovuto al dialogo che avevano avuto in biblioteca. Eppure, era
certo che, prima di congedarsi da lui, Saga gli avesse mostrato un poco
di serenità. E ora si chiedeva, con la stanchezza che gli
pesava
addosso, cosa fosse potuto succedergli per sconvolgerlo in quel modo.
Lo seguì con lo sguardo, lo vide prendere il cappotto e
uscire
di casa con molta fretta.
«Lo seguo per evitare che faccia qualche
sciocchezza»,
disse Aiolos, incrociando a sua volta Shion sulle scale, non appena
questi si era voltato per proseguire.
Il giovane rallentò il passo giusto il tempo per
risistemarsi il
maglione addosso; poi, tirò dritto per la sua strada, senza
badare al lento e stanco gesto di assenso dell’altro.
Shion Hayes seguì anche i movimenti dell’altro,
che stava
ripercorrendo gli stessi di Saga: prima il cappotto e poi, di corsa
fuori dalla porta di casa. Sospirò, scrollando gravemente la
testa. Tutto stava accadendo troppo in fretta, tutto stava mutando in
qualcosa di difficile da gestire. La sua famiglia si stava sgretolando
davanti ai suoi occhi. I suoi figli gli stavano scivolando via dalle
mani, lontani dal suo controllo e dalla sua protezione. Saga si stava
allontanando da lui…
Riprese a salire le scale, con stanca lentezza; a ogni gradino si
aggrappava sempre più forte al corrimano, per sostenersi.
Nonostante si sentisse ancora decisamente giovane e forte, per i suoi
cinquantasei anni di età, in quelle ultime settimane gli era
piombato addosso, tutto in una volta, tutto il peso delle
responsabilità di quella famiglia dal nome importante.
«Cos’hai, Shion, ti senti bene? Che
cos’è
successo?» gli chiese Shura, vedendo l’amico
così
gravato dalle preoccupazioni.
Il capofamiglia non si accorse della presenza del suo fido braccio
destro che era appena comparso nel corridoio, fin quando non gli
rivolse la parola. Con la mano stava già sulla maniglia
della
porta della sua camera da letto, pronto a rifugiarvisi dentro.
«Saga è a conoscenza di tutto, o quasi»,
gli
rivelò con voce triste e rassegnata. «E
probabilmente,
adesso anche Kanon saprà tutto.»
«Sapevi che prima o poi questo segreto non sarebbe
più
stato tale. Forse rivelarlo adesso non sarà stato meno
scioccante, ma ormai sono adulti, sicuramente reggeranno bene il
colpo», commentò Shura.
Shion si concesse un lungo sospiro, l’ennesimo in quella
lunga
notte di tormenti, mentre abbassava la maniglia della porta,
bloccandosi poco dopo senza aprirla.
«A questo punto», riprese Shura, «non
resta che
parlarne anche con Aiolos, per prepararlo ai suoi nuovi
incarichi.»
«A quanto pare, anche lui sa già
qualcosa», disse
Shion. Poi, corrugò la fronte. «Perché
diamine stai
uscendo di soppiatto dalla camera di Aiolos?» gli
domandò,
girandosi verso l’altro e guardandolo come se fosse un
perfetto
sconosciuto. I suoi occhi si erano involontariamente fermati su un
punto al di sotto della vita di Shura e la sua espressione divenne
d’un tratto dura.
L'uomo rimase perplesso da tale sguardo; si osservò
anch’egli e, con grande imbarazzo, si accorse che la zip dei
jeans era rimasta aperta per metà. Subito corse ai ripari,
ma
quei suoi tentativi risultarono un po’ goffi e maldestri, per
la
fretta.
«Non dirmi che lo hai fatto davvero?» chiese Shion,
non
risparmiandogli uno sguardo di biasimo; ma in verità non
voleva
saperlo sul serio. Immaginava già la risposta e questa non
gli
piaceva affatto. Lo fissò con severità ancora per
diversi
secondi, poi chiuse gli occhi, ormai troppo provato da quella notte.
«No, lascia perdere, non lo voglio sapere. Ne parleremo
un’altra volta. Ora non sarei in grado di sopportare anche
questo…» disse infine, anticipando la risposta
dell'altro.
Aprì la porta della camera da letto e vi entrò,
barricandovi dentro.
*****
Quella che stava trascorrendo così terribilmente lenta era
una
notte particolare e strana. Nessuno aveva avuto sentore che si sarebbe
rivelata tanto pesante per alcuni membri della famiglia Hayes.
Shion si era ritrovato a dover svelare a suo figlio parte di quei
segreti che aveva tenuto per sé per metà della
sua vita.
Era rimasto sorpreso dalla reazione di Saga, lo aveva sempre giudicato
il più fragile emotivamente, quello da proteggere;
comprensibilmente era rimasto scioccato, ma il suo comportamento era
parso anche enigmatico agli occhi del genitore. Ora però,
Shion
doveva pensare anche all’altro figlio e non sapeva proprio
cosa
doversi aspettare.
Saga, a sua volta, stava iniziando a riempire un enorme vuoto del suo
passato che lo aveva condizionato per anni e che ancora adesso portava
con sé degli strascichi non indifferenti. La sua vita era
stata
limitata, ingabbiata, per così tanto tempo che nessuno aveva
davvero fiducia in lui e nella possibilità che potesse
condurre
una vita normale come tutti gli altri. Aveva finalmente raccontato a
voce alta parte di ciò che accadde quel lontano giorno di
dicembre del 1998, facendo uscire quelle immagini, così
vivide e
dettagliate nei particolari, fuori dai confini dei suoi incubi. Aveva
però dato loro dei connotati diversi, più
terrificanti e
misteriosi, di quanto non avesse mai creduto; perché ora su
di
essi aleggiava lo spettro del dubbio: com’erano collegati
quei
suoi ricordi sopiti col segreto delle sue origini? E se non
c’era
alcun collegamento, perché quel giorno aveva rischiato di
morire?
Shura, dal canto suo, aveva anche lui delle preoccupazioni che gli
erano cadute addosso all’improvviso. La grave imprudenza che
aveva commesso, nel passare la notte nella camera di Aiolos, forse
troppo sicuro della calma apparente che si era respirata in quella
casa, gli aveva fatto abbassare la guardia. Certamente,
quell’incontro intimo non era stato programmato, soprattutto
non
all’interno della villa, ma entrambi gli amanti si erano
lasciati
fuorviare dai sentimenti che provavano e alla fine si erano
addormentati. Credendo poi che la situazione si fosse nuovamente
calmata, affidandosi a un pessimo tempismo, si era dato letteralmente
la zappa sui piedi, facendosi scoprire da Shion mentre usciva dalla
camera di Aiolos per ritornare alla dependance. Ora che la sua
relazione segreta era venuta allo scoperto, come sarebbe stata la sua
vita da quel momento in poi?
*****
Aiolos lo trovò aggrappato al volante e con la fronte
appoggiata
alle mani. Bussò un paio di volte al finestrino con la nocca
dell’indice destro. Poi, con un sorriso quasi di scherno,
aprì lo sportello.
«Fammi posto, guido io», disse, godendosi
l’espressione sconvolta e confusa sul volto di Saga,
invitandolo
anche con un cenno della mano a spostarsi sul lato del passeggero.
Saga fissò Aiolos per diversi secondi con diffidenza,
stringendo
nervosamente la presa sul volante, prima di accettare la sua offerta e
scivolare sul sedile a fianco.
«Imposta la destinazione sul navigatore e spera che nessuno
ci
fermi, perché non ho intenzione di pagare eventuali
contravvenzioni», gli disse ironico, mentre usciva in
retromarcia
dal garage e sgommava, senza tanti complimenti,
sull’acciottolato
del vialetto, lasciando solchi ben visibili. Sarebbe poi stato compito
dei giardinieri risistemare il tutto.
Per tutto il tempo che trascorsero in macchina, non si dissero una sola
parola, nemmeno si scambiarono uno sguardo. L’imbarazzo era
una
presenza quasi tangibile fra loro due. Più volte Aiolos lo
scrutò con la coda dell’occhio, vide quanto Saga
fosse
teso e al tempo stesso malinconico, mentre continuava nei suoi
tentativi di contattare la ragazza.
Impiegarono poco più di venticinque minuti ad arrivare: data
l’ora così tarda, o forse troppo presto, non
avevano
incontrato praticamente nessuno sul loro cammino. Anche lo spiazzo del
parcheggio, di fronte alla loro meta, era quasi completamente deserto.
Esternamente, la struttura non dava affatto l’impressione di
essere un ospedale, anche se l’insegna al neon riportava a
grandi
lettere la parola “clinica”.
«Sei sicuro che questo sia l’indirizzo
giusto?»
chiese, sporgendosi un poco in avanti, per guardare meglio.
«A me
non sembra affatto», mormorò.
Saga si slacciò la cintura di sicurezza e si
precipitò
fuori, lasciando Aiolos a sbuffare annoiato mentre lo osservava
allontanarsi ed entrare nella struttura.
Con un leggero rumore ovattato le porte automatiche si dischiusero
davanti a lui e si ritrovò nella hall di una piccola
clinica,
non troppo spaziosa, ma completamente deserta; illuminata a giorno da
lampade al neon troppo forti, tanto che dovette schermarsi gli occhi.
Il cuore batteva agitato come non mai. Si sentiva spaesato, mentre si
guardava attorno con apprensione. Ai due lati di
quell’ambiente
all’apparenza asettico, con le pareti dipinte di due colori
– bianco nella parte superiore e verde menta nella
metà
più bassa – erano disposte delle file di sedie in
plastica
della medesima tonalità di verde. Dritto davanti a
sé,
quasi in fondo a quell’ambiente così straniante,
c’era il bancone della reception, anch’esso
sguarnito. Lo
raggiunse con passi affrettati e vi si appoggiò pesantemente
con
i gomiti, prendendosi la testa fra le mani.
Sentiva l’angoscia diventare opprimente. Non era
più
riuscito a parlare con Cora e non era neppure lì, dove
credeva
di trovarla. Quel luogo era immerso in un macabro silenzio; l'attesa
che arrivasse qualcuno era dolorosa e snervante. Era una sensazione
insopportabile per lui. Il ronzio delle luci al neon gli entrava nel
cervello e lo stava facendo impazzire.
Sentì aprire una delle porte, alzò la testa di
scatto e
vide una donna che indossava una divisa verde da infermiera sistemarsi
dietro il bancone.
«Caroline Miller, dov’è? Sta
bene?» chiese con
voce agitata. «È castana, alta più o
meno
così», disse, indicando all’incirca
all’altezza delle sue spalle. «Mi ha chiamato una
mezz’ora fa, forse un poco di più: era sconvolta,
piangeva.»
«Sì, sì, si calmi ora», gli
sorrise con
indulgenza la donna, stringendogli con gentilezza un braccio per
rassicurarlo. «La ragazza che cerca è di
là, in una
delle salette d’aspetto, che riposa»,
confermò,
indicando la porta dalla quale era appena entrata.
La donna lo accompagnò sino alla soglia della porta che
divideva
la zona pubblica della clinica, dalle salette di visita e quelle post
operatorie. Poi, gli indicò quella che recava il numero
cinque,
dietro la quale avrebbe trovato la ragazza che stava cercando e
tornò al suo posto. Proprio in quel momento anche Aiolos
fece il
suo ingresso all’interno della struttura, annunciandosi con
un
grosso sbadiglio.
«Saga! Sei riuscito a trovarla?» Il suo richiamo
non ebbe
alcun esito e lui fece in tempo a vederlo sparire dietro la porta in
fondo alla hall.
Anche quella parte della clinica era illuminata da luci al neon,
fastidiose agli occhi. Saga si ritrovò in un corridoio lungo
e
stretto; l’odore dei disinfettanti era forte e si univa a
quello
di animali. Tutto però era calmo. La porta col numero cinque
era
socchiusa. Saga rimase per qualche momento fermo lì davanti,
col
cuore in gola e la paura di scoprire quello che c’era nella
stanzetta. Poi, con una leggera spinta l'aprì. Non appena la
vide, sdraiata sulle tre sedie accostate a una delle pareti e con la
testa sulla borsa che le faceva da cuscino, si dovette appoggiare
pesantemente al muro, tirando un gran sospiro di sollievo. Rimase per
qualche secondo a osservarla dormire, poi le si accovacciò
vicino e le accarezzò con gentilezza la testa,
risvegliandola
senza volerlo.
Cora aprì gli occhi a fatica, con la vista confusa e un
po’ di mal di testa, per quel riposo scomposto. Si
passò
diverse volte il dorso della mano sugli occhi, mentre si raddrizzava
sulla sedia: era intontita e le ci vollero diversi secondi per
riconoscere la persona preoccupata che le stava davanti e la guardava
con gli occhi lucidi.
«Saga?» disse con tono sorpreso, spalancando gli
occhi.
Subito gli si gettò al collo cominciando a piangere per dare
nuovamente sfogo a tutto lo stress accumulato in quelle ore.
«Saga… mi dispiace», si
scusò, fra un
singhiozzo e l’altro.
«Mi hai fatto preoccupare da morire», disse lui,
prendendole il viso fra le mani e guardandola negli occhi per secondi
interminabili. «Ancora una volta…»
sussurrò,
sottintendendo che era la seconda volta che provava una paura
irrazionale di perderla. «Ho provato a richiamarti,
più e
più volte, ma entrava sempre la segreteria
telefonica.»
L’abbracciò di nuovo, stringendola forte a
sé,
accarezzandole la schiena e la testa, per calmarla e per calmare anche
se stesso.
«Mi dispiace! Mi dispiace! Il cellulare ha smesso di
funzionare e
non voleva più accendersi. Non ho potuto spiegarti. Mi
dispiace!» disse lei con voce disperata, nascondendo il viso
nel
suo petto, inumidendogli la stoffa del cappotto con le lacrime che
scendevano copiose sulle sue guance.
«Non fa nulla, non fa nulla. Spiegami ora», la
rassicurò, con tono calmo e gentile. Si slacciò
da
quell’abbraccio disperato e le si sedette accanto.
«Cosa ci
fai in questo posto, tu stai bene, vero? Cos'è
successo?»
«Non so cosa sia successo, non so spiegarmelo»,
iniziò, tirando su con il naso. «Sembrava una
notte come
le altre, tutto era tranquillo. Sono andata a letto più
presto
del solito, perché mi sentivo stanca. Mi stavo
già
addormentando, quando all’improvviso ho sentito un gran
vociare
provenire da fuori, forse dalla strada o dal cortile. Ho pensato che
fosse qualcuno che aveva bevuto troppo. È durato solo
qualche
momento, un minuto o due, poi tutto è tornato tranquillo.
Così mi sono tranquillizzata anch'io e ho provato a
riprendere
il sonno, quando ho sentito di nuovo qualcosa che non andava. Dei
rumori forti e altri schiamazzi, come se qualcuno si divertisse a
lanciare delle bottiglie di vetro contro i muri e a colpire con dei
bastoni o delle spranghe i cassonetti. Allora mi sono decisa ad alzarmi
e sono andata a controllare le finestre che davano sulla strada e la
finestra della cucina, ma tutto era calmo»,
raccontò.
Prese un bel respiro e proseguì. «Quando mi stavo
accingendo a tornare in camera da letto, mi sono accorta che lei non
era al suo solito posto. Avevamo guardato un po’ di
televisione
sul divano dopo cena e l’avevo lasciata che dormiva
lì,
tranquilla. Ho pensato allora che fosse venuta sul letto; fa ancora
fatica ad arrampicarcisi, ma qualche volta ci riesce, anche se graffia
le coperte», divagò un attimo, passandosi le mani
sul viso
ad asciugare le lacrime. «L’ho cercata per un
po’,
per vedere dove fosse andata a cacciarsi e non ritrovarmi con qualche
spiacevole sorpresa.»
Fece un respiro profondo, sentiva gli occhi pesanti per la stanchezza e
le lacrime. Era spossata, ma la presenza del ragazzo la confortava.
«Mi sento così in colpa, Saga. Ero scocciata
perché
volevo tornare a dormire. Credo di aver fatto avanti e indietro per la
casa almeno tre volte. Quando alla fine stavo tornando in camera, ho
guardato anche nell’ingresso. Non ci avevo fatto caso subito,
ma
in quel momento mi era parso di aver sentito un rumore. È
stato
allora che l’ho trovata.» Nascose il viso fra le
mani e
scoppiò di nuovo a piangere. «Lì per
lì
avevo creduto che si fosse addormentata, anche se la posizione mi
sembrava strana, quasi innaturale: il suo corpicino era allungato e le
zampine erano tese verso l’esterno; ma non ci avevo dato
troppo
peso. Mi sono avvicinata a lei senza accendere la luce, c’era
abbastanza chiarore che filtrava dalle finestre del salotto da
permettermi di distinguere la sua sagoma. Mi sono seduta accanto a lei
e ho iniziato a stuzzicarla col dito. Pensavo si sarebbe spazientita e
avrebbe reagito tentando di morderlo, ma non l’ha fatto. Ha
mosso
leggermente il muso e ho sentito un lieve sbuffo. Con un dito le ho
alzato una delle zampine, ma questa è ricaduta a terra come
se
fosse stata priva di vita.»
Saga continuava ad ascoltarla in silenzio.
«Ho provato a farla alzare, ma il suo corpo era molle e la
testa… mio Dio! A quel punto ho iniziato a spaventarmi.
L’ho presa fra le mani e la sua testa le ricadeva di lato
come se
fosse pesante quanto un macigno. Quando l’ho avvicinata a me
e
l’ho guardata con le lacrime agli
occhi…» Cora
scrollò la testa, singhiozzando ancora più forte.
«I suoi occhietti erano socchiusi e le palpebre interne ben
visibili. Dalla sua bocca usciva un po’ di saliva e la
lingua… sembrava che avesse smesso di respirare. Ho provato
a
chiamarti perché non sapevo cosa fare, ma tu non
rispondevi.» Alzò lo sguardo su Saga e subito
dopo,
nuovamente, nascose il viso nel suo petto.
Calò un silenzio pesante in quella saletta. Saga la strinse
a
sé, accarezzandole la schiena e la testa, tutta spettinata.
Dopo qualche altro momento, Cora riprese a raccontare, con voce
più calma. «Mi sono vestita di corsa, ho avvolto
Kitty
nella sciarpa e mi sono precipitata fuori. Ho camminato per qualche
minuto e poi mi sono buttata sul primo taxi che ho trovato.
L’autista aveva appena terminato il suo turno e sicuramente
avrebbe voluto tornare a casa sua, ma è stato molto
disponibile
e gentile, quando gli ho spiegato la situazione. Così mi ha
portata qui.»
«Tutta questa urgenza, tutto questo gran correre, solo per un
animale?» si intromise Aiolos; non aveva fatto nulla per
nascondere il tono scocciato della sua voce, stanca per il sonno
sottratto, né quanto quella situazione venutasi a creare lo
infastidisse.
Fino a quel momento, Saga si era concentrato solo ed esclusivamente su
Cora, coccolandola e sostenendola, ma dopo aver sentito Aiolos
pronunciare quelle parole per la prima volta nella sua vita lo
fissò con astio e con la sola voglia di dargli una lezione,
dimenticandosi dell’aiuto che gli aveva prestato. Il suo
corpo
era già in tensione e pronto a scattare, ma fu trattenuto da
Cora, che lo fece desistere aggrappandosi al suo cappotto.
«Perdonami, lui ha ragione. Ti ho fatto correre fin qui a
quest’ora per una questione di così poco conto e
tu lo hai
fatto perché eri in pensiero per me e invece di arrabbiarti,
ti
stai dimostrando così comprensivo.»
Cora si rimise seduta dritta. Teneva la testa bassa e le mani sulle
ginocchia: era consapevole di aver creato non pochi problemi sia a Saga
che ad Aiolos; si sentiva un'approfittatrice della sua gentilezza e
della preoccupazione di Saga.
«Per favore, esci da qui», disse Saga, con una
inusuale
freddezza, riservandogli uno sguardo altrettanto freddo, prima di dare
di nuovo tutta la sua attenzione alla ragazza.
Per Aiolos fu come tornare di colpo adolescente, a un tempo lontano,
nel quale si trovò a rivivere il medesimo senso di
esclusione di
quando i gemelli erano diventati inseparabili; ma era anche molto
simile a ciò che aveva provato poco meno di un'ora prima,
quando
si era sentito la seconda scelta.
«Come vuoi tu», rispose con sufficienza.
«Ti aspetto in auto.»
Non se lo fece ripetere due volte e uscì dalla stanzetta,
lanciando però un’ultima occhiata veloce ai due:
appoggiato completamente allo schienale della sedia, Saga stringeva la
mano di Cora, ma sul suo viso vi era una strana espressione. Ad Aiolos
non pareva di compassione nei confronti della ragazza, ma non riusciva
comunque a darle un nome. Fece spallucce e si tolse dalla luce della
porta, preferendo però rimanere lì vicino, con la
schiena
appoggiata al muro del corridoio, curioso di conoscere gli sviluppi.
I due ragazzi rimasero in silenzio per cinque minuti, forse di
più. Cora non aveva avuto il coraggio di dire nulla dopo
quell’estenuante racconto e Saga, anche lui in quel momento
non
se la sentiva di parlare. Con uno sbuffo stanco, Cora cambiò
posizione, risistemandosi meglio sulla sedia, avvicinandosi e sfiorando
il braccio di Saga. Questi le lasciò la mano e le
passò
il braccio dietro le spalle, incoraggiandola ad appoggiarsi meglio a
lui. In quei minuti la sua mente, già messa a dura prova,
prese
a riflettere: a considerare che forse, quella proposta che lei gli
aveva fatto quel pomeriggio… forse…
«Mi dispiace averla fatta attendere così a lungo,
ma
abbiamo terminato solo ora un’operazione d’urgenza
a un
labrador. Vedo però che fortunatamente non è
più
sola», si annunciò un uomo, che sembrava essere
sbucato
dal nulla, entrando nella stanzetta. Si tolse la cuffietta dalla testa,
mentre la mascherina pendeva dal collo.
Tese la mano al ragazzo che subito si era alzato e lo salutò
cordialmente.
«Non ci sono stati cambiamenti rilevanti fino a questo
momento.
Ho effettuato un prelievo di sangue e ho qui i risultati. Da quanto
è stato evidenziato dalle analisi, in effetti si tratta
proprio
di un avvelenamento», spiegò.
A sentire quelle parole, Cora ebbe un sussulto e d’istinto
strinse la mano di Saga che ascoltava attentamente ciò che
il
dottore stava dicendo.
«Non le è stata somministrata alcuna sostanza
nociva vera
e propria, come sospettato durante la visita preliminare. Si tratta in
verità di un comune tranquillante e probabilmente glielo
è stato fatto ingerire tramite del cibo. Nella bocca erano
presenti ancora alcune tracce di carne macinata. Il motivo principale
per il quale l’animale fatica a riprendersi, è
l’elevata concentrazione del farmaco nel suo organismo, che
ha
avuto l’effetto di un potente anestetico operatorio e che non
riesce a smaltire da solo.»
Durante il resoconto del veterinario, Aiolos era rientrato nella
stanzetta senza fare rumore, affiancandosi a Cora.
L’uomo fece una pausa, osservando attentamente e con
severità tutti i presenti, soffermandosi poi sulla ragazza.
«Non è assolutamente indicato somministrare questo
tipo di
farmaco a un animale così piccolo e con problemi di
denutrizione; soprattutto quando il farmaco in questione è
raccomandato per animali di grossa taglia», disse.
«Glielo giuro, dottore, non ho dato niente a Kitty! In casa
non
ci sono medicine di questo tipo, ho solamente dell’aspirina.
E
mai e poi mai potrei fare qualcosa di male alla mia gatta. Saga, per
favore, tu mi credi, vero?» si rivolse implorante e con gli
occhi
velati di lacrime al ragazzo che le stava a fianco.
Il veterinario fece un profondo sospiro, prima di continuare. Ancora
non era del tutto convinto della responsabilità della
giovane;
durante la visita, la sua perplessità era stata molto forte
ma
ora, vedendo la sua reazione a quella notizia – e con quanta
foga
negasse la responsabilità di quel fatto – stava
gradualmente cambiando opinione, propendendo per l’innocenza.
«In effetti c’è una cosa che mi
dà da
pensare. Siamo stati molto fortunati in quanto la quantità
di
tranquillante era sì eccessiva e pericolosa, ma non al punto
di
essere letale; o almeno, siamo arrivati in tempo per scongiurare tale
possibilità. È come se, chiunque sia il
responsabile,
avesse deliberatamente calibrato la dose somministrata, facendo in modo
che destasse perlopiù preoccupazione e allarme. Ora le ho
fatto
un’iniezione con uno stimolante che dovrebbe contrastare
l’azione dell’altro farmaco. È solo
questione di
tempo e la paziente dovrebbe tornare vispa come prima.»
L’uomo fece un’altra pausa, osservando ora la
reazione di
sollievo della giovane. «C’è
però ancora una
cosa che ho riscontrato e che durante la visita preliminare mi era
sfuggita. È un qualcosa di davvero singolare. È
per caso
stata soggetta a scherzi o maltrattamenti?»
domandò ai
presenti, ma la ragazza scrollò vivacemente la testa: da
quando
era stata trovata da Saga, Kitty non aveva mai lasciato
l’appartamento. «Ebbene, il ventre della gattina
è
stato completamente rasato nella parte inferiore. Come se fosse stata
preparata per un’operazione di sterilizzazione.»
A quell’ultima rivelazione, Cora sentì le gambe
diventare
molli e il pressante bisogno di sedersi. Chiuse gli occhi e fece
qualche respiro profondo per calmare la nausea che
all’improvviso
si era presentata. E poi, di nuovo provò delle fitte
tremende al
ventre.
«Stai bene?» le chiese Saga, vedendola
così pallida, avvicinandosi a lei.
Cora annuì stancamente.
Nel congedarsi dai presenti, il veterinario chiamò il suo
tirocinante – che stava sfacchinando nell’ennesimo
turno di
notte – ordinandogli di portare ai proprietari la gattina.
*****
«Sono quasi le cinque. Cosa facciamo, ora?» chiese
Aiolos,
esibendosi in un lungo e rumoroso sbadiglio, completando lo spettacolo
con uno stiracchiamento generale. Si girò distrattamente
verso
l'altro per capire quali fossero le sue intenzioni.
«Andiamo a riposare», disse Saga, passandosi una
mano sugli
occhi stanchi e arrossati, coprendosi subito dopo la bocca per
nascondere lo sbadiglio che anch'egli fece, condizionato da Aiolos.
L’altra mano stringeva quella di Cora che camminava
silenziosa e
a testa bassa accanto a lui, portando in braccio il piccolo fagotto con
Kitty.
«D’accordo, allora si torna a casa, alla
villa»,
approvò, prendendo dalla tasca del cappotto la chiave e
rigirandosela nella mano un paio di volte, prima di azionare il comando
di apertura a distanza.
«No, preferisco andare da un’altra parte. Te la
senti di guidare ancora?» disse Saga.
«E perché, guideresti tu altrimenti?»
ribatté
l’altro, con una punta di acidità nella voce,
osservandolo
con la coda dell’occhio.
Se ne pentì subito del tono che aveva usato. Forse ci aveva
fatto troppo l’abitudine a trattarlo in quella maniera e ora
gli
veniva tristemente naturale. Eppure, c’era ancora la speranza
di
ritrovare quel rapporto complice e solidale che avevano da ragazzi.
Quei momenti in auto, nel tardo pomeriggio, ne erano la dimostrazione.
Saga non replicò alla nuova provocazione, ben conscio che
Aiolos
aveva ragione: lui non era stato in grado di guidare
all’andata,
figurarsi se lo sarebbe stato in quel momento, ancor più
stanco
e distratto.
Aiolos lo osservò aprire la portiera e far accomodare la
ragazza, sul sedile posteriore, fare il giro e aprire quella dal lato
passeggiero. Per pochi istanti si illuse che prendesse posto davanti,
invece Saga si limitò a impostare il nuovo indirizzo sul
navigatore e si spostò dietro, accanto a Cora.
«L’autista prende servizio…»
mormorò ironico, salendo in auto.
Sogghignò nel leggere la nuova destinazione. Senza perdere
tempo
avviò il motore e, con tutta tranquillità, si
immise
sulla strada. A quell’ora della mattina il traffico era
ancora
pressoché inesistente, non ci avrebbero messo molto ad
arrivare
al negozio abbandonato.
Di tanto in tanto dava uno sguardo allo specchietto retrovisore,
aggiustandolo meglio per poter osservare i due passeggeri: Cora era
appoggiata con la testa alla spalla di Saga e il fagotto era posato
pigramente sulle sue gambe. La mano stretta a quella del ragazzo che
non avrebbe più lasciato fino a destinazione. Anche Saga si
era
concesso una posizione più rilassata, con la testa a sua
volta
appoggiata al capo della ragazza, ma quell’espressione
pensosa,
mentre guardava fuori dal finestrino opposto, non l’aveva
abbandonato.
«Fine della corsa, signori. Siamo arrivati!»
Dopo aver terminato le manovre di parcheggio, Aiolos si
voltò
indietro con un sorriso esausto sul volto, che subito gli
morì
sulle labbra nel vedere Saga ancora più rattristato, quasi
rassegnato a qualcosa di inevitabile.
«Mi sono addormentata di nuovo», mormorò
Cora,
ridestata da una carezza del ragazzo, raddrizzandosi e stropicciandosi
gli occhi con la mano.
Alzò lo sguardo per cercare quello di lui, ma non
incontrò il suo solito viso sereno; Saga le stava
già
dando le spalle mentre scendeva dall'auto. Provò una strana
sensazione, che durò giusto un attimo, perché
subito Saga
le porse la mano per aiutarla a scendere, a sua volta; ma era stata
sufficiente affinché ci rimanesse male. Di fronte al portone
d’ingresso, Saga le chiese le chiavi – che lui
nella fretta
di raggiungerla aveva dimenticato di prendere – aprendo e
lasciando strada perché sia lei che Aiolos potessero entrare.
In fila indiana iniziarono a salire i gradini delle scale che portavano
all’appartamento: Cora camminava avanti a tutti e subito
dietro
seguiva Aiolos.
Saga invece, che avrebbe dovuto chiudere la fila, si era attardato al
primo gradino, attirato da uno strano refolo d’aria fredda
che
gli aveva solleticato il volto. Poco dopo, gli parve di sentire un
sommesso rumore di cocci e lo sbattere della porta sul retro, quella
che dava l’accesso al cortile interno. Quella porta aveva
sempre
avuto un leggero difetto e anche se ben chiusa a chiave, tendeva un
pochino a muoversi: un problema che si presentava soprattutto nelle
giornate particolarmente ventose. Quella mattina presto
però,
non c’era affatto vento, non abbastanza almeno da
giustificare
tali rumori.
Si diresse alla vecchia porta di metallo e trovò il vetro
della
finestrella quasi completamente in frantumi, ma con ancora alcuni pezzi
rimasti precariamente attaccati alla cornice grazie a uno spesso strato
di mastice, benché ormai secco e pieno di crepe. Dondolavano
mossi dai brevi movimenti che produceva la porta appena socchiusa. Si
avvicinò per verificarne lo stato, aprendola e chiudendola
un
paio di volte, provocando così la caduta di altri frammenti.
Nonostante quel danno evidente, tutto sembrava funzionare come al
solito. Era troppo tardi per controllare con maggiore accuratezza e lui
era decisamente stanco. Senza perdere ulteriore tempo, decise di
richiuderla a chiave – così com’era
sempre stata
– ma nei suoi tentativi di girare fino in fondo la chiave
nella
toppa, questa si bloccava ogni volta, facendo resistenza. Dopo un altro
paio di tentativi infruttuosi desistì, anche per non
aggiungere
danno a danno, rimandando quel problema di qualche ora. Raggiunse gli
altri sul pianerottolo ed entrarono.
La casa era rimasta esattamente come l’aveva lasciata Cora
quando
era uscita di corsa, con l’ingresso e le stanze adiacenti al
buio
e l’unica luce accesa nella camera da letto dalla quale si
poteva
vedere il letto sfatto e il pigiama buttato per terra.
Quando Cora accese la luce nell’ingresso furono visibili agli
occhi di tutti alcune piccole tracce di saliva secca che indicavano
dov’era stata trovata Kitty. Senza fare gli onori di casa,
corse
subito nella sua camera portando con sé la gattina, sempre
avvolta nella sciarpa e ancora pesantemente addormentata. Saga
trovò a malapena la forza di togliersi il cappotto e
sistemarlo
sull’appendiabiti. Senza dire nulla entrò in
cucina e si
servì un bicchiere d’acqua che bevve tutto
d’un
fiato. Lo riempì di nuovo e lo portò con
sé,
ritornando per un momento nell’ingresso dove Aiolos, nel
frattempo, si stava guardando attorno curioso.
«Vieni, da questa parte c’è una camera
da letto dove
potrai riposare», gli disse, facendogli strada fino alla
stanza
attigua alla camera da letto padronale che occupava Cora.
Aiolos vi si affacciò per dare un’occhiata: la
stanza
sembrava avere un’aria d’altri tempi e anche
l’odore
che si respirava – e che impregnava i mobili antichi
– dava
l’idea di un passato stantio.
«No, grazie. Mi prendo il divano, se non ti
spiace», disse,
mentre tornava verso l’ingresso. Non poteva certo dirgli che
preferiva stare il più lontano possibile da loro due, nel
caso
avessero deciso di “dormire” insieme.
«Il divano è di là», disse,
indicandoglielo
con un movimento del braccio. «Per qualsiasi cosa dovessi
aver
bisogno, sentiti libero di fare come se fossi a casa tua.»
Poi,
entrò nella camera da letto di Cora.
Ora che la situazione iniziava a tornare un poco alla
normalità,
Saga sentiva scivolare via da sé l’effetto
dell’adrenalina che lo aveva tenuto in piedi fino a quel
momento.
Al tempo stesso, avvertiva gravargli addosso tutto il peso della
mancanza di sonno e lo stress di quella lunga giornata. Rimase per
qualche secondo a osservare Cora, seduta sul letto a gambe incrociate,
che accarezzava dolcemente il pelo lucido della gattina. Lentamente si
chiuse la porta alle spalle, lasciando però un piccolo
spiraglio. Si avvicinò al comodino e vi appoggiò
il
bicchiere.
Si sedette sul bordo del letto e notò come lei, in quel
momento,
si fosse irrigidita, scostandosi un poco da lui, aveva persino smesso
di coccolare Kitty.
«C’è qualcos'altro che ti
preoccupa?» le chiese con tono gentile, sfiorandole una
ciocca di capelli.
Cora scrollò la testa, ma non fu affatto convincente. Era
palese
che qualcosa la turbava, così come era evidente agli occhi
di
Saga che lei non se la sentiva di parlare.
«Solo…» La ragazza si morse il labbro e,
raccogliendo le ginocchia al petto, vi appoggiò la fronte.
«Mi vergogno per quello che è successo e di come
mi sono
comportata. Ho dato l’impressione di essere una sciocca
isterica;
una sprovveduta che si fa sopraffare dalla sua stessa ombra.»
«Hai avuto una reazione più che normale in quella
circostanza», la rassicurò lui.
L'attirò a
sé e l'abbracciò. «Ora è
tutto passato. Puoi
stare tranquilla. E poi…» continuò,
sorridendole,
«ora siamo di nuovo assieme», le
sussurrò.
Si staccò un momento da lei e la guardò,
rasserenandosi
nel vederla un poco più rilassata, mentre tornava a giocare
con
la gattina.
A fatica soffocò uno sbadiglio. La stanchezza che provava si
stava facendo ancora più pesante. Tentò di
allontanarsi
dal letto, ma si sentì tirate da dietro: con un dito Cora si
era
agganciata a uno dei passanti per la cintura dei jeans.
«Resta qui con me», supplicò lei,
tenendo lo sguardo basso.
«Non me ne sto andando, voglio solo fare il giro del letto e
mettermi dall’altra parte», le rispose Saga con un
sorriso.
Cora scrollò di nuovo la testa. «Sali da
qui.»
«Da qui?» si stupì lui.
«Allora fatti un po’ più in
là.»
Anche questa volta ci fu un diniego da parte di lei.
«E allora come faccio?»
Sbuffò sommessamente, portandosi le mani sui fianchi: a quel
punto l’unica soluzione fattibile era quella di scavalcarla.
Si
chinò in avanti, appoggiandosi con le mani al materasso e,
facendo attenzione, mettendo un ginocchio sul materasso,
salì
sul letto. Non si sentiva molto a suo agio in quella posizione: stava
praticamente gattonando sul letto. All’improvviso
sentì le
mani di Cora accarezzargli il viso, catturarlo e alzarlo verso di lei.
I loro occhi erano vicinissimi, così come i loro nasi e le
loro
bocche. Cora gli diede un bacio leggero, accarezzandogli ancora una
volta il viso e sussurrando piano un “grazie” che
lo fece
sentire appagato.
Pian piano, proprio come aveva detto il veterinario, la bestiola
iniziò a recuperare la sua vitalità. Anche se
ancora le
movenze e i riflessi non erano rapidi e scattanti, rispondeva con
più interesse ai movimenti del dito che Cora le agitava
davanti
al musetto, tentando di colpirlo con la zampina.
«Hai visto? Finalmente si sta riprendendo»,
esclamò
Cora, girandosi verso Saga, tutta entusiasta per quei piccoli progressi.
Lo trovò già addormentato, con la testa
appoggiata sulla
mano chiusa a pugno e il gomito affondato nel cuscino. Non
resistette e gli diede una carezza sul volto dolcemente
rilassato.
Con molta cautela, senza svegliarlo, lo aiutò a cambiare
posizione per prenderne una più comoda e tirò le
coperte
fino alle sue spalle. Con la punta delle dita gli scostò i
capelli dalla fronte e vi posò un bacio. Era così
bello
vederlo dormire. Sentiva il suo cuore più leggero,
perché
lui era lì con lei.
Spostò la gattina sul cuscino e si accoccolò
vicino a
Saga, appoggiandosi piano con la schiena al suo petto, chiudendo anche
lei gli occhi. In quel momento si sentiva protetta.
«Sei rimasta la mia unica certezza»,
mormorò Saga,
avvolgendola nella coperta e cingendole la vita in un abbraccio.
*****
Dallo spiraglio lasciato aperto Aiolos aveva assistito a quello
sdolcinato siparietto, osservando con insofferenza come entrambi i
giovani avessero ritrovato complicità e affetto. Senza fare
troppo rumore uscì dall’appartamento e si sedette
sui
primi gradini della rampa di scale, per riflettere. In mano stringeva
il cellulare. Compose il numero di casa Hayes. Stava per confermare la
chiamata quando si bloccò, ricordandosi solo in quel momento
dell’orario decisamente poco consono per una telefonata del
genere. Dal piano terra arrivavano i primi chiarori
dell’alba.
Preferì allora una più comoda e discreta e-mail
indirizzandola a Shura, nella quale spiegava la situazione, ma senza
scendere troppo nei particolari. Ci avrebbe pensato l’uomo a
rassicurare gli altri che tutto andava bene.
Si stiracchiò pigramente e scese al piano terra, dove
trovò quella che presumibilmente era la porta interna che
conduceva al negozio dove aveva visto entrare Saga il pomeriggio
precedente. Provò ad aprirla ma era chiusa a chiave. Allora
andò alla porta di servizio danneggiata, dalla quale stava
entrando l’aria fresca del mattino. Raccolse da terra uno dei
cocci e se lo rigirò nella mano esaminadolo con cura,
accigliandosi nel constatare che era un vetro spesso e resistente. Lo
lasciò cadere quasi con svogliatezza e trovò
conferma ai
suoi sospetti. Un altro particolare catturò la sua
attenzione:
quella porta sembrava sì vecchia, almeno quanto
l’immobile
– e non era quindi così strano che fosse anche un
po’ malconcia – ma era evidente che quei segni
così
marcati, quelle graffiature vicine alla serratura, non erano dovuti al
passare degli anni, ma a un’azione ben diversa.
Aprì la porta e si affacciò all'esterno, sul
cortile,
dando un'occhiata: era un banalissimo cortile interno che serviva
diverse palazzine, uno spiazzo cementato abbastanza grande per
permettere il parcheggio di una decina di auto e per fare manovra.
Vicino a uno dei muri c’erano dei grandi cassonetti per la
spazzatura, arrugginiti e ammaccati, accanto a un muro erano invece
stati abbandonati rottami di vario genere. Tutto sembrava nella norma.
Poco prima di decidersi a rientrare, Aiolos intravide una persona
appoggiata al muro di fronte, vicino a un’altra porta di
servizio, che sembrava lo stesse fissando con insistenza.
Lo sconosciuto si toccò il cappello in un gesto di saluto e
si dileguò dietro una porta metallica.
Aiolos rimase perplesso per qualche secondo. Poi, si mise la mano in
tasca per prendere nuovamente il cellulare e scattò qualche
foto, sia all’interno che all’esterno; e questa
volta,
senza farsi alcuno scrupolo per l’ora, chiamò il
padre.
Sapeva che quel giorno era di turno in caserma. Con tono molto formale
gli chiese di passare da quelle parti non appena gli fosse stato
possibile.
Infine, tornò in casa. La sonnolenza che si era insinuata in
lui
fino a un attimo prima, nonostante il tempo che aveva impiegato nel
fare il detective principiante, era ormai scomparsa, lasciando posto
alla noia. Essere l’unico sveglio in una casa completamente
estranea non era la migliore delle situazioni. Si mise a curiosare qua
e là, giusto per passare il tempo, in attesa della
colazione, ma
non c'era nulla che riusciva a interessarlo. Saga non gli aveva fatto
fare il giro della casa, ma Aiolia, qualche giorno prima, gli aveva
parlato di un certo tipo di materiale che Cora teneva in una delle
stanze da letto. Visto che era lì, e cnsiderato che non
aveva di
meglio da fare, perché non approfittarne?
Magari avrebbe trovato qualche altro quadernetto o dell'altro materiale
per approfondire la storia di Anthony.
La cameretta era proprio di fronte a quella che Saga gli aveva mostrato
in precedenza. Non appena aprì la porta,
notò che
era arredata per una bambina e riadattata per altri scopi. Era proprio
come gliel'aveva descritta Aiolia, con il computer sulla scrivania e
gli altri oggetti – che aveva visto nel bilocale –
sistemati un po' ovunque. Annuì, socchiudendo la porta e
allontanandosi da lì.
Entrò in cucina e si mise a frugare negli armadietti e nel
frigorifero; il sonno latitava, ma lo stomaco era ben presente e
iniziava a reclamare. Dall’armadietto angolare prese una
confezione di merendine. Di caffè non c’era
traccia, ma
nel frigorifero c’era del succo di frutta.
Dopo aver fatto il pieno, tornò nella cameretta.
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Capitolo 22 *** Capitolo XXI ***
XXI
«Buongiorno, Kanon», salutò Shura,
posando la tazza
di caffè sul tavolo; ricevendo invece dal giovane un gemito
straziato come risposta.
«Buon…» tentò Kanon, in uno
sbadiglio,
appoggiato stancamente con la spalla allo stipite della porta, mentre
con le mani faceva dei lenti movimenti circolari sulle tempie per
lenire il mal di testa. «Ma chi voglio prendere in giro, la
giornata è già iniziata da
schifo…»
bofonchiò.
Pallido in volto, arrancò fino alla caraffa del
caffè,
che vedeva come una cura miracolosa a quell’emicrania
devastante
che gli stava facendo scoppiare la testa.
«Sei uno straccio. Anche tu hai passato una
nottataccia?» domandò Shura, seguendolo con lo
sguardo.
«Sssssht… per carità, non
urlare», fece
l’altro, piegandosi sul piano di lavoro, incrociando le
braccia e
posandovi la fronte, sbuffando e gemendo.
A tentoni prese dal pensile una tazza, portandosela alla fronte: la
ceramica fredda gli diede un breve ma immediato sollievo. Poi, la
riempì fino a farla traboccare di caffè nero
ancora
fumante. Ne inspirò a lungo l’aroma e
sospirò di
beatitudine, prima di concedersi un bel sorso rigenerante.
«Ci voleva proprio!» esclamò, facendo
seguire altri
sorsi altrettanto lunghi, svuotandola in pochi secondi. Se ne
servì una seconda e si girò verso
l’altro,
appoggiandosi in modo rilassato al piano di lavoro. Di colpo il suo
viso sembrava essere tornato fresco e pimpante. «Che brutta
faccia che ti ritrovi», gli disse, sogghignando e prendendo
l’ennesimo sorso di caffè. «Hai due
occhi che
sembrano quelli di un pugile! Hai fatto a botte con qualcuno, oppure la
serata è stata più movimentata del
dovuto?»
«Non farei tanto lo spiritoso, se fossi in te»,
ribatté Shura, riprendendo in mano il quotidiano e dandogli
un
colpetto deciso per raddrizzare le pagine.
Con la coda dell’occhio seguì con divertimento i
movimenti
del ragazzo che nel frattempo si era seduto al tavolo con una fetta di
pane tostato che gli pendeva dalla bocca, l’altra mano invece
era
occupata dal barattolo di burro di arachidi.
«Ho saputo che anche tu ci hai dato dentro con i
divertimenti. Ti
sei scolato la riserva speciale di tuo padre o sbaglio?»
continuò, passando all’inserto sportivo.
«Le voci circolano alla svelta, in questa casa»,
disse
Kanon, accennando un sorriso pieno di soddisfazione, prendendo il
coltellino da burro e usandolo per spalmare la crema ambrata sulla
fetta di pane. «Ma non ero da solo, mio caro!»
Completata
l’opera, diede un bel morso, sporcandosi gli angoli della
bocca.
«Mmh… che delizia», mugulò
con la bocca piena, pronto a replicare.
«Beh, se non sei ancora stato esiliato da questa casa,
né
disconosciuto dalla famiglia, devo immaginare che sia stata la tua
notte fortunata, considerato quanto tuo padre tenesse a quel
liquore», scherzò Shura, abbandonando la sua
lettura e
appoggiandosi allo schienale della sedia per osservare meglio il
ragazzo.
«Dipende dai punti di vista. A essere sincero non mi sento
poi
così fortunato», sbuffò annoiato.
«Anche se
bere in compagnia di Saga è stato un evento eccezionale che
meritava qualcosa di davvero speciale! Mmmmh... Non ricordo
più
quando è stata l’ultima volta che
l’abbiamo
fatto.»
«Ora come ora, mi sa che neanche ti ricordi come ti
chiami», sogghignò Shura.
«E comunque, come punizione direi che questo mal di testa
è più che sufficiente. Tanto più
che…» controllò rapidamente
l’ora e con
evidente fastidio notò che aveva appena una
mezz’ora di
tempo prima del suo appuntamento, «fra poco dovrò
passare
al Country Club. Oh, mamma…» si
lamentò,
lasciandosi andare a una smorfia quasi di disgusto, perdendo quel poco
di buonumore che gli era rimasto dopo la sveglia della mattina. Si
portò entrambe le mani alla testa mugugnando qualcosa per un
improvviso giramento. «Non credevo che quella roba potesse
essere
così forte, andava giù così liscia che
sembrava
acqua.»
Si appoggiò con la fronte sul tavolo, fiacco, respirando
piano.
«Piuttosto…» Shura arrotolò
il giornale e lo
colpì piano la testa, «è successo
qualcosa di
particolare ieri sera?»
«Di che tipo?» chiese dall’oltretomba
l’altro.
«Non lo so, qualcosa di strano, o di inusuale.»
Kanon ci rimuginò su per qualche secondo, poi
alzò
lentamente la testa e allungò la mano a rubare un biscotto
al
cioccolato dal piatto di servizio posto in mezzo alla tavola.
«Qualcosa di strano…»
«Ma sì, con tuo fratello», lo
imbeccò Shura.
«Non mi pare. Più che altro direi nella norma di
questo
ultimo periodo», disse Kanon, masticando rumorosamente il
biscotto e mandandolo giù con un altro bel sorso di
caffè. «Se non consideriamo che Saga sembra aver
rispolverato quella sua vecchia paranoia… e se non contiamo
che
ha una nuova ragazza e quindi ha la testa fra le nuvole…
direi
di no!» disse, tutto soddisfatto, pescando un altro biscotto.
Allo sguardo interrogativo di Shura rispose con un ghigno. Poi, visto
che era in vena di fare follie, riprese il barattolo del burro di
arachidi e ne spalmò una generosa quantità sul
biscotto,
mangiandolo con gusto.
«Non penso che questa sia il suo tipo,
però»,
aggiunse, leccando il coltellino e chiudendo il barattolo.
«È simpatica e alla mano, forse un po' troppo
timida,
almeno per quel che ho potuto constatare di persona, ma sono convinto
che non durerà a lungo. Sai com’è fatto
lui, no? Il
suo problema è che quando gli piace qualcuna, poi diventa
troppo
zuccheroso! Se glielo fai notare, lui lo nega, ma neanche se ne accorge
che è proprio così! Sai, le donne trovano il suo
modo di
fare molto lusinghiero; lui però esagera a ricoprirle di
attenzioni e loro se ne approfittano. Oh, il mio povero fratellino
ingenuo», piagnucolò. «E poi, come ogni
volta,
papà diventa apprensivo. E sai chi è che deve
sorbirsi le
“sue” di paranoie?»
«Io!» rispose Shura, sghignazzando.
«Devo ammettere però che non mi ha dato
l'impressione di
una che avanzi pretese da principessina e Saga sembra fare veramente
sul serio questa volta», terminò, addolcendo la
voce e
accennando un sorriso.
Kanon fece un gran sospiro e terminò il suo
caffè. Ora si
sentiva decisamente meglio e anche i postumi della sbornia erano poco
più di un fastidio appena percettibile.
«E tu, sei innamorato di qualcuna?» chiese Shura,
avvicinandogli il piatto dei biscotti per invogliarlo a parlare ancora.
«Io non sono così stupido da sbandierare i miei
fatti
personali», ribatté il giovane, guardandolo negli
occhi,
spostando a sua volta il piatto, per riportarlo al centro del tavolo.
«A te invece, come stanno andando le faccende di cuore, in
questo
periodo?»
Shura rispose con una specie di grugnito, tornando a prestare
attenzione al giornale: proprio come Kanon, neanche lui amava parlare
della sua vita privata, men che meno di quella amorosa.
«A proposito, sono le dieci passate e non
c’è anima
viva in casa», commentò Kanon, alzandosi per
andare di
nuovo alla macchina del caffè. «Prima sono passato
dalla
camera di Saga, pensando di trovarlo ancora addormentato, ma il suo
letto era a malapena in disordine. Ho come la vaga sensazione che
questa notte sia venuto da me per chiedermi
qualcosa…»
«Te lo sei perso un’altra volta?» gli
domandò
l’altro, con un pizzico di sarcasmo nella voce, alzandosi e
avvicinandosi anche lui per prendere un altro po’ di
caffè. «Hai mai considerato di attaccargli un bel
guinzaglio al collo o fargli impiantare un microchip sotto la
cute?»
«Come si fa con i cani? Non mi tentare»,
sghignazzò Kanon, rabboccando la tazza di Shura.
«Che impegni hai al Country Club?»
«Le solite “pubbliche relazioni” con quei
giapponesi.
Sembra quasi che mi debba sposare con tutta la tribù,
anziché solo con quella ragazza», rispose il
giovane,
cambiando repentinamente di umore, tornando a uno più
scocciato.
«Ora credo proprio che mi tocchi andare.»
Shura allungò una mano e con la punta del pollice gli
sfiorò l’angolo della bocca, pulendola da una
briciola di
biscotto.
«Certe volte pare che tu sia rimasto un bambinone.»
«E a te invece piace fare la mammina premurosa.»
Un leggero sussulto di sorpresa arrivò da dietro le spalle
di
Kanon e li fece voltare entrambi verso la porta della cucina, dove si
erano fermati Shion Hayes e la giovane Saori. L'uomo fulminò
con
lo sguardo Shura, colpevole di essere stato beccato con la mano sul
viso del giovane.
«Buongiorno, papà!» salutò
con un sorriso
Kanon, completamente a suo agio in quella situazione.
«Buongiorno
anche a te, miss.»
«Potresti per cortesia chiamarla col suo nome,
Kanon?» lo rimproverò l'uomo.
«Hai ragione, sono stato sgarbato. Buongiorno,
Saori»,
ripeté il saluto, in modo più cortese e con voce
dolce,
facendola arrossire. «Non avevamo appuntamento al Country
Club?»
La ragazza abbassò lo sguardo e annuì,
tormentando il
manico della piccola borsetta coordinata al leggero vestito in seta dai
colori pastello che indossava quella mattina.
«Beh, ora che sei qui, che ne dici di fare una passeggiata?
Il
parco della villa è molto ampio e in questo periodo
dell’anno dà il meglio di
sé.» Si
avvicinò alla ragazza e le prese la mano. «Ci
vediamo
più tardi per sistemare quella faccenda, Shura. Il microchip
non
è affatto un’idea malvagia!»
ridacchiò,
salutando l’altro con un gesto della mano, prima di uscire
dalla
cucina in buona compagnia.
Dalla sera precedente, l’umore di Shion era mutato, ma in
peggio.
Se poche ore prima era gravato da preoccupazioni e timori per il
pericolo di perdere le persone che più amava, quella mattina
la
sua testa era piena quasi esclusivamente di pensieri per ciò
che
aveva scoperto per puro caso.
«Saga e Aiolos non sono ancora rientrati»,
esordì
Shura, con voce calma, seppur non senza un pizzico di incertezza.
Com’era intuibile, l’altro non gli rivolse la
parola. Lo
vide avvicinarsi, prendere una tazza dal pensile e servirsi del
caffè. «Te ne faccio ancora un
po’», si
offrì Shura: fra lui e Kanon ne avevano lasciato ben poco
agli
altri.
«Non importa», rispose Shion, in tono roco e
severo. Dal frigorifero prese del latte e lo versò nella
tazza.
«Ho ricevuto un'e-mail da Aiolos, questa mattina presto. Non
ti
devi preoccupare, ha scritto che Saga sta bene e che probabilmente
staranno fuori per tutta la giornata, o comunque, fintanto che Saga non
se la sentirà di tornare.»
Shion si limitò ad annuire distrattamente, sedendosi al
tavolo.
Avvicinò a sé il quotidiano e iniziò a
sfogliarlo,
prendendo di tanto in tanto un sorso dalla tazza.
«Da quanto tempo va avanti questa storia?»
domandò, senza staccare lo sguardo dalla lettura.
«Come?»
Nascosto dietro il giornale, il capofamiglia Hayes scrollò
la testa.
Shura non era uno stupido, anche se, con quella sua risposta, era
cosciente di aver commesso un errore ingenuo. Sospirò e si
mise
a preparare dell’altro caffè. Alle sue orecchie
arrivò il rumore stizzito della carta che veniva maltrattata
mentre l’altro girava la pagina.
«Quando abbiamo iniziato…»
provò a spiegare.
«Aiolos era già maggiorenne. Lo so cosa stai
pensando: che
l’ho visto nascere, che l’ho visto crescere, che
sono stato
presente in ogni fase della sua vita.» Shura
sospirò di
nuovo. «Non devo certo giustificarmi con te, né
con nessun
altro, ma se ti può consolare, non l’ho
traviato.»
Ebbe la sensazione di parlare al vento, o forse di convincere se stesso
della bontà del proprio comportamento, nonostante tutto;
eppure
sentiva perfettamente la presenza di Shion, lì in cucina con
lui, farsi sempre più ingombrante e pesante.
«Ora ci stai provando anche con Kanon?»
«Era un gesto innocente. Non puoi pensare davvero che potrei
toccare uno dei gemelli.»
«Con Aiolos non hai avuto alcun problema», gli
rinfacciò l'uomo.
«È stato lui a dichiararsi. E io…
sapevo che non
era giusto. Ho aspettato quasi due anni, sperando che la sua fosse solo
un’infatuazione. Ero sicuro che fosse confuso nella sua
sessualità, ma il ragazzo era determinato e alla fine me ne
sono
innamorato», si giustificò Shura, dando la schiena
a Shion
e appoggiando entrambe le mani al piano di lavoro.
«Lo sapevi bene che quei ragazzi erano intoccabili.»
Dopo quella lapidaria affermazione di Shion Hayes si sentì
il
rumore della sedia trascinata indietro e i passi dell’uomo
allontanarsi dalla cucina.
*****
Con il suo piccolo e umido tartufo nero, allungandosi più
che
poteva, stava annusando la punta dell’indice di quella mano
che
penzolava fuori dal divano, appena un poco. D’improvviso,
come
distratta da qualcosa, si girò per osservare tutto attorno a
sé. I suoi occhi erano attenti e le orecchie tese a captare
ogni
rumore, ogni possibile pericolo. Fece un giro su se stessa, un rapido
movimento della lingua e tornò a fissare la sua preda,
allungandosi nuovamente sotto di lei. Seduta sul parquet, con le zampe
posteriori piegate e la codina sdraiata sul legno lucido –
dritta
come un fuso – agitò una zampina in aria, per
cercare di
toccare quel dito: le sue sottili unghiette, candide e dolcemente
affilate, ben visibili.
Ci fu un leggero scarto della mano e un mugugno impercettibile, che
mise in allarme la piccola, facendola bloccare come una statuina; poi,
tutto tornò tranquillo.
Tentò ancora con la sua zampina, sfiorandola appena e
fermandosi; poco dopo, provò di nuovo, riuscendoci una
seconda
volta, un po’ più forte. Anche questa volta ci fu
una
reazione da parte della sua preda. La gattina rimase a fissarla con gli
occhi spalancati, le pupille belle tonde e completamente dilatate, per
la penombra nella stanza, piegando la piccola testa nera di lato.
Ancora una volta riprese a stuzzicare quella mano; e ancora, ancora,
ancora, sempre più incalzante, senza mai staccare il sedere
da
terra. Più quella mano faceva movimenti impercettibili,
più lei la fissava con occhi curiosi e acuti, più
aveva
voglia di continuare quel gioco. Un rapido movimento della sua piccola
lingua rosa, a inumidire il tartufo, e nuovamente puntò la
sua
attenzione su qualcosa che solo lei pareva percepire; rapida si
acquattò sotto il divano.
Tutto era tranquillo nella stanza. Eppure…
Passi lievi, silenziosi, sul vecchio parquet, si avvicinavano senza
fretta.
«Kitty, c’è la pappa!»
sussurrò Cora,
camminando leggermente chinata, passando dietro il divano. Faceva
strusciare a terra, agitandolo un poco, il piumino colorato della
gattina per catturarne l’attenzione.
L’aria nel salotto si stava riempiendo dell’aroma
di
caffè, di pane tostato e uova strapazzate che arrivava dalla
cucina.
«Kitty! Guarda che ti ho vista. Esci fuori!»
insistette, ma senza alcun risultato.
Non poteva alzare di più la voce, altrimenti avrebbe corso
il
rischio di svegliare Aiolos che dormiva sul divano; e non sarebbe stato
bello farsi vedere con in dosso solo una vecchia felpa e le mutandine.
Non poteva nemmeno andare troppo avanti e indietro per la stanza, per
cercare quella palletta di pelo, perché il risultato sarebbe
potuto essere il medesimo. Sbuffò stancamente, nascondendo
uno
sbadiglio, lasciando poi che il suo sguardo si posasse su
quell’ospite scomodo.
«Sembri persino carino, quando dormi»,
commentò con
un filo di voce. «Peccato che invece quando sei sveglio sei
uno…» Preferì trattenersi e fare un
respiro
profondo, piuttosto che terminare la sua considerazione.
Subito dopo tornò a prestare attenzione a quella che era la
sua
priorità: cercare la piccola birbante prima che potesse
combinare qualche guaio; era in casa da troppo poco tempo e ancora non
si era abituata né alla cassettina, né alla
lettiera, per
fare i suoi bisognini.
«Kitty», bisbigliò un’ultima
volta. Dopo
qualche minuto, passato a frugare con gli occhi dappertutto nel
salotto, arrivando anche a guardare dietro le tende, facendo
però sempre attenzione ad Aiolos, sospirò e si
arrese.
Era ormai evidente che la gattina non voleva farsi trovare da lei,
quindi tornò alla svelta in cucina.
La piccola peste sbucò fuori dal suo nascondiglio.
Continuò a rimanere circospetta, allungando il musetto nero
sul
parquet, osservando in direzione della cucina. Poi, girò la
testolina di scatto e uscì completamente da sotto il divano,
puntando lei, ancora lei: quella mano che tanto la stava facendo
ammattire e che era diventata la sua ossessione. Uno slancio agile,
allungando il suo corpicino fine e delicato, e finalmente
riuscì
ad addentare uno dei polpastrelli, provocando però a
malapena un
po’ di solletico, ricadendo infine a terra goffamente: era
ancora
troppo piccola per poter fare danni maggiori.
«Mmh…» mugugnò Aiolos,
girandosi un poco di fianco e portando la mano sul petto.
Kitty rimase sul posto per qualche secondo, come stordita, dopo
quell’atterraggio non proprio aggraziato. Non era la prima
volta
che mostrava le sue scarse doti feline; ma, ciò nonostante,
niente l’aveva fermata dal continuare a mettersi in quelle
situazioni. Drizzò le orecchie, scattando in piedi e
tendendo
subito il corpo verso la cucina. Per una frazione di secondo,
l’orecchio destro si mosse un poco, dopo aver sentito ancora
qualche leggero lamento provenire dal divano, ma ormai aveva perso
interesse per quel gioco. Puntò la sua attenzione su un
punto
particolare e corse verso la cucina, da dove sentiva arrivare
l’invitante rumore dei croccantini agitati nella scatola
dalla
sua padrona.
«Eccoti qui, finalmente!» disse Cora, vedendo
comparire
quella piccola ombra nera, mentre versava la porzione di croccantini
nella ciotola. Nel privato della cucina, la voce della ragazza era
più spontanea e rilassata. «Non devi giocare con
quello
là; non sai cosa ti potrebbe succedere», la
sgridò,
stuzzicandola con il dito sulla codina, approfittando di quel momento
di calma e docilità di Kitty: la piccola infatti era tutta
impegnata ad allungarsi per annusare il contenuto della ciotola. Poi,
una volta che la vide iniziare a mangiare, pensando che tutto stesse
procedendo per il meglio, le accarezzò piano la schiena.
A quel contatto però, Kitty fece uno scatto di lato, finendo
con
una zampina nella ciotola dell’acqua lì vicina e
rovesciandone fuori un po’, fissandola con gli occhi
sgranati.
C’era uno strano rapporto di diffidenza fra le due. Rimasero
a
sfidarsi per diversi secondi: Cora accovacciata da un lato della
ciotola, in una posizione ben poco “dignitosa”, e
Kitty
dall’altra parte, che agitava convulsamente la zampetta
bagnata,
schizzando gocce d'acqua dappertutto, senza distogliere un attimo lo
sguardo da lei.
«Guarda che non sono mica infetto, né mi metto a
picchiare
gli animali, anche se questi mordono a tradimento»,
esordì
Aiolos, appoggiato tranquillamente con la spalla a uno degli armadietti
della cucina e con un mezzo sorriso di scherno sulle labbra.
«Ma
forse, a ben vedere, è da te che dovrebbe
guardarsi.»
Cora si girò sorpresa nell’udire quella voce,
Kitty invece
sgattaiolò fuori, correndo senza fermarsi fino alla porta
della
camera da letto e intrufolandosi dentro.
«Non è educato arrivare alle spalle della
gente.»
«Così come non è educato fare certi
“apprezzamenti” quando la gente dorme. Anche se poi
non
vengono espressi apertamente…» ribatté
l’altro, per nulla impressionato dallo sguardo della ragazza
che
nel frattempo si era rimessa in piedi.
Vedeva come si stava muovendo nervosa, tirava quella povera felpa verso
il basso con la mano libera, cercando al tempo stesso di coprirsi anche
con la scatola dei croccantini.
«Che c’è di buono per
colazione?» chiese Aiolos, con tono decisamente sarcastico.
«Arrangiati con questi!» esclamò invece
Cora,
lanciandogli addosso la scatola di croccantini e correndo subito verso
la porta della cucina.
La sua fuga venne bloccata dal ragazzo, che la trattenne con la forza
per un braccio. Dati i loro precedenti, era palese che fra loro due non
corresse buon sangue e anche questa occasione non faceva eccezione,
tanto più che Aiolos era urtato dall’essere stato
scaraventato senza volerlo in una situazione per lui fastidiosa.
«Non farmi passare per il bastardo della
situazione», le
disse, stringendo un poco la presa e guardandola intensamente, prima di
lasciarla andare. Lei non gli piaceva e sentiva che
dall’altra
parte il sentimento era reciproco. «Eravamo tutti stanchi e
per
ragioni diverse anche sconvolti. Non era mia intenzione sminuire
ciò che hai passato», provò a
giustificarsi; vedeva
però come le sue parole non riuscivano a convincere la
ragazza.
Cora lo fissò negli occhi per qualche momento, ma non
poté resistere a lungo allo sguardo serio del ragazzo.
Iniziò a tormentarsi il labbro, il suo cuore prese a battere
agitato e deboli fitte si facevano sentire allo stomaco. Negli ultimi
anni mal sopportava la tensione e lo stress, in qualsiasi misura si
presentassero, ancor meno poi dopo la terribile notte appena passata.
«Probabilmente non hai mai avuto animali domestici e per
questo
hai giudicato in modo superficiale. Sei scusato, ma non sei
perdonato», rispose lei, accettando le scuse
dell’altro, ma
erano ben lontani da un chiarimento definitivo.
Aiolos la lasciò andare, allontanandosi da lei per occuparsi
di
qualcosa che, in quel momento, gli interessava di più. Si
avvicinò ai fornelli e diede un’occhiata veloce,
inspirando profondamente l'odore che sprigionava la padella ancora
calda.
«Le uova sono troppo cotte, sono poche e… se
volevi farle
strapazzate come nelle ricette degli chef stellati, hai dimenticato di
mettere il formaggio cremoso», le fece notare, senza molto
tatto.
«E poi non hai preparato il bacon», aggiunse.
«Non ce l’ho, non l’ho
comprato.»
«Nessuno rimane senza bacon!» ribatté
Aiolos,
scandalizzato. «Non sei un vero americano se non hai del
bacon!»
«Che vuoi che ti dica… evidentemente non sono una
buona americana», fece spallucce, Cora.
Aiolos però notò come lei avesse fatto fatica a
nascondere quanto in realtà si fosse risentita di
un'affermazione che reputava innocua. In quel momento gli
tornò
in mente un accenno del passato della famiglia Miller che il vecchio
vigile del fuoco gli aveva raccontato, ovvero che il nonno della
ragazza riteneva lei e la madre delle “straniere”,
nell’accezione negativa del termine. E chissà
quante volte
se l’erano sentito ripetere, più o meno
apertamente. Si
portò una mano al mento, rimuginando per qualche secondo.
«Anche dei mini hot dog andranno bene», le disse,
pensando di rimediare.
«Bene. Allora esci e comprateli!» gli
urlò Cora,
già fin troppo esasperata dall’atteggiamento
dell’altro, uscendo dalla cucina di corsa per rifugiarsi in
camera da letto.
«Complimenti, idiota, hai fatto la frittata. E questa volta
non
puoi darle torto se è stata sgarbata. Fare lo spiritoso per
stemperare la situazione non è proprio il tuo
forte…» si rimproverò, passandosi una
mano fra i
capelli scompigliati.
Cora si appoggiò con la schiena alla porta chiusa della
camera
da letto. Aveva il fiatone, il cuore batteva forte nel petto che si
alzava e abbassava ferocemente. Teneva la testa bassa e lo sguardo a
terra. Nella stanza, in penombra, c’era silenzio.
«Cora?» la chiamò Saga, con voce
impastata,
tirandosi un pochino su, facendo cigolare il letto.
«C’è qualcosa che non va?»
«Va tutto bene», rispose lei, sorridendo
lievemente. «La colazione è pronta.»
Saga si passò una mano sugli occhi e si voltò
verso la
sveglia, che segnava le dieci e mezzo passate. Poi, si
lasciò
cadere di nuovo con la testa sul cuscino. «Non ne ho
voglia», disse, girandosi sul fianco.
Da sotto una piega della coperta spuntò fuori Kitty che
subito
si arrampicò sul cuscino e, con il suo grazioso musetto, si
avvicinò al viso del ragazzo. Con il suo giovane e morbido
pelo
accarezzava dolcemente la pelle di Saga, provocandogli un leggero
solletico, affatto fastidioso. Insistendo in quelle coccole, la gattina
gli sfiorò più volte le labbra con il tartufo
umido,
leccandole con qualche movimento rapido della lingua.
«Anche tu vuoi che mi alzi?» sussurrò
alla piccola
di casa, lisciandole il pelo della gorgiera, morbida e setosa, con un
dito.
«Sì, anche lei vorrebbe che tu ti
alzassi», rispose
Cora per la gattina, sedendosi sul bordo del letto e accarezzando a sua
volta il braccio del ragazzo.
Solo un'altra volta lo aveva visto dormire fino a tardi, ma glielo
poteva concedere, visti i problemi che lei gli aveva causato. Anzi, era
bello averlo lì con lei. Per più di un minuto
rimase a
rimirare la schiena di Saga, prima di accoccolarsi accanto a lui,
mettendosi schiena contro schiena.
«A quest’ora il pane tostato sarà
diventato gommoso
e immangiabile», disse, provando a scuoterlo leggermente,
senza
ottenere alcuna reazione. «Le uova saranno fredde, o forse se
le
sarà mangiate tutte il tuo amico, anche se non ha fatto
altro
che lamentarsi di come le ho preparate», riprovò,
rannicchiandosi ancora di più e sbuffando sommessamente.
«Non fa niente, non mi piacciono le uova.»
Cora gli diede un colpetto, ridacchiando al sospiro che
sentì provenire da lui.
«Allora cosa preferiresti?»
«Vorrei…» iniziò Saga,
riflettendo per
qualche istante, mentre le dava ancora le spalle e continuava a giocare
con Kitty, che sembrava gradire molto, «latte e cereali al
cioccolato.»
«Ma…» Cora si tirò su di
scatto, rimanendo a bocca aperta.
Con una mossa fulminea, Saga la ribaltò sul letto, facendole
sfuggire un gridolino di sorpresa e bloccandola poi col peso del suo
corpo. Sul suo viso c’era un sorriso meraviglioso che diceva
quanta voglia avesse di giocare. Le diede un bacio leggero sulle labbra
e le accarezzò una guancia, scostandole i capelli dal viso.
Era
così diverso da poche ore prima...
«Scommetto che vorresti anche la sorpresa nella
scatola», disse lei, guardandolo con occhi languidi.
«Naturalmente.»
Poi, ci furono altri baci, teneri e appassionati, e la mano di Saga che
lentamente scendeva a sfiorarle la coscia nuda in un romantico
preliminare.
«Non davanti a lei…» mormorò
Cora, con finto
imbarazzo, ansimando per quelle carezze intime e i baci sul collo che
le provocavano brividi di piacere. Con le mani però, stava
già sbottonando i jeans del ragazzo.
«Non ti preoccupare, Kitty non è gelosa.»
*****
«Ora sei disposta a dirmi qual è il vero motivo
per il
quale hai preferito venire qui, anziché rimanere al Club con
i
tuoi familiari?» chiese Kanon; passeggiavano a braccetto sul
prato ancora umido di rugiada di quella mattina di primavera.
Avvertì la mano di Saori stringersi per un attimo attorno al
suo
braccio, prima di rilassarsi nuovamente e tornare a essere il lieve ed
elegante tocco che era stato fino a quel momento.
Dopo quella che poteva essere considerata una
“fuga”
frettolosa dalla cucina, sperando di trovare un po' di
tranquillità, constatò a malincuore che la
compagnia
della sua ospite non stava affatto mutato la sensazione che aveva
provato durante la colazione con Shura. E ora, ecco che accanto a lui
c’era un’altra persona che pareva nascondere
qualcosa.
Infatti, lo strano comportamento della ragazza non era sfuggito ai suoi
occhi. Per tutto il tempo della passeggiata, Saori gli diede
l’impressione di essere nervosa e indecisa, più di
quello
che mostrava di solito quando era in sua compagnia.
Ciò che distoglieva l’attenzione della giovane
dalle
parole di Kanon – e non le faceva godere quella bella
giornata e
il parco lussureggiante che per molti aspetti le ricordava quello che
circondava la villa che la sua famiglia possedeva a Nagano –
era
il pensiero di riuscire a sfuggire a una persona.
Kanon si fermò, lasciando che lei proseguisse di qualche
passo.
Sorrise malizioso nell'osservarla continuare a camminare, ma dentro di
sé era seccato perché lei neanche se n'era
accorta. Si
mise le mani in tasca e fece vagare lo sguardo sull’immenso
parco
della villa, che arrivava addirittura sulle sponde del lago Mystic,
perdendosi qualche secondo nei suoi pensieri. Anche lui, come tutti,
aveva i suoi problemi e le sue preoccupazioni.
Piegò la bocca in un mezzo sorriso nell'avvertire d'un
tratto su
di sé gli occhi della giovane, ma forse chi lei stava
guardando
veramente era qualcun altro. Aveva notato già da tempo
un'ombra
che si nascondeva dietro agli alberi del boschetto lì vicino.
«Beh, è evidente che la mia compagnia non ti
interessa,
quindi io tolgo il disturbo. Se vuoi tornare al Country Club, senza
essere vista da occhi indiscreti puoi prendere quel
sentiero»,
disse, indicandoglielo con un cenno della testa. Poi, riprese a
camminare, dirigendosi verso il pontile.
Saori sapeva dov'era il passaggio di cui parlava Kanon, era lo stesso
che aveva usato quella mattina per arrivare alla villa, ciò
che
invece fissava era lo sguardo insistente di Seiya, che l'aveva tenuta
d'occhio per tutto il tempo. Era sicura che fosse lì per
riportarla indietro, proprio come faceva ogni volta che lei si
allontanava troppo dal controllo della famiglia, nonostante i
sentimenti che provava per lei.
Strinse la borsetta fra le mani, indecisa su cosa fare. Poi, si
girò verso Kanon, osservando la sua schiena mentre si
allontanava e lo seguì di corsa. «Ti prego,
aspetta! Mi
dispiace, non volevo essere così maleducata. Per
favore...»
Saori inciampò su una piccola zolla leggermente sollevata,
cadendo a terra in modo goffo, complici anche i sandali che calzava,
con tacchi con la punta sottile – anche se non troppo alti
– che non erano molto adatti su una superficie soffice come
quel
prato.
«Ti sei fatta male?» chiese Kanon, accorrendo e
chinandosi su di lei.
Saori scrollò la testa, ma teneva lo sguardo basso, mentre
si
metteva a sedere, stringendo i pugni sulla gonna chiara che si era
sporcata di erba. La sua borsetta era caduta poco più avanti.
«Non ti credo, altrimenti non avresti gli occhi pieni di
lacrime», le disse, alzandole il mento.
Si raddrizzò e guardò nella direzione del giovane
nipponico che in quel momento era uscito allo scoperto, pur rimanendo
vicino al tronco. Lo fissò per diversi secondi, prima di
fargli
segno di avvicinarsi, ma quando vide che l'altro non era intenzionato a
muoversi, fece spallucce.
«Ce la fai ad alzarti e a tornare alla villa?» le
chiese, chinandosi di nuovo.
Non le diede il tempo di rispondere, le passò un braccio
dietro
la schiena e l’altro sotto le ginocchia e la
sollevò da
terra.
«Fammi scendere, riesco a camminare anche da sola!»
protestò debolmente la giovane, arrossendo e stringendosi
con la
mano al maglione del ragazzo.
«Se lo sforzi adesso potrebbe gonfiarsi», le disse
lui, in
tono comprensivo, indicandole il ginocchio sbucciato. «Pensi
che
il tuo amico si unirà a noi?» Si volse di nuovo
verso il
boschetto e urlò al giovane. «Ehi, ragazzo, noi
stiamo
tornando in casa!» lo avvertì.
*****
«Santo cielo! Kanon! Cosa ti è
successo?»
esclamò Nanny, portandosi le mani al petto nel vedere il
ragazzo
uscire dal bagno del piano terra con il maglione imbrattato di sangue.
Kanon si fermò di colpo e la fissò con occhi
sgranati. Si diede un’occhiata e sorrise.
«Questo dici? Non ti preoccupare, devo essermi sporcato
quando ho
riportato in braccio la nostra ospite. È caduta mentre
facevamo
una passeggiata», le raccontò, avvicinandosi a lei
e
dandole un bacio sulla guancia.
«Povera ragazza, si è fatta male?»
«Non troppo. L’ho fatta sedere sul divano del
soggiorno. A
proposito, dov’è la cassetta del pronto soccorso?
Non
riesco a trovarla.»
«La tengo in cucina, nel mobiletto sotto il
lavello»,
rispose la donna. Nonostante le rassicurazioni di Kanon, non era del
tutto convinta. Con le mani rugose iniziò a tastare con cura
il
petto del ragazzo per accertarsi delle sue condizioni.
«Guarda che io sono tutto intero», le
ripeté,
prendendole le mani. Poi, le passo un braccio sulle spalle ancora forti
e la strinse a sé. «Dai, accompagnami in
cucina.»
«Sai se si fermerà a pranzo?» chiese
Nanny,
cambiando argomento: visto l’approssimarsi del mezzogiorno,
doveva organizzarsi.
Kanon corrugò la fronte, poiché non sapeva cosa
risponderle; quando entrarono in cucina fu investito da un odorino
davvero invitate. La cuoca Francine stava lavorando alacremente fra i
fornelli e tutto l’ambiente era pervaso dal profumo della
torta
che stava già cuocendo in forno, mentre il piano di lavoro
era
pieno di ingredienti per le pietanze che aveva deciso di cucinare per
pranzo.
Il ragazzo curiosò un po’, inspirando a lungo e
tentando
più volte di rubare qua e là qualcosa, riuscendo
però solo a prendere un pezzetto di sedano.
«Cosa ci prepari di buono?» chiese alla cuoca.
Francine era una strana donna: ottima cuoca che probabilmente avrebbe
fatto la fortuna di qualsiasi ristorante in cui avesse lavorato, ma era
poco incline alla socializzazione; neppure dopo tutti gli anni che
aveva passato in quella casa – ed erano ormai quattordici
–
riusciva ancora a dare confidenza ai membri maschi della famiglia
Hayes. L’unica amica che aveva in quella casa era la
governante,
che preferiva chiamare mrs Foster, anziché Nanny come
facevano
tutti.
Alla domanda di Kanon la donna non rispose nulla, limitandosi a
scoprire da sotto gli strati di carta assorbente un meraviglioso pezzo
di filetto di manzo che aveva appena tolto dalla marinatura: emanava
ancora un forte odore di vino.
«Brasato di manzo? Ho già acquolina in
bocca!»
disse, stupito e già ingolosito, alzando lo sguardo su
Francine
che invece reagì come sempre, ovvero girandosi dall'altra
parte
e continuando a lavorare. «Non ce l’ha con me,
vero?»
disse con un'espressione da cucciolo abbandonato, rivolgendosi alla sua
Nanny.
«No, piccolo mio, non ce l’ha con te. Lo sai,
è
fatta così!» rispose lei, con un sorriso
affettuoso.
«E per dessert ha preparato qualcosa di speciale: la
cheesecake
newyorkese. È la tua preferita, vero?»
Kanon tornò a sorridere all'istante. «Si festeggia
qualcosa di particolare?»
«L’altro giorno c’era qualcosa di
speciale per tuo
fratello, oggi invece tocca a te. Perché non faccio
preferenze», gli disse con dolcezza, dandogli una carezza.
«Dimmi la verità: cosa c’è
sotto?»
chiese lui, diffidente, trafugando anche un pezzetto di carota, che
sapeva di vino.
«Allora, la tua ragazza rimarrà a
pranzo?» sviò la domanda Nanny.
«Penso che glielo chiederò. E già che
ci siamo, fai
preparare anche per un altro ospite. Ho la sensazione che presto se ne
aggiungerà uno all’ultimo momento», le
rispose lui,
dandole un bacio.
Poi, sotto l'occhio vigile di Francine, recuperò la cassetta
del
pronto soccorso e prese un paio di bibite dal frigorifero, prima di
uscire per raggiungere Saori in soggiorno.
«Ti sei dimenticato di prendere del ghiaccio!» lo
richiamò Nanny, prendendo in fretta una manciata di cubetti
dal
freezer e mettendoli in una ciotola. «Se è caduta,
ne
avrà bisogno.»
«Sei insostituibile», disse lui, liberandola dalla
ciotola e stringendola in un forte abbraccio.
«Eccomi di ritorno! Scusa se ti ho fatto attendere, ma non
trovavo il disinfettante e i cerotti. Come va?»
domandò a
Saori, fermandosi proprio di fronte a lei, appoggiando ciò
che
aveva in mano sul tavolino.
La ragazza era seduta sul divano, ma con le gambe distese a occupare
tutto il restante spazio. Il suo viso era gentilmente corrucciato e
dolente. Con una mano teneva un fazzoletto premuto sulla ferita, mentre
l’altra, sbucciata anc'essa, la teneva col palmo rivolto in
alto
e vicina al petto. I suoi occhi erano arrossati: era evidente che, nel
tempo in cui lui era rimasto lontano, avesse pianto.
«Tieni, bevi qualcosa, intanto che io do
un’occhiata», le disse, porgendole una delle
bibite. Si
inginocchiò e alzò il fazzoletto, ormai striato
di
sangue. «Potrebbe bruciare un po’»,
l'avvertì,
mentre apriva la bottiglietta di disinfettante e ne lasciava stillare
il liquido sulla ferita.
Poi, con una garza sterile iniziò a pulire e tamponare tutto
attorno, per togliere i residui di erba e terra, prima di spalmare la
pomata cicatrizzante. Stava usando una tale delicatezza nei suoi gesti
che Saori involontariamente arrossì.
«Lo fai spesso?» gli chiese.
«Cosa, rattoppare le ragazze dopo una caduta
maldestra?» la schernì lui. «No, tu sei
la prima.»
Nonostante la presa in giro che la fece arrossire di nuovo, Saori si
sentì rasserenata. Riconobbe lo stesso ragazzo dolce e
gentile
che aveva incontrato la prima volta, ma senza la sfacciataggine che
aveva mostrato in seguito. Anche se non voleva darlo a vedere, si
sentiva onorata di tale trattamento: si sentiva come una principessa.
Kanon alzò lo sguardo su di lei, vedendo una lieve smorfia
sulle
sue belle labbra carnose. «Fammi vedere quella
mano», le
disse, distogliendosi dal ginocchio per concentrarsi
sull’altra
ferita.
Le prese la mano e la tirò un poco a sé,
replicando le
stesse operazioni fatte in precedenza. La sbucciatura era
più
evidente e profonda rispetto a quella sul ginocchio. Dalla cassetta del
pronto soccorso prese il rotolo di garza e bendò con qualche
giro la mano, accarezzandole il palmo una volta terminato.
«Questa è a posto.»
«Grazie.»
Un toc toc contro gli infissi di legno della finestra del soggiorno,
ruppe l’incanto di quel momento, facendo sobbalzare Saori.
«Seiya…» sussurrò la ragazza,
che subito,
ancora più imbarazzata di prima, abbassò la gonna
per
coprirsi pudicamente le gambe.
«È permesso?» chiese il giovane in un
inglese stentato, con tono titubante.
«Ah! Finalmente ti sei deciso», disse Kanon,
scostando di
nuovo la gonna della ragazza per terminare la medicazione al ginocchio.
«La tua borsetta, Saori… era rimasta sul
prato», si giustificò il giovane.
«Vieni avanti, accomodati. Sei invitato a unirti a noi per il
pranzo», gli disse, continuando a dargli le spalle, lo vedeva
però riflesso sullo specchio della vetrinetta antica
appoggiata
sulla parete opposta alla finestra. «Ecco fatto,
miss»,
decretò la fine della medicazione, una volta fasciato anche
il
ginocchio e fermato la garza con il gancino.
Si alzò e, dalla ciotola, prese una manciata di cubetti di
ghiaccio che avvolse in u panno leggero, appoggiando infine quel
fagotto sul ginocchio della giovane.
«Tienicelo sopra, così non si
gonfierà», le
ordinò. Si chinò un'ultima volta su di lei e le
diede un
bacio, il loro primo bacio. La sua bocca sapevano di lucidalabbra alla
fragola: in fin dei conti era ancora una bambina. «Vi lascio
da
soli», le sussurrò, con un sorriso malizioso,
vedendola
arrossire ancora di più.
*****
Cora aprì la porta con cautela. Ancora accaldata e con il
cuore
che batteva forte per l'emozione, diede una sbirciatina fuori: tutto
sembrava calmo. Poi, si girò verso il letto, soffermandosi a
guardare Saga, il suo ragazzo, sdraiato di traverso e sul fianco, che
stuzzicava la gattina semi sepolta dalle pieghe delle coperte, tutta
intenta ad arruffarle ancora di più.
«Prima ti ho mentito. Non è vero che non mi
piacciono le
uova; e cucinate strapazzate sono le mie preferite. Però, in
qualunque modo tu le abbia preparate andranno benissimo», le
disse. Il suo viso aveva ritrovato la serenità che gli era
mancata quella notte.
«Ormai saranno davvero immangiabili; e poi, credo di aver
fatto
un mezzo disastro», rispose lei, con un pizzico di vergogna
che
le imporporava le gote. Non che fosse una cuoca da stelle Michelin, era
a un livello dignitoso, considerato che aveva iniziato presto ad
arrangiarsi da sola perché la madre era troppo impegnata
Mickey,
ma almeno le uova le aveva sempre sapute cuocere alla perfezione,
soprattutto perché lei ne era ghiotta e non le dispiaceva
sperimentare.
«Faccio una corsa a comprare qualcosa, altrimenti davvero
sarai
costretto a mangiare cereali e non saranno quelli al cioccolato,
perché non ci sono; e anche senza latte, perché
anche
quello è quasi finito», gli disse, sorridendo come
una
bimba dopo una marachella. «Quindi hai tutto il tempo di
farti
una doccia e rilassarti ancora un po’, se vuoi.»
«Se Aiolos è ancora qui, chiedigli di
accompagnarti.»
«Ma il minimarket è a due passi. Non ho bisogno
della
balia per attraversare la strada!» protestò Cora.
«Lo so. Però mi faresti stare più
tranquillo», disse Saga, alzando lo sguardo su di lei.
Cora sospirò. Non per la visione del suo ragazzo, sul letto
e
coperto a mala pena da un lembo del plaid; né per quella che
le
sembrava una mancanza di fiducia nei suoi confronti, anche se
mascherata da tenera preoccupazione, ma era l’idea di doversi
portare appresso Aiolos a disturbarla.
Appoggiò la testa alla porta e si sofferò ancora
qualche
secondo a guardare Saga che giocava con Kitty. Il suo sorriso era
così accattivante, quando era rilassato come in quel
momento.
Aprì piano la porta e uscì. Il chiarore che in
quel
momento entrò nella stanza svelò l’aura
di sopore
di cui era impregnata.
L’anticamera era sgombra. Dalla cucina veniva un invitante
profumino di pancetta croccante e di carne rosolata nel burro. Chiuse
gli occhi e inspirò profondamente. Le sembrava persino di
sentire il leggero sfrigolio che faceva il burro nella padella. Poi,
una strana idea le balenò in testa, come se si fosse
ricordata
di aver dimenticato qualcosa sul fuoco, ma lei era sicura di aver
spento tutto. Si diresse in cucina a grandi passi, fermandosi sulla
soglia e stupendosi di ciò che i suoi occhi stavano vedendo.
«Alla buon’ora!» disse Aiolos, voltandosi
appena
verso di lei e accennando un sorrisetto malizioso, tornando poi a
prestare attenzione alla padella sfrigolante. «Il
bell’addormentato ha intenzione di dormire ancora, per
riprendersi dalla fatica della “sveglia”, oppure si
unirà a noi per il pranzo?»
«Pranzo?» chiese Cora, confusa.
Quando si era rifugiata in camera da letto non era poi così
tardi. Il suo viso diventò rosso nel cogliere in ritardo
l’allusione che fatta dall’altro. Ciò
che aveva
temuto di più, ovvero che li avesse sentiti fare l'amore,
era
avvenuto. Di solito lei non era tipo da urlare o gemere forte, ma
questa volta… forse anche un po' per colpa di Saga che era
stato
molto appassionato, senza rendersene conto si era lasciata andare un
po’ troppo.
«Non sentirti troppo in imbarazzo», la
rassicurò
lui, nonostante la sua voce e il suo atteggiamento esprimessero ben
altro. «Dopo i primi cinque minuti di concerto sono andato a
farmi un giro. Ne ho approfittato anche per comprare il bacon,
così non rimarrai senza la prossima volta», le
disse,
rigirando con la pinza gli involtini, per farli rosolare anche
dall’altro lato. «Spero che ti piacciano. Sono
involtini di
vitello, avvolti nella pancetta e ripieni con spinaci e formaggio.
È una ricetta di mia nonna che ci faceva quando eravamo
piccoli.»
La diffidenza di Cora verso di lui era giustificata, ma in quel momento
c’era qualcosa di diverso nel ragazzo che glielo stava
facendo
vedere sotto una luce diversa. Davanti ai fornelli, impegnato a
preparare quel piatto tanto semplice quanto appetitoso – e il
profumino che veniva dalla padella le aveva risvegliato lo stomaco
– Aiolos non sembrava più il ragazzo antipatico e
indisponente col quale si era scontrata anche prima, ma un bel ragazzo,
sereno, sicuro di sé, affidabile e gentile.
«E… ve li faceva spesso?» gli chiese,
provando a
intavolare una conversazione civile, sentendosi stranamente a suo agio.
«Praticamente tutti i giorni, per quasi due anni; e solo
perché la principessina Saga si era impuntato a non voler
più mangiare le verdure», rispose lui,
sogghignando e
spegnendo il fuoco.
Cora giurò di aver sentito una punta di malignità
e
divertimento nel tono del ragazzo. Dentro di sé si
rimangiò subito la considerazione positiva appena fatta.
Aiolos avvolse il manico della padella con lo strofinaccio e si
avvicinò ai tre piatti che aveva sistemato lì
vicino in
precedenza, servendo due involtini a testa. «E
quello»,
continuò come nulla fosse, prendendo poi una grossa ciotola
di
insalata di cavolo dal tavolo, «era l’unico modo
che aveva
escogitato mia nonna per fargliele mangiare senza che lui si mettesse a
fare i capricci.»
«Io la ricordo in modo differente», intervenne
Saga,
affacciandosi in cucina giusto qualche secondo dopo, con i capelli
ancora umidi e tutti pettinati all’indietro.
«Tu ricordi male», ribatté con tono
sicuro Aiolos.
«Per colpa del…» disse, lasciando
volutamente in
sospeso la frase, ma toccandosi con un dito la tempia destra.
«Non c’entra niente. Hai raccontato una cosa
antecedente», insistette Saga, con una sottile vena di
irritazione nella voce.
Inconsciamente però, si era portato una mano alla tempia,
stuzzicandosi la piccola cicatrice, abbassando lo sguardo. Sapeva che
l’altro non aveva poi tutti i torti: c’era stato un
lungo
periodo, anche dopo la convalescenza, in cui aveva continuato a
confondere ricordi e situazioni, ad avere problemi di concentrazione e
ad avere momenti in cui si perdeva letteralmente nel vuoto; ma quel
tempo era passato da un pezzo e la sua testa era tornata a funzionare
bene, senza più alcuna ricaduta. Almeno, così
aveva
sempre pensato.
Aiolos si limitò ad alzare le spalle, quasi a voler dire che
non
riteneva importante ciò che sosteneva Saga, e a terminare
l’impiattamento. Cora invece, con la confusione nello
sguardo, si
sentì come in mezzo a due fuochi; non riusciva a capire a
cosa
si stessero riferendo. Si voltò verso Saga e lo vide un poco
turbato.
«Come mai avevi smesso di mangiare le verdure?» gli
chiese
con tono dolce e compassionevole e una genuina curiosità di
voler conoscere un aneddoto della sua infanzia.
Saga le sorrise, di nuovo rasserenato. «È stato
quando
Kanon mi mise un lombrico nell’insalata»,
raccontò,
senza imbarazzo. «Avevamo più o meno otto
anni.»
«Era sbucato fuori da sotto una foglia di lattuga e si era
messo
a strisciare sul bordo del piatto; e tu, non appena te ne accorgesti,
balzasti dalla sedia come una molla!» aggiunse con una
risatina
Aiolos, tralasciando di svelare che all’epoca aveva urlato in
modo isterico e spaventato. Poi, prese i piatti pronti e li
portò in tavola.
Cora rimase stupefatta e a bocca aperta.
«Naturalmente mi vendicai mettendogliene un altro nel
letto», continuò. «Purtroppo
però, quello
scherzo mi si ritorse contro, perché dopo quella volta Kanon
iniziò a venire a dormire nel mio di letto. E
durò
parecchie settimane!»
Cora trattenne a stento una risatina: faticava a vederlo bambino, ma
soprattutto, le era quasi impossibile immaginarselo così
monello. E la sua perplessità aumentava nel vederlo con
un’espressione serena e pacifica sul suo bel viso, mentre
mangiava il piatto che aveva cucinato Aiolos. Mentre lo osservava,
stupita e incredula, di nuovo le tornarono alla mente le parole della
vicina impicciona Jade: la donna aveva detto, o comunque fatto
intendere, che Saga non si fidava delle persone; eppure, ogni volta lui
dimostrava di essere proprio l’esatto opposto. Ma forse era
normale che con le persone a lui vicine, quelle di famiglia, fosse
diverso.
«Non ti piace?» le domandò Saga, vedendo
come la ragazza avesse il piatto ancora pressoché intatto.
«Affatto. È molto buono.»
«Allora c’è qualcos’altro che
non va?»
Senza neanche rendersene conto Cora si era ritrovata a fissarlo con
strana insistenza, cercando di intravedere quel punto sulla tempia di
cui Aiolos aveva accenato poco prima.
«Forse vorrebbe sapere qualcosa di particolare, ma non sa
come
chiedertelo», intervenne Aiolos, portandosi alla bocca mezzo
involtino.
Saga sistemò ordinatamente le posate nel piatto, si
pulì
la bocca con un lembo del tovagliolo di carta e si appoggiò
allo
schienale della sedia, assumendo una posizione rilassata e al tempo
stesso molto formale.
«Chiedimi pure tutto quello che vuoi.»
La suoneria del cellulare di Aiolos la salvò da una
situazione
imbarazzante, poiché l'unica cosa che a Cora sembrava
interessata era approfondire ciò che era stato appena
accennato
dai due ragazzi. Erano stati molto enigmatici, ma ugualmente si era
percepita una certa tensione nel rivangare quel particolare.
Il giovane corrugò la fronte nel vedere chi era e si
alzò
in fretta da tavola per rispondere. Poi, un paio di minuti dopo,
tornò indietro, annunciando che stava arrivando una persona.
Vide Saga diventare all'improvviso teso e irrigidirsi sulla sedia.
«Tranquillo, è solo Thomas. Gli ho chiesto di
passare per
darmi un parere su una certa cosa», lo rassicurò,
facendo
il bis di insalata di cavolo.
note del capitolo:
Gorgiera:
nel gatto, la gorgiera è la parte che va più o
meno dalla gola al petto, la parte davanti, per intenderci, che
solitamente si presenta un pochino più folta rispetto al
resto
della pelliccia. Poi naturalmente dipende anche dalle razze.
Tartufo:
(che non è quello che si usa per cucinare!) sempre nel
gatto, è il naso. Ha forma triangolare ed è
leggermente
ruvido. Un gatto in buona salute lo deve sempre tenere umido.
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Capitolo 23 *** Capitolo XXII ***
XXII
Quel “sono lì
da te fra cinque minuti!” glielo aveva detto con un
entusiasmo
tale che alle sue orecchie era suonato sospetto, troppo sospetto, e in
un certo senso anche inquietante: neanche fosse stato un appuntamento
galante con una bella donna. E infatti, puntuale e preciso come solo un
marine di razza sa essere, Thomas Cooper parcheggiò
esattamente
di fronte al numero civico della strada che lui gli aveva indicato,
annunciandosi a tutto il vicinato con le sirene spiegate e i
lampeggianti accesi dell'auto di servizio. Come se non fosse bastato,
si era presentato con un grande sorriso stampato su quel suo viso
ancora tanto affascinante da avergli permesso di vincere, per il
secondo anno di seguito, il titolo di “Il vigile del fuoco
più bello di Boston”.
«Aiolos!» lo
salutò l’uomo, con un sorriso radioso sul viso,
che per
nulla lasciava trasparire la stanchezza accumulata negli ultimi giorni.
«Sono molto felice che tu mi abbia chiamato»,
disse,
chiudendo la portiera e fermandosi in mezzo al marciapiede, impettito e
sicuro di sé.
«Non era necessario
fare tutto questo baccano e soprattutto essere così
appariscente», lo accolse Aiolos, con tono a metà
fra
l'annoiato e l'infastidito, appoggiato con la spalla al portone
d’ingresso.
«Mi hai detto che
era una cosa importante. E hai usato un tono molto serio»,
replicò l’uomo, stringendo in una mano il cappello
dell’uniforme, indeciso se indossarlo oppure no. «E
poi, tu
che hai bisogno del mio aiuto per due volte in pochi giorni…
l’occasione meritava come minimo l’uniforme di
ordinanza.
Purtroppo non ho fatto in tempo a ritirare dalla lavanderia quella da
cerimonia», disse. Questa volta era stato il suo turno di
tirargli una frecciatina. Dentro di sé si era divertito nel
vedere il poco velato fastidio nel figlio, mostrando apertamente un
sorriso sghembo che nulla aveva da invidiare ai soliti che amava
sfoggiare il ragazzo. Senza ombra di dubbio, anche a occhi profani,
quei due erano proprio padre e figlio.
Ciò che Aiolos
aveva definito “appariscente” – e che gli
stava
urtando visibilmente i nervi, oltre all’atteggiamento
strafottente dell’uomo – in realtà non
era altro che
l’uniforme con i gradi e non la solita divisa che usava
durante
le missioni di pronto intervento e che, a ogni fine turno, era sempre
malconcia. Quel completo blu scuro, con la camicia bianca, la cravatta
altrettanto scura e il distintivo dorato che spiccava sul petto, quasi
facevano sembrare Thomas una persona rispettabile e importante. Ma era
solo agli occhi di Aiolos che il padre non era una persona
rispettabile: non gli aveva ancora perdonato l’abbandono di
quando era piccolo e probabilmente non lo avrebbe mai fatto.
«Avrei preferito ti
fossi presentato in modo normale», ribatté il
giovane, con
uno sbuffo scocciato che neanche si era premurato di nascondere o
mascherare, accennando a rientrare. «Vedi di non intimidire
nessuno.»
«Spiacente,
figliolo, arrivo adesso da un meeting in Municipio col
Sindaco»,
disse Thomas, facendo spallucce, preferendo non dar peso
all’atteggiamento dell’altro. Alzò lo
sguardo verso
il piano superiore della palazzina e sul suo volto comparve un sorriso
affascinante e malizioso, scrutando l’ombra fugace che si era
affacciata alla finestra.
*****
«Vieni via»,
le sussurrò all’orecchio Saga, cingendola ai
fianchi e
trascinandola lontano dalla finestra.
«Che
c’è di male se do una sbirciatina
fuori?» disse lei,
ridacchiando per quello che le sembrava un dispetto bello e buono e,
chissà, forse anche una piccola manifestazione di gelosia.
Le
piaceva quando il suo ragazzo si dimostrava così affettuoso,
quasi possessivo, come in quel momento.
Saga si limitò a
darle un bacio sulla guancia, ad accarezzarle i riccioli disordinati
che quel giorno teneva raggruppati con un mini mollettone
all’altezza della nuca e a sorriderle. Lo sguardo del ragazzo
era
limpido come quello di un bambino, ma altrettanto mutevole, e ne diede
prova staccandosi da lei e tornando a sparecchiare la tavola in
silenzio e, altrettanto in silenzio, iniziando subito a lavare i piatti.
«Ma non avevi detto
che non sapevi farlo?» gli ricordò lei, in tono
scherzoso
e anche un pochino offeso, riponendo le tovagliette usate per quel
pranzo veloce, affiancandolo poi al lavello.
Lui si girò un
attimo e la guardò con occhi sbarrati, non capendo subito a
cosa
si stesse riferendo. All’improvviso si ritrovò uno
schizzo
di schiuma sul viso.
«Era il nostro primo
incontro. Non volevo scoprire subito le mie carte migliori!»
le
rispose, restituendole il colpo e ridendo divertito al gridolino di
Cora, tornando poi a insaponare con maestria il bicchiere che aveva in
mano.
«Questo però non ti ha
impedito di infilarti nel mio letto.»
«Sei stata tu a invitarmi»,
ribatté lui.
Cora immerse di nuovo le
mani nell’acqua sporca, pronta a infliggere un altro colpo
per
l’affermazione dell’altro, ma Saga la prevenne con
un bacio.
«Allora era una tattica collaudata
quella di sembrare imbranato?»
Il ragazzo fece spallucce, concentrandosi sulla
padella, che sfregava con molto vigore.
«La stai grattando
troppo. Se continui in questo modo sarà da buttare. Lascia
fare
a me», gli disse, spostandolo con un colpetto di anca e
prendendo
il suo posto. Saga si esibì in un broncio infantile e la
schizzo
con la schiuma una seconda volta. «In verità non
è
che sia proprio un casalingo provetto: non so cucinare, non so fare il
bucato, non so neanche preparare un caffè
decente», ammise
senza alcuna vergogna. «Però, non mi sembra
così
difficile lavare i piatti, l’ho visto fare molte volte; e poi
so
riordinare!»
«Stavi usando troppo
detersivo», lo ribeccò, Cora. «Chi
è la
persona che stava parlando con Aiolos, qui sotto?»
«Dai, finiamo di
sistemare queste cose», le disse lui, mutando all'improvviso
atteggiamento e tono di voce, fissando l'acqua che scorreva dal
rubinetto e creava all'interno della vasca del lavello della nuova
schiuma bianca.
Cora rimase perplessa e
turbata da quel cambiamento. Non capiva cos'avesse detto di sbagliato
per guastare l'umore del ragazzo. Sospirò, voltandosi un
momento
verso la finestra, poi tornò a sciaquare i piatti,
passandoli a
Saga affinché li asciugasse con lo strofinaccio e li
riponesse
nel pensile.
*****
Aiolos rientrò
nell’appartamento con una certa fretta, precedendo il padre
di
qualche minuto. Lo aveva lasciato nello scantinato a terminare dei
controlli, dopo che avevano valutato assieme le condizioni della porta
che dava sul cortile, dicendogli che lo avrebbe atteso di sopra. In
quel modo sperava di poter avere il tempo sufficiente per provare a
rimediare all’enorme balla che si era lasciato sfuggire poco
prima. Era stata un’avventatezza dettata solo dal desiderio
di
placare le incessanti domande che l’uomo gli aveva rivolto
nei
riguardi della sua vita privata: non sopportava quel tipo di
cameratismo che l’altro invece sembrava così
generosamente
voler condividere con lui. Si era pentito amaramente di ciò
che
si era lasciato sfuggire di bocca, ma per sua fortuna aveva trovato
subito Cora che in quel momento non pareva così indaffarata
e,
soprattutto, non era in compagnia.
«Dov’è
Saga?» chiese in tutta fretta.
«È andato in
soffitta. Ha detto che non voleva essere visto», rispose la
ragazza, provando a fare l'indifferente; in verità, anche se
lui
le aveva dato una spiegazione, non ne era rimasta troppo convinta.
Aiolos annuì
pensoso. «Ha ragione. Se Thomas lo vedesse qui, farebbe un
sacco
di domande e lo andrebbe a riferire a mia madre che non perderebbe
tempo a dirlo alla nonna; e nel giro di un'ora lo saprebbero tutti in
famiglia», disse, massaggiandosi il retro del collo e
sbuffando.
Si prese un momento per valutare la situazione e infine si decise a
correre il rischio: tanto peggio di così non sarebbe potuta
andare. «Tu mi devi un favore!» le disse, un
po’
rudemente, guardandola con una strana espressione sul viso che non
faceva presagire nulla di buono.
«Cosa? Io non ti devo proprio
niente!» ribatté lei.
«Devo forse
ricordarti cos’ho passato per colpa tua?» le
rinfacciò lui, con un ringhio minaccioso, afferrandola per
un
braccio per impedirle di sottrarsi alla sua richiesta. Era pronto anche
a rivangare ogni disavventura che gli era capitata da quando aveva
avuto la sfortuna di incontrarla se ciò fosse servito.
Cora provò a
divincolarsi dalla presa, ma Aiolos era decisamente più
forte di
lei. Lo fissò negli occhi con astio e, sotto quello strato
di
arroganza e antipatia, scorse del panico e un autentico bisogno di
aiuto.
«Allora?» la
incalzò lui, con voce agitata, strattonandola di nuovo e
stringendo un poco di più la mano.
Cora strinse le labbra.
Non aveva alcuna intenzione di farsi intimidire dall’altro;
eppure, il suo corpo iniziò a tremare un poco, sotto lo
sguardo
serio dell'altro. Per una frazione di secondo le sembrò che
Deline si fosse materializzato di fronte a lei, ma durò solo
un
attimo: anche se furiosi, in quegli occhi castani non c’era
alcuna parvenza della malvagità del mostro di Philly.
Deglutì, concentrandosi su dove fosse, con chi fosse e su se
stessa.
«Sentiamo, cosa diavolo vuoi da
me?» concesse, nonostante l'evidente astio nella voce.
Un favore. Un unico e
definitivo favore era disposta a concedergli. Altrimenti…
davvero avrebbe preso in considerazione la soluzione che le aveva
proposto lo zio Phil quando, saputo che le strade dei due si erano di
nuovo incrociate, aveva mostrato la pistola che teneva nella fondina.
«Quando mio padre...
Thomas, entrerà da quella porta, qualunque cosa dovesse dire
lui, qualsiasi cosa dovessi dire o fare io, dovrai reggermi il gioco.
Siamo intesi? E mai e poi mai devi dargli corda!»
Cora sbatté le
palpebre un paio di volte. Aprì la bocca per rispondere
qualcosa, ma senza riuscire ad articolare alcun pensiero sensato. Non
doveva lavorare troppo di fantasia per immaginare quanto le stesse
prospettando l’altro, perché quella sembrava
proprio la
classica situazione da commedia, nella quale lo sfigato presenta alla
famiglia la finta fidanzata.
«Devo dirtelo,
Aiolos, da quanto ho visto la situazione dello stabile non è
dei
più confortanti. Se dovesse passare un ispettore credo che
non
ci metterebbe molto a dichiararlo non conforme alle leggi.»
La
voce dell'uomo, che stava salendo le scale, si sentì
amplificata
dall'eco delle scale, arrivando chiara e forte ai due giovani dalla
porta d'ingresso rimasta spalancata.
Thomas si fermò sul
pianerottolo di casa; si pulì diligentemente i piedi sullo
zerbino e si spolverò la manica della giacca dell'uniforme
scura
dalla polvere e dalle ragnatele che erano rimaste attaccate durante la
sua ispezione nel seminterrato. Poi, si schiarì la gola e si
annunciò con il classico “Permesso?”,
rimanendo
impettito sulla soglia di casa con il berretto sottobraccio.
«Mi
raccomando!» sussurrò Aiolos all'orecchio della
ragazza,
stringendo la mano al suo braccio per sottolineare l'importanza di
quella situazione per lui.
«Ho capito!» rispose fra i
denti Cora, dando uno strattone e riuscendo a liberarsi.
Se avesse potuto, avrebbe
dato volentieri un pugno a quel ragazzo arrogante. Invece, lo
accompagnò all’ingresso, mossa dalla
curiosità di
conoscere la persona che aveva la capacità di rendere
così nervoso e intrattabile Aiolos.
«Buongiorno! Mi
chiamo Thomas Cooper; e tu devi essere la fidanzata di Aiolos. Sono
molto felice di conoscerti», la salutò,
stringendole la
mano in maniera calorosa. «Sai, questo ragazzaccio non ci ha
mai
parlato di te. È così bravo a tenere segrete le
sue
“amicizie” che sua madre è arrivata a
pensare possa
essere diventato gay. Ma le ho sempre risposto che è
impossibile
che il mio ragazzo sia uno di quelli, nonostante le sue pessime
frequentazioni», continuò, guardando negli occhi
il figlio
che invece ricambiava con uno sguardo torvo.
Anche se Shura, durante
gli anni della scuola, era stato – ed era tutt’ora
–
il suo migliore amico, e col tempo avesse accettato la sua
omosessualità, non era mai stato un vero sostenitore di
quella
gente, soprattutto per via della mentalità militare
inculcatagli
dal padre fin da bambino e degli anni trascorsi nei Marines. Cora
rimase stordita da quella presentazione; ma, trasportata
dall’affabilità dell’uomo,
ricambiò il
saluto. «Molto piacere. Io sono Caroline
Mill…»
«Cora
Milligan!» intervenne Aiolos, sovrastando la voce della
ragazza e
tagliando corto quella presentazione che gli stava già dando
i
nervi. Nonostante fosse stato lui a chiamarlo, mal sopportava la
presenza dell'uomo; soprattutto quel suo atteggiamento solare che
metteva a proprio agio le persone.
«Milligan? Del
Milligan’s Pub nel North End?» chiese, con una
strana
scintilla negli occhi e un tono così gioviale da essere
pericolosamente contagioso. «Sapevo che quella vecchia
canaglia
di Amos avesse una figlia, ma non immaginavo che fosse così
carina, considerato quanto è brutto quel caprone tinto!
Scommetto che hai preso tutto da tua madre, vero?»
La giovane tentennò
per qualche attimo per quel nome inventato così su due
piedi,
rivolse uno sguardo ad Aiolos, esprimendo in modo eloquente che non
sapeva come rispondere.
«Lei viene da Philadelphia»,
rispose con molta durezza Aiolos, fissando il padre negli occhi.
«Capisco», disse
l’uomo, passandosi una mano dietro la nuca, incassando la
reazione scostante del ragazzo.
«Non ti ho chiamato qui per fare
conversazione. Allora, cosa ne pensi?» rincarò la
dose il giovane.
«La casa è
molto vecchia e non rispetta le attuali normative sulla sicurezza.
L’impianto elettrico e quello idraulico vanno rifatti
completamente, così come quello per il riscaldamento. Di
sotto
ho riscontrato che nel corso degli anni sono stati fatti tentativi di
riparazione, ma non da qualcuno qualificato. È un miracolo
che
ancora non si sia verificato un incendio. La costruzione è
degli
anni ’30, vero?»
Cora annuì. Sul suo
viso comparve un’espressione preoccupata, mentre ascoltava
con
attenzione ciò che l’uomo le stava dicendo.
«Ma… qui funziona tutto. Non
c’è stato alcun
problema.»
«Probabilmente le
tubature sono ancora quelle originali in piombo; e non escludo che
possa esserci addirittura dell’amianto», le
spiegò
ancora Thomas, assumendo una postura più rilassata,
nonostante
il suo viso si fosse fatto serio. Era consapevole che ciò
che le
stava dicendo poteva spaventare, ma al tempo stesso cercava di essere
il più rassicurante possibile.
«Non sei qui per
fare quel genere di perizia, ma per un parere su quei segni alla
serratura», lo interruppe Aiolos, pericolosamente irritato.
«Hai ragione. Ti
posso confermare che si tratta proprio di un tentativo di scasso e,
chiunque sia il responsabile, ha fatto di tutto per lasciare tracce
molto evidenti. Quel tipo di porta di servizio è molto
vecchia e
con una serratura facile da manomettere. Persino un bambino potrebbe
aprirla con del semplice fil di ferro. Invece, la porta
dell’appartamento è stata forzata in maniera
più
attenta. Infatti i segni sono davvero minimi e, chiunque sia stato,
deve aver usato anche qualche tipo di lubrificante, per rendere ancora
più agevole il lavoro.»
Cora sussultò,
portandosi le mani alla bocca. In quelle ultime ore, quasi si era
dimenticata della brutta avventura vissuta la notte precedente, quando
aveva trovato la gattina riversa sul pavimento dell’ingresso,
proprio dove ora si trovavano loro. Non aveva collegato il fatto che
qualcuno poteva essere penetrato in casa. Eppure… era la
cosa
più logica da pensare. Doveva essere così! Si
avvicinò alla porta e iniziò a esaminarla con
maggiore
attenzione, accarezzando la toppa della serratura esterna con i
polpastrelli e poi anche con le unghie, per accertarsi lei stessa di
quei micro graffi sulla parte del rotore di cui parlava Thomas.
«È
sicuro?» domandò, con voce un poco tremante.
«Non
potrebbe trattarsi più semplicemente dei normali segni
dell’usura?»
«Quelle graffiature
sembrano differenti rispetto a quelle provocate dal normale utilizzo.
Sono molto recenti», confermò l’uomo,
con tono serio
e, questa volta, anche preoccupato. «Ma io sono un semplice
vigile del fuoco, non un agente della scientifica, quindi potrei anche
sbagliarmi. Comunque, sarebbe meglio far cambiare le serrature, tanto
per stare tranquilli!»
La ragazza sperò
che quella sua obiezione riscontrasse maggiore appoggio, almeno per
fugare la preoccupazione che si stava facendo presente nel suo animo.
Non voleva pensare che potesse essere stata una sua leggerezza ad aver
agevolato il lavoro dell’intruso. Anche se abitava in
quell’appartamento da pochi giorni, era già
capitato che
dimenticasse di chiudere la porta a chiave, credendosi scioccamente al
sicuro con solamente il portone sulla strada ben serrato. Ed ora, il
dubbio di non aver chiuso la porta le pesava sulla coscienza.
«Secondo
lei…» continuò, «è
possibile ricavare
un calco della chiave direttamente da una serratura montata?»
«Non sono un esperto di queste cose,
ma non credo», rispose Thomas.
«Forse una cosa del
genere è fattibile solo al cinema o nei romanzi»,
sospirò lei, pensando che sicuramente la madre avrebbe
potuto
utilizzare l’idea per uno dei suoi racconti.
«Beh…»
L’uomo provò a spezzare la tensione che si era
creata.
«Basterà cambiare la serratura della porta del
cortile e
di quella di casa e il problema sarà risolto, almeno per il
momento», disse, avvicinandosi un poco a lei per
incoraggiarla a
stare tranquilla. Aiolos però, sapendo quanto fosse
cascamorto
il padre, fu più lesto di lui e si accostò a
Cora,
mettendole una mano sulla spalla e stringendola a sé,
sussurrandole qualcosa all'orecchio.
La giovane parve
risvegliarsi di colpo. «Mi perdoni, sono proprio una
maleducata,
non l’ho neanche invitata ad accomodarsi, né
chiesto se
gradisce un caffè!»
«Thomas non può trattenersi
oltre.»
Cora guardò Aiolos
con stupore, stava per ribattere che non era educato trattare
così una persona che le stava facendo un favore, ma alla
fine si
morse il labbro per frenarsi.
«Non ti preoccupare,
cara», la tolse dall'impiccio l’uomo, dando una
veloce
occhiata all’orologio. «In effetti si è
fatto tardi,
dovrei tornare a casa.»
«Se ne va di già?»
«Purtroppo
sì», confermò Thomas. «Anche
se mi piacerebbe
trattenermi, sono reduce da un turno di notte e da un meeting
estenuante. Ma uno di questi giorni puoi venire tu da noi! Anzi,
perché domenica non venite entrambi a pranzo, mia moglie fa
uno
stufato coi fiocchi!»
«Di pollo?»
chiese Cora, quasi con infantile entusiasmo. «È
uno dei
miei piatti preferiti fin da bambina!»
«Certamente!
Così ti presenterò a Georgie, mia moglie. Lei non
vede
l’ora di conoscerti. Sono sicuro che andrete
d’accordo.
Aiolos, la porterai, vero?»
Aiolos si limitò a
un grugnito e una mezza smorfia che non voleva dire né
sì, né no. Di certo non ci pensava minimamente ad
assecondare le voglie di famigliola felice di quei due. Così
come non era disposto ad alimentare le fantasie della madre su una
potenziale fidanzata. Si sarebbe inventato qualcosa, un litigio, un
tradimento... per non continuare quella farsa. Con un cenno del capo
invitò il padre a uscire dall'appartamento e lo
accompagnò fino al portone. Quando poi rientrò in
casa,
trovò la ragazza pensierosa che mormorava qualcosa fra
sé
e sé.
«È andata meno peggio di
quanto credessi», sbuffò di sollievo.
«Milligan?»
disse lei, incrociando le braccia al petto. «Ma ti pare che
io
possa assomigliare anche solo minimamente a un’irlandese?
Cosa
c’era che non andava nel mio cognome?»
Aiolos avrebbe dovuto
ingegnarsi per trovare una scusa plausibile, ma sul momento non gli
stava venendo niente in mente; non gli andava di rivelarle che aveva
chiesto proprio al padre informazioni sulla sua famiglia, anche se
avrebbe potuto giustificarsi dicendo che il nome Miller era abbastanza
comune, ma sarebbe stata comunque una coincidenza sospetta e la ragazza
non l’avrebbe di certo presa bene. Preferì
rimanersene in
silenzio, ma poco gli sarebbe importato se poi avessero finito per
litigare con lei.
«Pensi che possa c’entrare
lui in qualche modo?» le domandò, senza
l’ombra di malizia nella voce.
«Lui, chi?» disse Cora.
«Il tizio di
Philadelphia, quel Del…» Aiolos si accorse subito
dell’effetto che stava suscitando in lei anche solo
quell’accenno di nome ed evitò di completarlo.
«No!» esclamò con
voce agitata. Quel nome aveva il potere di riempire i suoi occhi di
puro terrore.
Si rese conto lei stessa
della sua reazione esagerata, prese un bel respiro profondo e
provò a calmarsi. «No, non credo»,
ripeté,
questa volta. «Non può avermi seguita fin
qui… non
ce ne sarebbe motivo.»
«E la storia del gatto?»
Di nuovo si sentì
come raggelare a quelle parole. L’obiezione di Aiolos
riportava
in primo piano gli avvenimenti della sera precedente: un mistero che
non aveva spiegazione.
Cora chiuse gli occhi per
un momento, cercando di concentrarsi per ricordare le sensazioni che
aveva provato in quelle ore buie. C’era forse stata una
presenza
in casa, lì con lei? Aveva forse percepito lo scricchiolio
del
vecchio parquet e dei respiri?
«Che cosa ti ha fatto quel tipo, per
spaventarti in questo modo?» le chiese Aiolos.
«Non sono affari che
ti riguardano!» rispose lei con decisione, alzando lo sguardo
su
di lui. Il suo respiro era tornato a essere più agitato.
«Glielo dirai?»
riprovò Aiolos, facendo anche un cenno con la testa,
indicando la direzione delle scale.
«No, no! Non
è come pensi e poi... anche questi non sono affari
tuoi»,
ribatté Cora, forse con un pizzico di panico misto a
risentimento nella voce.
Sentiva l'angoscia che
stava premendo per prendere il sopravvento, approfittando di quel suo
momento di debolezza. Al tempo stesso però, percepiva che
ciò che stava provando era diverso dalle altre volte,
poiché non era stata colta dalle solite dolorose fitte al
ventre
che le toglievano il respiro e la lasciavano sconvolta, ma qualcosa di
più ridimensionato. Era stata una domanda inopportuna,
certo, ma
che aveva avuto il potere di tenerla aggrappata alla realtà
di
quella sua nuova vita, nella quale la brutta esperienza di Philadelphia
non doveva trovare posto.
«Si è fatto tardi, devo
andare al lavoro», disse con voce più calma,
chiudendosi in camera da letto.
Quando ne era poi uscita,
circa dieci minuti dopo, con un maglioncino scuro a mezze maniche,
jeans attillati, stivaletti di camoscio morbido e con le mani impegnate
a legare i capelli in una coda di cavallo, mentre percorreva il
corridoio per raggiungere l'ingresso intravide nella penombra la figura
di Saga, seduto sui gradini più bassi della scala. Gli fece
un
bel sorriso e si avvicinò a lui.
«Sto andando al
lavoro. Ti troverò a casa, quando
ritornerò?» Il
ragazzo annuì, sorridendole dolcemente. «Allora
per cena
ti farò una delle mie specialità!»
«Sandwich e insalata?»
«Quella è
roba per single. Nel mio repertorio ci sono anche piatti per
coppie», ammiccò lei, un poco maliziosa, dandogli
un bacio
leggero sulle labbra. «Se ti fidi di me…»
Lasciò di proposito
la frase in sospeso, guardandolo fisso negli occhi, attendendo la sua
risposta e rincuorata perché lui non aveva disatteso le sue
speranze.
«Se sarai abbastanza
brava, potrei anche sposarti», le sussurrò lui a
fior di
labbra, prima di darle un bacio pieno di passione.
Saga
l’accompagnò fino in strada tenendola per mano.
Davanti al
portone d’ingresso la salutò con un altro bacio,
proprio
come una giovane coppia di sposini, osservandola poi con malinconia
correre lungo il marciapiede per raggiungere la fermata
dell’autobus. Sulla sua mano era presente ancora la
sensazione
che lei gli fosse sgusciata via per non tornare più.
Scrollò la testa per scacciare via quel pensiero infondato.
Anche Aiolos guardò
la ragazza allontanarsi, rimanendo però nascosto appena
oltre la
soglia, chiedendi se da davvero Deline non c’entrasse nulla
con
quell’effrazione e l’attentato alla gattina di
casa,
perché quella sembrava un’azione dai connotati
troppo
personali. E poi, ora che gli veniva in mente, c’era anche
quello
strano individuo che aveva intravisto quel mattino presto. In un primo
momento non ci aveva dato molto peso, ma dopo aver passato le due ore
seguenti a frugare nei file e nelle e-mail della ragazza, riflettendo a
mente fredda, poteva anche darsi che fosse lì a controllarla.
Le sue labbra si piegarono
in una strana smorfia, mentre affiancava l’amico:
perché
diavolo si stava preoccupando tanto per quella ragazza che gli
risultava antipatica?
«Puoi tornare a casa.»
«Va bene. Allora salgo a prendere i
nostri cappotti e ce ne andiamo», disse, con un mezzo sorriso.
«Io non
vengo», replicò Saga, senza alcuna emozione nella
voce,
mettendosi le mani in tasca e avvicinandosi al ciglio del marciapiede,
pronto ad attraversare la strada.
«Cosa stai dicendo? Ehi! Dove stai
andando, adesso?»
«Vado a comprare delle serrature
nuove.»
«Se hai sentito
anche tu quello che ha detto Thomas, saprai che ci vorrà ben
più di un paio di serrature nuove!» gli
ricordò
Aiolos. «Quella casa non è abitabile e di certo,
tutti i
problemi che ha non si risolveranno in mezza giornata di
lavoro.»
«Lo so»,
ammise Saga. «Ci vorrà qualche tempo prima di
iniziare i
lavori che ho in mente di fare. Per questo voglio stare con lei per i
prossimi giorni, prima di farla tornare a Philadelphia. Lei non la
prenderà bene…» sospirò con
tono avvilito.
Anche se non proprio
nitidamente, Aiolos colse un pesante velo di delusione
nell’ultima frase di Saga. Quello che l’altro non
sapeva
era forse il vero motivo per il quale Cora avrebbe sicuramente
obiettato a tale decisione. Ma lui non poteva arbitrariamente mettere
al corrente l’amico di ciò che era venuto a
conoscenza:
era una decisione che spettava a Cora.
*****
Dalla finestra della
biblioteca Kanon osservava i due ospiti passeggiare per la
proprietà e parlare mano nella mano. Era appoggiato di
spalla e
teneva le braccia incrociate al petto, mentre i raggi del sole gli
accarezzavano il viso e rendevano ancora più luminosi i suoi
capelli biondi, donandogli dei riflessi d’oro, ma di una
tonalità più chiara rispetto al gemello. In quel
momento
sembrava avvolto da una strana melanconia.
Sospirò.
«Cosa c’è che non
va, tesoro mio?» chiese Nanny, vedendolo tanto pensieroso.
La donna era solita
evitare la biblioteca perché era lo spazio degli uomini
della
famiglia Hayes – così come la sala da biliardo al
piano
seminterrato – entrandovi solo in rare e importanti
occasioni; ma
quel pomeriggio qualcosa l’aveva attirata lì. Nel
suo
cuore di vecchia tata, aveva sentito una sensazione fastidiosa farvi
capolino rendendola inquieta; e infatti aveva trovato il suo adorato
ragazzo fin troppo serio e taciturno, caratteristiche che appartenevano
più al gemello che a lui. Ma i suoi occhi, anche se ormai
risentivano dell’età e non erano più
perfetti, non
l’avevano ingannata. C'era qualcosa che non andava e ne ebbe
conferma quando Kanon sospirò di nuovo, continuando a
fissare
fuori dalla finestra.
In quell’ultima
mezz’ora infatti, sembrava che il rampollo Hayes non
riuscisse a
fare altro. Il lavoro, neanche a parlarne, giaceva dimenticato sulla
scrivania.
Si tormentò il
labbro per qualche secondo; i due ragazzi stavano tornando nella sua
visuale: pareva tutto normale, eppure la postura di quel ragazzino gli
diceva che c'era qualcosa di diverso. Il suo atteggiamento nei
confronti di Saori sembrava più intimo.
«Kanon, tesoro, ti senti
bene?»
«Non è niente,
Nanny», disse, girandosi un poco verso la tata e sforzandosi
di sorriderle.
«Dimmi la
verità», insistette la donna, accarezzandogli la
fronte, per scostargli i capelli dagli occhi.
«È
che… non lo so», sbuffò lui; davvero
non sapeva
dire perché stesse in quel modo, non riusciva a dare un
senso a
ciò che provava. «D’un tratto mi
sento…
solo», confessò. I suoi occhi tornarono a seguire
la
giovane Saori, ma solo per curiosità, non perché
le
interessasse particolarmente, non in quel momento, almeno.
«È come se mi mancasse qualcosa.»
«E come mai?» chiese la
donna, con voce dolce e al tempo stesso apprensiva.
Kanon alzò le
spalle e fece un sorriso triste. «Non lo so. È
come un
vuoto nel petto che si è formato
all’improvviso.»
«Stai cercando di imitare tuo
fratello?»
«Tu cosa fai quando lui si sente in
questo modo?»
«Sai, tante volte
lui si sentiva triste e solo, in questa grande casa, soprattutto dopo
la lunga malattia e quando tu e Aiolos siete tornati alla vostra vita
normale. Allora io gli portavo una bella fetta di Boston Cream pie, un
bicchiere di latte e gli facevo sputare il rospo»,
ridacchiò.
«E funzionava?» chiese
ancora Kanon.
«Il più delle
volte», confermò la donna, facendogli
un’altra
carezza sulla guancia. «Ma quando si trattava di problemi di
cuore, la faccenda era più complicata e necessitava qualcosa
di
più forte», aggiunse, riportando alla mente quanto
avesse
visto sconvolto Saga poche settimane prima, intristendosi un poco anche
lei.
«Ma io non ho
affatto problemi di cuore! Però mi sento tanto triste. Cosa
mi
puoi dare di buono per consolarmi?» disse Kanon, esibendosi
in
uno sguardo da cucciolo abbandonato che fece ridere la donna.
«Dovrebbe essere rimasta un
po’ di cheesecake, che ne dici?»
Kanon fece una mezza
smorfia. «Credo che ci vorrà
“quel” qualcosa
di più forte», disse, con un tono di voce da
adulatore e
con una scintilla di malizia nei suoi begli occhi verdi.
«Ecco, ora riconosco
il mio Kanon! Allora ti preparerò dei brownies al
cioccolato.
Sono il massimo per tirar su di morale e funzionano sempre!»
«Magari... al rum?»
azzardò lui, non ancora del tutto soddisfatto.
«E rum sia», cedette Nanny,
felice di vederlo tornare al suo solito umore.
Nonostante Kanon fosse
ormai un uomo adulto, forte, responsabile, serio e sicuro di
sé,
certe volte la donna faticava a vederlo tale, preferendo rifugiarsi
nella visione dell’adolescente scapestrato e gioioso che in
passato aveva riempito la casa con la sua straripante energia. Ma prima
ancora, era il bambino che aveva cresciuto e amato fin dalla notte in
cui Shion lo aveva portato in casa, la stessa in cui era nato suo
adorato nipote Aiolos.
«Perché non
domandi alla tua fidanzata se gradisce unirsi a noi? Sarebbe una cosa
carina, non trovi?» gli disse, prendendolo sottobraccio.
«Non credo che sia
il caso», rispose distrattamente. Diede un’altra
occhiata
fuori dalla finestra; vide i due ospiti molto vicini fra loro,
soprattutto notò Seiya prendere la mano di Saori e
sorriderle
timido, ricambiato da lei.
Fece un respiro profondo e
sorrise alla sua vecchia tata. «Senti, Nanny,
potrò
sporcarmi le mani anch'io, o dovrò rimanere in disparte in
un
angolino a fare da spettatore?» le disse, mentre
l'accompagnava
in cucina.
*****
Quel pomeriggio, Aiolos
gli rimase attaccato come un’ombra e stranamente non gli
dispiacque affatto passare la giornata in quel modo. Se la notte
precedente l’aveva vissuta come una scocciatura, ora quella
situazione stava addirittura iniziando a piacergli. Non aveva mai avuto
occasione di conoscere Saga in un contesto diverso da quello della
villa di famiglia e vederlo impegnato in cose banali e comuni come
entrare da un ferramenta per delle serrature nuove, oppure camminare
completamente a suo agio per il quartiere, era interessante. Trattenne
un sorriso quando nel negozio lo vide rigirarsi fra le mani un mazzetto
di chiavi di Allen
senza
sapere cosa fossero. E continuò a osservarlo mentre
ascoltava
con attenzione le spiegazioni che il commesso gli stava dando,
annuendo, facendo domande; e il suo viso era disteso e sereno.
Si chiese distrattamente
come facesse a parlare in maniera tanto rilassata con degli estranei.
«Hai deciso quale prendere?» domandò
quasi in uno
sbuffo scocciato, vedendo l’amico indeciso nel scegliere fra
alcuni modelli di chiavistello. «Guarda che non stai
comprando un
anello di fidanzamento!»
«La sicurezza è
importante.»
«Se pensi davvero
alla sicurezza allora ti conviene far demolire tutto e ricostruire da
capo», lo schernì, appoggiandosi con il gomito al
bancone.
Avevano passato
quell’ultima ora e mezza fra quei piccoli scaffali strapieni
di
ogni genere di articolo – dai più moderni a quelli
vintage
– di quel modesto ma ben fornito ferramenta e cominciava a
non
poterne più di stare lì dentro ad aspettare la
decisione
del secolo, ma non aveva il coraggio di dirgli apertamente che si era
stufato e voleva andarsene, perché la risposta che avrebbe
ricevuto sarebbe stata scontata.
«È un
edificio storico, non si può. E comunque non lo farei lo
stesso», rispose Saga, per nulla offeso dalle lamentele
dell’altro. Anzi, neanche ci stava facendo caso. Da qualche
minuto si era soffermato su un modello in ottone, decorato in stile art
déco, osservandolo attentamente. Lo rimise sul bancone e
annuì al commesso, sorridendo, perché era la
scelta
giusta.
Aiolos tirò un
sospiro di sollievo quando finalmente varcarono la porta del negozio e
tornarono sulla strada, con un pesante sacchetto di plastica in mano.
«Almeno, sai come si
montano?» gli chiese, mettendosi le mani nelle tasche.
«Per il chiavistello
non dovrebbero esserci grossi problemi», rispose Saga.
«Per
il resto invece chiamerò qualcuno, voglio far sostituire
anche
la porta sul retro», spiegò, soffermandosi con lo
sguardo
sulle vetrine, intanto che procedevano.
«Hai intenzione di
fare altri acquisti?» disse Aiolos, seguendolo a un passo di
distanza, ma senza ottenere risposta. Saga sembrava ormai perso in un
altro mondo.
Continuò a seguirlo
e a osservarlo attentamente in tutto quello che faceva: era
così
diverso da Kanon. Seppure anche l’altro gemello fosse molto
spontaneo e alla mano con tutti, manteneva quel pizzico di
superiorità che lo faceva distinguere dalla massa; Saga
invece,
mostrava un qualche tipo di ingenuità e
semplicità e
forse era proprio quello che metteva a proprio agio le persone. E
mentre nella sua testa si formavano quei pensieri, Saga lo aveva
sorpreso con atteggiamento assolutamente infantile: occhi sgranati
pieni di meraviglia e naso attaccato alla vetrina di un negozio di
pegni.
Non sapeva bene come
spiegarselo, eppure, era affascinato dal comportamento
dell’altro. In quel momento iniziava finalmente a comprendere
l’entusiasmo col quale spesso suo fratello Aiolia gli parlava
di
Saga.
Sbuffò, passandosi la mano nei
capelli: che ci stava facendo in un posto del genere con Saga?
Quel pomeriggio
c’era un bel sole caldo, era una vita che non si godeva anche
lui
una giornata tranquilla che chiedeva solo di essere vissuta senza
pensieri, proprio come sembrava stesse facendo “la
principessina”. E lo vedeva, lo vedeva bene: gli occhi di
Saga,
il suo viso… tutto di lui, in quelle ore passate assieme,
gli
dicevano quanto fosse pieno di vita. Aiolos scrollò la testa
e
si passò la mano sul volto, sfregandosi gli occhi.
Dov’era
finita quella malinconia, quell’onnipresente velo di apatia
che
l’amico aveva sempre addosso quando era alla villa e che a
lui
dava tremendamente fastidio? Ne aveva intravisti alcuni sprazzi la
notte precedente, poi nulla più, era come se fosse diventato
un
altro.
«Dai, andiamo a
casa», disse Aiolos, sorridendogli e passandogli il braccio
sulle
spalle, tirandolo letteralmente via da quella vetrina.
Saga rimase sorpreso da
quel gesto, provando a protestare un poco, ma non fece in tempo a
riprendere a camminare normalmente che i cellulari di entrambi
suonarono quasi all’unisono. I due si guardarono per un
secondo.
Con uno sbuffo annoiato
Aiolos prese dalla tasca il suo e aprì il messaggio.
«Ma
che gran…» borbottò.
Saga osservò
l’amico, perplesso; poi, controllò il suo di
messaggio e
sgranò gli occhi nel vedere le foto che il gemello gli aveva
mandato: lui, assieme a Nanny, guancia a guancia, che addentavano dei
golosi brownies, esibendosi in una serie di espressioni buffe.
Scoppiò a ridere, girando il display
verso l’altro.
«Sono le stesse che
ha mandato a me!» disse Aiolos. Dentro di sé
rimuginava di
farla pagare a Kanon che si approfittava sempre della sua assenza per
fregargli l’affetto della nonna.
Alzò lo sguardo su
Saga e subito gli balenò nella mente la vendetta perfetta.
Con
una rapidità quasi stordente arpionò l'altro e lo
strinse
a sé, mozzandogli il respiro in gola.
«Sorridi!» lo
esortò, mostrando lui stesso un sorriso che sembrava
piuttosto
una smorfia grottesca, scattando a tradimento un selfie che subito si
premurò di mandare all’altro. Sapeva bene che
nulla
avrebbe fatto ingelosire e al tempo stesso incazzare Kanon che
sequestrargli in quel modo il gemello.
Il ritorno non ebbe altre
soste. Si fermarono di fronte al portone della palazzina, accanto alla
vetrina coperta di pagine di giornale della bottega del vecchio Josh.
Saga ci mise qualche minuto per aprire: aveva perso tempo a cercare la
chiave nelle tasche dei pantaloni; Aiolos allora ne
approfittò
per avvicinarsi alla vetrina e provare a dare una sbirciata.
«Cosa c’è
lì dentro?» domandò, giusto per
chiacchierare un po’.
«È una
vecchia legatoria, dove si facevano anche restauri»,
spiegò Saga, aprendo finalmente la porta. Poi, memore di
quanto
era successo con quella sul retro e quella dell’appartamento,
prima di entrare controllò con accuratezza le condizioni
della
serratura – che aveva fatto un poco di resistenza –
e anche
della porta stessa. Tutto sembrava in ordine.
«È tuo anche
questo locale?» chiese ancora Aiolos, sottintendendo che
aveva
capito che l’appartamento fosse di sua proprietà.
Saga annuì, precedendolo dentro.
«Che senso ha
possedere un’attività e poi tenerla
chiusa?»
mormorò il giovane, seguendolo a ruota.
Si fermò di colpo,
con un piede dentro e l'altro fuori, come se avesse sentito un rumore o
intravisto una presenza alle sue spalle con la coda
dell’occhio.
Forse se n’era accorto anche prima, nel riflesso opaco del
vetro,
nel punto dove la carta di giornale mal celava l’interno
della
bottega scura. Si voltò di scatto, aguzzando la vista e
scandagliando il marciapiede dall’altra parte della strada,
indugiando su un paio di individui che gli sembravano sospetti.
C’era un giovane, inginocchiato, che stava liberando la
bicicletta dalla catena con la quale l'aveva assicurata al palo della
luce e che, per diversi secondi, lo aveva fissato da sotto il berretto
da baseball, prima di alzarsi e pedalare fino all’incrocio.
Poi,
c’era un uomo, una ventina di metri più avanti,
che si
stava accendendo una sigaretta: pensò che ci stesse mettendo
troppo per compiere un’operazione tanto semplice.
Fece un respiro profondo,
rilassandosi e dandosi dell’idiota per quel breve momento di
paranoia che gli aveva preso senza che ci fosse un motivo valido. Poi,
corrugò la fronte nel vedere un’ombra scomparire
nel
vicolo, dall’altra parte della strada. Era sicuro di aver
già visto quella persona, gli sembrò di
riconoscere
l’uomo che quella stessa mattina aveva notato nel cortile
interno, anche se neanche in quell’occasione era riuscito a
vederlo bene in volto. Eppure qualcosa gli diceva che non si stava
sbagliando.
note
del capitolo:
Il North End
è un
quartiere di Boston, che un tempo era abitato prevalentemente dagli
irlandesi. Poi, gradualmente, questi sono stati sostituiti dalla
comunità italiana (infatti è considerato una
specie di
Little Italy), ma non dubito che ancora oggi i due gruppi siano ben
presenti.
Chiave
di Allen: è un
piccolo attrezzo a forma di L che serve ad allentare delle particolari
viti a testa cava. Da noi in Italia è meglio conosciuta come
brugola o chiave a brugola. Gli amanti del fai da te, o chi si
è
cimentato qualche volta in piccole riparazioni domestiche, oppure ha
costruito qualcosa in kit, tipo mobili IKEA, avranno sicuramente avuto
modo di maneggiarla o quantomeno di vederla. Qui, potrete trovare
informazioni più dettagliate.
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Capitolo 24 *** Capitolo XXIII ***
XXIII
Winchester,
Boston
Quell’ultimo mese era passato quasi in un lampo. La vita alla
villa, sul lago Mystic, era trascorsa di nuovo tranquilla e serena:
senza un problema, senza un imprevisto o incomprensione, senza tensioni
nascoste o atteggiamenti diffidenti, che non fossero almeno causati da
qualche inopportuno ospite che alloggiava al Country Club. In pratica,
erano stati giorni contrassegnati dalla solita noiosa
quotidianità nell’opulenza magnificamente
ostentata di
quell’angolo di paradiso che erano i dintorni del lago, alle
porte di Boston. Maggio era forse il mese migliore dell’anno
da
passare sulle sue rive, magari per prendere il sole, oppure fra i campi
da tennis all’aperto, o per approfittare del rinnovato green
a
diciotto buche del golf club, o ancora per godersi la natura campestre
con rilassanti passeggiate a cavallo lungo i percorsi che si snodavano
fra i boschetti circostanti: proprio in quel periodo era stato
inaugurato il nuovo maneggio.
La primavera nei dintorni del lago Mystic era esplosa in tutta la sua
bellezza. E gli Hayes, padroni quasi assoluti di tale porzione di
territorio, non potevano non approfittare delle sue innumerevoli
attrattive per partecipare agli eventi organizzati e rinsaldare i
rapporti con la comunità, apparendo come munifici mecenati e
benefattori che tanto avevano fatto in passato e tanto stavano facendo
anche nel presente. Kanon in questo si era rivelato un vero portento,
sorprendendo in modo piacevole Shion, che ben volentieri aveva delegato
a lui quel lavoro di rappresentanza.
Accantonati i comportamenti irriverenti e le bravate da ragazzaccio, il
primogenito della famiglia Hayes era diventato più dinamico
e,
al tempo stesso, più responsabile in tutto ciò
che
faceva, anche nelle attività di ufficio. Per questo, Shion
gli
aveva restituito i suoi precedenti incarichi in seno alla
società principale. Forse tale cambiamento poteva essere
dovuto
in parte anche al fatto che proprio in quell’ultimo periodo i
suoi interessi e quelli di Aiolos non coincidevano più. Ed
era
stata una cosa assai strana, perché loro due erano cresciuti
come fratelli inseparabili; anzi, Kanon considerava l’amico
quasi
come un terzo gemello, tanto erano sempre stati complici nel fare
casini.
Ma poteva veramente essere solo quello la causa? Potevano una manciata
di giorni, qualche settimana al massimo, e il distacco
dall’amico
fraterno, far scattare in lui quel tipo di evoluzione? Oppure dietro
c’era finalmente il raggiungimento di una più
matura
consapevolezza del suo ruolo nella famiglia e negli affari? Qualunque
cosa fosse, la conseguenza più evidente era stata quella di
ritrovarsi un Kanon più pensieroso e taciturno, con lo
sguardo
attento, ma anche un po’ stanco e greve.
Nessuno in famiglia ci aveva fatto molto caso a quel cambiamento, o se
ne era preoccupato più di tanto, reputandolo un passo
ulteriore
nella sua crescita di uomo, nella quale finalmente iniziava a prendere
con maggiore serietà la vita. Probabilmente solo occhi
estranei
avrebbero potuto percepire, in quell’improvvisa
maturità,
quel qualcosa che stonava un poco. Lei, Saori, che sempre
più
spesso frequentava la casa, l’aveva infatti notato e ne era
rimasta incuriosita a tal punto che, non rendendosene conto, quando era
in sua compagnia lo cercava in continuazione con lo sguardo, per
seguire ogni cosa facesse, ma senza farsene accorgere.
Anche Saga aveva ripreso il suo ruolo all’interno della
famiglia.
Dopo quel breve periodo di “ribellione”, nel quale
era
rimasto lontano da casa dando poche notizie di sé
– con
l’unica eccezione di Aiolos che, svolgendo al meglio il suo
incarico ufficioso, teneva regolarmente aggiornati i familiari sulle
sue condizioni, tacendo però alcune informazioni –
era
ritornato a essere il pacato, mite e sereno ragazzo che era sempre
stato e che tutti si aspettavano fosse. Da quando era tornato, tutti
nella casa erano più rilassati e bendisposti. E quando Saga
stava bene, anche tutti gli altri stavano bene.
A Kanon aveva iniziato a pesare un po’ quella condizione di
iperprotettività nei confronti del gemello, quel senso
generale
di allerta che li faceva scattare tutti quanti preoccupati, lui
compreso, ogniqualvolta il principino della casa aveva il minimo
problema; ma doveva ammettere però che vedere il gemello
sereno
rendeva sereno anche lui, che vedere Saga soddisfatto, lo
tranquillizzava e gli faceva tirare un sospiro di sollievo. Provava
sentimenti contrastanti, talvolta gelosia, ma alla fine prevaleva
sempre l’affetto per quel fratello che aveva rischiato di
perdere
troppo presto e che era rimasto indietro, a quel lontano dicembre del
1998. Era così almeno che lui riteneva stessero le cose: ai
suoi
occhi Saga era – e sempre sarebbe stato –
l’adolescente malaticcio di un tempo, incastrato nel corpo di
un
adulto dall’aspetto uguale al suo. A volte, soffermandosi a
guardarlo sorridere e parlare con qualcuno, oppure anche solo seduto a
leggere un libro, o a sorseggiare il caffè in poltrona
davanti
alla televisione, si domandava come sarebbe stata la vita di entrambi
senza quel famoso episodio che aveva scombinato la vita di tutti; se il
loro rapporto sarebbe stato lo stesso, o se invece le loro strade si
sarebbero divise prima.
Quel punto di svolta era stato una benedizione per loro due, per il
loro rapporto, oppure si era rivelato una catena che teneva saldo il
loro legame, ma nel modo sbagliato?
In fin dei conti però, a lui non dispiaceva affatto quella
situazione di dipendenza che suscitava Saga, ma percepiva anche un
sempre più evidente bisogno di conoscere ogni aspetto della
vita
del suo gemello, soprattutto ora che lo sentiva gradualmente
allontanarsi da lui. E allora si fermava a domandarsi: chi dei due era
davvero dipendente dall’altro? Chi dei due aveva davvero
bisogno
del sostegno dell’altro? Chi stava rimanendo indietro?
Lasciò cadere la matita sulla pagina del rapporto che stava
correggendo, osservandola rotolare lentamente, prima sulla superficie
bianca e poi su quella di legno, per terminare il suo percorso a pochi
centimetri dal bordo della scrivania. Se fosse caduta a terra sarebbe
stato un interessante diversivo a quei suoi pensieri che si stavano
facendo troppo malinconici per i suoi gusti. Era tutta la mattina che
se ne stava appartato in biblioteca a lavorare, interrotto solo da un
paio di telefonate al cellulare con il padre e qualche fugace partita a
Spider al computer, giusto per spezzare il carico e non arrivare al
completo esaurimento delle sue funzioni cerebrali. Nessuna
però
gli era riuscita e invece di ottenere un poco di svago si era solo
innervosito.
Sprofondò nella poltrona in pelle, con i gomiti appoggiati
ai
braccioli e la punta delle dita congiunte. Se ne rendeva conto anche da
solo di essere diventato un po’ ombroso in
quell’ultimo
periodo e questo gli dava ulteriori pensieri. Con uno sbuffo annoiato
diede una spinta coi piedi per scostarsi dalla scrivania e poi si
alzò dalla poltrona, stiracchiandosi la schiena e
lasciandosi
andare anche a uno sbadiglio svogliato. Da una delle finestre aperte
della biblioteca entrava il calore del sole, accompagnato da un refolo
di vento; e con esso anche il profumo dei fiori e delle piante del
giardino.
Kanon si avvicinò e diede una sbirciata fuori: quel tepore
che
gli accarezzava il viso era piacevole. Si concesse qualche secondo di
straniamento, chiudendo gli occhi per godersi quel momento. In
lontananza gli parve di sentire delle voci e delle risate allegre, ma
quando riaprì gli occhi, aspettandosi di scorgere qualcuno,
non
vide nessuno. Pensando di aver riconosciuto la voce di Saori aveva
sorriso un poco; e quella lieve piega sulle labbra non si era
cancellata, nonostante la constatazione di essersi ingannato. Quello
che era stato un fugace pensiero sulla giovane finì per
occupare
la sua mente fino a mette in secondo piano tutto il resto: in quei
giorni l’aveva vista perdere gradualmente la sua iniziale
timidezza, così come quella rigida compostezza che la faceva
sembrare sempre sulle sue, per mostrarsi più aperta e
spontanea,
seppur senza dare ancora troppa confidenza. Doveva riconoscerlo,
nonostante la sua giovane età, Saori era una bella ragazza,
educata, colta, elegante: ai tempi del vecchio Abraham Hayes sarebbe
stata perfetta come moglie di un Hayes; forse... lo sarebbe stata anche
adesso.
Si servì due dita di Scotch con ghiaccio e tornò
alla
finestra, appoggiandosi con la spalla allo spigolo del muro e la mano
nella tasca dei jeans. Ne prese un sorso, gustandolo lentamente per
assaporarne appieno l’aroma. Un leggero senso di bruciore gli
invase la gola, scendendo poi giù, fin nello stomaco. I suoi
occhi si fissarono su qualcosa di invisibile, un punto lontano: forse,
ciò che stava guardando, era la visione del suo prossimo
futuro... e riprese a pensare.
Fino a poco tempo prima, ogniqualvolta il rampollo degli Hayes
incrociava sulla sua strada quegli stranieri, o quando veniva anche
solo accennato l’argomento con qualcuno, dentro di
sé si
rammaricava dell’avventatezza giovanile che lo aveva portato
ad
accettare con troppa enfasi un futuro già segnato. Ricordava
che
a quel tempo si era immaginato solo gli aspetti positivi della vicenda:
una posizione importante a capo di una multinazionale –
indipendente dall’impero del padre – condita da
successo,
potere e soldi.
Si bagnò appena le labbra con un altro piccolo sorso del
drink,
sospirando. Ricordava con nostalgia quando aveva raccontato quelle
fantasie al gemello, profondendosi in monologhi entusiastici, gonfiando
il petto d’orgoglio e vanità, decantando i
vantaggi e le
infinite possibilità di quel suo futuro, mentre
l’altro
era quasi un prigioniero nella sua stessa casa. Forse a quel tempo non
aveva notato la delusione che Saga non era riuscito a mascherare del
tutto, dietro le apparenti felicitazioni che gli aveva fatto e i
sorrisi partecipi a quei discorsi, ma poco gli era importato, troppo
concentrato su se stesso. Mai un solo istante si era preoccupato di
spendere del tempo a considerare davvero a quali rinunce sarebbe andato
incontro.
Si passò la mano sul viso, aggrottando la fronte per un
momento.
Quanti pensieri si stavano accavallando nella sua mente, per un
semplice break che si era concesso dal lavoro.
«Che palle…» sbuffò un poco
innervosito.
«Se è questo che significa essere adulti, allora
preferisco continuare a fare lo scemo.»
Non ci credeva nemmeno lui alle parole che gli erano appena uscite
dalla bocca, in quel sussurro malinconico, sottintendendo il fastidio
che gli davano quelle continue ondate di pensieri che lo stavano
sfibrando ancor più che se avesse partecipato alla riunione
annuale di tutti i contabili della corporation per la revisione dei
bilanci.
Scrollò il capo con vigore, lasciando agitare liberi alla
luce
del sole i suoi fluenti capelli biondi che non avevano nulla da
invidiare a quelli del gemello, provando a scacciare quei pensieri che
si stavano intrufolando di nuovo nella sua testa. Ancora una volta gli
parve di udire la voce di Saori, allegra e gioviale, provenire dal
giardino.
Quanto gli ci era voluto per iniziare ad accettare davvero quella
stramba idea? Qualche settimana? Perché negarlo era ormai
impossibile: seppur tanto, troppo giovane, non sarebbe stato un grande
scandalo averla come moglie, sempre che i sentimenti fossero reciproci.
Sospirò, scrollando di nuovo la testa.
Se solo avesse ragionato di più le cose sarebbero andate
diversamente. Il padre una scelta gliel’aveva data. La
possibilità di rifiutare quella proposta e di scegliere
un’altra strada gli era stata messa lì, a portata
di mano;
Shion non glielo avrebbe mai rinfacciato. Anzi, forse sarebbe stato
addirittura orgoglioso di lui. Ma a quindici anni era troppo stupido e
arrogante; e i due piatti della bilancia che gli erano stati presentati
gli erano sembrati così sproporzionati da non lasciargli
effettiva scelta, considerata anche la sua indole. Se il padre glielo
avesse proposto ora, da adulto, non ci avrebbe pensato due volte a dire
di no, perché nel suo cuore c’era già
una persona
speciale, anche se non era così sicuro sarebbe stata quella
giusta o meno.
Avvicinò il bicchiere alla bocca, senza però
toccarlo con
le labbra, ma soffermandosi un secondo di più a sentirne
l’aroma. Il liquido ambrato mandò dei piccoli
bagliori ai
raggi del sole.
«Kanon!»
Il ragazzo, completamente perso nei suoi pensieri, sobbalzò
nel
sentire chiamare il suo nome con quello che gli parve un tono quasi
allarmato. Si girò di scatto e vide il gemello sulla soglia
della biblioteca, col viso leggermente arrossato e un lieve fiatone che
gli faceva alzare e abbassare il petto in modo irregolare.
«Non credi che sia troppo presto per bere?» lo
ammonì Saga.
Kanon avrebbe voluto rispondergli con una battuta del tipo
“Da
qualche parte nel mondo è l’ora giusta per
bere”, ma
si trattenne per risparmiarsi l’eventuale paternale che
l’altro avrebbe potuto fargli. Invece, lo squadrò
dalla
testa ai piedi, osservandolo avanzare nella stanza e avvicinarsi a lui.
Sembrava proprio il classico ragazzotto benestante e perditempo, con
nessun pensiero o preoccupazione in testa, se non quello di divertirsi,
che si vedeva nei vecchi telefilm polizieschi come Matlock, o Murder, she wrote
che guardava di nascosto da adolescente.
Scarpe da ginnastica, pantaloncini corti, maglietta polo e pullover
legato sulle spalle, tutto rigorosamente bianco panna, ma con qualche
dettaglio in blu scuro e l’immancabile sorriso di chi
è in
perenne vacanza.
«Sei pronto per partecipare al torneo di
Wimbledon?» gli
domandò, con una mezza smorfia sulle labbra, che nelle sue
intenzioni avrebbe dovuto assomigliare a un sorriso e invece era un
qualcosa di indefinito.
Saga rispose alla sua battuta con un sorriso sereno, senza malizia, che
fece sorridere più sinceramente anche lui.
«Sua maestà la regina aspetta anche te»,
replicò il gemello, battendo leggermente la racchetta sulla
spalla.
«Allora dovrà attendere un bel
po’!»
«Ma eravamo d’accordo per un
doppio…» sussurrò un poco deluso Saga.
«Lo so. Mi dispiace, fratellino, ma ho troppo lavoro
arretrato.
Devo preparare un rapporto generale dettagliato e il nostro caro e
amorevole genitore lo pretende per quando tornerà a casa
questa
sera.»
Il primogenito si avvicinò di nuovo alla scrivania,
appoggiandovi il bicchiere e passandosi poi una mano fra i capelli,
pettinandoli all’indietro e sospirando stancamente. Non ne
poteva
più di tutte quelle carte.
Borbottò qualcosa di incomprensibile, osservando il rapporto
preliminare che era aperto sulla scrivania e che fino a una
mezz’ora prima stava tentando, con poco successo, di
studiare. Si
appoggiò con entrambe le mani sulla scrivania, sbuffando
scocciato. Il suo sguardo si spostò sugli altri rapporti,
quelli
accatastati in bella mostra alla sua sinistra, ancora da leggere e
valutare. Il solo pensiero gli faceva venire il mal di testa.
«Io credo che un po’ di svago non possa che farti
bene», disse Saga, raggiungendo il fratello e sedendosi sulla
poltrona.
Kanon alzò un poco lo sguardo sul fratello. Con
quell’angolazione particolare i suoi occhi sembravano quasi
incolleriti per le parole che l’altro aveva appena
pronunciato,
nonostante lui non sentisse certo quel sentimento nei confronti del
gemello; anzi, era ben felice di averlo vicino a sé. Ma era
anche vero che un po’ gli aveva dato fastidio il suo
atteggiamento. Era come se non si rendesse conto del momento che stava
vivendo e dello stress che quella mole di lavoro gli provocava.
«Tieni!» Saga gli puntò la parte rotonda
della
racchetta contro il petto, spingendo un poco in modo scherzoso, senza
far troppo caso allo sguardo scocciato dell'altro. «Prendi il
mio
posto e sfogati al Country Club. Tanto il campo cinque è
prenotato per tutto il giorno; e poi ci sarà anche Aiolia!
Non
vorresti dargli una bella lezione come ai vecchi tempi? Per non parlare
di quel Seiya. Sono sicuro che appena inizierai a prenderlo a pallate
ti sentirai subito meglio!»
«Non sai quanto mi piacerebbe, ma non me lo posso
permettere», rispose Kanon, scostando la racchetta.
«Certo che puoi!» ribatté Saga,
infastidito
perché lo vedeva così avvilito e rinunciatario.
In quel
momento non lo riconosceva più. Kanon non era mai stato
così: era un ribelle, uno che amava divertirsi e cogliere al
volo ogni occasione per fare un po’ di casino. «Ci
penso io
a smaltire questo lavoro e poi ti passerò un resoconto
dettagliato.»
«Come quello dell’altra volta?» disse
Kanon, con una punta di malizia nella voce.
«Nessun trucco od omissione, questa volta», lo
rassicurò Saga, con un sorriso disteso, ma guardandolo
dritto
negli occhi.
Kanon rimase sbalordito davanti all’atteggiamento risoluto
del
fratello. Durò solo una frazione di secondo, ma in quello
sguardo così deciso vide qualcosa di strano, che
riuscì a
turbarlo. Era come se all’improvviso si fosse reso conto che
qualcuno gli aveva sottratto qualcosa di importante senza riuscire a
impedirlo. Saga era diverso rispetto alle ultime settimane, ma in
qualche modo era diverso anche da quegli ultimi tredici anni.
C’era una luce particolare in quei suoi occhi verdi, dietro
alla
loro limpidezza e alla sincerità che li aveva sempre
contraddistinti, c'era una nuova consapevolezza e una ritrovata gioia
di vivere. Un fugace tuffo nel passato, a quando loro erano bambini e
la vita era ancora solo un gioco.
Avrebbe dovuto rallegrarsi per quelle sensazioni, ma non sapeva
spiegarsi il perché non ci riuscisse; non in quel momento,
almeno. Da un lato gli dava fastidio vedere Saga con un atteggiamento
così aperto e socievole, col sorriso sempre disegnato sulle
labbra e una spensieratezza che talvolta gli sembrava fuori luogo,
mentre lui si sentiva come soverchiato di preoccupazioni, di pensieri
e… più vecchio di quanto non fosse in
realtà.
D’altro canto però, dietro un’invidia
che non si
faceva scrupoli di far capolino nella sua mente – e che non
aveva
il coraggio di confessare neanche a se stesso – si sentiva
decisamente più sollevato nel vederlo di nuovo entusiasta,
scherzoso e, perché no, anche un po’ infantile, ma
nel
senso buono.
In quell’ultimo mese erano tornati a essere più
inseparabili che mai, eppure Kanon aveva avvertito che qualcosa era
cambiato. Se n’era accorto già da tempo, ma ora
era
più evidente: il suo gemello era permeato da una
serenità
più piena, era più sicuro e più
maturo. Ai suoi
occhi, Saga mostrava un mix incredibile di emozioni colorate,
più vere, che nulla avevano in comune con la monocromatica
aura
che lo aveva avvolto e protetto come una barriera, negli anni passati.
Continuò a osservarlo, seduto alla scrivania, lasciando che
il
tempo scorresse libero, assaporando quella sensazione di affetto che
sentiva spandersi nell’austera biblioteca. Sorrise a tutti
quei
pensieri, così diametralmente opposti a quelli che avevano
invaso la sua testa quella mattina e gli stavano facendo uno strano
effetto.
«Cosa ti ha fatto cambiare in questo modo?»
mormorò,
preferendo puntare il suo sguardo sul rapporto che Saga teneva in mano
e che aveva appena iniziato a leggere, anziché sul gemello
stesso.
«Hai detto qualcosa?» chiese Saga, alzando la testa.
«Stavo notando che c’è qualcosa di
diverso in te.»
Kanon non badò alla perplessità dipinta sul viso
dell'altro, si liberò un angolo della scrivania e vi si
sedette,
tornando a fissarlo. Ora se ne stava rendendo conto per davvero: di
fronte a lui non c'era il debole Saga, quello sempre bisognoso di
protezione perché incapace di reggersi sulle proprie gambe;
non
c'era il fragile Saga che al primo soffio di vento rischiava di
dissolversi come un lieve miraggio; non c'era il cagionevole Saga che
bisognava vegliare per tutta la notte per assicurarsi che lui si
sarebbe svegliato il mattino seguente.
Sentì qualcosa incrinarsi dentro di sé e
forse…
forse finalmente comprese il significato di quell’improvviso
vuoto e quel senso di solitudine che lo aveva angosciato qualche
settimana prima. La spiegazione era così semplice. Non era
abituato ad avere a che fare con un fratello che ora aveva la forza di
affermare la propria indipendenza.
Ma ora, quale sarebbe stato il suo ruolo se il gemello avesse
continuato per la propria strada senza aver più bisogno del
suo
sostegno? Forse lo spaventava un rapporto paritario con Saga?
«Ti senti bene?» gli chiese Saga, con voce
preoccupata,
trovandosi ancora sotto esame dallo sguardo ora corrucciato del gemello.
«Grazie, fratellino. Mi stai salvando la vita»,
disse
Kanon, abbracciandolo all’improvviso, senza dargli ulteriori
spiegazioni, ma lasciandolo ancor più esterrefatto e senza
fiato
per quel gesto.
Certo non poteva rivelargli ciò che davvero gli dava
pensiero,
si era quindi limitato a stringerlo forte, come se da un momento
all’altro gli potesse sfuggire.
«Va bene, va bene…» ansimò
Saga. «Ora
però sparisci, prima che cambi idea. Ma domenica prossima mi
devi una partita!»
Non appena vide sparire il fratello oltre la soglia dalla biblioteca,
Saga tirò un sospiro di sollievo e si rilassò.
Accantonò subito il lavoro che si era offerto di fare e per
qualche secondo si dondolò sulla poltrona, pensando a come
organizzarsi. Poi, da uno dei cassetti prese una piccola agendina con
la copertina di pelle grigia, avvicinò a sé il
telefono e
compose il numero, attendendo.
«Martin!» chiamò, non appena
sentì il
“pronto” dall’altra parte della linea.
«Smuovi
il sedere e vieni alla villa, c’è del lavoro
urgente da
fare!» ordinò con tono deciso, ma se
l’altro fosse
stato nella stanza con lui, avrebbe visto un mezzo sorrisetto sulle sue
labbra.
«Ma… capo, è sabato! Avevo organizzato
un barbecue
e una partita a poker con alcuni colleghi! Non si può
rimandare
a lunedì?» azzardò l’uomo,
con voce un poco
lamentosa. Anche se Saga non aveva un ruolo ufficiale nella
società di famiglia, era sempre bene non contrariare troppo
un
Hayes.
«Scommetto che ci sono anche Jimmy e Stu, vero? Ottimo! Porta
anche loro, più siamo e prima finiamo!»
Un analista di mercato, un contabile, un assistente legale…
e
poi c’era lui, il jolly del gruppo, che in sé
racchiudeva
le medesime competenze di tutti gli altri, ma che si era scelto il
ruolo più semplice di dattilografo e di supervisore. Nel
corso
degli ultimi anni, Saga aveva formato quel piccolo team molto
efficiente e affiatato, col quale svolgeva al meglio il lavoro che gli
veniva assegnato dal padre e, all'occorrenza, prendendo in consegna
anche quello di Kanon, ottenendo sempre ottimi risultati.
Attese per diversi secondi che dall’altra parte
l’uomo
replicasse qualcosa, ma alle sue orecchie arrivavano solo dei respiri
incerti e nervosi.
«Sai, Martin, mi ritrovo fra le mani un paio di biglietti per
quel match tanto atteso al Madison Square Garden. Sono posti riservati,
in ottima posizione… ma non so cosa farci. Mi dispiacerebbe
se
andassero sprecati. Tu mi avevi detto che ti interessava
quell’evento, non è vero?» gli chiese,
con voce
pacata, quasi melliflua.
Saga era certo che sarebbe bastato solo un piccolo incoraggiamento per
ottenere ciò che voleva e la conferma gli arrivò
pochi
istanti dopo con un verso strozzato dell'impiegato che fece ben
intendere che avrebbe ceduto a quella richiesta. Gli concesse
mezz’ora per presentarsi da lui, passando naturalmente
dall’accesso secondario, quello che costeggiava il lago.
Terminata la telefonata chiuse gli occhi, soddisfatto e si
rilassò completamente. Non gli restava che vincere la sfida
con
Kanon per ottenere quei famosi biglietti e tutto si sarebbe incastrato
alla perfezione. Quella era la parte più facile: Kanon era
un
ottimo atleta, uno sportivo d’eccellenza, imbattibile a
basket e
a hockey, ma a tennis non aveva speranze contro di lui. Negli ultimi
dieci anni Saga non era mai stato battuto e non lo sarebbe stato
neppure questa volta, vista la posta in palio.
Nel silenzio della biblioteca si sentì il lieve suono della
vibrazione del suo smartphone. Sul display comparve il nome di Jenny,
storse la bocca in una smorfia nel leggerlo. Continuò a
fissarlo
fin quando non smise di vibrare e tirò un sospiro di
sollievo.
Non che gli desse fastidio che lei lo volesse contattare dopo tutte
quei mesi di silenzio, ma sapeva bene cosa voleva da lui e ora non
c'era più possibilità di rimettersi assieme.
Non riuscì a terminare quei pensieri che il cellulare si
animò una seconda volta: ancora una volta era lei. Saga
scelse
di non rispondere e di nuovo attese. Poi fu la volta di un messaggio. A
questo poteva anche dare un'occhiata. Se ne pentì subito: il
tono era drammatico e teatrale come solo Jenny sapeva essere, gli
comunicava che al ritorno dall'Europa Cicci e lei avrebbero passato
tutto il mese di settembre al Country Club e non vedevano l'ora di
stare con lui.
Si lasciò andare a una risatina, mentre cancellava il
messaggio;
fece un pensierino anche se cancellare in maniera definitiva dal
cellulare il contatto di Jenny, ma ci ripensò.
Appoggiò
lo smartphone sulla scrivania e si concesse qualche altro secondo per
rilassarsi.
Certo, non aveva programmato di farsi carico del lavoro di Kanon, ma
almeno per qualche ora sarebbe stato in pace con i propri pensieri e
soprattutto non avrebbe dovuto fingere una spensieratezza che in
quell'ultimo periodo non gli apparteneva. Presto però, le
cose
sarebbero cambiate.
Si alzò di slancio dalla poltrona e, dopo essersi messo in
tasca
il cellulare, a passo spedito, andò in cucina, dove Francine
stava lavorando con dedizione, nonostante quel giorno avrebbero
pranzato tutti al Country Club. Si annunciò con qualche
colpetto
di tosse, avvicinandosi poi piano, con accortezza, poiché la
donna non reagiva molto bene alla gente che le arrivava alle spalle di
soppiatto e soprattutto non le piaceva essere controllata nel suo
lavoro.
«Buongiorno, Francine», la salutò,
sfoderando il suo
miglior sorriso e lo sguardo più dolce che fosse in grado di
fare.
La donna mosse il capo in risposta, ma continuò a tritare le
erbette aromatiche che aveva sul tagliere.
«Avrei da chiederti una piccola
cortesia…» Un toc un
poco più forte lo mise in guardia dal non osare troppo.
Sospirò. «Vorrei organizzare qualcosa di speciale
per la
cena di domenica prossima.»
La donna ebbe un leggero tentennamento col movimento della lama. Poi,
lentamente, alzò lo sguardo sul giovane padrone di casa. Non
era
certa di ciò che il ragazzo stava per chiederle, ma sperava
di
avere un po’ di libertà per il menù.
«Ci sarà un ospite particolare, molto importante
per me,
e…» Saga trattenne per un attimo il respiro, sotto
lo
sguardo torvo della cuoca. Non che la donna lo mettesse in soggezione,
anche se era in qualche modo la pupilla di Nanny e lei sì
che
sapeva mettere in riga la gente quando serviva, ma bisognava lo stesso
andarci cauti con lei. «Come te la cavi con la cucina
italiana?» azzardò.
«Le ho mai preparato qualcosa che non fosse buono?»
ribatté lei in risposta, lasciando il coltello sul tagliere
e
incrociando le braccia al petto. Quella domanda l’aveva
percepita
come una mancanza di fiducia nei suoi confronti e, posta in quel modo,
le era parsa persino offensiva.
«La nostra Francine si è già cimentata
nella cucina
italiana regionale e con gran successo, dovresti saperlo
bene!»
disse Nanny, entrando in quel momento nella stanza e avvicinandosi alla
donna. «E se tu ci fossi stato, quando abbiamo mangiato quel
meraviglioso brasato, adesso non avresti bisogno di fare una domanda
tanto sciocca», lo rimproverò.
Per la prima volta in vita sua, Saga stava sperimentando
com’era
mettersi contro due donne e sentirsi letteralmente sbattuto
all’angolo: da un lato c’era la cuoca che lo
guardava un
poco risentita, dall’altro invece, Nanny aspettava una
spiegazione e delle scuse da parte sua. Dopo tutti quei giorni, il
giovane non si era ancora confessato con lei e questo stava iniziando a
diventare una brutta abitudine. Soprattutto, l’anziana donna
sentiva che il suo piccolo si stava allontanando dalla sua ala
protettrice.
«Ehm… sarebbe quindi improprio chiedere di
replicare lo
stesso piatto, vero?» domandò lui, con timido
imbarazzo.
Nanny voltò lo sguardo verso Francine, rivolgendole una
tacita
domanda e questa, sbuffando pensierosa, annuì la testa.
«Qualunque cosa vorrai venisse servita a questa cena,
Francine saprà di sicuro accontentarti.»
La fiducia della governante di villa Hayes nelle capacità
della
cuoca era ben riposta, non solo perché la donna non aveva
mai
mancato di sfoggiare le sue doti culinarie che l’avevano resa
un’esperta della cucina americana, ma grazie a quella sua
passione era diventata una fine conoscitrice anche di quella europea.
Non a caso il suo sogno nel cassetto era da sempre un tour gastronomico
nelle più belle città francesi e italiane.
«Vuole qualcosa di particolarmente oppure restare nel
classico?
Freddo o caldo? Impegnativo oppure leggero?»
domandò con
tono burbero la cuoca; e sarebbe andata avanti ancora per un bel
po’ con quelle domande, se non avesse notato come il giovane
fosse stordito da tante opzioni.
«Credo… credo…» Saga si
portò una mano
alla testa, grattandosi la fronte leggermente aggrottata; stava
provando a ricordare se lei gliene avesse parlato o meno.
«Cucina
del Nord Italia», disse, anche se non ne era certo.
«Francine, ti do piena libertà nella
scelta!» disse,
provando in quel modo a riconquistare i favori della cuoca, semmai li
avesse mai avuti.
La donna era un individuo assai indecifrabile per ognuno dei membri di
quella famiglia e nessuno, a esclusione di Nanny naturalmente, sapeva
come prenderla per il verso giusto. E poi, se ripensava a quante volte
aveva fatto il difficile con i piatti che lei gli aveva cucinato,
quando era malato… con tutta probabilità lui era
quello
visto meno di buon occhio dalla cuoca.
«Qualcosa di speciale, particolare… magari
rustico, ma
unico! Che faccia venire nostalgia di casa», concluse, con
uno
strano sorriso imbambolato disegnato sulle labbra.
Nanny sospirò, scrollando la testa. Vedere così
il suo
piccino le faceva uno strano effetto. Era infine arrivato anche per lui
il tempo provare il vero amore e lei non poteva farci nulla, non poteva
fermare il tempo e proteggerlo da tale sentimento. E al diavolo le
altre storie che aveva avuto negli anni passati, lo sapeva bene che non
avevano mai avuto alcun valore. In quell’aspetto Saga era
proprio
come Shion. Ma ora… ora era diverso. Lo sguardo languido del
giovane era lo stesso che lei aveva visto negli occhi di suo marito
durante i primi anni di matrimonio, prima che si rivelasse il buono a
nulla che era; e, a malincuore, doveva ammettere che era lo stesso
sguardo che aveva visto negli occhi di Georgie – e che ancora
vedeva – quando aveva conosciuto quel disgraziato del suo
genero.
«L’amore…» sospirò
lei, con gli occhi che erano diventati un poco lucidi.
«Va bene!» acconsentì la cuoca,
riprendendo in mano
il coltello e ricominciando a tritare, ancor più finemente,
le
erbette sul tagliere, che sarebbero servite per la marinatura dei
filetti di salmone che erano in programma per la cena. C’era
però qualcosa di diverso da prima: i toc rimbombavano
pericolosamente più secchi e nervosi di prima.
Saga rimase ancora qualche minuto in cucina, ma più passava
il
tempo, più si faceva largo la consapevolezza che quel luogo
diventava meno sicuro per la sua salute. Se avesse provato a disturbare
ancora Francine, avrebbe di sicuro rischiato la vita.
Preferì
salutare educatamente le due donne e svignarsela, rinunciando a
soddisfare il languorino che saliva dal suo stomaco: certi odorini, che
si spandevano in quell’ambiente, avrebbero risvegliato
l’appetito anche di un morto.
Salì di corsa, a due a due, i gradini dello scalone
principale,
con il cuore che batteva forte nel petto e si rintanò nella
sua
camera da letto. Presto sarebbero arrivati i suoi collaboratori, ma
aveva ancora alcuni minuti tutti per sé. Una volta nel suo
rifugio, il sorriso che aveva continuato a mostrare a tutti quanti
lasciò posto a una maschera di triste malinconia.
Lì
dentro poteva liberare i suoi veri sentimenti, senza correre il rischio
che qualcuno lo assillasse per saperne il motivo. In
quell’ultimo
mese aveva sperimentato ancora di più quanto potesse essere
pesante e opprimente lo sguardo di tutti su di sé e il dover
misurare ogni azione per non far trasparire il disagio che provava a
essere studiato così al microscopio.
Lì era libero. Fece un respiro profondo: presto non avrebbe
dovuto più fingere di essere sereno e spensierato.
Come un fanciullo birichino si lasciò cadere sul letto,
osservando le piccole ombre sul soffitto che animavano quella tela
bianca. Respirava con lentezza, sorridendo, mentre accarezzava con la
mano il copriletto chiaro. La luce del sole entrava invadente nella
stanza; un refolo di vento smuoveva le tende leggere in una danza
delicata e armoniosa.
Prese il cellulare dalla tasca e si girò sul fianco.
Attivò lo schermo, aprì la casella dei messaggi e
rilesse
l'ultima chat tenuta con Cora. Il sorriso tornò a fare
capolino
sulle sue belle labbra. Era rimasto sdraiato, a sognare a occhi aperti,
per per almeno cinque minuti buoni. Poi, con improvvisa apprensione
diede guardò l’ora, tirando un sospiro di
sollievo: aveva
tempo.
Si alzò dal letto e si affacciò alla finestra
aperta,
senza però uscire sul balconcino, che Kanon, in un momento
di
particolare malizia, aveva ribattezzato di Romeo. Non se
l’era
presa per quella presa in giro, ma da quel momento in avanti si era
sentito un poco in imbarazzo ad affacciarvisi. Col cellulare ancora in
mano aprì la rubrica e selezionò il numero di
Cora.
Lasciò squillare per diverse volte, aspettando paziente.
«Ciao», la salutò con un sorriso.
Dall’altra
parte ci fu un leggero ansimo, poi anche lei rispose. «Come
vanno
le cose da te?»
«Tutto bene. Mia madre mi fa impazzire; non mi lascia sola
neanche quando voglio uscire a fare spese o a fare una passeggiata! E
da te?» chiese lei, trattenendo il respiro.
«Qui è sempre tutto grigio…
perché non sei
con me.» Dall’altra parte della linea Saga
sentì una
risatina divertita, nonostante Cora avesse cercato di camuffarla.
«Troppo sdolcinato?» disse, per nulla in imbarazzo,
né offeso.
«Sì. Però mi piace.»
«Mi manchi», disse all’improvviso Saga,
con tono
più serio, ma c’era anche tanta dolcezza nella sua
voce e
un poco di malinconia.
«Mi manchi anche tu», replicò lei,
sospirando.
«Mi hai chiesto di tornare dalla mia famiglia e
l’ho fatto;
mi hai chiesto di rimanere qui per qualche giorno e l’ho
fatto.
Ma quando potremo stare di nuovo assieme?»
Saga non poteva vederla ma lo sentiva che dietro l’emozione
che
permeava la sua voce si nascondeva tanta tristezza e forse anche un
velo di risentimento.
«La casa è ormai pronta. Volendo, potresti tornare
anche
subito», le disse, «ma…» Fece
una pausa,
mordendosi il labbro; non sapeva come lei avrebbe preso una richiesta
del genere. «Vorrei che tu rimanessi lì ancora un
po’. Voglio che tutto sia perfetto per quando ti
presenterò in famiglia.»
*****
Philadelphia
Come ogni volta che sentiva la sua voce, o riceveva un messaggio da
lui, l’umore di Cora schizzava alle stelle.
Quell’euforia
durava qualche ora, le faceva sembrare tutto bello, le dava infinite
energie per fare qualsiasi cosa e poi, come se le batterie si
scaricassero all’improvviso, cadeva in un lieve stato di
malinconia e inedia.
Talvolta si sentiva fuori posto, in quella che era stata la sua casa
dopo che sua madre e lei – assieme al fratellino ancora in
fasce
– se n’erano andate da Boston; si sentiva come
un’ospite non sempre gradita, come un’estranea. Lei
stessa
faceva poco o nulla per migliorare quello stato di cose. Tutti in casa
si erano un po’ abituati a vederla così.
In quelle occasioni, Teresa provava a scuoterla, a coinvolgerla nella
cucina, nella stesura dell'ultima bozza a cui stava lavorando, o in
qualsiasi altra cosa le passasse per la mente per distrarla: qualche
volta ci riusciva, altre volte invece preferiva non insistere troppo,
per non peggiorare le cose.
Phillip non vedeva di buon occhio quella situazione, ma immaginava bene
a cosa potesse essere dovuto quel suo comportamento. Sapeva che in
qualche modo c’entrava il tizio col quale lei ora viveva,
però non aveva mai esternato le sue preoccupazioni con la
compagna per non generare altre preoccupazioni e successive
discussioni. Aveva sempre confidato nel buon senso della sua figlioccia
e così avrebbe continuato a fare, ma al primo sentore di
problemi non avrebbe esitato a risolvere a modo suo. Su quel punto era
stato fin da subito molto chiaro con Cora.
E Mike… lui era un solo ragazzino che stava entrando nella
fase
problematica dell'adolescenza. Si era stufato presto della situazione e
aveva continuato con la sua vita come nulla fosse. Del resto, sapeva
che prima o poi la sorella se ne sarebbe andata di nuovo,
dimenticandosi di lui.
Era passata quasi una settimana dalla richiesta di Saga di rimanere a
Philadelphia e pazientare ancora un poco. In quegli ultimi giorni il
comportamento di Cora aveva iniziato a cambiare gradualmente. Aveva
iniziato a sentirsi strana, più stanca e assonnata del
solito e
anche più volubile di quanto non fosse già di
natura.
Quel giorno, nonostante fossero le undici e mezza passate di mattina,
la ragazza si era ritirata in camera sua e si era stesa di nuovo sul
letto, accoccolandosi per bene sotto la coperta e stringendo al petto
uno suoi vecchi peluche. Nei primi tempi le era parso strano tornare a
dormire nella sua vecchia stanza, ma non aveva potuto farci nulla:
l'appartamento che la madre le aveva comprato e che per tanti anni
aveva condiviso con Chris, era stato dato in affitto a una giovane
coppia di professionisti. Non poteva certo pretendere di rompere il
contratto e cacciarli da lì solo per qualche settimana che
si
sarebbe fermata in città. E quella non era stata
l’unica
novità che aveva trovato: Chris era tornato a vivere dai
genitori, almeno per il tempo che rimaneva prima del suo trasferimento
in California; ma non solo, l’aveva anche sostituita
all’agenzia investigativa dello zio Phil! Ed essendo lui
uomo, lo
zio lo portava spesso in “missione” con
sé.
Cora iniziò a tormentarsi le dita, sbuffando e sospirando,
agitandosi e rigirandosi nervosamente sul materasso. Le sembrava di
essere diventata la protagonista adolescente di un filmetto rosa, preda
dei primi amori: sempre con le farfalle nello stomaco, un sorrisetto
ebete stampato sul viso e negli occhi le perenni fantasie di una vita
assieme alla sua anima gemella.
Quella situazione, a dire il vero, in parte l’aveva
già
vissuta. Non era stato certo tutto cuoricini rosa e occhioni
sbrilluccicanti con Chris, ma quell’impazienza, la voglia di
vivere assieme a lui, in una casa tutta loro… erano le
medesime
che sentiva in quel momento, con la sola differenza che –
anche
se non riusciva a capirne il motivo – questa volta non voleva
confidarsi con nessuno su ciò che provava e per chi lo
provava.
Si girò sul fianco, schiacciando quel povero gufetto di
peluche
che teneva stretto a sé e che aveva visto giorni migliori.
Con
gli occhi chiusi, affondò il viso nella morbida pelliccia
sintetica, mentre ripensava di nuovo a quegli ultimi giorni trascorsi a
Boston: i più felici della sua vita, a dispetto di quello
che
aveva detto Saga, ovvero che si sarebbe stancata di vederlo gironzolare
per casa senza niente da fare. Forse, complici anche i lavori per
risistemare l’appartamento e i tanti progetti che avevano
discusso, non c’era stato mai un attimo di vera noia. Le era
sembrata quasi una maledizione, uno strambo e innocuo stalker che la
seguiva ovunque andasse ad abitare, quel continuo dover impacchettare e
spacchettare le sue cose, spostare, smontare, coprire con i teli di
plastica e i fogli di giornale tutto quello che doveva essere
salvaguardato. Ma in fondo, un po’ la divertiva pure. Le era
sempre piaciuto rivoluzionare la casa. In quell’occasione
aveva
visto in Saga un lato che non immaginava potesse avere; si era sorpresa
di scoprire che il ragazzo che amava era un bravo architetto,
nonostante non avesse mai studiato tale materia.
E poi, le notti: belle e romantiche, dolci, passate a parlare, a fare
l’amore, a coccolarsi e prendersi cura di Kitty che proprio
in
quei giorni era stata portata di nuovo dal veterinario, ma questa volta
per essere sterilizzata. Non che le volessero male, ma non sarebbe
stato facile, né pratico, dover gestire la gattina in
condizioni
“diverse”, così come non avrebbero
potuto, di
conseguenza, tenere altri cuccioli. Forse era in qualche modo crudele
ed egoistico, ma perché mettersi in una situazione che poi
non
avrebbero potuto gestire?
«Kitty…» mugugnò, un
po’ in pensiero per quella gattina.
Ancora non erano diventate anime gemelle, né poteva dire di
andare d’accordo con quella piccola peste, ma ormai si stava
affezionando a lei; e poi, Saga l’adorava e quella palletta
di
pelo ricambiava fin troppo. Cora ci passava sopra, perché
nonostante la sciocca gelosia che sentiva nei confronti
dell’animale, era bello vedere Saga sorridere quando giocava
con
lei. Le era dispiaciuto non averla potuta portare con sé a
Philadelphia, poiché suo fratello era allergico; e neanche
Saga
aveva potuto portarla alla villa. Non aveva domandato il motivo, ma
aveva capito che lui si era sentito in un certo imbarazzo quando
avevano discusso sul da farsi. L’unica soluzione che era
sembrata
praticabile era stata allora quella di lasciarla in custodia a Jade, la
vicina impicciona che abitava nella palazzina oltre il cortile.
Sospirò.
Si sentiva stanca, di nuovo, come se non dormisse da giorni; eppure le
ore di sonno erano aumentate visibilmente. In quegli ultimi giorni
passava più tempo in camera, stesa sul letto, che in piedi
con
gli altri. Lentamente si stava lasciando vincere ancora una volta dalla
sonnolenza, come sotto l’influsso di un anestetico o di una
qualche strana malattia del sonno. Le stava capitando fin troppo
spesso. “Solo qualche minuto”, ripeteva fra
sé e
sé, guardando l’ora sul display della sveglia.
Ogni volta
le sembravano solo pochi minuti, ma quando riapriva gli occhi erano
passate delle ore.
*****
Aprì lentamente la porta della camera, sbadigliando senza
troppo
riguardo. La casa era invasa dalla luce del sole; in una delle stanze
si sentiva risuonare della musica: rumorosa e fastidiosa,
pensò
Cora, non del tutto lucida. Con dei vecchi calzettoni grigi e rosa ai
piedi percorse il corridoio fino ad arrivare in cucina, dove proveniva
un delicato aroma di agrumi.
Il suo stomaco brontolò, ma non era sicura se fosse per la
fame
o per il leggero senso di nausea che sentiva persistente in quegli
ultimi giorni. Entrò, sbadigliando e stiracchiandosi la
schiena.
«Buon pomeriggio, tesoro. Hai fame? Ti ho tenuto da parte un
po’ di salmone, vuoi che te lo prepari?» le chiese
la
madre, intenta a mescolare nella casseruola una crema molto densa.
Cora si limitò ad annuire svogliata e si avvicinò
al
frigorifero per prendere qualcosa, qualsiasi cosa la ispirasse sul
momento, perché proprio non aveva idea di cosa voleva.
Dal salotto arrivarono delle voci estranee. Ci mise qualche secondo per
rendersi conto che si trattava della televisione: era il telegiornale.
Anche se era da un po’ di tempo che non lo sentiva
più,
alla fine riconobbe la voce dell’anchorman, con
quell’inconfondibile esse sibilante che le faceva accapponare
la
pelle.
«Ma... sono le news delle cinque?» chiese,
voltandosi verso la madre. D’un tratto era completamente
sveglia.
Teresa annuì, sorridendo. «Sei riuscita a
riposare?»
le chiese. La preoccupazione per la salute di quella figlia un po'
distratta era sempre fra i suoi pensieri. «Allora, hai
fame?»
Cora fece spallucce, mentre si avvicinava a lei per dare una
sbirciatina a ciò che stava facendo la donna.
«È crema pasticcera
all’arancia», disse
«In frigorifero ci sono delle coppette, sono le prove che ho
fatto. Prendine pure una, così mi dici se ti
piace.»
La ragazza non se lo fece ripetere due volte e, bella pimpante,
arraffò quella che le sembrava la più piena.
«Quest’anno ho pensato di variare un po’
la nostra solita torta di compleanno.»
«È squisita!» esclamò la
giovane, con la
bocca piena di quella dolcezza all’arancia.
«Mmh… ma
c’è anche il Pan di Spagna al cacao!»
disse, dopo
aver preso un secondo boccone più che generoso, affondando
il
cucchiaio e scoprendo sul fondo della coppetta quella base golosa,
bagnata con sciroppo, sempre all’arancia.
«Non è Pan di Spagna, ma una pate génoise»,
rivelò Teresa. «Una pasta genovese»,
ripeté,
ma questa volta in italiano, anche se ormai la sua pronuncia aveva
assunto le tipiche storpiature degli italoamericani.
Del resto, la sua lingua madre l’aveva abbandonata molti anni
prima, ovvero da quando i suoi genitori erano tornati in Italia per
vivere lì gli anni della pensione. Ci aveva provato a
insegnare
l'italiano alla figlia, anche per mantenersi in esercizio, ma con
scarsi risultati. Caroline non se n’era mai interessata
veramente. Tutto il contrario di Mike che invece si stava preparando
seriamente allo studio dell’italiano; e che voleva scegliere
come
lingua straniera quando avrebbe iniziato a frequentare le medie.
«Il risultato è simile, ma il procedimento
è differente!» spiegò la donna.
Cora ridacchiò divertita, non solo per quella escursione
nell’italiano che non sentiva da quando era bambina, ma anche
per
la posa da esperta che aveva mostrato la madre. «Vedo che
conosci
la materia, ti stai documentando per un libro di cucina? Stai cambiando
genere?» le chiese, continuando a mangiare di gusto. Poi,
all’improvviso, si chetò, sedendosi sulla sedia e
sbuffando fuori l’aria, un poco spossata.
«Ti senti bene?» le chiese Teresa, intravedendo con
la coda
dell’occhio la figlia che si passava la mano fra i capelli in
modo svogliato.
Cora annuì, sospirando e tornando a ripulire la coppetta che
teneva in mano, ma non era stata molto convincente: il suo viso era
pallido.
Versata la crema in una ciotola immersa in acqua ghiacciata e applicata
poi della pellicola da cucina, la donna abbandonò il resto e
si
avvicinò alla figlia, accarezzandole la fronte e le guance.
La
sua temperatura non era affatto normale: al tatto sembrava gelida.
«Sei sicura di star bene? Ti sei ricordata di fare le analisi
di
controllo?» le chiese, con un poco di preoccupazione nella
voce.
E questa volta non si trattava di preoccupazioni superflue di una madre
troppo apprensiva. «Hai avuto altri episodi come
questo?»
Sapeva che la figlia non si era mai curata più di tanto
della
propria salute e spesso ignorava i consigli del medico di sottoporsi ai
normali controlli, ma da dopo il suo ferimento, subìto
qualche
anno prima, questi erano diventati ancora più necessari;
fintanto che era rimasta a Philadelphia, era stata ligia ai suoi
doveri, ma lontano da tutti…
Cora scrollò la testa.
«Sto bene, è solo un po’ di stanchezza.
Sarà
la primavera!» scherzò lei, ma non poteva darla a
bere
alla madre.
«Beh, un controllo non ti farà certo male! Domani
andremo
alla clinica, così saremo tutti più
tranquilli!»
stabilì Teresa.
«Ma perché perdere tempo? Sarà solo un
po’ di
mancanza di ferro! Niente che non si possa sistemare con qualche
integratore, proprio come abbiamo sempre fatto.»
«Hai forse qualcosa da nascondere?» insistette
Teresa,
questa volta un po’ contrariata. «Questo mese le
hai
saltate, vero? C'è qualcosa che vuoi dirmi?» le
disse; non
c’era alcuna traccia di accusa o parvenza di rimprovero serio
nella sua voce.
Cora arrossì senza volerlo; certi argomenti, anche se li
affrontava fra donne, la mettevano in forte disagio e parlare con sua
madre di “quella” cosa, così come della
sua vita
sessuale, era ancora più imbarazzante.
Posò la coppetta sul tavolo e sospirò. Sapeva di
non aver
fatto nulla di cui vergognarsi, anche se in effetti qualcosa della
quale non poteva parlare c'era.
«Lo sai che negli ultimi anni sono stata molto
irregolare»,
si giustificò. «Talvolta mi capita di saltarlo
proprio, o
di avere perdite quasi irrilevanti. E sai bene anche
cos’hanno
detto i dottori…» disse, con voce malinconia.
Abbassò lo sguardo per nascondere gli occhi che stavano
diventando lucidi. Era strano ciò che provava in quel
momento,
forse senza senso. Eppure, nonostante stesse ripensando che a causa
della sua imprudenza si era condannata lei stessa a un destino tanto
triste, che non le avrebbe mai fatto provare la gioia della
maternità, il suo pensiero andava a Saga e a quanto sarebbe
stato bello formare una famiglia con lui.
«Ricordo che dissero che non è impossibile, che
anche se
ora le probabilità si sono ridotte a una percentuale esigua,
non
è detto che la situazione in futuro non possa migliorare e
che
tu non possa avere figli», la rassicurò la donna,
accovacciandosi di fronte alla figlia e prendendole le mani nelle sue.
Era commovente vedere come la madre ci credesse più di lei,
in
quel miracolo che l’aveva sempre delusa. E questo la faceva
sentire ancora più in colpa per l’accaduto,
perché
non solo aveva negato a se stessa la possibilità di avere
dei
bambini in futuro, ma anche dei nipoti alla madre.
Cora sospirò ancora una volta, senza replicare nulla o
insistere
sul fatto che era sicura al cento per cento che mai sarebbe diventata
madre.
«Lo so che c’è qualcosa che non va, sono
tua madre e
ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa», insistette
lei, accarezzandole la guancia. «Per favore, confidati con
me.»
«Non c’è niente che non va, mamma. Anzi,
è
tutto il contrario, sto bene e sono felice», rispose Cora. Il
suo
sorriso era un poco forzato, ma solo perché si sentiva
stanca.
«Potrei… potrei averne ancora un po’ di
dolce?» chiese, ritrovandosi d’un tratto stretta in
un
abbraccio che toglieva il fiato.
«No!» disse la donna, lasciandola libera e
alzandosi.
«In questi ultimi giorni hai messo su un po’ di
peso, con
tutte le schifezze che rubi dal frigorifero a orari indecenti. E poi,
stasera si cena presto! Ora via, lasciami finire qui, così
poi
la preparo.»
*****
L’indirizzo che gli aveva fornito Saga – e che ora
stava
rileggendo sul foglietto su cui l’aveva appuntato –
corrispondeva a una tranquilla palazzina dai mattoni rossi a vista e
dalla cancellata scura. Prima di presentarsi, aveva fatto qualche
ricerca per conto suo e aveva scoperto che lì era anche
ubicata
l’agenzia investigativa di Phillip Burton, nonostante non ci
fosse alcuna targa a conferma di ciò.
Fece una smorfia.
Se non gli fosse importato almeno un poco, forse avrebbe tirato dritto
anche lui; ma Aiolos, seppur di mala voglia, si era preso
quell’impegno, soprattutto perché Saga glielo
aveva
chiesto in maniera così accorata che d’istinto
aveva
accettato, pentendosene neanche due minuti dopo. Possibile che da
quando il loro rapporto si stava facendo più disteso lui non
riuscisse più a rifiutare quello che l’altro gli
chiedeva?
Che Saga avesse una sorta di potere ammaliatore che rimbecillisse tutti
quanti gli stavano attorno? Con lui stava funzionando alla grande e
questo, col senno di poi, gli scocciava.
Pagò il taxi e tornò a studiare
l’ingresso di
quella palazzina – neanche quel portone fosse
l’entrata
degli Inferi – ruminando il chewing-gum in modo nervoso.
Sbuffò, maledicendo la sua imbecillità,
perché in
quel momento si trovava di nuovo lì, a Philadelphia, con la
concreta possibilità di ricevere lo stesso trattamento
dell’ultima volta. Sputò a terra il chewing-gum e
spinse
il cancello di ferro battuto, percorrendo a passo deciso quei pochi
metri che lo separavano dal portone. Diede una rapida occhiata ai vari
nomi sul citofono: si sorprese nel non vedere il nome Miller su nessuna
targhetta, in compenso però compariva quello di Burton.
Premette
il bottone e attese.
*****
«Tu, ragazzino!» lo apostrofò la madre,
con tono di rimprovero. «Dove credi di andare?»
«Al campo di baseball!» non si fece attendere la
risposta del figlio, pronunciata con voce rabbiosa.
Poco dopo, si sentì in modo distinto lo sbattere di una
porta e
una camminata pesante percorrere il corridoio fino a interrompersi
bruscamente appena prima di passare davanti al salotto.
Senza attendere il permesso da parte della madre, Mike si mise a
tracolla la borsa sportiva e si calò in testa il berretto
dei Philadelphia
Phillies, la sua squadra del cuore. Dal ripostiglio prese
la mazza da baseball e il guantone.
«I miei compagni mi stanno aspettando per
l’allenamento!» le gridò ancora
incollerito,
borbottando poi qualcosa fra sé e sé. Era solo
poco
più che una squadretta da oratorio, ma lui ne era orgoglioso
come se fossero dei campioni della National
League.
Fece qualche passo, poi si bloccò di nuovo, borbottando una
seconda volta: forse imprecando. Quindi tornò di corsa nella
sua
stanza, dove Teresa stava terminando di piegare e ritirare la
biancheria del figlio, per prendere il pacchetto di chewing-gum e i
nastri di liquerizia che aveva dimenticato sulla scrivania.
«Non voglio che tu ci vada!» gli disse la donna,
con tono
secco. «Non oggi, almeno! Per favore…»
concluse con
maggiore indulgenza, vedendo che indugiava lì, scartando una
di
quelle sue gomme per poi mettendosela in bocca.
Cora scrollò la testa. Non ricordava una sola occasione in
cui
il suo fratellino si fosse mai rivolto in quel modo così
maleducato alla madre, né aveva mai sentito lei essere tanto
brusca con lui, eppure in quei giorni sembrava una triste consuetudine.
Alzò la testa dal cuscino del divano e si tirò un
poco
su, fino a sbucare da sopra lo schienale, rivolgendo lo sguardo alla
soglia del salotto. Ancora sentiva le voci alterate dei due che si
rispondevano a vicenda, anche se non riusciva ad afferrare bene
ciò che si stavano dicendo, ma non era sicura di volersi
immischiare troppo. Si lasciò cadere di nuovo sul divano,
sbuffando e portandosi un braccio a coprire gli occhi.
«Che c’è?» le chiese Chris,
seduto sulla
poltrona che di solito occupava Phillip, intento a smanettare con il
tablet.
«Mi sembra che in questi giorni il mondo stia girando alla
rovescia…» mugugnò Cora. «A
te non
sembra?» disse, girandosi sul fianco e tirandosi di nuovo su,
puntellandosi con il gomito.
Chris abbozzò un sorriso, senza staccare gli occhi dal
display.
«Ma cosa gli prende?» disse, basita per il
comportamento del fratellino.
«Ti ha sentito che parlavi con Phillip: crede che tu voglia
tornare a Boston con il volo di questa sera e che non ti importi di
festeggiare il vostro compleanno tutti assieme», le rispose
in
tono tranquillo Chris, sempre concentrato sul tablet, picchiettando con
l’unghia dell’indice sul bordo.
«Ma non è vero!» protestò lei.
«Non puoi negare però che con la testa tu ci sei
già da parecchio. Anzi, credo che tu non te ne sia mai
andata da
lì.»
Cora sbuffò. Sapeva che in un certo senso era la
verità.
«Cosa stai guardando di tanto interessante?» Si
girò
verso l'ex con aria perplessa per l'indifferenza del ragazzo riguardo a
ciò che stava accadendo in casa e intanto tendeva l'orecchio
per
sentire cosa stessero dicendo, anche se in quel momento tutto taceva, o
quasi.
«Sto controllando gli annunci immobiliari. È vero
che
inizierò con mio nuovo incarico solo il prossimo semestre,
ma
vorrei evitare di dover alloggiare in qualche motel o pensioncina
sgangherata, magari gestita da un vecchina sdentata e impicciona. Ecco!
Guarda questo per esempio: trilocale composto da due camere da letto,
cucina openspace e due bagni.»
«Interessante! E quanto ti costerebbe? O forse pagano i
tuoi?» chiese lei, ironica.
Si mise seduta più composta e si appoggiò con la
schiena
ai cuscini del divano. Lasciò vagare il suo sguardo per la
stanza, cercando di osservarne ogni minimo dettaglio. Solo in quel
momento si stava rendendo conto che c’era qualcosa di diverso
dall’ultima volta che vi aveva messo piede, prima della sua
partenza per Boston, ma non riusciva a capire di cosa si trattava.
«Anche stasera scroccherai la cena?» chiese,
spezzando il
silenzio teso che in quel momento aleggiava per tutta la casa.
«Ti dà fastidio?»
«No», rispose lei, facendo spallucce.
«Era tanto per
chiedere.» In realtà le piaceva che lui
frequentasse la
casa, era un po' come tornare ai vecchi tempi.
«Ti aspetto alla macchina!» disse Mike, passando
come un
fulmine davanti al salotto e uscendo subito dopo da casa, sbattendo la
porta.
I due giovani si guardarono per qualche secondo negli occhi, sbattendo
le palpebre quasi all’unisono, davanti a quella scena assurda.
Cora sospirò e si alzò dal divano, passandosi le
mani a
massaggiare le cosce, fasciate in un paio di leggings sportivi grigio
melange che sentiva un poco indolenzite. La spossatezza di quegli
ultimi tempi quel giorno in particolare si faceva sentire
più
insistito. Poi, si risistemò un poco il bordo della
maglietta
sbracciata, forse un po’ troppo corta, che lasciava
intravedere
l’ombelico.
Chris si affrettò a riportare la sua attenzione al tablet,
per
non farsi accorgere che la stava osservando, ma gli era impossibile
continuare a concentrarsi sulla sua ricerca, sapendo che la sua ex
– che in quel momento si era messa a rassettare il divano
–
era lì vicino a lui e faceva dei movimenti così
sensuali,
anche se inconsapevolmente. Si sentiva strano. Era come se la vedesse
per la prima volta e provasse una nuova e fortissima attrazione fisica
nei suoi confronti.
Dov’era finita la ragazza semplice e vitale che aveva amato e
con
la quale aveva condiviso l’appartamento fino a pochi mese
prima?
Dov’era nascosta quella donna che ora stava osservando in
modo
non proprio casto?
Eppure era sempre lei, Caroline, la ragazza di cui si era innamorato
alle superiori e con la quale aveva perso la verginità,
colei
che nei loro progetti sarebbe diventata un giorno sua moglie.
Alzò di nuovo lo sguardo su di lei, sul suo corpo che ora
gli
sembrava più generoso e di una morbidezza più
sensuale e
matura. Era sempre lei, eppure era diversa. Ma forse i suoi occhi lo
stavano ingannando. Senza rendersene conto si ritrovò vicino
a
lei, ancora impegnata a piegare il plaid e a risistemarlo sullo
schienale del divano, e l'abbracciò, facendola sussultare.
Non rispose alle timide proteste di lei e affondò il viso
nei
suoi capelli castani che profumavano di shampoo alla vaniglia,
respirando profondamente. La tenne nel suo abbraccio per diversi
secondi, sentiva la voce di Caroline che si lamentava, ma non gliene
importava. La girò verso di sé e la
guardò con
languore. Il suo viso era così bello, i suoi lineamenti
erano
più dolci, il calore del suo corpo, conturbante.
Chissà
se quelle labbra, un poco più carnose di come ricordava,
baciavano ancora allo stesso modo.
La sua risposta la trovò in un bacio intenso, intimo,
passionale, che stava risvegliando in lui un sentimento travolgente,
ora più maturo; e anche il rimpianto di aver accettato con
troppa facilità la loro separazione e lasciato che lei
prendesse
un'altra strada.
Cora lo fissò con occhi sgranati. Era scioccata. Certo, era
stata poco collaborativa in quel bacio, ma al tempo stesso non aveva
avuto la forza di opporsi e allontanarlo. «Non dovevi
permetterti. Le cose sono cambiate, io ora...»
ansimò, con
gli occhi lucidi e le gote imporporate.
«Non mi importa se ora c’è un altro
nella tua
vita», ribatté lui, in tono secco; nella sua voce
si
poteva avvertire un fondo di gelosia. «A tua madre piaccio. A
Phillip piaccio; e lo stesso a Mickey. Stavamo bene insieme, molto
bene. Potrei rinunciare alla California per te, Caroline.»
Chris avvicinò ancora una volta le sue labbra a quelle di
lei,
in una sorta di inseguimento, provando a baciarla di nuovo, senza
demordere nonostante i tentativi di lei di scostarlo.
«E quanto ci vorrà prima che si affievolisca di
nuovo il
sentimento e tornare a essere solo amici? E se la prossima volta ci
dovessimo lasciare male?» sussurrò lei, evitando
in tutti
i modi il contatto con i suoi occhi.
«Non lo sapremo se non ci proviamo.»
«Io... non posso.»
«Chris, mi devi accompagnare.» Mickey si
affacciò
nel salotto tutto mogio e a testa bassa. Quando però
alzò
lo sguardo e li vide così vicini, abbracciati l'uno
all'altra,
per un attimo i suoi occhi si riempirono di speranza.
Chris si staccò da Cora, in evidente imbarazzo per essere
stato
sorpreso in un atteggiamento intimo con la sua ex. Provò a
dissimulare ripredendo in mano il tablet. L’atmosfera che si
era
creata prima, con l’arrivo del terzo incomodo era svanita in
un
attimo e lui si sentì di nuovo declassato ad
“amico di
famiglia”.
«Sì, d'accordo, saluta tua sorella e
andiamo»,
disse, schiarendosi la voce, intanto che spegneva il tablet e lo posava
sul tavolino.
A quella richiesta il bambino mutò espressione e
scappò via.
«Mickey!» chiamò la madre, ferma in
corridoio con la cesta vuota della biancheria fra le mani.
«Non preoccuparti, Teresa», disse Chris, con una
confidenza
che gli era permessa dai tanti anni di conoscenza e frequentazione
della famiglia, non appena la vide. «Ci penso io a lui. Non
lo
perderò di vista per tutto il tempo e lo
riaccompagnerò a
casa a un orario decente. Del resto, sono il vice allenatore della
squadra!» aggiunse, per rassicurarla, facendo l'occhiolino.
«Sostituto vice allenatore!» urlò Mike,
dalla porta
d'ingresso, con un’espressione di nuovo torva sul viso.
«Sì, sì, sostituto. Ora prendi la
giacca e andiamo,
prima che decida di metterti in punizione per il ritardo con il quale
arriverai all’allenamento!» lo
rimproverò
scherzosamente il ragazzo.
Infastidito da quei discorsi, Mike spalancò la porta
d'ingresso
e uscì senza guardare, andando a sbattere contro uno
sconosciuto
che in quel momento
«Pardon», disse l’uomo, con voce
indulgente.
Il ragazzino rimase indifferente dopo quello scontro, pensando solo a
risistemarsi il berretto e la tracolla della borsa; poi, quando
alzò lo sguardo sull’uomo, rimase impietrito. Per
un breve
istante lo guardò con odio, stringendo con la mano
l’impugnatura della mazza da baseball.
«Vai via! Vai via, bastardo! Non ti avvicinare a
noi!»
gridò a squarciagola, alzando la mazza e minacciando
l’uomo.
Il suo giovane viso imberbe divenne paonazzo, gli occhi erano
spalancati e colmi di furia e terrore; alzò la mazza oltre
la
spalla, le braccia tremavano di collera.
«Vattene!» gridò ancora il bambino,
gettandosi sullo sconosciuto, colpendolo e facendolo cadere a terra.
Aiolos fece appena in tempo a rendersi conto delle intenzioni
dell’altro e a girarsi un poco, proteggendosi come poteva con
l’avambraccio, piegato per coprire il viso e la testa, ma fu
costretto a offrirgli la spalla sinistra. Per diversi secondi rimase a
terra, dopo un secondo attacco, con le orecchie che ronzavano per il
rimbombo delle urla dell’aggressore e il braccio intorpidito.
Lo
sentiva ansimare ma non accennare a colpire di nuovo. Alzò
la
testa. Lo vide su di sé, con la mazza da baseball sopra la
testa, impugnata a due mani.
Le grida del bambino erano risuonate anche in casa, mettendo in allarme
gli altri, che subito erano accorsi.
«Mickey! Mickey! Fermati!» urlò Cora,
cercando di trattenere il fratellino.
«Lasciami! Lo devo fermare, così non
potrà
più farci del male!» disse lui, dibattendosi per
liberarsi
dalla presa della sorella.
Anche Chris si precipitò fuori sul pianerottolo. Lo
riconobbe
subito e gli si fiondò addosso, strattonandolo e
schiacciandolo
a terra, pronto a sferrargli un pugno se necessario.
Teresa rimase sulla soglia di casa e lanciò un grido
strozzato.
«Deline…» balbetto a stento.
«Non è
possibile, non può essere lui…» I suoi
occhi si
riempirono di terrore nel vedere le fattezze della persona che in quel
momento era bloccata a terra; poi spostò la sua attenzione
sui
suoi figli, senza trovare la forza per intervenire.
«No, Chris, non fargli del male! Non è lui, non
è
Deline. Lo conosco, è un amico!» lo
scongiurò Cora,
che faceva fatica a trattenere il fratello. Aveva solo undici anni, ma
era forte e in quei giorni e in quella circostanza si stava dibattendo
come un leone inferocito.
«Lasciami andare, Caroline!» urlò il
ragazzino, pronunciando il suo nome con astio.
Sembrava che i due stessero lottando per il possesso di quella mazza;
poi, con un movimento violento delle braccia, nel girarsi verso la
sorella, Mickey la colpì involontariamente con troppa forza,
facendola gemere di dolore e andare a sbattere contro il muro. Per
pochi secondi ebbe su di sé i suoi occhi sbarrati per lo
choc.
La vide strisciare con la schiena contro la parete e accasciarsi a
terra.
«È colpa tua!» le gridò
contro, sovrastandola
e agitandole addosso la mazza da baseball. «Tutto questo
è
colpa tua!» ripeté con foga, incalzandola con le
lacrime
agli occhi e le labbra tremanti di quella rabbia che per tanto tempo
aveva tenuto dentro di sé. «Perché ti
sei
immischiata in quelle cose? Perché hai voluto mettere in
mezzo
anche noi e rovinarci la vita? Ed ora te ne vuoi tornare a Boston e
lasciarci di nuovo! Perché non vuoi rimetterti insieme a
Chris?
Perché continui a fare di testa tua, a pensare solo a te
stessa,
a essere così egoista? La mamma ha pianto per due settimane,
ogni notte, quando te ne sei andata! Chris e papà hanno
pensato
solo a te in tutto questo tempo! Ora vuoi farlo di nuovo, vuoi
lasciarci soli! E allora vattene! Vattene via subito! Non ti voglio qui
a rovinare di nuovo la nostra vita!»
Continuò a muovere quella mazza in modo minaccioso, sempre
più vicino a lei, sordo alla disperazione della madre che
singhiozzava lì vicino e ai richiami di Christopher. Fece un
passo verso la sorella che, a terra e con le braccia strette allo
stomaco, lo guardava senza dire niente.
Il ragazzino dolce e ubbidiente che Cora aveva lasciato a febbraio, si
era trasformato in una bomba di violenza che non aspettava altro che
deflagrare e liberare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione.
«Basta così, Mickey!» Chris lo
bloccò da
dietro e gli tolse la mazza da baseball dalle mani, spingendolo da
parte.
«Anche tu stai dalla sua parte dopo quello che ti ha
fatto?» lo accusò il ragazzino. Urlò un
“vi
odio tutti!” e scappò giù per le scale.
In tutto quel trambusto, Aiolos li osservò come se fosse di
fronte a dei pazzi. Preferì rimanere a terra e non fare
mosse
sospette per non diventare di nuovo oggetto di attenzioni sgradevoli e
dalle conseguenze piuttosto dolorose.
«Stai bene?» domandò Chris a Caroline.
Lei annuì e si rimise in piedi, anche col suo aiuto.
«E
tu, Aiolos?» chiese a sua volta lei, vedendo
l’altro ancora
a terra che si teneva il braccio.
«Scusa, amico. Niente di rotto, vero?» gli chiese
Chris, aiutando anche lui ad alzarsi.
«Ho appena visto scendere di corsa Mickey e stava piangendo.
Cos'è successo?» disse Phillip, salendo gli ultimi
gradini. Vide i presenti con espressioni tese e sconvolte sul volto.
Poi, puntò la sua attenzione su Aiolos, indurendo lo
sguardo.
Pensava di essere stato chiaro con il ragazzo, quando si era presentato
nel suo ufficio per spiegare il motivo di quella sua visita, che se
avesse creato problemi avrebbe passato dei guai; si rese subito conto
però che ad avere la peggio era stato proprio lui.
«Vado a parlarci. Si sarà sicuramente rifugiato
nell’ufficio», disse Chris che sapeva come prendere
il
piccolo ribelle.
«Se permettete, vorrei provarci io», si propose
Aiolos, lasciando senza parole i presenti.
Era stanco di essere preso di mira dai membri di quella famiglia, che
fossero bastonate, o la canna di una semiautomatica puntata alla testa,
o ancora essere accusato di essere un molestatore. Voleva chiarire di
persona e chiudere con quell’equivoco una volta per tutte.
note del capitolo:
Murder, she wrote:
(ma che ve lo dico a fare...) è il titolo
originale de "La signora in giallo". Alzi la mano chi non conosce
questa serie poliziesca, che si prende una tirata d'orecchie coi
fiocchi! :P
Lo so, lo so, a qualcuno sarà venuto un ictus a leggere di
Saga
come secondogenito (o Kanon primogenito). Mi piace talvolta scombinare
i piani. A parte gli scherzi, non è facile stabilire chi sia
il
primo e chi il secondo. E non parlo tanto nella storia canonica (con i
gemelli è sempre un po' un casino: si deve tener conto
dell'ordine di nascita oppure dell'ordine di concepimento?), ma in
questa mia storia. Se ricordate, Shion aveva fatto preparare dei nuovi
certificati di nascita per i gemelli; è quindi possibile che
fosse stato stabilito a priori che Kanon sarebbe stato primogenito e
Saga invece il più giovane? A me piace pensare di
sì! E
comunque, in tutta la storia pare che Saga sia trattato un po' da
cocchino della casa, ruolo che di solito è affibbiato ai
fratelli più giovani.
|
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Capitolo 25 *** Capitolo XXIV ***
Prima di iniziare con la lettura del capitolo ci va di diritto un bel
N.B. Quindi...
N.B.
I contenuti di questo capitolo non vogliono essere una guida per
maneggiare le armi da fuoco, né incentivarne l'uso, sia esso
sconsiderato, che cauto. Le ricerche che ho fatto per scrivere la scena
in questione sono servite per cercare di rendere al meglio la storia ed
evitare di scrivere vaccate (sì, avete letto bene,
vaccate!).
Nel mio piccolo, cerco di fare del mio meglio, un po' per me stessa
(perché ho il mio amor proprio e non mi va di pubblicare
schifezze) e un po' anche per farvi leggere una storia quantomeno
scritta con criterio.
Detto questo...
...Buona lettura!
XXIV
Philadelphia
I locali dell’agenzia investigativa, al secondo piano della
palazzina, erano deserti e avvolti nella penombra delle persiane
chiuse. Aiolos aprì la porta e si guardò attorno;
poi,
con molta cautela, vi si addentrò. Quell'ambiente non aveva
nulla di particolare, era scialbo e anonimo come la prima volta che vi
aveva messo piede, pochi minuti prima, quando era stato a colloquio con
Burton. Eppure adesso gli faceva uno strano effetto, era quasi
spettrale.
Sentì i singhiozzi del bambino: a volte lievi, a volte
invece
più violenti, proprio nello sforzo di trattenersi. Non
c’erano molti posti dove avrebbe potuto rifugiarsi, a parte
naturalmente una delle altre stanze comunicanti, ma ciò che
era
arrivato alle sue orecchie non era stato filtrato da alcun tipo di
barriera. Fece un paio di passi verso la scrivania, senza
però
avvicinarsi troppo.
«Mike?» disse con voce pacata, che però
tradiva
comunque poca serenità. «Mike, io mi chiamo Aiolos
Foster.
Possiamo parlare un momento?» chiese, anche se non si
aspettava
che il piccolo sbucasse fuori dal suo nascondiglio e gli desse subito
retta. Come con qualsiasi bambino impaurito, prima doveva guadagnarsela
quella fiducia.
Sentì provenire di fronte a lui un rumore e
accennò un
sorriso: il bambino era rintanato proprio dove pensava e gli era stato
confermato dal movimento della sedia, che si era spostata un poco di
lato, cigolando con le ruote.
«Non voglio farti del male, ma solo parlare»,
continuò, immaginando che il ragazzino si fosse rannicchiato
il
più possibile per non farsi notare; e di nuovo
sentì un
singhiozzo.
Si avvicinò ancora di qualche passo, fermandosi e rimanendo
al
di là della scrivania, per non correre altri rischi e non
spaventarlo ulteriormente.
«Mi dai una possibilità di dimostrarti che non
sono la persona che pensi io sia?»
L’altro continuava col suo ostinato silenzio. «Va
bene», concesse Aiolos, senza demordere.
Fece qualche passo verso le sedie e le poltroncine nella parte della
stanza, che era adibita a sala d’aspetto e, trascinandone
rumorosamente una sul pavimento col braccio sinistro che gli doleva, la
portò fino alla scrivania, accomodandovisi.
«Sai, non è la prima volta che qualcuno della tua
famiglia
mi scambia per quell’uomo», iniziò, con
tono
vagamente sarcastico; anche se non c’era poi tanto da
scherzare.
«Non posso negare che la somiglianza ci sia, ma posso
garantirti
che io non sono lui, altrimenti non sarei qui, tranquillo, a parlare
con te.»
Si appoggiò allo schienale della sedia e fece un respiro
profondo, accavallando le gambe e prendendo una posizione
più
comoda: prevedeva che sarebbe stata una cosa lunga.
«Bene, proviamo a partire dall’inizio»,
disse con un
mezzo sospiro. «Vengo da Boston e ho ventisei anni. Negli
ultimi
anni ho vissuto per la maggior parte del tempo a New York e non ero mai
stato qui a Philadelphia prima del febbraio scorso.»
«Bugiardo…» mormorò il
bambino, tirando su col naso.
«È la verità»,
confermò lui,
mantenendo la voce calma. «Puoi chiedere a tuo zio Phil. Lui
sicuramente avrà fatto dei controlli su di me, dopo la
nostra
prima conoscenza.»
«Lui è mio padre!» replicò
con stizza il
bambino, accennando a voler uscire da sotto la scrivania, ma
rinunciandovi subito.
Aiolos aggrottò un poco la fronte nel sentire quella
risposta
così scontrosa. Non che si fosse scandalizzato per un poco
di
maleducazione, ma era stato il timbro rabbioso, dietro la voce da
fanciullo offeso, che lo aveva lasciato perplesso. Quel tipo di rabbia
che prima aveva fatto agire in modo violento il bambino e che ora lo
aveva fatto rispondere in quella maniera, sapeva di averla
già
vista, anche se non ricordava dove e quando.
«Per tua sorella è uno zio. Che strana dinamica
familiare avete», mormorò.
«Davvero non sei lui?» chiese Mickey con un filo di
voce,
fra i singhiozzi trattenuti. Con le braccia teneva le gambe raccolte al
petto e la fronte appoggiata alle ginocchia.
«Pensi che questa sia la faccia di una persona
pericolosa?»
disse Aiolos, ora accovacciato di fronte a lui; nella sua mano, che
stava tendendo al bambino, teneva un fazzoletto bianco. «Ti
va di
raccontarmi cosa vi ha fatto?»
Il sorriso comprensivo che in quel momento gli stava mostrando, ebbe
l'effetto di incrinare la cupola di diffidenza e paura dietro la quale
Mike si ostinava a nascondersi.
«Io non so bene com’è andata»,
iniziò a
raccontare il piccolo, stringendo i pugni e nascondendo ancora di
più la testa fra le gambe. «Ma so che è
cattivo! Ha
fatto del male a tante ragazze. Ha fatto del male alla mia sorellona.
Mamma e papà non ne parlavano mai davanti a me, ma qualche
volta
li ho sentiti. Quando Caroline era in ospedale che non si risvegliava
più, loro litigavano sempre. Una volta la mamma lo ha
mandato
via da casa e poi ha pianto tanto, e ha pregato tanto perché
il
Signore non portasse la mia sorellona in cielo con sé come
aveva
fatto con il mio vero papà.»
La voce del bambino era rotta dal pianto che tratteneva a fatica,
nonostante le guance fossero invece rigate da copiose lacrime. Eppure
stava cercando con tutto se stesso di non sembrare un mocciosetto
piagnucoloso. Era ancora arrabbiato con sua sorella, ma il raccontare
quelle poche cose, che non aveva mai rivelato a voce alta a nessuno, lo
stava facendo vergognare del suo comportamento e temere per una sicura
punizione. Le aveva urlato addosso tutto il suo malessere, si era
liberato di un peso gravoso, però non si sentiva affatto
meglio.
Nessuno lo avrebbe biasimato troppo se fosse esploso prima; persino per
un adulto, ciò che aveva passato, sarebbe stato difficile da
superare e lui… lui era ancora solo un bambino, ma
già un
piccolo eroe, perché era stato quello che all'inizio aveva
reagito meglio di tutti.
«La mia sorellona…»
singhiozzò di nuovo Mickey, tirando su col naso.
«Lei sta bene», disse Aiolos, con un sorriso
fraterno
disegnato sulle labbra, accarezzandogli piano la testa, cercando di
rassicurarlo.
Vedere quel ragazzino così indifeso gli riportava alla
memoria
Aiolia, quando tornava a casa tutto abbattuto e nella tasca del
cappotto il foglio di richiamo del preside dopo aver fatto a botte nel
cortile della scuola.
Aiolos alzò un poco la testa sopra la scrivania, sentendo un
rumore leggero provenire dall’ingresso, intravide Caroline
che se
ne stava appoggiata allo stipite della porta. Lei si era portata un
dito alle labbra e gli aveva fatto segno di non parlare, di non svelare
al fratellino che era lì. Nonostante la penombra che la
nascondeva un poco alla sua vista, lui aveva notato – o forse
intuito – che la ragazza aveva gli occhi lucidi per le parole
pronunciate dal bambino. La conferma la ebbe pochi secondi dopo, quando
lei si avvicinò piano, senza far rumore e gli
mostrò un
foglio stampato, sgualcito e con diverse pieghe marcate. Battendo piano
sul volantino, gli indicò una data e poi fece un cenno con
la
testa, per incoraggiarlo a parlarne a Mickey, quindi puntò
l’indice prima verso di lui, poi verso dov’era
nascosto il
bambino e infine su di lei, in un messaggio muto. Prima di lasciargli
il volantino, puntò ancora una volta il dito sulla data
riportata e la scritta che indicava che l’indomani, sabato 29
maggio, ci sarebbe stata l’inaugurazione del nuovo impianto
del
poligono di tiro, tutto dedicato al paintball e che avrebbe occupato
l’intero secondo piano interrato.
Aiolos strabuzzò gli occhi e trattenne uno sbuffo, non
proprio
felice di dover essere messaggero di qualcosa che non gli competeva e
per di più, come se non lo fosse già stato a
sufficienza,
essere anche coinvolto in qualcosa che non lo riguardava.
Cora sorrise supplichevole al ragazzo, sperando che accondiscendesse a
quella richiesta tacita. Lei e Aiolos si sopportavano a mala pena,
eppure sapeva di poter riporre la sua fiducia in lui. Rimase un po' in
disparte, al di là della scrivania e abbastanza distante
affinché il fratellino non potesse accorgersi di lei, ancora
per
qualche attimo. Le si stringeva il cuore a sentirlo singhiozzare senza
requie.
Forse sarebbe dovuto essere compito suo consolarlo e non un perfetto
estraneo che oltretutto era stato la fonte inconsapevole di tutto quel
putiferio, ma cosa avrebbe potuto fare per far stare meglio il suo
fratellino? Cosa avrebbe potuto dirgli, che lo perdonava per il gesto
che aveva compiuto? Che le dispiaceva per le conseguenze che tutta la
famiglia era stata costretta a subire per la sua arrogante
sconsideratezza?
Ma quello era il suo rammarico più grande e le conseguenze
delle
sue azioni le avrebbe portate con sé – su di
sé
– per tutta la vita. L’unica cosa certa, nel suo
cuore, in
quel momento, era il desiderio di accertarsi che Mickey stesse bene; e
la compagnia di Aiolos pareva essere la cosa migliore potesse servirgli.
Si girò giusto in tempo per non mostrare le lacrime che
stavano
riempiendo i suoi occhi; nelle sue orecchie sentiva in modo persistente
il pianto trattenuto del fratellino. Una mano si spostò sul
ventre: non sentiva più le fitte acute e lancinanti di poco
prima, ma solo un dolore sordo, più leggero, che non destava
troppa preoccupazione in lei, abituata ormai a ben altri fastidi.
Eppure, appena faceva un respiro più profondo, le mancava
l’aria all’improvviso.
Uno sbuffo, una veloce passata sugli occhi col dorso della mano e,
così com’era arrivata, uscì.
*****
Teresa attendeva la figlia sulla soglia di casa: il cuore ansioso e gli
occhi che non riuscivano a mascherare la preoccupazione di una madre.
«Sta bene. Aiolos lo sta facendo sfogare», disse
Cora, con
un sorriso forzato sulle labbra e la fronte imperlata di sudore. Ad
affaticarla non erano certamente quelle due o tre rampe di scale,
quanto invece i soliti crampi che erano tornati a farsi sentire; ora
più forti e continui.
«E tu?» le chiese la donna; e non intendeva
riferirsi solo
alla sua salute fisica, che naturalmente le destava sempre qualche
pensiero, ma piuttosto al contraccolpo psicologico di quanto era
avvenuto.
«Ha colpito forte», scherzò Cora
«Mi ha fatto
male, ma non poi così tanto», confessò
infine,
cercando comunque di minimizzare la realtà dei fatti e
intendendo le medesime cose che erano rimaste sottintese. Non era
riuscita però a trattenere oltre le lacrime e, lasciandosi
abbracciare dalla madre, si era sfogata un poco anche lei.
«Bambina mia…» le sussurrò
piano la donna,
tenendola stretta e accarezzandole la testa.
«C’è
voluto molto coraggio per fare quello che hai fatto e per affrontare
poi le conseguenze. Non è colpa tua se la legge ha
vanificato il
tuo sacrificio.»
La madre la riaccompagnò in casa, fino in cucina, dove
già si erano ritrovati Chris e Phil, che sembrava stessero
ancora discutendo dell’accaduto. Non appena si affacciarono
nella
stanza, la discussione si chetò di colpo. Chris
lasciò il
suo posto alla ragazza, mentre Phil, in piedi accanto al frigorifero,
beveva una birra dalla bottiglia, con un’espressione sul
volto
che rispecchiava la gravità della situazione.
«Quando tornerà in casa dovrò fargli un
bel
discorsetto», borbottò l’uomo, con un
tono di
rimprovero, prendendo un altro lungo sorso.
«Così rischi di peggiorare la situazione, proprio
com’è successo l’altra volta»,
rispose
distrattamente Teresa, passando accanto al compagno e aprendo il
frigorifero. Con gesti automatici iniziò a prendere della
verdura dal cassetto in basso, e appoggiandola nel lavello. Il tono che
aveva usato era sembrato però piuttosto risentito.
«Non sto dicendo di punirlo severamente e togliergli ogni
libertà, ma almeno di provare a parlargli di nuovo e
spiegargli
che ciò che ha fatto è stato molto grave. Se quel
tizio
dovesse sporgere una querela per aggressione, Mickey potrebbe finire in
tribunale. E il giudice minorile non si limiterà a dargli un
semplice scapaccione e a mandarlo a letto senza cena. Se dovesse
andargli bene, potrebbe essere condannato alla libertà
vigilata
e all’obbligo di una lunga terapia con uno psichiatra. Ma un
periodo in riformatorio sarebbe più plausibile»,
spiegò l’uomo, appoggiando la bottiglia
lì vicino e
avvicinandosi alla donna, posandole le mani sulle braccia per
interrompere quello che stava facendo. «Mickey ha ormai
un’età che gli permette di capire
cos’è
giusto e cos’è sbagliato, cosa può fare
e cosa non
deve fare. Non puoi chiudere gli occhi su ciò che ha fatto.
Non
puoi continuare a proteggerlo in questo modo», le disse con
un
tono molto serio, facendola girare e guardandola dritta negli occhi.
Dentro di sé sapeva che la donna comprendeva di dover
correggere
il temperamento del figlio che in quei mesi era diventato gradualmente
meno gestibile, ma sapeva anche che per lei sarebbe stato difficile. Se
doveva diventare padre anche legalmente, avrebbe dovuto iniziare a
comportarsi come tale, persino nelle punizioni.
Cora corrugò la fronte nel sentire quei discorsi. Avrebbe
voluto
chiedere ulteriori spiegazioni, ma desistì nel sentire sulla
sua
spalla la pressione della mano di Chris. Era perplessa per quella
situazione: non era così che aveva lasciato la sua famiglia.
L’aveva sempre creduta unita e felice; ora invece, sembrava
smembrata e divisa, con cicatrici insanabili che li teneva lontani gli
uni dagli altri.
Teresa rimase indifferente alle parole del compagno, come se le
ritenesse prive di senso, gli diede le spalle e riprese a mondare e
tagliare a tocchetti le verdure, per poi buttare il tutto in una
pentola bassa.
«Mamma?» disse Cora.
«Mamma! Mamma!»
Mickey invase la cucina con eccessivo entusiasmo: aveva il viso tutto
arrossato e gli occhi ancora gonfi per le troppe lacrime, ma le sue
labbra erano piegate in un sorriso pieno di speranza.
«Davvero posso andarci?» le chiese, abbracciandola
forte alla vita.
La donna rimase spaesata per qualche secondo, travolta
dall’euforia del suo bambino, senza sapere cosa rispondere.
«Al poligono di tiro, mamma! Al poligono!»,
insistette, con
voce emozionata e un poco anche frustrata il figlio.
«C’è il paintball! Ci saranno anche i
miei compagni!
Non è pericoloso, ci daranno le protezioni! Allora, posso
andarci?» la supplicò.
Erano settimane che insisteva per quella novità, da quando
aveva
visto il volantino pubblicitario, ma la madre gli aveva sempre negato
il permesso adducendo che era troppo piccolo e che non le piaceva
l’idea che si avvicinasse a un luogo come quello e a uno
sport di
quel tipo.
La donna tentennò ancora qualche secondo, mentre con gli
occhi
cercava quelli del compagno che sicuramente avrebbe avuto qualcosa da
ridire, soprattutto dopo ciò che le aveva detto. Phil
invece, si
limitò a sospirare rassegnato e a prendere
l’ultimo sorso
di birra dalla bottiglia, gettandola poi nella pattumiera.
«Va bene, Mickey», disse, sorridendo allo sguardo
speranzoso del figlio; e dopo quella conferma, il bambino si strinse
ancora di più alla sua vita, ripetendo mille volte un
“grazie” che si perdeva nel sussurro attutito dal
suo petto.
Con la mano ancora umida, Teresa accarezzò i riccioli neri e
spettinati del bambino, rivolgendo lo sguardo alla figlia che la stava
ricambiando con un sorriso e mimando con la bocca un
“domani”, annuendo con la testa.
«È il tuo regalo di compleanno»,
aggiunse Teresa,
dandogli un bacio sulla testa. «E con te verranno anche
papà, Chris e Caroline», disse, trovando conferma
nel
cenno di assenso dei due giovani.
«Davvero?»
«Sì», disse Phil, rilassando il viso e
scompigliando
la testa del bambino: nonostante i propositi di severità,
aveva
ceduto anche lui, ma si riprometteva di punirlo più avanti!
Un toc toc discreto, sullo stipite di legno della porta della cucina,
richiamò l’attenzione di tutti. «Scusate
l’intrusione, ma la porta era aperta», si
introdusse Aiolos.
«Sei ancora qui...» si lasciò sfuggire
Phil.
Aiolos sogghignò. «Mr Burton, come le ho detto
prima, sono
venuto per Caroline, per riportarla a Boston», disse,
lasciando
stupefatta la diretta interessata.
«Ecco! Lo sapevo, sei una bugiarda!»
urlò Mike alla
sorella, rifugiandosi nella sua stanza e sbattendo la porta.
«È lui il tuo nuovo ragazzo, quello di
Boston?»
chiese Chris, seduto accanto a Caroline e tenendole stretta la mano
sotto il tavolo.
«No, è solo un conoscente», rispose lei,
a voce
molto bassa, ricambiando lo sguardo diffidente di Aiolos che non la
stava perdendo di vista un solo istante, in quella situazione di
imbarazzante stallo dei presenti.
«E ti fa da guardia del corpo, autista e
servitore?» chiese
ancora il ragazzo, pronunciando quelle parole con evidente
perplessità nella voce, continuando a fissare l'ospite.
Caroline fece spallucce senza dare una vera risposta, perché
lei
per prima non sapeva come mai l’altro si trovasse a casa di
sua
madre.
Erano seduti tutti e cinque attorno al tavolo da pranzo, davanti a una
tazza di caffè appena fatto, che si scrutavano a vicenda con
diffidenza, mentre dalla stanza del bambino arrivava la musica a tutto
volume.
«Gli passerà presto», disse Phil,
posando la mano su
quella della compagna che continuava a tormentare la tovaglietta.
La donna sbuffò sconsolata, deviando per qualche secondo lo
sguardo nella direzione della camera del figlio, per poi posarlo di
nuovo sul suo ospite. Sentiva un certo disagio nel trovarselo di
fronte, le sembrava così strano che potesse esistere al
mondo la
copia quasi esatta dell’uomo che aveva fatto del male alla
sua
bambina, ma dopo le rassicurazioni di Caroline e le presentazioni
ufficiali, si era in qualche modo tranquillizzata.
«Dunque, Foster…» disse Phillip,
invitando l’ospite a spiegare a tutti il motivo della sua
presenza.
«Come le ho detto nel suo ufficio, sono venuto per conto di
una
persona», rispose con semplicità Aiolos.
«Mr Hayes
sarebbe voluto venire lui stesso, per presentarsi ufficialmente, ma ha
avuto dei contrattempi e ha chiesto a me di riaccompagnare miss Miller
a casa sua, a Boston.»
«Poteva almeno avvertirmi…»
mormorò Cora, mettendo il broncio.
«È tipico di lui fare questo tipo di sorprese,
dovresti
ormai conoscerlo», disse Aiolos, con una leggera smorfia
sulle
labbra, fissandola con insistenza. Non gli era sfuggito come
l’altro ragazzo le stesse vicino, per non dire appiccicato; e
questo lo infastidiva ancora di più che saperla fidanzata
con
Saga.
«Beh, puoi ripresentarti da lui e riferirgli che non torno
solo
perché ha deciso che è arrivato il momento di
tornare a
casa, o perché ha mandato qualcuno a prendermi»,
ribatté Cora, sotto lo sguardo severo di Phillip e quello
preoccupato della madre.
Cora si stava mostrando forse troppo risentita con quella risposta
irritata, ma non riusciva a farne a meno. Si stava sentendo come un
cucciolo che viene dato in affidamento a una pensione per animali
perché il padrone vuole andarsene in vacanza risparmiandosi
la
scocciatura di doverselo portare appresso.
«E comunque», continuò, usando un tono
più
pacato, quasi mortificato, «adesso non posso partire.
Domenica
c’è la nostra festa di compleanno e non ho
intenzione di
perdermela!»
«Lui vuole infatti festeggiare con te il tuo
compleanno.»
«Ti ha appena detto che non ha intenzione di muoversi, amico.
Se
ci teneva così tanto, questo lui, avrebbe dovuto presentarsi
di
persona e non mandare un tirapiedi», intervenne Chris.
L'eco di quelle parole, risuonate secche e con un timbro vagamente di
disprezzo, nel silenzio della sala da pranzo, fu spezzato dal rumore
provocato dalla sedia di Phillip Burton, quando egli si alzò
di
scatto, con un'espressione molto seria in volto. L'uomo poi
uscì
dalla stanza senza dire nulla. Si fermò per qualche istante
nel
corridoio, respirando piano, per calmarsi. Con la coda dell'occhio
intravide Mike che si era messo a origliare.
«Non rimanere lì nascosto, Mike, raggiungi gli
altri», disse l'uomo.
Entrò nel salotto e, da una scatolina posata sul tavolino,
prese
una sigaretta, accendendola subito e traendone una lunga boccata. Era
da tanti anni che aveva smesso di fumare, ma qualche volta, quando la
situazione lo rendeva necessario, se ne concedeva una. E quella era una
di “quelle” volte; e se la sarebbe goduta tutta,
lentamente, perché doveva riflettere. Quel nome, che non
sentiva
più da molti anni e che credeva di essersi lasciato alle
spalle,
era fonte di gravi preoccupazioni.
Mike entrò in punta di piedi nella sala da pranzo, rimanendo
in
disparte e con la testa bassa. Con lo sguardo cercò quello
della
sorella, ma non appena lei se ne accorse, ricambiando con un sorriso,
lo distolse subito. «Davvero vuoi rimanere qui per
festeggiare il
nostro compleanno?»
«Certo! Non vorrai che lasci tutta a te la torta della mamma,
vero?»
«E verrai anche tu a giocare a paintball?» le
chiese di nuovo il bambino.
«Ovviamente!» Caroline sorrise più
apertamente al
fratellino, gli tese la mano e lo invitò per un abbraccio.
«Allora, cosa devo dire a Saga?» si intromise
Aiolos, bevendo un sorso di caffè.
«Chi è Saga?» chiese Mickey.
«È un…
“amico”», gli rispose la
sorella, pronunciando però in modo incerto la parola
“amico”.
«È per lui che hai scaricato Chris?»
«Mickey! Non si dicono queste cose!» lo
rimproverò
Teresa, notando l’improvviso imbarazzo calato sulla figlia e
su
Christopher.
«Ma… com’è? Perché
non ne hai mai
parlato?» Il bambino si rivolse ancora una volta alla sorella.
«Mickey!» lo riprese di nuovo, la madre.
«Ma voglio sapere se è all’altezza di
Chris!» insistette il piccolo, sbuffando.
Aiolos trattenne a stento una risatina beffarda
all’affermazione
del bambino, attirandosi un’occhiataccia da parte di Cora.
Poi,
prese dalla tasca il cellulare e vi trafficò per qualche
secondo. «Avvicinati, ti mostro una sua foto, così
potrai
giudicare tu stesso», si rivolse quindi al ragazzino.
Lì
dentro sembrava essere l’unico che non lo trattasse come un
bambino, ma come un adulto.
Mike gli corse accanto senza farselo ripetere. Dopo il loro chiarimento
sentiva di potergli dare fiducia. Sgranò gli occhi quando
Aiolos
gli passò il cellulare.
«Siete tanto amici?», chiese, dopo aver visto quel
selfie che i due si erano fatti usciti dal ferramenta.
«Siamo cresciuti come fratelli, inseparabili, nella stessa
casa», rispose Aiolos, con un sorriso disteso e sincero.
«Allora è il tuo best?»
gli chiese ancora Mike.
«Beh, non proprio. Il mio migliore amico è suo
fratello. Il suo gemello, Kanon.»
Mickey spalancò la bocca, quando Aiolos gli diede la
conferma
alle sue parole, mostrandogli i selfie che si era fatto a Capodanno con
Kanon.
«Wow!» fu l’unica cosa che
riuscì a esprimere
il bambino, mentre Aiolos faceva scorrere davanti ai suoi occhi le
fotografie: ce n'erano anche alcune di quando erano adolescenti.
«Ma ha i capelli lunghi anche da piccolo! A scuola non lo
prendevano in giro?» gli chiese il bambino, con innata
genuinità, facendolo ridere di gusto e destando la
curiosità di Teresa e di Chris, che inconsciamente aveva
allungato il collo per tentare di vedere qualcosa.
«Sì, li ha sempre portati lunghi; e sì,
qualche
volta gli altri ragazzi lo prendevano in giro, ma non a scuola. Lui
studiava a casa.»
«Che fortuna! Non era costretto a svegliarsi presto ogni
mattina,
né avere a che fare con compagni antipatici.»
«Non lo invidierei così tanto»,
replicò
Aiolos, scompigliandogli i capelli. «Era sempre solo, con
l’unica compagnia degli insegnanti privati; e poi, con mia
nonna
che faceva la guardia, non c’era molto da scherzare. Era
piuttosto severa quando si trattava di studiare! Tu invece, a scuola
avrai tanti amici, no?»
Accorgendosi dell’interesse anche della donna, Aiolos
sussurrò qualche parola al bambino.
«Guarda, mamma!» esclamò felice Mike,
porgendole il cellulare.
La donna arrossì un poco nel vedere quelle foto,
perché
la curiosità era stata tanta in lei; e più che
lecita, si
poteva dire! Del resto si stava parlando del nuovo e
“misterioso” fidanzato della figlia, del quale
Caroline non
aveva detto nemmeno una parola in quei giorni.
«È un bel ragazzo», mormorò,
sorridendo e restituendo il cellulare al suo proprietario.
In tutto quel tempo, l’unica rimasta in disparte e che
sembrava
estranea a quell’interesse generale, era proprio Cora, troppo
presa a sentirsi a disagio, imbarazzata e preoccupata per i giudizi dei
suoi familiari.
«Bene, credo di aver disturbato anche troppo»,
affermò Aiolos, alzandosi in piedi e prendendo dallo
schienale
della sedia la giacca.
«Perché non resti a cena?» lo
invitò la
donna. «È il minimo che possiamo fare per
ripagarti
dell’equivoco di prima.»
«Accetto molto volentieri», rispose il ragazzo,
scambiando
uno sguardo con Cora e sogghignando agli occhi sgranati di lei.
La donna fece un bel sorriso e iniziò a ritirare sul vassoio
le
tazze sporche. «Chris, naturalmente rimani anche tu,
vero?»
disse all’altro ragazzo che non indugiò un solo
secondo a
confermare con entusiasmo.
Cora lanciò un'occhiata al suo ex. Non doveva spremersi le
meningi per capire che Chris aveva accettato l’invito solo
per
gelosia; e lei lo poteva vedere bene dai suoi occhi sempre fissi su
Aiolos. Sperava solo che la serata si concludesse senza altri incidenti
e di evitare un eventuale terzo grado su Saga, ora che la madre era
venuta a conoscenza della sua esistenza. E lo zio Phil, come avrebbe
reagito? Tempo addietro l’aveva presa male nel sapere della
convivenza, ma c’era stata l’aggravante della poca
conoscenza; ora erano passati mesi, ma di aggravanti se ne erano create
altre e piuttosto pesanti.
Sbuffò, accasciandosi sfinita sulla sedia, presagendo
già una cena difficile.
«Mickey, tesoro, perché non mostri quelle foto
anche a tuo
padre?» gli propose Teresa, guardando poi Aiolos e
chiedendogli
il permesso.
*****
Aiolos era lì in fila assieme agli altri; fermo nello stesso
punto da almeno venti minuti e circondato da una massa di ragazzini con
ancora gli zaini di scuola sulle spalle, mentre di ragazzi
più
grandi, quelli che fumavano e già avevano la patente, non
pareva
esserci neanche l’ombra. Si guardò in giro,
facendo quasi
una piroetta su se stesso: spiccava solitario in mezzo a tanti nanetti.
E in quel momento, nella chiassosa desolazione di quel piccolo mare
vociante che sembrava raddoppiare – triplicare – di
dimensione, con tutti quegli zainetti colorati, che si spintonavano e
si rincorrevano, si stava pentendo amaramente di aver accettato di
unirsi a Caroline e alla sua famiglia per quella giornata;
così
come si stava anche pentendo di essere voluto venire lui stesso a
Philadelphia. Aveva pensato che accettando quell’incarico
sarebbe
riuscito a scoprire un po’ di più sul conto di lei
e della
sua famiglia. Certo, era stato Saga a servigli su un piatto
d’argento quell’occasione, ma ora si stava
chiedendo se ne
fosse valsa la pena.
«Cerchi qualcuno?» gli chiese Cora, raggiungendolo
in quel
momento e sorbendo la Coca-Cola con la cannuccia dal bicchierone e
porgendogli un caffè, che aveva preso al fast food dietro
l'angolo.
Aiolos continuò a fissare un punto preciso per diversi
secondi,
prima di rilassarsi, posare nuovamente lo sguardo
sull’entrata
dello stabile del poligono di tiro e sbuffare come suo solito. La
distanza dalla meta era immutata.
«Non mi aspettavo che fosse un’attrazione per i
bambini
delle elementari», le disse, con tono un poco irritato,
bevendo
il caffè.
«Non hai letto il volantino?» chiese lei. Pareva
sorpresa.
«L’ingresso e il noleggio
dell’attrezzatura sono
gratuiti solo per questo weekend, per i bambini fino ai dodici anni. E
poi, il campo da gioco è stato allestito a tema, proprio per
attirare i ragazzini!»
Il giovane scrollò la testa. La spiegazione che gli aveva
fornito lei non lo convinceva per niente; anzi, iniziava a credere di
essere stato incastrato, perché il volantino che lei gli
aveva
dato il giorno prima non menzionava affatto quelle cose.
«Eccovi, finalmente!» ansimò Chris,
raggiungendo a fatica i due giovani.
«Dov’è Mickey?»
«L’ho lasciato assieme ad alcuni compagni di
scuola, e al
padre di uno di loro. Erano impegnati in un'accesa discussione su quale
videogame fosse il migliore in assoluto: se la serie di Final Fantasy,
oppure GTA», disse Chris, approfittando della bibita della
sua ex
per placare la sete improvvisa. Aveva posato la mano su quella di Cora
e avvicinato il bicchierone alla bocca. «Quel ragazzino
è
troppo tenero. A dire la verità non gli importa nulla di
quei
giochi, ma si mostra tanto interessato solo per poter stare vicino a
una bambina che invece è una fan accanita, un vero
maschiaccio!» spiegò, sorridendo e passandole il
braccio
sulle spalle.
«La sua prima cotta.» Gli occhi di Cora si
illuminarono di
tenerezza nel cercare con lo sguardo il suo fratellino in mezzo a
quella piccola folla.
Aiolos si lasciò andare a uno sbuffo silenzioso, girando la
testa dall’altra parte, infastidito
dall’atteggiamento di
entrambi, che mostravano troppa confidenza l’uno con
l’altra. Ma se da una parte non poteva giudicare lui,
dall’altra gli dava fastidio il comportamento di lei che
reputava
inappropriato, considerato che era legata sentimentalmente a qualcun
altro. E fastidio maggiore lo provava perché lei dava
l’impressione di incoraggiare in maniera eccessiva quel
ragazzo;
poco importava che fosse il suo ex fidanzato. Contrasse la mascella
continuando a sondare la piccola folla di ragazzini: cosa ne avrebbe
pensato Saga se l’avesse vista in quel momento? Sentiva
vagamente
ciò che quei due si stavano dicendo e quel tono di voce
così dolce, che stava usando lei, lo irritava.
«Caroline! Caroline!» chiamò a gran voce
qualcuno, sbracciando come un matto.
Era uscito da pochi secondi dalla porta d’ingresso dello
stabile per fumarsi una sigaretta e l’aveva vista.
La ragazza si guardò attorno per vedere chi
l’avesse
chiamata, poi sorrise e rispose al saluto con un cenno della mano.
«Jimmy!»
«Che fortuna trovarti qui», disse il ragazzo. James
Sandoval, portoricano di origine ma nato in America, era il co-titolare
del poligono di tiro ed era anche quello che si occupava della parte
amministrativa dell’attività, al contrario di suo
fratello
maggiore Jorge che invece preferiva il contatto col pubblico.
«Mi
risparmi una telefonata all’agenzia»,
continuò, dopo
aver salutato anche gli altri due con una vigorosa stretta di mano e un
sorriso contagioso. «È venuto anche mr
Burton?»
«Sarebbe dovuto venire, infatti. Ma gli è
sopraggiunto un
impegno improvviso alla centrale di polizia, forse legato a un caso che
sta seguendo. Penso però che verrà più
tardi. Lo
ha promesso a mio fratello. Avevi bisogno di lui?»
«Mmmh…» L’uomo
osservò distrattamente
l’ora segnata sul quadrante del suo vecchio orologio da
polso,
una pessima imitazione di un Rolex, e fece un respiro profondo.
«Fra poco devo andare via e non riesco a fare una deviazione
per
lasciarglieli all’agenzia», mormorò.
«Ho dei
documenti che tuo zio mi ha chiesto di procurargli con urgenza, posso
approfittare di te, vero?»
«Certo, non c’è problema»,
rispose Cora, un
po’ sorpresa per essere stata presa a braccetto dal nuovo
arrivato. «Ma li puoi dare anche a Chris: ora è
lui
l’assistente di zio Phil.»
«Dai, venite dentro, vi faccio passare davanti alla
fila!»
disse con enfasi James, sospingendola verso l’entrata, senza
lasciarle il tempo di pensare.
«Aspetta un attimo», tentò di protestare
un poco la
ragazza. «Aiolos, per favore vai a recuperare mio
fratello!»
Quel posto non era proprio come loro se lo erano immaginato,
soprattutto il piccolo Mike. Assomigliava a un parcheggio sotterraneo,
ma essendo un piano interrato forse lo era stato fino a quando non era
stato riconvertito. L'area adibita al paintball era così
grande
che erano stati ricavati diversi recinti, diversi per dimensioni e
conformità del terreno di gioco a seconda della
difficoltà. Le colonne squadrate di cemento armato erano sia
degli ostacoli naturali, sia dei ripari altrettanto efficaci che si
integravano perfettamente con quelli gonfiabili, creando dei percorsi
obbligati.
Al momento di vestire le protezioni, Cora decise di passare la mano,
asserendo che preferiva fare da spettatrice e vedere “i suoi
uomini” in azione. Quell’affermazione
imbarazzò un
poco il bambino, ma al tempo stesso lo lusingò
perché la
sorella gli aveva assicurato che avrebbe fatto il tifo solo per lui.
La ragazza li osservò entrare tutti e tre nel campo di gioco
da
uno dei sedili della prima fila della piccola tribuna costruita sul
lato più lungo, protetta da un’enorme parete di
plexiglass. Li vedeva accucciarsi e strisciare dietro i gonfiabili,
aggirare gli avversari, alzarsi di scatto e sparare a raffica le
pallottole di vernice fluo in una battaglia serrata. Durò
quasi
mezz’ora, ma alla fine la squadra di Mickey
capitolò, dopo
la conquista della bandiera da parte degli avversari.
«Grazie per esserti sottoposto a tutto questo»,
disse Cora,
accogliendo Aiolos nella piccola tribuna, lasciando libero il posto che
aveva tenuto occupato con la borsa a tracolla, mentre lo zainetto di
scuola del fratellino lo teneva vicino a sé, fra le gambe.
«È stato divertente», ammise lui,
massaggiandosi la spalla che sentiva di nuovo dolorante dopo quegli
sforzi.
Cora si sorprese positivamente della strana accondiscendenza del
ragazzo. Non sapeva come giudicarlo, non lo conosceva bene, ma il suo
sguardo e la sua voce in quel momento esprimevano sincerità.
Gli
porse una bottiglietta d’acqua e tornò a seguire
la nuova
gara che si stava svolgendo.
«Davvero sei venuto solo per riaccompagnarmi a Boston? Non
c’è nient’altro dietro?» gli
chiese, senza
distogliere l’attenzione dai giocatori.
Mickey e Chris erano ancora nel piccolo spazio adiacente al campo di
gara che si stavano ripulendo e cambiando la pettorina, per poi tornare
dentro per un’altra manche, assieme agli amichetti del
bambino:
questa volta avevano formato una squadra di sette.
«Mi pareva di avertelo detto ieri. Non
c’è alcun secondo fine: sto solo facendo un favore
a Saga.»
Cora mantenne lo sguardo fisso davanti a sé, respirando
piano e
silenziosamente; sembrava concentrata su altro più che
ascoltare
la risposta di Aiolos. Si alzò senza alcun preavviso e prese
le
sue cose; poi si avvicinò a Chris che era tutto intento a
spiegare la strategia di battaglia ai bambini. Gli disse alcune parole
all’orecchio e gli consegnò lo zainetto del
fratellino.
Infine, prima di tornare da Aiolos, diede un bacio sulla guancia a
Mickey, incoraggiandolo per la vittoria.
«Vieni con me.»
Presero le scale che portavano al piano terra, dove c’era
l’accettazione e il bancone dell’armeria. Dietro il
bancone, Jorge era impegnato in una conversazione con alcuni ragazzi
che nulla avevano a che fare con i giovani arrivati per il paintball.
Nonostante stessero parlando di cose innocue, chi lo conosceva bene
poteva giurare che invece lui stesse flirtando in modo fin troppo
sfacciato.
Aiolos fissò l'uomo con insistenza, piegando le labbra in
una
smorfia di disgusto, alleggerendo l’espressione solo quando
l’altro ricambiò quello sguardo con un mezzo
sorriso.
Jorge aveva tutto il fascino esotico dei giovani caraibici e sapeva ben
sfruttarlo per le sue conquiste, soprattutto per quelle occasionali.
«Cora, mi
niña hermosa.
È da un pezzo che non ti fai vedere da queste
parti», la
salutò, con un abbraccio e baciandola su entrambe le guance.
«Che posso fare per te?»
«Vorrei esercitarmi un po’», rispose lei,
mostrandogli la tessera d’iscrizione.
«Da sola? Non c’è il grande
capo?»
«Ho portato lui», disse, indicando Aiolos.
«Ti va di sparare qualche colpo?» gli chiese.
Il ragazzo rimase per qualche secondo sorpreso e perplesso. Davvero lei
voleva sparare con armi vere? Non le sembrava affatto il tipo. Forse,
sentendosi a casa, si credeva una dura; forse lo voleva impressionare
in qualche modo. Eppure lo sguardo di Cora era sicuro e determinato,
come non gliene aveva mai visto prima, ma era anche sereno e luminoso.
«Sei già stato al poligono prima d'ora? Non hai
paura
delle armi da fuoco, vero? Non ci sarebbe alcuna vergogna»,
gli
disse lei, quasi sollecitandolo a prendere una decisione.
Aiolos sbuffò, borbottando poi un “non quando te
ne
puntano una alla testa” e riprendendo quella sua solita aria
di
superiorità che tanto era diventata una difesa contro gli
altri
e che gli permetteva di mantenere le distanze con chi non gli piaceva;
e Caroline Miller non gli piaceva affatto.
«Mi prepari la solita, per favore?» chiese lei,
rivolgendosi di nuovo Jorge. «E tre caricatori da
quindici!»
Dal portafoglio tirò fuori la carta di credito e
l'appoggiò sul bancone.
«Oggi offre la casa.»
Con un gesto della mano, mostrando la grossa pietra incastonata
nell’anello massiccio, Jorge gliela restituì,
rifiutandola. Sul computer inserì solamente i dati della
tessera
e registrò il noleggio dell'arma e della cabina numero
cinque.
Infine, espletate tutte le formalità amministrative e di
legge,
solo perché era lei, le consegnò
l’equipaggiamento,
anziché farlo portare da un addetto del poligono di tiro,
augurandole buon divertimento.
Il luogo adibito al poligono di tiro vero e proprio, quello almeno per
le armi corte, era un lungo e buio stanzone dalle pareti di cemento
armato, ricoperte da una speciale membrana per attutire la detonazione
degli spari, e con una zona di tiro di circa cinquanta metri. Nella
parte più vicina, quella accessibile al pubblico, erano
state
montate una decina di cabine larghe un metro e mezzo e separate le une
dalle altre da semplici divisori di compensato spesso tre centimetri.
Ogni postazione aveva una piccola pulsantiera che azionava il braccio
meccanico per spostare il bersaglio e un monitor dal quale si potevano
controllare i risultati dei tiri, molto simile a quello che veniva
usato nelle gare olimpiche.
Cora posò la 22 semi-automatica, assieme ai caricatori,
sulla
mensola davanti a sé. Con le mani si acconciò i
capelli
in una semplice coda di cavallo, fermandola con l’elastico
colorato che teneva al polso e si sgranchì collo e spalle;
infine si liberò della giacchetta leggera di jeans,
appoggiandola sopra la sua tracolla che aveva collocato a terra, appena
sotto i ripiani della cabina. Per un breve momento, il suo corpo venne
pervaso da un brivido di freddo. Eppure la temperatura era piacevole;
anzi, forse l’aria risultava un poco afosa e viziata.
Si concentrò su ciò che aveva davanti a
sé.
Impugnò la pistola, la puntò verso il basso e
verificò che fosse completamente scarica e con la sicura
fosse
inserita. Nonostante quei controlli fossero già stati fatti
in
precedenza da Jorge, lo zio Phil le aveva insegnato che quando si
maneggia un’arma, ci si deve affidare solo a ciò
che si fa
in prima persona e soprattutto: controllare, ricontrollare e
ricontrollare ancora!
Provò l’impugnatura e simulò la
posizione di mira e
di sparo, distendendo le braccia e facendo aderire per bene le mani
nella posizione giusta. Sentiva le braccia e le spalle un po’
rigide; era da diverso tempo che non si esercitava, ma tutto sommato
era abbastanza soddisfatta della reazione dei suoi muscoli.
Aiolos la osservò per tutto il tempo con sguardo scettico.
Non
sapeva che pensare di quella specie di dimostrazione, se non che lei lo
volesse solo impressionare.
La vide posare di nuovo l’arma sulla mensola e chinarsi per
prendere un grosso foglio, grande quanto un poster, dal ripiano
inferiore, che subito agganciò al braccio meccanico; poi
prese
delle cuffie imbottite e un paio di occhiali protettivi.
«Indossale!» gli disse, passandogli le cuffie.
Dalla tasca dei jeans prese una scatolina che conteneva dei tappi per
le orecchie e subito se li infilò: avrebbero attutito il
rumore
della detonazione del colpo. Come ultimo passo, indossò gli
occhiali protettivi.
«Ma stai facendo sul serio?» le disse Aiolos, con
ancora le cuffie in mano, mentre il bersaglio si allontanava.
«Iniziamo con venticinque metri?» disse lei, con un
sorrisetto e il tono vagamente arrogante di chi è
consapevole
delle proprie capacità e della propria bravura, voltandosi
verso
di lui.
Soddisfatta della distanza afferrò l’arma con la
destra,
mentre con l’altra mano prese uno dei caricatori. Un colpo
deciso
e lo inserì. Caricò il colpo in canna e di nuovo
si mise
in posizione. L’indice destro era ben appoggiato sul lato
della
pistola, sul guardamano del grilletto. Fece qualche respiro profondo
per aumentare la concentrazione. Il suo sguardo divenne ancora
più determinato e serio, nulla l’avrebbe potuta
distogliere; il suo corpo era rilassato ma al tempo stesso in tensione.
Le braccia erano tese davanti a sé, la mano destra teneva
saldamente l'arma, mentre la sinistra faceva da sostegno.
Era pronta.
Aiolos si mise in fretta le cuffie alle orecchie, con gli occhi
sgranati si spostò un poco dietro di lei per osservare
meglio,
ma senza darle intralcio.
Bang! Bang! Bang!
Tre spari in rapida successione.
Bang! Bang! Bang!
Un’altra serie di tre spari. Proprio come le aveva insegnato
l’ex capitano Phillip Burton; proprio come insegnavano
all’accademia di Polizia.
Le braccia di Cora tremarono un poco per lo sforzo di reggere il
rinculo dell’arma. Di nuovo si concentrò prendendo
un bel
respiro; di nuovo altri tre colpi in rapida successione, come una breve
scarica. E così per altre due volte, fino a vuotare il
caricatore.
La giovane rilasciò l’aria in uno sbuffo, come a
volersi
liberare di un peso, nascondendo però un piccolo gemito: un
lieve ma improvviso crampo al ventre le provocò un movimento
incerto nella procedura che stava eseguendo. Con le mani tremanti
rimise la sicura, estrasse il caricatore vuoto e tirò
l’otturatore per controllare che l’arma fosse
completamente
scarica. Poi, la posò sulla mensola. Tornò a
respirare in
modo normale, come se nulla fosse successo. Si tolse gli occhiali
protettivi, posandoli accanto alla pistola e riprese il bersaglio.
«Poteva andare meglio», commentò,
esaminandolo e
mettendolo da una parte, sostituendolo subito con uno nuovo.
«Tocca a te», esortò l’altro.
Aiolos continuò a fissare quel bersaglio anche dopo che era
stato accantonato. Il risultato che aveva ottenuto Cora era stato di
nove centri nei punti vitali, di cui tre alla testa e sei al cuore, e
gli altri sei colpi andati a segno in pieno stomaco.
Deglutì, incredulo. Ora era veramente impressionato. Eppure,
a
prima vista la ragazza non sembrava affatto avvezza alle armi da fuoco,
invece aveva dimostrato molto bene che ci sapeva fare.
«Se è la prima volta per te, non aver timore, ti
spiego tutto io.»
Cora non aveva l’abilitazione per insegnare a sparare, ma non
c’era nessuno a darle una bacchettata sulle mani per
quell’infrazione ed era più che sicura che non ci
sarebbero stati problemi. Si scostò di un passo e gli
lasciò spazio.
In quel breve momento, Aiolos si sentì letteralmente sotto
esame. Se avesse rifiutato l’invito si sarebbe dimostrato un
vigliacco, ma se invece avesse accettato?
Come un flash stordente riaffiorarono in lui quegli attimi di terrore
che aveva assaggiato mesi prima, in quella stazione della metropolitana
deserta, mentre il freddo metallo della canna della pistola aveva
accarezzato la sua testa. Lì, in quel luogo, ugualmente
deserto,
gli si presentava l’occasione per scacciare
quell’ombra
ingombrante. Anche se con riluttanza, era pronto a coglierla, ma i suoi
piedi non ne volevano saperne di muoversi da dove si erano piantati.
Fece quasi violenza a se stesso quando si avvicinò a lei e
sfiorò con la punta delle dita l’arma posata sulla
mensola.
«Prendi la pistola e prova l’impugnatura; vedi come
te la
senti in mano», disse lei. «Stringi forte con
l’anulare e il medio, quindi rilassa un poco le dita.
L’altro dito, il mignolo, deve solo appoggiare, fare da
sostegno.
L’indice mantienilo lontano dal grilletto.»
Con entrambe le mani, Cora lo stava aiutando a prendere la posizione
corretta, spiegandogli passo per passo, sfiorando la sua mano,
spostandogli un poco le dita per migliorare la sua presa.
«Ricordati di puntare l’arma sempre verso il basso
e mai
nella direzione delle altre persone. Stringi saldamente. Aiutati con
l’altra mano per rendere più stabile la presa.
Quando sei
in fase di preparazione, non tenere mai il dito sul grilletto: se
l’arma è carica potrebbe partire un colpo
accidentale.»
Mentre ascoltava le sue parole, ad Aiolos sembrava di essere tornato
adolescente, a quando in uno strano momento di condivisione familiare
il padre aveva portato lui e Aiolia al poligono di tiro, appena fuori
Boston, e aveva mostrato loro come sparare.
«Mi stai ascoltando?»
«Certo», rispose lui, con un certo imbarazzo nella
voce.
«Ora, prova a distendere le braccia e a prendere la mira.
Ricorda, l’altra mano serve solo come supporto e per rendere
più stabile e sicura la presa. Tutto il lavoro lo fa la mano
dominante. Sei destrorso come me, vero?»
Aiolos fece un cenno di assenso con il capo.
«Bene. Sovrapponi la sinistra alla destra e allinea i
pollici,
non troppo in alto, altrimenti il movimento del cane potrebbe ferirti;
mantieni ancora l’indice destro appoggiato lungo la
canna.»
Cora fece una pausa, lasciando il tempo all’altro di
assorbire
tutte quelle nozioni e provare la presa corretta. Annì
nell’osservarlo prendere una cauta confidenza.
«Passiamo alla postura delle spalle e della gambe.»
Di
nuovo gli si fece vicino, mentre con le mani gli toccava gli arti.
«Il braccio destro deve essere ben teso, il sinistro invece
leggermente col gomito piegato. Ricorda: il sinistro serve solo per
sorreggere e stabilizzare», gli ripeté,
posizionandosi
dietro di lui e aggiustandogli l’altezza delle braccia.
Non era facile per lei correggerlo, perché la corporatura di
Aiolos era troppo massiccia, almeno rispetto a lei.
«Le gambe vanno divaricate leggermente, devono essere alla
stessa
altezza delle spalle. Col piede destro fai un piccolo passo indietro,
mentre le ginocchia devono flettere un poco...» Per un attimo
le
mancò il fiato e fu costretta a fare una breve pausa.
«per
mantenere meglio l’equilibrio», terminò,
cercando di
fare come niente fosse. «Ora, per prendere correttamente la
mira
dei allineare il mirino anteriore con quello posteriore. Non ti
preoccupare se ne vedi uno sfocato, o se vedi il bersaglio sfocato; non
possono essere tutti messi a fuoco. Concentra lo sguardo su quello
anteriore. Una volta che i mirini saranno allineati, avrai la certezza
che la pistola è ben dritta. Questa è una tecnica
base;
poi, col tempo e con l’esperienza, potrai trovarne una
più
adatta a te.»
Si portò di nuovo a fianco del ragazzo per avere una visione
globale della sua posizione.
Aiolos seguì tutte le indicazioni senza lamentarsi. Era
strano
come l’insofferenza che di solito provava per lei, fosse come
scomparsa. Ancora più strano era che si lasciasse guidare in
quel modo, quando con il padre invece aveva fatto maggiore resistenza.
E tutto quello che non aveva voluto apprendere da Thomas, con lei era
invece interessato a imparare; anche se, teoricamente, le conosceva
già tutte le basi che lei gli stava spiegando. Sapeva
persino
smontare, pulire e rimontare diversi tipi di armi, praticamente a occhi
chiusi.
Cora si appoggiò con una mano alla mensola della cabina di
tiro
e fece un paio di respiri profondi; le sue labbra tremolarono un poco e
all’improvviso sentì caldo. Si sfiorò
il ventre con
l’altra mano, ancora una volta i crampi le stavano dando una
strana sensazione.
«Tutto bene?» chiese Aiolos, osservandola con la
coda
dell’occhio; era rimasto in posizione, ma ormai la
concentrazione
era tutta per la ragazza che stava avendo delle reazioni poco normali.
Abbandonò la postura di mira, tenendo mollemente la pistola
con
la destra e si girò verso di lei.
Cora si dovette appoggiare anche con l’altra mano, ansimando.
Il
viso era completamente imperlato di sudore, sentiva un gran caldo,
eppure era pallida come un cencio.
«Sei sicura di stare bene?»
«Sì, sì. Scusami, ora è
passato», lo
rassicurò lei, seppur in modo poco convincente.
«Riprendi
la posizione», lo esortò, ma Aiolos questa volta
non le
diede retta, rimanendo a fissarla con strana preoccupazione.
Il ragazzo fece appena in tempo a posare la pistola, tralasciando tutte
le norme di sicurezza di quando si maneggiano le armi, che lei si era
piegata in due dal dolore, trattenendo un forte gemito, accasciandosi
infine a terra, fra i bossoli dei colpi che aveva sparato poco prima.
*****
Cora era stufa di aspettare. Seduta sul lettino delle visite, col
camice ospedaliero in dosso – corto e scomodo che le lasciava
la
schiena nuda – e le gambe a penzoloni, continuava a farle
dondolare avanti e indietro, sbuffando annoiata.
«Basta, io me ne vado!» disse, saltando
giù dal
lettino. Aveva atteso quasi un’eternità
lì seduta e
ora non era disposta a spendere un minuto di più in quel
posto.
Aiolos la guardò alzando un sopracciglio, seduto sullo
sgabello
di metallo, poco più in là. Strano ma vero, lui
che
l’aveva portata di corsa al pronto soccorso, si era ritrovato
alla fine con una visibile fasciatura alla spalla e il braccio appeso
al collo, mentre lei, che fino a poco prima si era lamentata di dolori
lancinanti al ventre, ora sembrava essere in perfetta forma, se non si
teneva in considerazione qualche linea di febbre.
La giovane si grattò il braccio sinistro, nel punto dove
l’infermiera le aveva fatto il prelievo del sangue e dove ora
c’era una garzina sterile fermata con lo scotch di carta.
«Come vuoi», disse Aiolos, senza fare alcuna
obiezione,
né cercare di dissuaderla. Anzi, ironia della sorte, era
d’accordo con lei e non vedeva l’ora di lasciare
anche lui
il pronto soccorso.
Con un gesto forzato e poco naturale, si liberò il braccio
dal
sostegno e si rimise la camicia che l’infermiera gli aveva
lasciato lì vicino. Poi, sempre un poco a fatica, se la
riabbottonò. L’antidolorifico che gli avevano
somministrato prima della fasciatura stava ormai passando, ma ancora
gli provocava un certo intorpidimento ai muscoli.
Cora si guardò attorno, cercando un posto dove potersi
rivestire: quando l’avevano obbligata a spogliarsi,
perché
le avevano detto che le avrebbero fatto un’ecografia
all’addome, per accertare la causa di quei dolori, Aiolos era
già stato preso in consegna da un’altra
infermiera; vista
la situazione non poteva certo rimettersi i vestiti davanti a lui.
Sbuffò di nuovo, guardandolo di sottecchi. Il tacito
messaggio
di lasciarle un momento di privacy non gli era arrivato.
Si dovette quindi arrangiare, nascondendosi come poteva dietro il
lettino. Piegandosi un poco iniziò a infilare i jeans un
piede
alla volta, ma non era una buona equilibrista e, per non spostare
troppo il camice, per poco non si ritrovò con il sedere per
terra. Aveva ancora i pantaloni a metà gamba quando la tenda
– che faceva da séparé –
venne tirata con un
colpo secco e da dietro si materializzò un medico.
«Caroline Miller, la nostra miracolata!» la
salutò
l’uomo, con un grande sorriso sulle labbra. «Mi era
arrivata voce che tu fossi in ospedale ed eccoti qui!»
Si avvicinò al lettino e le strinse la mano con
cordialità.
«Salve, Dr. Ferretti», ricambiò lei, in
forte imbarazzo.
«Te la stavi svignando prima della visita?» la
rimproverò bonariamente lui.
L’uomo era un medico di mezza età, brizzolato e
costantemente abbronzato; occhi azzurri, denti bianchissimi che amava
mettere in mostra in ogni occasione e dava sempre del
“tu”
alle pazienti donne, soprattutto se giovani e carine. Al
“George
Clooney” del reparto chirurgia, l’uomo che le aveva
salvato
la vita, si poteva perdonare questo e altro.
In mano reggeva la cartella clinica che l’infermiera aveva
compilato al momento dell’accettazione e della visita
preliminare. Sul primo di quei fogli erano stati riportati tutti una
serie di dati e gli esami richiesti.
«Allora, rimettiti sdraiata qui sopra», le disse,
battendo
la mano sul materassino, per sottolineare l’ordine appena
impartito, seppur gentilmente, «e scopri la pancia. Lei,
signore,
è un parente?» chiese, rivolgendosi ad Aiolos.
«Solo un conoscente.»
«Allora può aspettare in fondo alla sala, per
cortesia?» Il medico era tanto cordiale con le pazienti
donne,
quanto invece formale e serio con gli accompagnatori, soprattutto se
non erano dei parenti.
«No, no, dottore. Vorrei che rimanesse», intervenne
Cora.
Non che non si fidasse del dottore, o che avesse paura di qualcosa, ma
la presenza di Aiolos la faceva sentire più sicura.
«In questo caso faremo uno strappo alle regole»,
concesse l’uomo, rivolgendosi di nuovo alla sua paziente.
Ferretti diede un secondo sguardo a quei fogli, mugugnando qualcosa.
«Mancano ancora i risultati degli esami del sangue e delle
urine.
Non fa niente, vorrà dire che inizieremo con
l’ecografia.
Hai dichiarato di aver subito un colpo molto forte, vero? Senti ancora
dolore?» le chiese, mentre le faceva la palpazione sulla zona
interessata.
Cora scrollò la testa, posizionandosi più comoda
sul
lettino, mentre il medico, intento ad avvicinare il carrello col
monitor e l’ecografo portatile, pareva non aver badato alla
sua
risposta.
«Magari non è niente, ma noi daremo lo stesso
un’occhiata», disse, concedendole un altro un
sorriso.
«Adesso sentirai un po’ freddo.»
Aveva appena preso in mano il flacone del gel, quando arrivò
quasi di corsa l’infermiera che aveva visitato per prima
Cora. La
donna, senza dire nulla, consegnò il foglio coi risultati al
Dr.
Ferretti e attese nuove istruzioni.
«Mmmmh…» mugugnò
l’uomo.
«Dottore?»
Il medico continuava a controllare e ricontrollare quei risultati, con
una smorfia sulle labbra, come se qualcosa non lo convincesse,
lasciando i presenti col fiato sospeso.
«Ebbene, secondo questi risultati...»
iniziò,
facendo una pausa. «Congratulazioni, Caroline, sei
incinta», disse, sciogliendosi in un sorriso accattivante.
«Vuoi vedere il tuo bambino?» le chiese,
apprestandosi
ancora una volta a sistemare l’apparecchio e prendendo il gel.
«È sicuro, dottore?» chiese con voce
flebile Cora, attonita a quella notizia.
Fissò il vuoto per diversi secondi, boccheggiando e tremando
un
poco. Non era certa di aver inteso bene. Sarebbe stato troppo bello per
essere vero e lei non voleva farsi troppe illusioni. Continuava a
pensare che non poteva essere possibile, che da dopo il suo ferimento
lei non avrebbe più potuto averne; e ora le stavano dicendo
che
tutto ciò in cui aveva creduto in quegli ultimi due anni era
errato.
«Le analisi del sangue e delle urine non mentono. Sarai
presto
mamma», confermò il chirurgo. Accese il monitor e,
dopo
aver usato una generosa quantità di gel, iniziò a
muovere
la sonda sul ventre della ragazza.
Quelle strane immagini sgranate che si susseguivano sul monitor a un
occhio profano erano di difficile comprensione. Erano masse chiare
indistinte e ombre che cambiavano forma a ogni movimento della sonda.
Con gli occhi pieni di speranza, Cora provò a dare una
sbirciata
a quel monitor, emozionata e impaurita al tempo stesso. Le sue labbra
erano costantemente piegate in un sorriso e tremavano. Tratteneva il
respiro, le sue mani erano nervose e iniziarono a tormentare il bordo
del camice.
Contrasse involontariamente il ventre, nel sentire una pressione un
po’ più forte.
«Un attimo di pazienza che abbiamo quasi finito»,
la rassicurò Ferretti.
La voce dell'uomo questa volta risuonò fin troppo
professionale,
quasi avesse cercato di mascherare una crescente preoccupazione. Di
questo se n'era accorta sia l'infermiera che Aiolos, rimasto sempre in
disparte e che seguiva con malcelato disappunto.
Ferretti continuò a fissare il monitor, mentre con la mano
spostava la sonda dell’ecografo. In quegli ultimi minuti
stava
insistendo molto su un determinato punto, come se avesse anche lui
difficoltà a capire.
«Eccolo», disse, senza alcuna enfasi.
«Dovrebbe
essere di… quattro, forse cinque settimane»,
stabilì.
La sua giovialità era ormai sparita.
Fece un cenno all’infermiera e, parlando a bassa voce, le
ordinò di chiamare su in reparto e far scendere una delle
ostetriche di turno per un consulto; poi aggiunse di riferire che era
un’emergenza.
La ragazza era ancora così frastornata
dall’emozione che
non aveva notato lo sguardo serio del medico, né si chiese
come
mai l’uomo non le avesse indicato sul monitor il suo bambino,
né ancora il perché, dopo essersi soffermato
così
a lungo, avesse riposto la strumentazione tanto in fretta, mutando il
suo solito atteggiamento.
«C’è qualche problema?»
domandò Aiolos,
che invece non si era lasciato sfuggire alcun dettaglio di quella
visita. La domanda pareva essere caduta nel vuoto.
«Rimani qui ancora qualche minuto», disse il Dr.
Ferretti a
Cora, che si stava risistemando il camice, alzandosi dallo sgabello e
allontanandosi di qualche passo, non appena scorse arrivare la sua
collega.
Aiolos avvertì all'improvviso una strana tensione, si
avvicinò alla ragazza che fissava un punto imprecisato con
sguardo languido, mentre si accarezzava il ventre e la
squadrò
severamente.
«Ora cos'hai intenzione di fare?» le chiese
sottovoce. Il
suo tono non era stato certo amichevole, né partecipe del
momento lieto.
Cora strinse la stoffa del camice e sospirò un
“non lo
so” che testimoniava quanto, in quel momento, si stesse
finalmente rendendo conto dell’accaduto. Era un bel dilemma:
Saga
e lei avevano faticato a convivere, perché in un modo o
nell’altro qualcosa era sempre andato storto; non erano
ancora
riuscire a trovare una certa stabilità e ora c'era in arrivo
un
bambino.
«Secondo te, come prenderà la notizia? E la sua
famiglia?» chiese, con giustificata preoccupazione.
«E la tua invece?» ribatté Aiolos.
«Pensi che
tuo zio verrà a Boston, pistola in mano, a chiedere la testa
del
colpevole?»
A quelle parole Cora ridacchiò, immaginandosi la scena. Ma
sapeva che non ci sarebbe stato motivo per una cosa del genere. Lo zio
Phil avrebbe sicuramente approvato, dopo qualche giorno passato a
rimuginare sulla situazione e dopo una colossale opera di convincimento
da parte di sua madre, naturalmente; e lei, sua madre… beh,
in
passato aveva fatto altrettanto, più o meno; e poi, era uno
spirito romantico. E una volta che lo avesse conosciuto anche di
persona, se ne sarebbe innamorata anche lei, ne era più che
certa.
«Credo che saranno un po’ sorpresi»,
rispose,
pronunciando quelle parole con dolcezza e con un sorriso innamorato.
«Caroline», la chiamò il dottore,
ritornato dopo
qualche minuto e ridestandola dai suoi sogni a occhi aperti.
«Dobbiamo portarti in sala operatoria.»
La voce dell'uomo risuonò tetra e greve. Aiolos lo
fissò
a occhi sgranati, stringendo il pugno. Su tutti i presenti
calò
una tensione nervosa. Solo da parte della giovane non arrivava alcuna
reazione; anzi, sembrava persa nelle sue fantasticherie.
«Caroline, hai capito quello che ti ho appena
detto?» disse Ferretti, scuotendola leggermente per la spalla.
Gli occhi di Cora incrociarono quelli del chirurgo. «Che mi
dovete portare in sala operatoria, dottore», disse lei, ma ai
presenti era chiaro che lei non ne fosse del tutto cosciente.
«Non ne vedo però il motivo. Io sto
bene.»
«No, Caroline, non stai bene. E anche la gravidanza non va
bene. Dobbiamo interromperla.»
«Ma io sto bene!» insistette la giovane; e questa
volta la
sua voce aveva in sé un tono decisamente allarmato.
«Miss Miller, purtroppo è una gravidanza
extrauterina.
Dobbiamo intervenire con urgenza, prima che possano esserci delle
complicazioni molto più gravi, per la sua salute»,
intervenne la collega che era stata chiamata da Ferretti.
«No! No! Io sto bene!» urlò Cora, quasi
isterica,
saltando giù dal lettino. «E starà bene
anche lui!
Perché... perché mi state facendo
questo...»
mormorò, con le guance rigate di lacrime. Quando aveva
scostato
il lenzuolo aveva svelato sul materassino delle tracce di sangue.
All'improvviso avvertì un forte crampo irrigidirle il ventre
e
lo stomaco. Era diverso dai soliti con i quali era abituata a
convivere. Poi, un dolore più acuto la fece gemere e piegare
in
due, esattamente com’era successo al poligono di tiro. Si
portò entrambe le braccia a stringersi dove sentiva quelle
fitte.
«Caroline, non fare pazzie. Segui quello che ti dicono i
dottori», disse Aiolos, con particolare preoccupazione,
sorreggendola e aiutandola a tornare sul lettino.
Le gambe della giovane si afflosciarono senza forza e Aiolos, con
grande reattività, nonostante la spalla dolente, la prese in
braccio, posandola sul lettino. Per terra, ai suoi piedi vi era una
grande pozza di sangue scuro che era colato fra le cosce di lei.
*****
La giovane si risvegliò in quella stanzetta
d’ospedale, su
in reparto chirurgia, ancora tutta frastornata dall'anestesia totale
che erano stati costretti a farle. Era una singola, essenziale ma
dall’aria comunque confortevole. Le luci al neon erano accese
e
le davano fastidio alla vista. Aggrottò la fronte e
strizzato
gli occhi. Sentiva i suoni attorno a sé un poco ovattati e
le
palpebre decisamente pesanti. Il tubicino dell’ossigeno le
prudeva al naso ed era troppo tirato dietro le orecchie.
«Mamma», mormorò.
«Caroline! Come ti senti?» chiese la donna che
subito si
era chinata su di lei, accarezzandole la guancia esangue e dandole un
bacio sulla fronte.
«Cosa ci fai qui?» disse la ragazza, con voce
impastata.
«L’ho chiamata io, dal tuo cellulare»,
intervenne
Aiolos, appoggiato con la schiena alle veneziane abbassate
dell’unica finestra presente. «Doveva
saperlo.»
«Bambina mia…» le disse dolcemente
Teresa, gli occhi
tristi e arrossati. Di sicuro aveva pianto per tutto il tempo che era
rimasta accanto al letto di sua figlia, in attesa che lei si svegliasse.
Cora fissò la madre negli occhi, per quanto le sue
condizioni le
permettessero, senza dire nulla. Non si capacitava di quel che era
successo così all'improvviso. Aveva toccato il cielo con un
dito
e ora si sentiva vuota dentro. Non solo metaforicamente parlando. Le
avevano tolto qualcosa che lei anelava e che si era già
rassegnata a non avere mai. Le sembrava di vivere un incubo.
«Ci sono anche gli altri?» chiese, con voce flebile.
«No, sono venuta solo io. Phil è a casa con
Mickey; gliene
ho parlato, ho dovuto farlo, perché la telefonata
è
arrivata quando lui era presente, ma tuo fratello ancora non lo
sa.»
«Non glielo dire. Non voglio che pensi di essere responsabile
di
quello che mi è successo», disse Cora, con la voce
che
andava via via facendosi più agitata e il respiro che
diventava
affannoso. Sul monitor, il battito del suo cuore era accelerato.
«Sssh… sssh… tesoro, stai
tranquilla», provò a calmarla la madre.
Cora girò la testa dall’altra parte e
incrociò lo
sguardo di Aiolos. Temeva del biasimo da parte del ragazzo, ma lui
sembrava imperturbabile e i suoi occhi erano altrettanto indecifrabili.
Aveva la testa ancora confusa, ma una cosa ricordava bene, nonostante
tutto lui le era rimasto accanto e l’aveva aiutata. No, la
verità era che le aveva salvato la vita, perché
se fosse
stata sola in quella cabina del poligono sarebbe morta dissanguata. Le
sue labbra si mossero impercettibilmente a prononciare un
“grazie”, ma la sua voce era come se fosse
scomparsa di
colpo, esaurita; allora si limitò a indugiare con lo sguardo
su
di lui, che la stava ricambiando, senza mutare espressione. Dopo
qualche secondo lo vide prendere dalla tasca il cellulare e
allontanarsi dalla finestra, per dirigersi alla porta della camera.
«A lui, cosa devo dire?» le chiese Aiolos, facendo
un breve gesto con la mano che teneva il cellulare.
Cora strinse le labbra e chiuse gli occhi già velati di
lacrime,
lasciando che queste scendessero libere fino a bagnare la federa del
cuscino. «Niente. Non c’è niente da
dire.»
Teresa rimase in silenzio ad assistere a quel dialogo, continuando a
starle vicina; percepiva che c’erano diverse cose che
andavano
chiarite, ma non le pareva giusto dover intervenire in ciò
che
non la riguardava. Era però pronta a raccogliere i pezzi,
nel
caso sua figlia glielo avesse permesso. Un’esperienza del
genere
era traumatica di per sé; per Caroline poi, che
già aveva
sofferto molto, lo era ancora di più.
«Mamma… voglio andare a casa.»
«Sì, bambina mia. Fra poco arriverà il
Dr. Ferretti
per controllare se tutto è andato bene e poi, se ci
darà
il permesso, chiederemo il foglio di dimissioni.»
note del capitolo:
Paintball e Speedball:
(per carità non confondete quest'ultimo
con le droghe) è un tipo di sport (e relativa
specialità)
abbastanza recente, nato negli Stati Uniti e diffusosi poi in Europa e
nel resto del mondo. Ma bando alle ciance, qui
trovate tutte le
spiegazione necessarie.
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Capitolo 26 *** Capitolo XXV ***
XXV
Winchester,
Boston
Un colpo secco risuonò nella fresca brezza di quel
pomeriggio di
fine maggio dal cielo terso. Era stato come uno schioppo che sanciva la
fine definitiva delle ostilità. Un lieve nugolo di polvere
rossiccia si levò da terra di qualche centimetro, proprio
fra i
piedi del ragazzo che ancora stava battagliando per non ruzzolare al
suolo, perdendo anche quella sfida.
«E con questo… è gioco, partita e
incontro!»
decretò con voce decisa Saga. Sul suo viso, un poco
arrossato e
imperlato di sudore, era stampato un sorriso smagliante che mostrava
tutta la – scontata – soddisfazione di chi aveva
predetto
il risultato dell’incontro con largo anticipo.
Con un gesto fluido si portò la racchetta sulla spalla e,
con
calma olimpica, si avvicinò alla rete, osservando il gemello
seduto a terra con i capelli scompigliati e appiccicati al viso
stravolto, che imprecava verso tutto e tutti. Sputava parole fra i
denti contro il laccio della scarpa destra che era finito sotto il suo
piede facendolo inciampare; contro la sua racchetta, a sua detta non
perfettamente bilanciata, e con l’impugnatura, rea di essere
così fradicia di sudore che era divenuta scivolosa; e anche
contro Saga, perché quell’ultima palla
gliel’aveva
tirata in un punto impossibile da ribattere.
«Non è valido! Me l’hai tirata in mezzo
ai
piedi!» sbraitò, agitandogli la racchetta contro.
Il suo
spirito di competizione ribolliva al massimo.
«Certo che è valido! Fa parte del
gioco!»
ribatté il gemello, ridendo ai goffi tentativi
dell’altro
di ripulirsi dalla terra rossa. Ma più Kanon si impegnava a
farlo, più si sporcava per via del sudore che impregnava sia
la
maglietta che il viso, le gambe e le braccia. «E comunque non
è colpa mia se non sei riuscito a respingere il mio
colpo», aggiunse, alzando le spalle a schernirlo di
più.
Eppure, quelle parole erano state pronunciate col sorriso sulle labbra,
di quelli dolci e gentili com’era solito fare quando era
davvero
sereno.
Forse lo aveva fatto con calcolata malizia, perché qualcosa
dal
gemello aveva imparato dell’arte dello sfottò, o
forse con
naturale ingenuità; ma il risultato era stato comunque
quello di
alimentare ancora di più la rabbia adrenalinica
dell’altro. Gli tese la mano da sopra la rete, per aiutarlo a
rialzarsi, ma Kanon la rifiutò con sdegno; e Saga si
lasciò andare a una risata forte e divertita.
Il giovane si incamminò lungo la rete fino ad arrivare alle
sedie a bordo campo – ai lati del seggiolone
dell’arbitro
– dove erano sistemate le borse e gli asciugamani. Dopo aver
posato la racchetta, dalla borsa prese una bottiglietta di integratore,
vuotandola in pochi sorsi.
«Imbroglione! Lo hai fatto di proposito solo per vincere di
nuovo!» continuò nelle sue lamentele Kanon,
raggiungendolo
e, con gesti ancora più nervosi, ficcando malamente la sua
racchetta nella borsa.
La sconfitta gli bruciava, eccome se gli bruciava! Soprattutto
perché era lo spareggio ed era arrivato a un soffio dalla
storica impresa di battere il gemello nel suo sport preferito. Ma
forse, quello che ora gli dava maggior fastidio era la consapevolezza
che la prima partita, quella cioè che aveva
vinto… beh,
era stata una vittoria troppo facile!
Saga gli tirò addosso l’asciugamano e si
buttò a
sedere su una delle sedie libere, sfinito, portando indietro la testa e
chiudendo gli occhi, per godersi un leggero refolo d’aria che
gli
accarezzava il viso umido di sudore. Sorrise sornione allo sbuffo
scocciato dell’altro.
L’aria portava con sé il profumo dei fiori che
crescevano
nelle curatissime e sempre perfette aiuole, disseminate fra i sentieri
ordinati che si snodavano negli spazi del Country Club, come un intrico
di vie e strade di un piccolo villaggio.
«Ti ho lasciato recuperare diversi punti che altrimenti non
avresti fatto, se non sei stato capace di approfittarne devi biasimare
solo te stesso.»
Kanon gli elargì un poco elegante gestaccio, corredato anche
da
una smorfia. Scaraventò a terra la sacca e si sedette
accanto al
gemello, coprendosi il viso con l’asciugamano.
«E questa volta cosa vuoi?» chiese, in uno sbuffo
risentito. Naturalmente si stava riferendo alla posta della scommessa
legata alla sua ennesima sconfitta.
«I biglietti per il Madison Square Garden.»
«Cosa?» disse, sgranando gli occhi e scattando in
piedi
come una molla. «Ma sei matto? Quei biglietti sono
praticamente
introvabili da settimane!»
«Usa i soliti canali, gli stessi di quando vuoi ottenere
qualcosa
per te», gli suggerì Saga, raddrizzandosi e
sorridendogli.
Si alzò dalla sedia, riordinò la propria borsa e
se la
mise in spalla, avviandosi poi fuori dal campo.
Kanon rimase basito. Non pensava certo che “quei”
suoi
metodi fossero sconosciuti al gemello, del resto lui stesso era stato
così sciocco da vantarsene in più di
un’occasione
in passato, ma che addirittura ora Saga lo spingesse a usarli, gli
sembrava una cosa fuori dal mondo.
«Ma tu lo sai cosa mi stai chiedendo di fare?» gli
disse,
ancora sconvolto, prendendo in fretta e furia le sue cose e
raggiungendolo di corsa, mentre Saga invece passeggiava con
tranquillità.
«Ti sto chiedendo di pagare il tuo debito. Sei tu che non hai
voluto sapere quale fosse la posta in palio, troppo sicuro che avresti
vinto, perché a differenza tua io non mi ero allenato negli
ultimi tempi...» gli ricordò Saga, senza il
bisogno poi di
completare la frase.
Kanon si bloccò in mezzo al vialetto che portava agli
spogliatoi
privati, come raggelato. No, era evidente che il suo amato fratellino
non si rendesse conto di quanto gli sarebbe costato, altrimenti non gli
avrebbe fatto una richiesta impossibile. Era però vero che
lui
gli aveva detto, con tono eccessivamente sicuro, che non gli importava
conoscere il premio per il vincitore; troppo convinto che si trattasse
della solita cena in uno dei ristoranti più rinomati della
Grande Mela che tanto Saga non avrebbe mai riscattato, visto che
già ne vantava altre dieci.
Lo osservò guadagnare qualche altro metro, mentre le sue
mani
inconsciamente si portavano indietro a ripararsi i glutei e un gemito
gli sgorgava mortifero dalla gola. La sola idea di doversi svendere
alle lussuriose e troppo stravaganti voglie della presidentessa
Abbigail Peterson – conosciuta a Wall Street come la regina
degli
snack dietetici –, che anche quell’anno sarebbe
stata fra
gli sponsor del match evento al Madison Square Garden, gli faceva
rimpiangere di essersi sempre compiaciuto dell’interesse che
la
donna nutriva per lui. In quel momento avvertì di nuovo, con
vivida chiarezza, le unghiate e i pizzicotti che lei gli aveva lasciato
l’ultima volta che si erano incontrati a uno dei soliti party
di
raccolta fondi per… beh, di solito a quegli eventi vi
partecipava solo per portarsi a letto qualcuna. Certo, la donna era
bella e affascinante, una conquista che avrebbe dato prestigio a molti,
ma forse sarebbe stata più adatta al padre piuttosto che a
lui,
se solo Shion avesse mostrato un qualche minimo interesse.
A rifletterci, non ricordava di aver mai visto il padre sessualmente
attratto da alcuna donna. Se un tempo, quando era piccolo, poteva
immaginare che l’uomo tenesse la sua vita privata fuori dalla
portata dei suoi figli, per “non traumatizzarli”,
ora che
erano adulti – e lui era fin troppo attivo in quel campo
–
ancora non sapevano praticamente nulla delle avventure del padre. Ma
forse, pensava, non sarebbe stato poi così strano se alla
sua
età avesse deciso di mandare in prepensionamento
“l’amichetto”.
Si massaggiò con vigore la parte
“offesa”: se
proprio doveva sacrificarsi, non sarebbe stato il solo a pagarne il
prezzo. I suoi occhi erano ancora fissi sul gemello che si stava
allontanando, inconsapevole di quanto stava per succedere, e un ghigno
diabolico si disegnò sulle sue labbra.
«Chissà…» mormorò
Saga,
sovrappensiero, «forse è arrivato il tempo di
esigere
anche gli altri, di pagamenti. Tu che ne pensi, Kanon?» si
rivolse al fratello, girandosi un poco indietro.
Boom!
Saga avvertì un forte dolore alla schiena e dietro la testa
e
per qualche secondo tutto si fece buio. Si ritrovò a terra,
immobile, schiacciato da un grosso peso che gli bloccava la cassa
toracica e gli impediva quasi del tutto di respirare. Ancora
scombussolato, sentiva una strana umidità inzuppargli tutto
il
corpo. Con le mani tastò incerto vicino a sé,
mentre
riapriva gli occhi con innaturale lentezza. Sotto i suoi palmi
l’erba era umida, probabilmente annaffiata di fresco; e il
sole
emanava una luce dolce, poco fastidiosa: aveva già iniziato
il
lento percorso verso ovest.
Con un gemito girò il capo, prima a destra, poi a sinistra.
La
sua borsa era volata a un paio di metri da lì, sulla
sinistra.
Provò ad afferrarne la tracolla che protendeva verso di lui,
ma
c’erano ancora diversi centimetri di distanza da colmare per
raggiungerla. Con la mano riuscì a strappare solamente
qualche
ciuffo d’erba, nei suoi vani tentativi. Avvertì un
secondo
battito tambureggiare contro il suo petto, inseguendo e superando il
ritmo di quello che invece gli batteva dentro. Deglutì a
fatica.
Poi, un altro gemito e un ansimo strozzato. La difficoltà
nel
respirare si faceva via via più opprimente.
«Come stai?» gli chiese Kanon, con voce ovattata:
la sua
bocca premuta contro il petto del gemello, il volto a contatto con la
stoffa di cotone della polo dell'altro.
«Come vuoi che stia?» ansimò Saga,
cercando di
prendere più aria possibile. «Come uno che
è appena
stato travolto da un… un TIR», disse, ormai senza
fiato.
Kanon sogghignò. In effetti la cosa era piuttosto
verosimile,
anche se si trattava di un semplice, quanto
“innocente”,
placcaggio. Forse un po’ troppo alto, ma del tutto lecito e
regolare!
Rimasero in quella posizione per interminabili secondi, nella completa
immobilità di quella strana situazione. Tutto era diventato
silenzio attorno a loro; solo il melodico canto della natura faceva da
contraltare ai loro respiri: quello affannato e sovreccitato di Kanon e
quello quasi impercettibile di Saga, sempre che riuscisse ancora a
respirare.
«Dai… togliti di dosso…
bisonte…»
sbuffò il giovane, steso sul terreno. «Se mi hai
sporcato,
ti metto in conto anche la lavanderia…» disse con
tono
minaccioso.
Il suo sguardo e le sue labbra però non erano in accordo con
le
sue intenzioni: troppo dolci e sereni i suoi occhi verdi che
splendevano di una gioia contagiosa; e le sue labbra che non riuscivano
a nascondere il sorriso tipico di chi è innamorato.
Saga gli disse di alzarsi e lui, da bravo fratello sempre prodigo nel
prendersi cura del proprio gemello, si tirò su un poco,
puntellandosi con le mani sul soffice manto erboso, sfiorandogli i
fianchi. E Saga, in quell’esiguo spazio che l’altro
gli
stava concedendo, riuscì finalmente a riempire
d’aria i
polmoni, sbuffandola poi fuori con sollievo.
Kanon lo fissò negli occhi. Rosso in viso e sudato, sorrise
malizioso, voglioso di rivincita; e nei suoi propositi sarebbe stata
molto, ma molto, soddisfacente. Poco propenso a dargli davvero pace, si
mise a cavalcioni su di lui.
«Ma che fai?» disse in tono allarmato Saga,
sgranando gli occhi per la sorpresa.
Si ritrovava un energumeno di quasi novanta chili che gli stava pesando
sul bacino e lo teneva bloccato a terra. Vide il gemello chinarsi di
nuovo verso di lui, sempre con quel sorrisetto ambiguo che ora sembrava
addirittura pericoloso e, ancora una volta, si coricò su di
lui,
appoggiando i gomiti a terra, ai lati del suo viso. I loro nasi erano
quasi a contatto fra loro e le loro fronti si sfioravano. Saga
trattenne il respiro: in quella posizione, col cuore che gli martellava
nel petto, si stava sentendo indifeso.
«Kanon?» disse, con voce incerta.
Sul viso sentiva il respiro del gemello e un leggero solletico
provocato dallo sbatter di ciglia che l’altro, era
più che
sicuro, stava facendo apposta.
*****
«Sei sicura che stiamo andando nella direzione
giusta?»
«Quel ragazzo ha detto che era da questa parte»,
disse
Saori, ma anche lei non era poi così certa della direzione
presa: forse aveva capito male le indicazioni.
Camminava a passo svelto e al tempo stesso indeciso, scrutando con gli
occhi ogni minima cosa per individuare i punti di riferimento che le
erano stati dati, neanche la proprietà del Country Club
fosse
stata un astruso labirinto magico che, distolto un momento lo sguardo,
mutasse di forma per confondere gli ignari avventurieri.
«Ma perché stiamo andando a cercarli?»
chiese di
nuovo Seiya; la svogliatezza che mostrava contrastava e stonava con
l’ambiente circostante e con la curiosità della
ragazza.
Saori non gli diede una risposta. In effetti nessuno aveva chiesto loro
di fare una cosa del genere: aveva deciso lei stessa, di sua
iniziativa, di andare a cercare i gemelli, quando aveva sentito Shion
Hayes chiedere a uno dei valletti del club di far chiamare i suoi
figli. In quel momento, con ancora indosso la tenuta da cavallerizza,
aveva appena raggiunto l'uomo al suo tavolo, dopo la passeggiata a
cavallo che aveva fatto, accompagnata da uno degli istruttori del
maneggio. Con la scusa che desiderava andare a rinfrescarsi, si era
congedata, ma aveva preso tutt’altra direzione; e Seiya
l’aveva seguita a ruota, com’era sua abitudine fare
e come
la sua famiglia adottiva, i Kido, gli aveva ordinato di fare.
Quasi dispersa fra i vialetti curati, i mille cartelli che indicavano
altrettante direzione e tante altre distrazioni – e
più di
dieci minuti di vagabondaggio a vuoto –, si stava domandando
anche lei il perché si fosse imbarcata in quella
“missione”. Eppure, una voglia misteriosa
l’aveva
spinta a voler scoprire un diverso lato della personalità
del
suo promesso; a sbirciare anche solo un piccolo attimo di
normalità e di vera intimità di quella persona
che dei
cinici accordi economici le avevano affiancato.
Come se non fosse bastato, in quei giorni aveva sentito tanto decantare
le qualità dei gemelli Hayes, non soltanto come persone, ma
anche come eccellenti sportivi. Erano state per lo più
chiacchiere da parte del personale del Country Club, dipendenti che
ammirano il padrone, e parole frammentate captate dai discorsi degli
altri ospiti. Loro senz’altro conoscevano meglio di lei Kanon
e,
se ne parlavano così bene, allora doveva esserci del vero.
Le
più insistite asserivano che i due erano così
bravi,
naturalmente ognuno con uno sport preferito, che avrebbero potuto
competere anche con dei professionisti; non degli sportivi qualunque,
ma con dei veri campioni!
L’impresa che veniva raccontata più spesso era una
gara
nella piscina olimpionica, ovviamente del Country Club, avvenuta quasi
cinque anni prima e nella quale i due fratelli erano stati alla pari
fin quasi all’ultima bracciata dell’ultima delle
sedici
vasche degli 800mt stile libero. Ci fu chi, a suo tempo, assistendo
alla sfida – che si era svolta proprio nei giorni di gare dei
mondiali di nuoto di Montreal – disse che i due erano finiti
alla
pari e riuscirono persino a battere il record mondiale. Naturalmente,
la parola di un semplice addetto alla piscina non era poi
così
attendibile. Ma quel giovane per diverso tempo si vantò di
essere stato testimone di un’impresa eccezionale.
Lei era stata educata a tenere molto in considerazione
l’onore e
la reputazione delle persone, a guardarne i meriti reali e non quelli
presunti; da quando era in America, dove tutto era così
diverso
dal suo paese e dalla sua cultura, dove era prassi ingigantire ogni
cosa, non sapeva più cosa pensare: era difficile riuscire a
capire dove terminava la verità e dove invece iniziavano le
esagerazioni.
Le avevano detto che quel pomeriggio i gemelli si erano tenuti liberi
per un incontro di tennis ed era curiosa di vederli
all’opera. Un
piccolo esempio lo aveva avuto proprio la settimana prima; ma in
quell’occasione, la partita giocata da Kanon le era sembrata
essere più che altro una dimostrazione e non un match
guidato
dallo spirito sportivo. L’aveva visto ridere –
talvolta
irridere – e scherzare, limitandosi contro i suoi avversari.
Seiya, che difendeva il vessillo nipponico, nonostante la sua
volenterosa caparbietà, era stato liquidato in fretta. Aveva
fatto quel che aveva potuto, tutto considerato. Mentre Aiolia, amico
del ragazzo, aveva subito sorte ben peggiore, venendo addirittura
umiliato; e solo perché si era lasciato sfuggire una parola
di
sfida di troppo; ma dai discorsi che i due avevano fatto, non doveva
essere stata la prima volta.
Per giorni e giorni, quel magnificare ogni cosa riguardasse i gemelli,
era ronzato nella giovane testa di Saori, portandola a pensare spesso,
molto spesso, al suo promesso sposo. Doveva però confessare
a se
stessa che anche l’altro, il fratello più
tranquillo,
quello che in qualche modo la turbava con il suo carattere troppo
introverso e lo sguardo limpido, che a tratti le ricordava suo cugino
Shun, le faceva un certo effetto. Forse era per il fatto che avevano
iniziato a passare molto tempo assieme, mentre con Kanon si erano
create delle distanze dovute al lavoro di lui. Spesso infatti, in
quell’ultimo periodo, Kanon faceva il pendolare fra Boston e
New
York. Tragitto pesante se percorso ogni giorno, anche per chi aveva
mezzi superiori, come autisti e aerei privati; ma alle volte, era
capitato una o due in realtà, era stato costretto anche a
fermarsi a dormire nell’attico di Central Park.
Saga invece, che sempre di più faceva gli onori di casa
nella
villa di Mystic Lake, era disponibile per ogni cosa lei avesse bisogno.
Quella vicinanza così stretta, che derivava anche dal ruolo
di
tutor che gli era stato chiesto di svolgere per aiutarla negli studi e
prepararsi per il difficile test d’ingresso – che
le
avrebbe permesso di frequentare l’ultimo anno come una
studentessa normale –, aveva iniziato a farla dubitare di se
stessa. Era stato grazie all’intercessione del capofamiglia
Hayes
se da qualche settimana stava frequentando – solo come
osservatrice – una scuola privata di Boston, la stessa che a
suo
tempo aveva frequentato anche Kanon, per familiarizzare con i metodi
americani. Era stato così che aveva quindi iniziato a
passare
tutti i pomeriggi alla villa, a stretto contatto con Saga:
ufficialmente a ripassare le lezioni, ma in verità a
distrarsi
nell’osservare i suoi sorrisi dolci, ad ascoltare la sua voce
gentile, a sentire sulla pelle gli involontari tocchi delle sue mani
e… a odorare il suo profumo delicato e virile al tempo
stesso,
quando si chinava un poco su di lei per spiegarle un paragrafo del
libro di testo. A quei ricordi recenti sovrappose, come in un passaggio
naturale, la figura di Kanon, con quel suo carattere spontaneo e un
po’ sbruffone, e il suo cuore prese a battere più
forte.
All’improvviso, come se già quella confusione di
sentimenti che si agitavano in lei non fossero stati sufficienti,
avvertì un'improvvisa vampata sul viso.
D’istinto cercò di nascondersi a Seiya, per non
fargli
notare l’imbarazzo che stava provando nel perdersi in certe
fantasticherie. Si sentiva un poco sciocca in quel frangente.
Osservò il ragazzo di sottecchi: Seiya era sempre stato al
suo
fianco e l’accompagnava dappertutto senza mai lamentarsi,
forse
borbottando qualche volta, ma mostrandole sempre tutto il suo appoggio.
Presenziava anche lui a quelle ripetizioni, anche se di malavoglia;
benché, poverino, fosse lui quello che ne avesse
maggiormente
bisogno.
Si coprì la bocca con la mano inguantata, mentre
nell’altra ancora stringeva il frustino, per mascherare la
civettuola risata che le nacque spontanea. Saga era sempre molto
paziente con Seiya, in quelle occasioni, ma se ci fosse stato Kanon al
suo posto? Forse lo avrebbe scaraventato giù dalla finestra
dopo
la seconda volta che lui gli avesse chiesto di ripetere qualcosa. A
quel pensiero rise di nuovo.
Camminarono ancora per qualche decina di metri, passeggiando
tranquilli, serenamente, senza più fretta; poi, Saori si
fermò davanti a un piccolo e malconcio cartello di legno,
dall’aria molto country, e vide una scritta che recava
l’indicazione: “Proprietà esclusiva dei
fratelli
Hayes, dal 1995”. E, aggiunto a mano, con una scrittura
infantile
e irregolare, un “fuori dai piedi!” Più
sotto
ancora, inciso con un temperino sul palo di sostegno, c’era
anche
l’avviso “il prossimo che toglie questo cartello
è
licenziato!”.
Saori sorrise intenerita: non pensava di vedere una cosa del genere in
un posto così d’élite come quello;
sembrava una
cosa fatta da bambini delle elementari. E forse lo era davvero.
«Ma quanto è grande questo posto?»
commentò
Seiya, ormai annoiato a morte, continuando a guardarsi attorno e
pensando che gli sarebbe piaciuto provare a guidare una di quelle
piccole macchine elettriche che avevano incrociato lungo i vari
vialetti.
«Dovremmo essere arrivati», dichiarò
Saori, risvegliando l’attenzione dell’altro.
Fecero ancora qualche metro e, alla fine, poco più in
là,
sentirono delle voci. La ragazza si fermò dietro un grosso
cespuglio di bosso, non appena riconobbe le voci. Con titubanza
allungò il collo per vedere e subito si ritrasse, rossa in
viso.
«Torniamo indietro!» esclamò con troppa
decisione,
incamminandosi in tutta fretta, senza dare ulteriori spiegazioni e
lasciando l’altro attonito e spaesato a sbirciare coi propri
occhi.
*****
Saga tenne Kanon stretto in quell’abbraccio per lunghi
secondi:
petto contro petto, il viso nascosto fra i suoi capelli umidi di sudore
– che l’altro stava lasciando crescere un poco
più
del solito, forse per assomigliare di più a lui –
e il
collo; e una mano che gli accarezzava la testa bionda, scompigliata. Il
suo gemello ancora gli stava seduto sopra, bloccandogli le gambe, ma in
quel momento non sembrava più subire quel peso.
«Riconosco questa sensazione», mormorò
Saga, con voce dolce e malinconica.
L’altro fece un lieve movimento, come risvegliato da quella
sensazione di pace che stava sentendo: la stanchezza della partita a
tennis ormai riassorbita e l’umore di nuovo sereno. Era
sempre
così quando c’erano quei momenti di vicinanza con
il suo
amato fratello. «Hai detto qualcosa?» gli chiese,
tentando
di slacciarsi un poco dall'abbraccio, ma Saga non accennava a lasciarlo.
«Noi due, i battiti dei nostri cuori uniti in uno
solo…
noi che torniamo a essere una cosa sola, come se fossimo ancora nel
ventre di nostra madre, cullati nel suo amore. Noi due e
nient’altro. Una dolce nostalgia», disse in un
sussurro
Saga, stringendosi di più a lui.
Le sue parole però a Kanon sembravano strane ed enigmatiche.
Gli
suonò un campanello d'allarme quando udì
accennare alla
madre. Non che fosse un argomento tabù, ma non ne avevano
mai
sentito la necessità di ricordarla o solamente di chiedere
di
lei. E ora, d’un tratto, ecco che spuntavano fuori discorsi
su
una donna che neanche avevano mai conosciuto e della quale sapevano
solo che era morta.
«Ti senti bene?» chiese Kanon, con tono inquieto.
«Ne sono certo, lo ricordo… sempre
insieme»,
sospirò Saga. «E due braccia pietose che ci
avvolgevano e
ci tenevano al sicuro. Le braccia di un padre amorevole.»
Kanon spalancò gli occhi, colto da un’improvvisa
preoccupazione, questa volta più concreta delle altre. Si
staccò con vigore dal gemello e lo scrollò per le
spalle.
Lo sguardo di Saga era languido e gentile, le labbra incurvate in un
sorriso delicato e struggente e le gote di una leggera sfumatura rossa
che spiccava sulla sua pelle chiara.
«La memoria ti sta giocando di nuovo brutti scherzi? Il colpo
alla testa che hai appena preso ti ha rintronato del tutto, oppure sei
ancora una volta sotto l’influsso della febbre?»
gli disse,
mentre con una mano gli toglieva un filo d’erba dai capelli,
scrutandolo attentamente. Non poteva certo credere che
l’altro
stesse parlando della medesima persona che li aveva cresciuti: Shion
Hayes era un buon padre; amorevole, certo, forse propenso a qualche
smanceria… ma solo con Saga e sempre e comunque contenute.
Ma la
descrizione che il gemello ne aveva appena fatto, che lui stesso aveva
inteso, era un po’ troppo lontana dalla realtà che
lui
conosceva. E Kanon… lui sì che aveva una buona
memoria!
Il tono con cui gli aveva parlato era vagamente canzonatorio
– e
il suo sesto senso era in allerta, perché sentiva che
c’era qualcosa di strano in quel comportamento – ma
il
gesto appena compiuto invece mostrava tutta la cura e
l’affetto
che provava per lui; che dedicava solo a lui. Perché era
vero,
nonostante vite separate, nonostante fossero adulti, nonostante tutto
quello che si poteva dire, la questione era semplice: erano loro due,
sempre insieme.
Saga gli sorrise ancora più dolcemente; non si aspettava
certo
che l’altro condividesse quei ricordi, neanche lui era
davvero
sicuro di ciò che aveva appena detto e provato, forse quelle
sensazioni erano solo immaginate – o costruite dal suo
subconscio
dopo quanto aveva appreso – ma un poco gli dispiaceva che
Kanon
non riuscisse ad avvertire le sue stesse emozioni. Forse
però,
in qualcosa il fratello aveva ragione: si sentiva un po' caldo. Che
quella febbriciattola, seppur passeggera, gli avesse fatto immaginare
tutto?
Si bagnò la punta del pollice e, scostandogli i capelli
ancora
umidi dalla fronte, gli pulì uno sbaffo di terra rossa
appena
sopra il sopracciglio sinistro. Poi, gli diede un bacio sulla guancia e
gli accarezzò il viso, rimandendo per diversi secondi a
rimirare
il suo bel fratello. Anche Kanon era caldo, forse addirittura
più di lui. Del resto, erano seduti sul prato bagnato, con
ancora i vestiti intrisi di sudore dopo la partita a tennis e soffiava
un lieve venticello fresco.
«Ci pensi mai a quanto è successo e a cosa
è
cambiato?» disse Saga, in un soffio leggero di malinconia,
toccandosi inconsciamente la tempia destra e quel piccolo segno rimasto
inciso sulla sua pelle. Sospirò e alzò di nuovo
lo
sguardo sul gemello che invece lo stava fissando scuro in volto.
Poi, con movimenti lenti, Kanon si scostò dal gemello,
lasciandolo finalmente libero di muoversi, sdraiandosi al suo fianco
sull'erba e sbuffando stanco.
«Scusami, non volevo contrariarti», disse Saga,
spolverandosi la polo.
«Stavo riflettendo… È da un
po’ che non
c’è più la stessa sintonia di un tempo:
come se ci
fosse qualcosa di diverso fra noi», disse Kanon, osservando
una
nuvola bianca che si muoveva lenta nel cielo.
«Non siamo più bambini, Kanon, né
adolescenti.
Siamo cresciuti, abbiamo preso strade diverse e acquisito delle
responsabilità che hanno portato inevitabilmente a dei
cambiamenti e ci hanno resi così come siamo ora»,
rispose
Saga, con un sorriso pacifico sul viso.
«No, è differente!» ribatté
in tono secco Kanon.
Qualcosa lo aveva irritato. Non era tanto l’argomento
“adolescenti”, che in quell’ultimo
periodo era
diventato un nervo scoperto ancora più sensibile, ma sentiva
che
qualcosa, un qualche fattore sconosciuto, stava cambiando il loro
rapporto.
«Voglio mostrarti una cosa!» disse Saga con enfasi,
ignorando la tensione che irrigidiva l’umore del gemello.
Trascinò la borsa vicino a sé e, frugando in una
delle
tasche laterali, prese una scatolina color turchese, legata con un
raffinato nastrino bianco perla.
Kanon alzò un sopracciglio quando il fratello gliela mise
sotto il naso. La scritta Tiffany&Co
impressa in argento sul coperchio era ben visibile.
«Oh, mio Dio! È per me?» disse Kanon,
imitando la
vocetta stridula delle ragazze, guardando negli occhi il gemello e
sbattendo ripetutamente le lunghe ciglia bionde dei suoi begli occhi
verdi. «Tesoro non dovevi!»
Saga gli diede una spallata, mormorando uno “scemo”
e rise di gusto.
Kanon si fece più serio, con lo sguardo fisso sulla
scatolina.
«È quello che penso? Un anello di
fidanzamento?»
chiese.
Il gemello abbassò lo sguardo, imbarazzato.
Sospirò,
raccogliendo le ginocchia al petto e scrollò lentamente la
testa. «È un regalo.»
«Posso vedere?»
«Solo se mi assicuri di riuscire a richiudere il pacchettino
alla perfezione.»
«Lascia che ti dia un consiglio: se vuoi fare veramente
colpo,
non presentarglielo qui dentro, perderesti tutto l'effetto
sorpresa», gli disse, passandogli un braccio sulle spalle e
stringendolo a sé.
*****
Da qualche tempo Aiolos aveva smesso di leggere quelle che considerava
le memorie di Gregory Miller. Termine sicuramente improprio, ma
quantomeno efficace per definire quel quadernetto nero che mesi prima
gli era capitato fra le mani per caso. Ora tutto quell'interesse
sembrava essere svanito di nuovo. Aveva creduto di poter trovare
"qualcosa" su Caroline e la sua famiglia e forse, se ne avesse avuti a
disposizione altri, le sue aspettative sarebbero state anche esaudite.
Invece, inaspettatamente, ciò che aveva trovato erano state
le
origini di Saga e Kanon. O così almeno poteva sembrare, a
meno
che non fosse una clamorosa coincidenza.
Diede un'occhiata alla sua compagna di viaggio che dopo numerosi viavai
alla toilette si era finalmente addormentata. Aveva tanto bisogno di
riposo, peccato che ormai mancassero solamente una quindicina di minuti
all'atterraggio. Con lo sguardo indugiò ancora un poco sul
volto
di lei: era quasi impressionante l'estremo pallore.
«Che sconsiderata…» mormorò,
scrollando la testa.
Passò le mani fra i capelli, cercando di riordinare le
ciocche
più ribelli. Poi, ingurgitò tutto d'un fiato la
vodka che
gli aveva servito Kimberly e rimase a fissare il bicchiere vuoto. Non
era solito bere super alcolici quando viaggiava, ma questa volta ne
sentiva la necessità. Quegli ultimi giorni trascorsi a
Philadelphia erano stati pesanti anche per lui.
Sul sedile accanto aveva sistemato la sua borsa ventiquattrore.
Più volte era stato tentato di prendere dalla tasca
anteriore
quel famoso quadernetto che si era portato dietro. Con la mano
sfiorò la zip della tasca anteriore, giocherellandovi un
poco,
aprendola di qualche centimetro e richiudendola subito dopo,
continuando in quel modo per diverse volte. Poi, con un gesto secco la
aprì del tutto e prese il quadernetto. Dov'era rimasto nella
lettura?
Sfogliò velocemente le pagine e una delle ultime si
staccò un poco. Solo in quel momento si accorse che dal
quadernetto mancavano delle pagine. C'era un piccolo solco vicino la
costina interna e si vedeva il taglio, nonostante fosse stato fatto
perfettamente a filo. Trovò alcune pagine bianche e le note
riprendevano poco più oltre con un'ultima che non
c’entrava nulla con quanto scritto in precedenza.
Aiolos si soffermò un momento proprio su quelle poche righe
che chiudevano quel quadernetto e che recitavano:
“Oggi per
la prima volta in vita mia ho abusato del mio ruolo di poliziotto. Me
ne vergogno molto. Ero entrato nella tavola calda solo per prendere
caffè e hamburger per il mio compagno e per me e, mentre
aspettavo, l’ho vista. Era seduta a un tavolino appartato e
si
stava guardando in giro in modo nervoso. Sembrava stesse cercando
qualcuno. Aveva un qualcosa di sospetto. Mi sono avvicinato a lei e,
mostrandomi forse un po’ troppo arrogante, nella mia divisa
blu,
ho chiesto di vedere i suoi documenti, facendo poi finta di fare dei
controlli. Alla fine era timorosa perché non conosceva la
zona e
perché le persone che stava aspettando erano in ritardo.
Per fortuna ho
una buona memoria, appena sono uscito dal locale con la mia
ordinazione, mi sono appuntato nome e indirizzo. Se non fossi stato in
servizio sarei rientrato e le avrei offerto un caffè. Quando
ho
guardato di nuovo dentro, attraverso la vetrata, era stata raggiunta da
altre quattro ragazze.
Teresa Costantini, di
Philadelphia…”
«E bravo il nostro poliziotto irreprensibile»,
mormorò, sogghignando nello scoprire il primo incontro dei
genitori di Caroline.
Alzò per un attimo lo sguardo sulla ragazza, per accertarsi
che
stesse ancora dormendo. Poi, tornò a concentrare la sua
attenzione su quelle pagine bianche. Era un fatto curioso. Vi
passò sopra i polpastrelli, sentendo i segni incisi sulla
carta
sottostante. Evidentemente, quando aveva scritto quelle pagine, Gregory
Miller doveva essere stato nervoso, perché fino a quel
momento
la sua scrittura era stata sempre normale. Fitta, ben tratteggiata e
leggera. Sì, la si poteva anche definire leggera, per un
uomo.
Cos'aveva scritto in quelle pagine strappate che poi aveva voluto
tenere nascoste? O forse qualcun altro le aveva tolte
affinché
nessuno venisse mai a conoscenza del contenuto...
“28 agosto 1984
Sto ancora
cercando una spiegazione per quanto ho appreso, ma ora devo sciogliere
un altro dubbio: la sua scheda, quella relativa alla sua vita da
adulto, pare immacolata: nessuna multa, niente denunce o verbali a suo
carico. Del resto, se non fosse coinvolto in questa faccenda,
sembrerebbe una persona molto mite e rispettosa della legge. Eppure ci
sono delle incongruenze. È come se avessero voluto coprire
alcune cose. Cosa c'è che deve rimanere nascosto della vita
di
quest'uomo? Non mi voglio arrendere, proverò a cercare
ancora.
Ho la sensazione che ci sia qualcosa fuori posto in tutto questo. Forse
dovrei provare a chiedere un colloquio in carcere.
... Ieri ho
incontrato il professor Taylor. A dire la verità l'ho visto
solo
di sfuggita mentre scendeva la scalinata del tribunale. Era
accompagnato dalla figlia avvocato. Stavano discutendo animatamente, ma
non sono riuscito a sentire di cosa stessero parlando. La donna aveva
un'espressione molto dura e i suoi occhi sembravano quelli di un
rapace. Deve fare davvero paura quando è in aula. Il
professore
invece, sembrava molto intimidito da lei: passivo, stanco. Che sia
ancora angosciato dalla tragedia che ha colpito la sua famiglia?
Stavo quasi per
passare il colonnato del tribunale, sommerso di fascicoli che dovevo
consegnare a uno degli assistenti del procuratore (strano che per un
semplice caso di malversazione, che neanche è di competenza
della mia sezione, occorrano così tante carte) quando mi
sono
girato un'ultima volta verso il professor Taylor. Ero curioso di vedere
che direzione avrebbe preso. È stato allora che ho visto una
donna avvicinarsi al professore con aria disperata e cercare di
parlargli. Quella donna era fin troppo agitata e stava attirando
l'attenzione di altre persone, oltre alla mia. La reazione di Anne
Taylor non si è fatta attendere e, come c'era da
aspettarselo,
ha preso la situazione in pugno. Ha tenuto la donna a distanza dal
padre, forse per impedirle di parlargli. Ha cercato di farla ragionare,
così almeno mi è sembrato di capire dalla mia
posizione.
Le sue parole devono averla convinta in qualche modo, perché
si
è subito calmata. Poi, l'avvocato Taylor ha fatto cenno a
qualcuno e l'ha fatta scortare via.
Non ho visto
bene in viso quella donna, anche se sembrava molto giovane, ma ho avuto
la netta impressione di conoscerla, o quantomeno di averla
già
incontrata e di averci parlato. Forse era qualcosa nella sua postura,
forse qualcos’altro… non
capisco…”
Senza rendersene conto, Aiolos fece una smorfia con le labbra.
«Pessima lettura?» chiese Cora, di nuovo di ritorno
per
l'ennesima volta dalla toilette; in mano teneva un bicchiere con acqua
tiepida e limone che Kimberly le aveva preparato, visti i suoi continui
attacchi di nausea.
Il ragazzo alzò la testa di scatto, sgranando gli occhi nel
vederla che si stava accomodando proprio di fronte a lui. L'aveva
lasciata che riposava, così credeva... quando si era
svegliata?
«Va meglio?» le chiese, chiudendo in fretta il
quadernetto.
Lei si limitò a posare il bicchiere ancora intonso sul
tavolino
e, con la mano che stringeva un fazzoletto, a spolverare la gonna
dell’abito da cocktail che sua madre le aveva regalato, da
alcune
macchioline d’acqua.
«Dovresti berla», le fece notare lui.
«Mi fa venire mal di stomaco.»
«Ma ti darà sollievo per il mal
d’aria»,
insistette Aiolos, anche se sapeva bene che quel suo malessere non era
dovuto al viaggio.
La osservò per alcuni secondi: non poteva dire di conoscerla
così bene da poter notare delle differenze con prima, ma gli
sembrava fin troppo taciturna e, era comprensibile, aveva lo sguardo
triste.
«Saresti dovuta restare a casa con la tua famiglia. Avrei
spiegato io a Saga la situazione», le disse, riponendo il
quadernetto nero nella tasca della sua borsa, usando tutta la
disinvoltura di cui era provvisto per non destare sospetti in lei.
«Anch’io ne ho di uguali. Erano di mio padre, li
usava quando era in polizia, così come lo zio
Phil.»
Aiolos si irrigidì.
«Immagino siano però comuni», aggiunse,
con voce via
via meno vitale, voltando lo sguardo per osservare fuori dal
finestrino, prima di chiudere ancora una volta gli occhi appesantiti
dalle medicine che aveva preso e spossata dal suo malessere.
L’hostess si avvicinò ad Aiolos e
avvertì che il
pilota si stava preparando per la fase di atterraggio e che quindi
avrebbe dovuto allacciarsi le cinture di sicurezza; poi fece la
medesima cosa con Caroline, scuotendola dolcemente e chiedendole anche
se avesse bisogno di qualcosa. Prima di prendere il suo posto, la donna
aggiunse che la limousine della società era già
arrivata
e attendeva nell’hangar.
*****
Seduto al tavolo in compagnia dei suoi ospiti, di Shura e del padre,
Saga sorrideva e partecipava con entusiasmo alle conversazioni. Lui era
di casa lì, forse molto più che alla villa, si
poteva
dire. Non perché potesse contare su una discreta quota
personale
di azioni del Country Club, benché questo gli desse un certo
peso, né perché – agendo per conto del
padre
– avesse poi acquisito col tempo la quota maggioritaria, ma
perché fin da piccolo aveva frequentato con
assiduità
quel luogo, fino a sentirlo come un luogo dove poteva essere se stesso.
E infatti era così. Nonostante il Club fosse comunque un
luogo
molto formale, frequentato dall’alta borghesia di Boston e da
personaggi di spicco della società, gli dava quelle
libertà che da nessun’altra parte riusciva a
trovare, in
veste di rampollo degli Hayes.
Nei momenti morti di quella piacevole compagnia però,
tendeva ad
abbassare lo sguardo e giocherellare col quadrante del suo orologio,
con la vana speranza forse che arrivasse presto
“quel”
momento, ma anche con il segreto timore che tutto sfumasse all'ultimo
minuto; oppure si dedicava a martoriare il contenuto del suo piatto,
senza alcuna voglia di mangiare davvero; oppure ancora a sorseggiare il
drink, senza gustarlo, intristendosi e lasciandosi andare, ogni volta,
a un sospiro penoso.
«C’è qualcosa che non va,
Saga?» gli
domandò Shura, alzando lo sguardo dal libro che stava
leggendo,
dopo l’ennesimo sospiro del ragazzo. Tutti ormai a quel
tavolo si
erano accorti che il giovane avesse qualche preoccupazione che gli
occupava la testa.
«Va tutto bene», rispose lui, muovendosi incomodo
sulla sedia metallica.
Si passò le mani sulle cosce, sulla stoffa dei pantaloni
color
panna della divisa ufficiale del Country Club – quella che
ogni
membro regolarmente iscritto doveva indossare all’interno del
perimetro della proprietà – come per togliersi con
quel
gesto la patina di tristezza che si sentiva addosso; e subito dopo
accavallò le gambe, sforzandosi in un sorriso per mostrare
agli
altri che era sereno. Si accostò un poco a Saori che sedeva
al
suo fianco e riprese a descriverle i dintorni.
Anche Shion Hayes, che in quel momento stava terminando di esaminare
dei documenti, distolse la sua attenzione per concentrarsi sul figlio.
Lo conosceva abbastanza bene da capire che quell’innocua
bugia
non era servita a molto e che, anche se sembrava comportarsi come di
consueto, aveva un carattere troppo cristallino per riuscire a
nascondergli i propri sentimenti.
«Proprio come lui…» mormorò,
sospirando sovrappensiero.
Ma forse non era proprio esatto. Anthony aveva saputo nascondergli bene
le cose più importanti che riguardavano la sua vita: i suoi
sentimenti per Emma, che chissà da quanto tempo aveva
covato; il
suo passato e… Shion si stava chiedendo cos’altro
c’era ancora che non sapeva.
Aggrottò la fronte e con un movimento secco girò
la
pagina, riprendendo a leggere, prendendo poi anche un sorso del suo
whisky. La sua mente però non era più
sintonizzata sul
lavoro. Ora che il figlio aveva scoperto parte della verità,
attendeva solo il momento in cui sarebbe tornato da lui a chiedere di
conoscere il resto della storia e probabilmente gli avrebbe rivolto
domande alle quali lui stesso non aveva risposta. C’era
qualcuno
che avrebbe potuto colmare almeno una parte di quelle lacune, ma quanto
gli sarebbe costato interpellarlo?
E poi c’era anche chi conosceva l’intera storia, ma
mai e
poi mai avrebbe permesso a quelle persone di avvicinarsi e inquinare il
cuore dei suoi ragazzi.
Seiya, seduto all’altro fianco di Saori, continuava a fissare
Saga con insistenza, come un mastino. Erano ancora vivide nella sua
mente le immagini di lui e del gemello e un brivido gli corse lungo la
schiena, ripercuotendosi anche alle braccia. “Povera
Saori”
continuava a pensare, scrollando impercettibilmente quell'ammasso di
capelli disordinati che andavano tanto di moda in Giappone.
L’aveva vista fuggire via, sconvolta e mortificata.
L’aveva
dovuta rincorrere fino all’albergo, fin
nell’appartamento
che era stato loro messo a disposizione, pregando che si riprendesse
dallo choc. Infine, era stato testimone di quanto il suo orgoglio di
“principessina” Kido l’avesse aiutata a
fare buon
viso a cattiva sorte per affrontare quella giornata in compagnia degli
Hayes.
Mentre Saga invece… lui era lì che si mostrava
disinvolto, che le si avvicinava come niente fosse, senza il minimo
pudore; e lei che, nonostante l’imbarazzo e il disagio,
pendeva
ancora dalle sue labbra. Fin dalla prima volta che lo aveva visto, che
gli aveva stretto la mano, aveva avvertito qualcosa di strano in quel
Saga. Del resto, aveva convissuto a stretto contatto con Shun che la
sua omosessualità l’aveva palesata già
in
adolescenza, senza vergognarsene. Si riteneva quindi in grado di capire
e riconoscere quel tipo di persone.
“Povera Saori”, si ripeteva, pensando anche
all’altro
Hayes, “provare tutto quell’interesse per delle
persone che
non potrebbero mai ricambiare i suoi sentimenti, perché di
tutt’altra natura; e che anzi, la stanno solo prendendo in
giro!”. Anche in Kanon aveva percepito qualcosa di ambiguo.
Lo
aveva visto troppo sfacciato nei suoi atteggiamenti, come se in
realtà fossero stati solo una copertura.
«Ho sentito dire che sei un discreto calciatore, Seiya. La
scuola
che frequenterai a Boston ha una squadra di calcio. Pensi di provare a
fare le selezioni il prossimo anno?» gli chiese Saga.
Il giovane nipponico era ancora tutto concentrato sui suoi pensieri da
non accorgersi dell’espressione irritata di Saori e dei suoi
occhi che silenziosamente lo stavano rimproverando per non aver
risposto prontamente alla domanda. Fissò Saga per qualche
secondo con un'espressione inebetita: in effetti il suo inglese era ben
lontano dalla perfezione e gran parte di quello che Saga gli aveva
detto non lo aveva afferrato.
La giovane gli ripeté la domanda sussurrandogliela
all'orecchio.
«Saori, non è giusto che tu gli traduca ogni cosa,
altrimenti non imparerà mai a cavarsela da solo»,
la
riprese lui, con un dolce e luminoso sorriso sulle labbra, che faceva
sbiadire per qualche istante la tristezza ancora presente nei suoi
occhi. «Perdonami, Seiya, proverò a parlare
più
lentamente da ora in poi», fece mea culpa Saga, rivolgendosi
di
nuovo a lui e mantenendo fin da subito la parola data.
Il ragazzo arrossì per la vergogna di essere stato trattato
come
un bambino e perché era consapevole che la sua poca
conoscenza
della lingua aveva messo in difficoltà anche Saori.
Provò
a protestare, alzando lo sguardo verso Saga, ma in quello stesso
istante vide avvicinarsi Aiolos a passo svelto – urgente
–
e con un’espressione tanto seria che le parole e ogni altra
velleità svanirono.
Aiolos si avvicinò al tavolo – e a Saga
– senza
salutare nessuno, posando una mano sulla spalla dell'amico e
comunicandogli qualcosa all’orecchio, distogliendolo
così
dalla conversazione.
«C’è anche lei?» chiese Saga,
illuminandosi all’improvviso.
Si girò un poco per cercare di scrutare
all’interno del
locale, ma la posizione del tavolo dove erano loro non permetteva una
buona visuale; soprattutto poi con le tende tirate che schermavano le
grandi finestre scorrevoli della terrazza che quel pomeriggio erano
quasi tutte chiuse. La brezza di quel pomeriggio le stava facendo
ondeggiare delicatamente, mostrando piccoli e brevi scorci
dell’interno.
«Le ho detto di attenderti dentro, al bar»,
spiegò Aiolos, mantenendo la medesima discrezione di prima.
Saga si alzò di scatto dalla sedia, catalizzando di nuovo
l’attenzione dei presenti tutta su di sé. Il suo
cuore
prese a battere emozionato e lui non chiedeva altro che assecondare la
sua voglia di correre dentro da lei.
«Aspetta, prima c’è una cosa importante
di cui ti
devo parlare!» cercò di fermarlo Aiolos,
afferrandolo per
un braccio. E questa volta la sua voce assunse un tono allarmato e
preoccupato, attirando ancora di più l’attenzione
dei
presenti.
«Dopo, amico mio. Dopo», ribatté Saga,
posando la
sua mano su quella di Aiolos e sorridendogli felice più che
mai.
«No, adesso! Lo devi sapere, ora!»
ringhiò Aiolos, stringendo di più la presa.
Saga diede uno strattone e si liberò. Non reagì
oltre,
non voleva rovinare tutto con una discussione. Indugiò
qualche
altro secondo, facendo un paio di respiri profondi, come se dovesse
farsi coraggio; poi, si incamminò dentro per raggiungerla.
Quasi nello stesso momento, dalla parte opposta della terrazza dove
c’era la scalinata che portava direttamente ai giardini,
stava
arrivando Kanon. Era vestito in giacca e cravatta e sembrava parlottare
da solo. Il suo viso rifletteva la serenità che stava
vivendo.
«Aiolos! Sei tornato dalla tua missione top secret! Ci fai
l’onore di unirti a noi poveri comuni mortali?»
scherzò, dandogli una pacca sulla spalla e subito dopo
abbracciarlo forte con un braccio. Forse lo fece in modo troppo
espansivo, da guadagnarsi occhiate non proprio di assenso da parte di
qualcuno dei presenti al tavolo, ma non ci fece caso più di
tanto.
Si portò una mano all’orecchio e si tolse
l’auricolare del cellulare, sedendosi accanto alla
“fidanzata”, sulla sedia appena lasciata libera dal
gemello.
Aiolos grugnì qualcosa di incomprensibile e si
accomodò
su una delle sedie libere, visibilmente di cattivo umore. Certe volte
c’era da chiedersi quando non lo fosse. Studiò per
qualche
secondo ciò che era presente sul tavolo – diversi
aperitivi, una brocca di tè freddo al limone con alcuni
bicchieri puliti e un paio di vassoi che contenevano tartine dolci e
salate – poi avvicinò a sé il piattino
di Saga e
prese una forchettata della mini tortina di granchio.
Quel comportamento così nervoso non era passato inosservato;
soprattutto a Shura che, stizzito, aveva bevuto tutto d’un
fiato
la birra nel suo bicchiere.
«Come mai così formale?» chiese Shion,
alzando lo
sguardo sul figlio, terminando il suo whisky e facendo cenno a uno dei
camerieri di portargliene un altro.
«Mi hanno chiamato dall’ufficio, pare ci sia
qualche
intoppo nell’offerta che abbiamo presentato la scorsa
settimana e
mi hanno chiesto di passare per approvare le proposte di cambiamenti da
apportare, per poterla ripresentare domani.»
«E sei ancora qui?» mormorò Aiolos,
sempre più cupo, masticando un altro pezzo di tortina.
Kanon lo udì alla perfezione; lo arpionò al collo
e lo
avvicinò a sé, parlandogli con tono suadente
all’orecchio e mettendolo a disagio, tanto che il giovane
strabuzzò gli occhi, deglutendo rumorosamente. Con quel suo
solito ghigno sardonico, il rampollo Hayes mostrò la sua
personale soddisfazione nella reazione dell’altro. Sapeva
dannatamente bene come mettere in difficoltà Aiolos, facendo
talvolta leva su qualche suo piccolo segretuccio.
«Farai in tempo per la cena?» chiese Shura, con una
punta
di fastidio nella voce. Non aveva gradito affatto ciò che
aveva
appena visto.
Kanon diede uno sguardo all'orologio e annuì convinto.
«Sì, dovrebbe essere questione di
un’oretta, forse
due al massimo.»
Si guardò un attimo attorno, vedendo gli occhi di Seiya
puntati
ferocemente su di sé e gli rispose con un sorriso malizioso.
Lì accanto, Saori, timida e riservata, si stava tormentando
le
mani appoggiate in grembo. Si ricompose e le posò una mano
sulle
sue, rassicurandola che non l’avrebbe lasciata senza
accompagnatore per la serata.
«Ma… Saga che fine ha fatto?» chiese ai
presenti,
ricordando che lo aveva intravisto alzarsi e rientrare nella sala
interna del ristorante; ora però sembrava essere assente da
troppo tempo.
Guardò di nuovo Aiolos; la tentazione di dargli
un’altra
pacca sulla spalla come segno di complicità gli faceva
prudere
le mani. Si girò indetro, verso la finestra scorrevole
aperta
dalla quale spuntavano di tanto in tanto le lievi onde candide delle
tende di fine lino. Poteva immaginare cosa stesse trattenendo il
gemello, ma chissà se sarebbe tornato da loro oppure se non
l’avrebbero più visto fino all’indomani.
Si protese verso uno dei vassoi e allungò la mano a pescare
una
tartina dolce, tornando poi ad appoggiarsi comodamente alla sedia. La
curiosità di vederla era tanta. Saga gli aveva accennato
qualcosa quando gli aveva mostrato il gioiello, ma non era entrato nei
dettagli. Conosceva la volubilità del gemello,
l’entusiasmo e la passione che metteva nelle sue storie e
come
finiva ogni volta. E ora si stava chiedendo chi fosse la fortunata che
gli aveva fatto perdere la testa in quel modo.
Allungò il collo, tentando invano di sbirciare un poco di
più, approfittando di uno svolazzo più ampio
della tenda
che aveva permesso di vedere all’interno per qualche attimo,
ma
era stato tutto inutile.
«Scommetto che glielo sta dando proprio in questo
momento»,
commentò a mezza voce, pulendosi la punta del pollice con la
lingua, inclinandosi all’indietro con la sedia e rimanendo in
equilibrio con le sole gambe posteriori.
«Di cosa stai parlando?»
Shion, ormai stanco di visionare il lavoro che si era portato, aveva
deciso finalmente di rilassarsi un poco e di godersi quella magnifica
giornata e la compagnia.
«Di uno splendido solitario, un diamante da un carato e mezzo
e
dalla purezza quasi perfetta, incastonato in oro bianco!»
rispose
Kanon, parlandone come un vero intenditore. «Un ciondolo un
po’ semplice per i miei gusti, ma molto raffinato.»
*****
Oltrepassare quelle delicate e candide tende era stato per Saga come
entrare in un’altra realtà. Aveva abbandonato
l’aria
frizzante, l’odore dell’erba umida e dei fiori che
abbellivano il terrazzo e le fontane di marmo coi giochi
d’acqua,
per uno sfarzo diverso, fatto di lampadari di cristallo, tovaglie di
raso, argenteria sempre lucida e menù da tre stelle
Michelin.
Era un’opulenza pesante, quasi barocca, che poco si addiceva
a un
ambiente campestre ma che al tempo stesso era uno dei vanti del Country
Club che lo rendeva rinomato in tutto il Massachusetts.
Provava strane sensazioni mentre passava accanto ad alcuni tavoli che i
camerieri stavano preparando per la cena. Il bar era nella sala accanto
e lui, più si avvicinava, più avvertiva un certo
nervosismo, un’emozione palpitante che gli impediva quasi di
respirare. A ogni passo che faceva, avvicinandosi alla sua meta,
prendeva coscienza che stava diventando una persona diversa, che stava
acquisendo un ruolo diverso.
Gli era bastato mettere un piede nella zona bar, affacciarsi in quel
locale caotico, pieno di gente e di odori avvolgenti, per vedere solo
lei: se ne stava lì, seduta sullo sgabello del bancone del
bar e
girata di tre quarti, lo sguardo basso e riservato, mentre con la mano
continuava a tirarsi giù l’orlo del vestito con
movimenti
timorosi. Era così bella, più adulta ed elegante
di
quando l’aveva lasciata. Questo era l’unico
pensiero di
Saga, in quel momento. Sarebbe stato a osservarla più a
lungo,
se avesse potuto, ma voleva risparmiarle l’evidente tormento
che
stava passando.
Un passo, soverchiato dal chiacchiericcio degli avventori del bar. Un
altro passo, mordendosi il labbro, come a rimuginare sul da farsi; e
intanto il suo cuore batteva più forte.
Il barman si avvicinò a Cora, una seconda volta in pochi
minuti,
chiedendole cosa potesse portarle da bere; lei scrollò la
testa
come la prima volta, declinando l’offerta.
«Dello champagne… sarebbe più che
adeguato alla situazione», disse Saga.
Non le lasciò neppure il tempo di rimanere sorpresa nel
sentire
la sua voce che le diede un bacio discreto sulle labbra dischiuse e le
sorrise.
Gli occhi di Cora, dopo il primo stupore, si velarono di lacrime,
leggere e timide, che non osavano rovinarle il trucco delicato che
Kimberly le aveva risistemato dopo l'atterraggio.
«Saga…» sussurrò lei,
commossa.
Balzò giù dallo sgabello e gli buttò
le braccia al
collo, dimenticandosi dov’era e che fino a quel momento i
suoi
unici pensieri erano stati che voleva andarsene da lì al
più presto; anzi, che non ci sarebbe proprio dovuta venire
in
quel posto.
Il ragazzo si stupì un poco di quell’abbraccio,
percependovi non solo amore, ma anche disperazione; poi, lo
ricambiò infondendovi tutto il sentimento che provava per
lei.
Le accarezzò la schiena con una mano, mentre
l’altra
affondava nei suoi capelli. La tenne così, fra le sue
braccia,
beandosi del profumo che indossava e del calore del suo corpo. Gli
sembrava un secolo che non provava quella sensazione, eppure era
passato appena un mese.
D’un tratto la sentì singhiozzare e stringersi di
più a lui.
«Cosa c’è che non va?» le
chiese, slacciandosi
da lei e scrutandola per qualche secondo in viso: nonostante tutto non
riusciva a smettere di sorriderle.
Cora scrollò la testa, piegando le labbra – di un
delicato rosa perlato – in un sorriso un po’ tirato.
«Mi sei mancato. Mi sei mancato tanto, ma ora va tutto
bene.»
Saga annuì e l'accarezzò con la punta del pollice
appena
sotto l’occhio, a fermare una piccola gocciolina che stava
scappando dalle ciglia.
«Mi sembri un po’ stanca. Il viaggio è
stato
pesante?» chiese, questa volta però con un pizzico
di
preoccupazione nella voce. Eppure pensava che con l’aereo
privato
sarebbe stata più comoda.
«Tutto bene», disse lei. «Ho solo bisogno
di rinfrescarmi un po’.»
Lui le sorrise, le prese la mano e, senza darle spiegazioni,
l'accompagnò in una delle camere dell’albergo del
Country
Club, che aveva riservato per loro due. Era bella ed elegante da
mozzare il fiato, neanche fosse stato l’Hilton. Forse era
persino
troppo per quel tipo di struttura.
«Prego», le disse, col suo solito sorriso tanto
dolce,
aprendole addirittura la porta del bagno. Poi si sedette sul letto ad
attenderla.
Iniziò a tamburellare ritmicamente sul copriletto di
broccato
color senape e rosso granato seguendo un vecchio motivetto che in quei
giorni gli era entrato in testa e che neanche sapeva come si chiamasse.
Chiuse gli occhi; quella melodia si era fatta un poco più
nitida, più facile da “eseguire”. Con un
sospiro si
appoggiò meglio al materasso, portando entrambe le mani
dietro
la linea delle spalle, spostando la testa di lato in una posizione
più rilassata.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Aggrottò la
fronte
in un'espressione di perplessità: non avvertiva alcun rumore
provenire dal bagno. Ma non appena decise di alzarsi per controllare,
ecco che sentì scorrere l’acqua del rubinetto. Per
quanto
una camera d’albergo potesse essere di gran lusso, le pareti
interne erano comunque fatte nello stesso modo di quelle di un motel,
forse solo più belle. Sorrise di nuovo rilassato, ma ormai
non
era più disposto ad attendere lì buono.
Senza fare rumore aprì la porta del bagno, spazioso e
luminoso,
e le si mise dietro, abbracciandola alla vita e sorridendole attraverso
lo specchio.
«Ci sto mettendo troppo. Mi dispiace»,
mormorò lei,
con le mani umide d’acqua, prendendo la salvietta dal piccolo
cestino di vimini sul piano di marmo e tamponandosi il viso con
delicatezza, per non sciupare troppo il trucco.
Saga le diede un bacio sulla tempia. Dalla tasca dei pantaloni estrasse
la mano a pugno e, come il più classico dei colpi di scena
che
si vedono nei film passionali, così come gli aveva suggerito
Kanon, le fece dondolare davanti agli occhi il gioiello.
«Buon compleanno.»
«Io… io…» Gli occhi di Cora
si illuminarono
di meraviglia, mentre il ragazzo sganciava la chiusura della catenina e
gliela metteva al collo.
«Il primo regalo di compleanno… il primo di tanti
che
verranno», le sussurrò, con un pizzico di emozione
nella
voce. «Direttamente dallo storico negozio Tiffany della Fifth
Avenue, a New York», aggiunse, anche con un certo orgoglio.
Poi,
come se in quel preciso istante si fosse reso conto di aver sbagliato
qualcosa, sospirò avvilito, abbassando lo sguardo.
«Avrei
voluto presentarmi alla tua porta, conoscere la tua famiglia, fare le
cose per bene, come da tradizione…» Di nuovo fece
un
sospiro, accarezzando il collo della ragazza col suo respiro caldo.
Cora sfiorò con la punta delle dita quel diamante che
brillava
abbagliante alla luce delle lampadine della specchiera. Risaltava
ancora più bello sul suo petto, sul pizzo color corallo del
tubino che indossava quel giorno.
«È... meraviglioso.»
La girò verso di sé, la guardò
teneramente negli
occhi e la baciò con trasporto, come il soldato che
dà
l’ultimo saluto alla sua fidanzata prima di partire per il
fronte. Era sciocco ed esagerato paragonare le due situazioni, ma
l’intensità dei sentimenti che in quel momento
provava
Saga era senza dubbio la medesima.
*****
Tutti, a quel tavolo, sembravano essere in attesa di qualcosa di
importante. Lo si poteva sentire nell’aria, in come i
discorsi si
erano diradati e negli sguardi che si scambiavano e che esprimevano
incertezza e nervosismo.
Shion continuava a fissare il figlio maggiore che aveva
l’espressione di uno che sapeva ma non voleva rivelare; e lui
conosceva fin troppo bene quello scapestrato per evitare di cadere in
una gag grottesca nel tentativo di farlo cadere in fallo. Forse Kanon
non riusciva a reggere a lungo le balle che si inventava per coprire
“certe” cazzate sul lavoro, ma quando si trattava
della
vita privata era impossibile cavargli qualcosa. Si limitò ad
aspettare e continuare a studiare il suo comportamento. Tanto prima o
poi avrebbe saputo anche lui e, considerando che si trattava
dell’altro figlio, quello tranquillo, non avrebbe avuto
brutte
sorprese. Incrociò lo sguardo di Kanon per un attimo e gli
fece
un sorriso. Di quelli furbi però, che solitamente gli
facevano
accapponare la pelle, perché presagio di qualcosa di
catastrofico; e preferì berci su.
Shura invece sembrava essersi estraniato dalla compagnia, intento
com’era a mascherare il fastidio che provava per il
comportamento
di Aiolos, neanche fosse stato una moglie iper gelosa. Non aveva
distolto gli occhi dal ragazzo per un solo istante da quando era
arrivato; e percepire da lui quel palese nervosismo acuiva
ciò
che provava lui stesso.
«Deve essere una persona davvero speciale se è
andato
personalmente a New York per sceglierlo», commentò
Kanon,
rivolgendosi apparentemente a nessuno in particolare. Eppure, senza
volerlo, aveva attirato l’attenzione degli altri membri della
famiglia, che ben erano a conoscenza dell’allergia di Saga
per i
viaggi e le città troppo affollate.
Si sporse di nuovo verso il vassoio e questa volta scelse la tortina al
granchio, l’ultima, iniziando a mangiarla con le mani come
nulla
fosse. Poi guardò l’orologio, brontolando che se
l’altro avesse tardato ancora non sarebbe riuscito a
conoscere
l’ospite a sorpresa. Ma forse quello che intendeva era ben
altro:
ciò che gli premeva di più era vedere la reazione
degli
altri.
Una lieve corrente d’aria spostò le tende
abbastanza da
permettergli di osservare meglio all'interno dei locali, anche se solo
per una frazione di secondo. Poi, un cameriere volenteroso le
aprì completamente, favorendogli così la visuale.
Peccato
solo per quelle piante di ficus che con il loro fogliame schermavano
ancora di più.
«Ah! Belle gambe», commentò Kanon,
allungandosi un
poco di più all’indietro, intravedendo due paia di
gambe,
delle quali era sicuro un paio fossero del gemello. Sembrava che
finalmente i due si fossero decisi a raggiungerli. «E bel
sedere…» sogghignò incauto, aguzzando
di più
la vista per interpretare al meglio ciò che vedeva tra il
fitto
fogliame, facendo arrossire Saori che gli sedeva accanto.
«Sì, certo…»
sbuffò invece Aiolos,
bevendo tutto d’un sorso il cocktail che aveva davanti.
«Che ne vuoi sapere tu, che sei dell’altra
sponda!» ribatté Kanon, volutamente malevolo.
Quella rivelazione – che ormai era il segreto di Pulcinella,
in
casa Hayes – scioccò gli ospiti giapponesi che
tutto
avevano pensato tranne che Aiolos, così serio,
così
virile e così poco propenso a esternare i propri sentimenti,
potesse invece…
Seiya si grattà dietro la nuca, nervoso e imbarazzato,
parlottando poi per qualche secondo con Saori. Se avevano frainteso uno
come Aiolos, benché avessero avuto poche occasioni per
“studiarlo”, cos’altro non avevano
capito? Kanon, che
tanto aveva la fama di dongiovanni? Saga, così pacato e
sempre
ben curato?
No, ciò che i loro occhi avevano visto non lasciava alcun
dubbio.
Il primo a uscire sulla terrazza fu Saga che si stava rivolgendo a
qualcuno. Il suo sorriso dolce e disteso era meraviglioso. Stava
dicendo che non c’era da aver timore, che non mordevano e
poteva
stare tranquilla. Poi, comparve anche lei, Cora, fasciata in quel bel
tubino di pizzo color corallo, con un’acconciatura
– uno
chignon basso, morbido e spettinato – che la faceva
assomigliare
alle star del cinema. Teneva lo sguardo basso; si vedeva che era
nervosa, ma si faceva guidare dall’altro.
«Sorpreso? Deluso?» bofonchiò Aiolos,
rivolgendosi a Kanon.
Era l’unico a non essere interessato ad assistere a
quell’entrata in scena, più preoccupato in
verità
di scoprire se fosse possibile ubriacarsi con del tè freddo.
Non
si aspettava invece il fischio di approvazione da parte dell'altro e il
seguente commento su quanto lei fosse attraente.
Saga la stava conducendo per mano, infondendole fiducia. Eppure Cora si
sentiva come se stesse andando alla sbarra di un’aula di
tribunale e fosse osservata, studiata, scrutata, esaminata
dall’implacabile giuria, pronta a scrollare la testa in
dissenso
al minimo errore, o inciampo. I crampi allo stomaco si stavano facendo
sentire di nuovo. Per un attimo ebbe la tentazione di opporre
resistenza a quel flusso che la stava trascinando in avanti, di tornare
indietro, di nascondersi e rinunciare; ma lo sguardo e la voce di Saga
fecero scomparire ogni indugio e paura, anche se non quel dolore
sommesso. E ora era lì, davanti al suo giudice
più severo
che la stava guardando.
Un poco frastornata, sotto esame di tutti i presenti, sentiva nelle
orecchie le voci ovattate degli altri; persino quella di Saga le era
sembrata irreale, almeno fino a quando non sentì le sue mani
che
le stringevano un poco le spalle, risvegliandola e liberandola dal velo
nebbioso nel quale si sentiva legata, giusto in tempo per udire quelle
parole.
«Papà, Shura, Kanon», esordì
Saga, col cuore
che stava accelerando i suoi battiti, perché anche lui non
era
esente dal sentirsi nervoso, in quel momento. «Voglio
presentarvi
una persona.»
Fece una breve pausa, posando lo sguardo innamorato sulla ragazza che
aveva vicino a sé. Il suo viso assunse un lieve rossore e le
sue
labbra si piegarono in un timido sorriso.
«Lei è Caroline Miller Hayes. Mia
moglie.»
|
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Capitolo 27 *** Capitolo XXVI ***
Eccomi qui, tornata dopo un tempo fin troppo lungo rispetto a quello
che avevo programmato, per terminare la pubblicazione di Legacy!
Probabilmente i più che la seguivano, recensendo con
regolarità o anche solo leggendo in silenzio, se ne saranno
dimenticati. Spero di incuriosire nuovi lettori con le avventure di
Saga e Kanon Hayes! Troverete un po' di cambiamenti, come una maggiore
maturazione stilistica e un radicale cambiamento nella narrazione. Il
mio consiglio quindi è quello di riprendere la lettura da
capo,
per non restare spaesati con i nuovi capitoli.
In questi anni di assenza vorrei segnalare la pubblicazione in
digitale, per la casa editrice Astro Edizioni, del mio primo romanzo
"Ricominciare" (trovate le informazioni più dettagliate
nella
pagina del mio profilo), che altri non è che la versione
originale della mia vecchia fanfiction "Ricominciare da capo". Chi a
suo tempo l'ha letta e apprezzata, non potrà perdere
l'occasione
di leggere questa versione più professionale e approfondita.
Ci
conto, eh! XD
Che altro aggiungere...
Buona lettura!
XXVI
«Dire che
siamo rimasti tutti
di sasso è un eufemismo», aveva dichiarato Kanon,
simulando un tono conciliante, alzandosi dalla sedia e provando a
esprimere il pensiero dei presenti rimasti attoniti.
Si era avvicinato alla
coppia e, accompagnando il gesto con un bel sorriso, aveva preso la
mano di Cora.
«Tu sei la
stessa ragazza della
tavola calda, vero? Caroline… un nome bellissimo per una
ragazza
bellissima», le aveva sussurrato, con una galanteria forse un
poco eccessiva da sfoggiare davanti al gemello e sopratutto di fronte a
Saori, la propria fidanzata, guardando Caroline intensamente negli
occhi e facendola arrossire. «Se non mi sbaglio è
tradizione baciare la sposa.»
Si era avvicinato ancora
di
più e aveva posato le sue labbra sulla guancia della
giovane,
sotto lo sguardo sereno e rilassato di Saga. Poi si era rivolto proprio
al gemello e lo aveva attirato a sé, passandogli un braccio
attorno alle spalle.
«Se avessi
annunciato la tua
intenzione di cambiare sesso avresti avuto meno vittime sulla
coscienza», gli aveva detto, ammiccando. «Guardali,
tutti
ammutoliti, straniti: non sanno cosa dire.» Gli aveva dato
una
sonora pacca sulla spalla e aveva ghignato. «E tanto per la
cronaca, saresti stato un gran bel pezzo di donna!» aveva
aggiunto, dandogli un’altra pacca. Poi aveva aggiunto che
sarebbe
stato più che volentieri a chiacchierare e a festeggiare, ma
era
atteso negli uffici della società e se n’era
andato.
Saga aveva sorriso,
sollevato per il
comportamento solito del fratello, che stava a significare come avesse
preso bene la sorpresa, ma non aveva invece visto lo sguardo di lui che
pian piano si induriva, così come i tratti del volto stavano
diventando di pietra.
*****
Il lupo perde il pelo ma non il vizio, recita un vecchio adagio.
Era un’affermazione quanto mai azzeccata per Shion Hayes,
soprattutto dopo quanto avvenuto quel giorno. Si era rintanato in
biblioteca coi suoi pensieri, dopo una cena che definirla un mezzo
disastro non rendeva affatto l’idea e che aveva concluso una
giornata che avrebbe voluto dimenticare. La tensione era stata
un'invitata inattesa e scomoda a quella tavola, nonostante Saga avesse
organizzato affinché i convitati si sentissero a proprio
agio.
Eppure, tutto aveva iniziato ad andare storto quando la giovane ospite
era letteralmente scappata dalla tavola a causa di un malessere,
seguita da Saga stesso, che poi era rimasto lontano fin oltre il
termine della cena, facendo piombare gli altri nell’imbarazzo
più totale.
C’era chi, come i due giapponesi, si era sentito fuori posto
e
chi invece avrebbe voluto scappare il più lontano possibile,
ma
era rimasto – con lo sguardo pieno di disprezzo –
solo per
vedere come sarebbe andata a finire.
In mano stringeva il solito bicchiere di whisky, mentre sul tavolino
lì accanto c'era la bottiglia, ormai quasi vuota. Il suo
sguardo
era fisso sul bicchiere: le piccole sfaccettature del cristallo
brillavano iridescenti alla luce artificiale delle plafoniere alle
pareti. Aveva il respiro pesante e i suoi occhi erano lucidi: arrossati
e annebbiati dai fumi dell’alcol. Non riusciva a togliersi
dalla
testa quello sguardo e quel sorriso così dolci che
accentuavano
ancora di più i tratti gentili del viso di Saga e che per un
interminabile attimo lo avevano fatto vacillare davanti a tutti.
Proprio com’era accaduto quasi trent’anni prima,
ora si era
ripresentata la medesima situazione, anche se gli attori erano diversi.
Non c’era stato lo sguardo tagliente e pieno di rabbia di
Emma
che con il suo carattere forte riusciva tenergli a testa, ma al suo
posto c'era una giovane donna dagli occhi intimoriti e
all’apparenza molto riservata. Dietro di lei invece, a Shion
era
sembrato di rivedere il fantasma di Anthony, con quei capelli biondi un
poco scompigliati e l’aspetto da bravo ragazzo. E gli aveva
fatto
male esattamente come allora.
«Te la vuoi bere tutta da solo?»
Shura si avvicinò cauto all'amico, prendendo la bottiglia ed
esaminandone il contenuto ormai scarso.
«Era già mezza vuota. Qualcuno non ha pensato a
rifornire
il bar», rispose distrattamente Shion, con la mente ancora
nella
rete dei suoi ricordi.
«Aggiungerò anche questo alla lista dei miei
doveri», ribatté Shura, facendo una mezza smorfia,
posando
la bottiglia sul piano del mobile bar e studiando con attenzione il
resto della selezione di alcolici presenti. «Per terminare
nel
modo adeguato una cena italiana, non c’è niente di
meglio
di un liquore tipico italiano. Non sei d’accordo con me,
Shion?» propose, prendendo una bottiglia sottile e dalla
forma
singolare.
«Li hai riaccompagnati all’albergo?»
chiese l’uomo, con voce stanca.
«Sì. Domani hanno scuola», rispose con
un mezzo sorriso Shura, prendendo due tulipe e la
bottiglia di pregiata Grappa. «Un po’ mi manca il
dover accompagnare i ragazzi a scuola.»
«Credo sia meglio che vengano ad abitare direttamente qui,
gli
altri ragazzi ora sono in California per visitare le varie
Università, ma non appena terminato il tour
d’orientamento
se ne torneranno in Giappone. Non ha senso che quei due restino ancora
al Country Club da soli», sbuffò Shion, portandosi
il
bicchiere alle labbra, ma se lo era visto all'improvviso portare via
dalle mani e subito sostituito da un altro, dalla forma più
piccola e sinuosa.
«Hai una faccia da funerale», lo schernì
Shura. «Dovresti essere felice per il tuo ragazzo.»
Shion lo fulminò con lo sguardo, come se l’altro
avesse
appena detto una bestemmia, ma in fin dei conti sapeva che aveva
ragione: per troppo tempo aveva tenuto il figlio al riparo, pensando
forse inconsciamente che in quel modo gli sarebbe sempre stato vicino,
come a suo tempo non aveva fatto Anthony. Ma Saga, proprio come
Anthony, alla prima occasione si era “inguaiato”.
«Alla salute del nostro Saga!»
Shura fece tintinnare i due bicchierini e assaggiò
quell’aromatico liquido dal colore cristallino, assaporandolo
sapientemente.
«E a tutti i problemi che ci pioveranno addosso da ora in
avanti!» si aggiunse al brindisi Aiolos, presentandosi
trasandato
e barcollante nella biblioteca.
Nonostante la voce fosse stata biascicante, si era avvertito
chiaramente un tono sprezzante e molto confidenziale, come se non gli
importasse verso chi si stava rivolgendo. In mano teneva una bottiglia
di Champagne e nell'altra una lattina di birra.
Shura lo guardò disgustato, scrollando la testa.
«Sei ubriaco», disse, con tono di rimprovero.
«Mi sono solo rinfrescato la gola», rispose il
giovane,
rosso in viso, gli occhi annebbiati e le labbra piegate in una smorfia.
Shion, che non era in condizioni tanto diverse dal figlioccio, si
alzò dalla poltrona, voltandosi verso il ragazzo.
«Che genere di problemi?» chiese, soprassedendo
alla maleducazione del giovane.
Aiolos si prese un lungo sorso di birra, lasciando che gli colasse
anche da un angolo della bocca. Poi, fece qualche passo maldestro fino
ad arrivare al mobile bar. Agitò la lattina,
bofonchiò
contrariato nel constatare che era finita e la lasciò cadere
a
terra. Si portò allora la bottiglia alla bocca, ma ne
scesero
poche gocce. «Anche questo...» sbuffò.
L'appoggiò di malagrazia sul mobile bar e ne prese un'altra
fra
quelle presenti. «Quella... è
problematica»,
biascicò, agitando la bottiglia in aria.
«Basta così!» disse Shura,
strappandogliela di mano.
«Hai bevuto a sufficienza per questa sera. Vattene a
letto», gli intimò.
Nella sua mente stavano passando le immagini di quando, durante la
cena, lo aveva visto bere diversi bicchieri di vino, uno dietro
l’altro; ma già nel pomeriggio non gli era
sembrato
affatto lucido e nel pieno possesso del suo solito controllo. La mezza
scenata con Saga, quell'insistenza così sospetta, ne erano
state
una dimostrazione.
«No, aspetta!» lo bloccò Shion Hayes
che, a quelle
parole, voleva saperne di più. «Sei tu che hai
portato qui
la ragazza. La conosci, non è vero?»
L’uomo fece un passo verso quel giovane che aveva cresciuto
come
uno di famiglia e sbatté la gamba contro la poltrona, senza
praticamente accorgersene. Nei suoi gesti e nel suo tono impaziente si
scoprì ancora più turbato di quanto lui stesso
credesse
di essere.
«La conosco abbastanza da sapere che non porterà a
nulla
di buono», rispose Aiolos, con un ghigno deformato sulle
labbra.
«Tu pensavi di avere un figlio perfetto, mansueto, ma ti
sbagli
di grosso. Te la sta facendo sotto il naso da mesi, ormai! E
chissà, forse addirittura da anni. Sei stato così
cieco
da neanche accorgerti che lui si è allontanato da
te»,
disse in tono arrogante, puntandogli il dito contro. Fece una pausa,
barcollando in avanti. «Si è costruito una vita
tutta sua
e va dritto per la sua strada...» mormorò,
abbassando lo
sguardo. «Vuoi un consiglio, Shion Hayes? Chiama i tuoi
avvocati
e fai annullare quel… quel…» Dalla sua
bocca
sfuggì una specie di sospiro che puzzava di alcol.
«E se
hai bisogno di un motivo valido… beh, lo sappiamo tutti che
lui
non è a posto con la testa!» disse, gesticolando e
toccandosi la tempia destra, ridendo in modo scomposto.
«Ora smettila, ti stai rendendo ridicolo», lo
redarguì Shura, con tono minaccioso, provando a trattenerlo.
Nella breve lotta che seguì per liberarsi, Aiolos si
sbilanciò all'indietro andando a sbattere contro il mobile
bar,
trascinando a terra con sé il vassoio d'argento con tutto
quel
che c'era sopra e facendo un gran baccano. Cocci di cristallo e larghe
pozze di liquore di sparsero tutt'attorno.
«Paparino Shura… me la sono fatta addosso. Mi
aiuti a
cambiarmi?» sghignazzò, osservando una grande
chiazza
scura sui suoi pantaloni. Poi, dalla sua bocca uscì uno
strano
verso, a metà fra uno sbuffo e un rutto.
Afferrò la bottiglia vicino a lui e se la portò
alla
bocca per bere. L'agitò verso il basso e fece una smorfia,
perché anche quella era vuota.
«Sbornia triste...» mormorò Shura,
disgustato di
fronte allo spettacolo offerto da Aiolos che continuava a borbottare
frasi sconnesse e a singhiozzare.
Non c'era nulla che odiasse di più degli ubriachi con la
sbornia
triste, perché risvegliavano in lui la voglia di fare a
botte.
Strinse i pugni fin quasi a conficcarsi le unghie nei palmi. Dentro di
sé si stava dando dell'idiota perché avrebbe
dovuto
capirlo subito che qualcosa non quadrava, non appena aveva visto Aiolos
al Country Club; avrebbe dovuto riconoscere i segnali di quelle ultime
settimane, di quel suo strano comportamento. Però,
ciò
che gli faceva più rabbia era scoprire che l'oggetto del
desiderio di quel giovane testardo che lui amava era Saga. Non potevano
più esserci dubbi ormai. Per nessun altro Aiolos si sarebbe
ridotto in quello stato.
Fece un respiro pesante. Poi, si girò a guardare Shion e
subito
il pensiero andò a lui, a com'era stato in passato, alla
disperazione che aveva provato e alla ferita del cuore che forse non si
era mai risanata del tutto. Questa volta non era disposto a rivivere il
passato. Non avrebbe più indossato i panni del buon
samaritano,
non sarebbe stato un rimpiazzo. Strinse le labbra in una linea sottile.
«Dovrei lasciarti qui», sibilò velenoso
all'indirizzo di Aiolos.
Non gli stava facendo affatto pena quel ragazzo seduto malamente a
terra, con i vestiti tutti in disordine e che puzzavano di alcol.
Eppure, si chinò su di lui e lo aiutò a
rimettersi in
piedi, accompagnandolo giù, nel bagno del seminterrato. Non
voleva che sua nonna lo vedesse in quelle condizioni.
*****
L’aria frizzantina del mattino le pizzicava la pelle del
viso,
lasciandole un leggero formicolio che si insinuava, pian piano, sempre
più in profondità, contribuendo a tenerla
sveglia. Non
che ne avesse bisogno: da quando aveva riaperto gli occhi, poco dopo la
mezzanotte, ancora con un forte senso di stordimento addosso, non era
più riuscita a prendere sonno.
Era scesa al piano terra quando ancora faceva buio e le stelle
splendevano in cielo, aveva attraversato quella grande casa avvolta nel
silenzio, con l’unica certezza che non sarebbe riuscita a
sopportare di rimanere un solo istante in più in quella
camera e
condividere – almeno per quella notte – il letto
con Saga.
Non perché non lo amasse, tutt’altro, lo amava
talmente
tanto che soffriva troppo a stargli accanto. Prima di lasciarlo, gli
aveva rivolto un ultimo sguardo: dormiva sereno in mezzo al letto,
sdraiato sul fianco. Nella sua testa martellavano in continuazione le
parole di Aiolos: “Devi dirglielo!”,
“Devi
dirglielo!”; e i suoi occhi severi che la giudicavano
colpevole.
Da dopo quel pomeriggio in ospedale, lei aveva percepito il cambiamento
di Aiolos nei suoi confronti. Era stato graduale, ma ben visibile,
nonostante lui si mostrasse distaccato come sempre. E poi
c’era
stato un picco improvviso quando Saga l’aveva presentata come
sua
moglie; e lei, emozionata e sotto esame, era riuscita lo stesso a
cogliere lo sguardo d’odio di Aiolos che la trafiggeva come
una
lama.
Aveva trattenuto a stento le lacrime, appoggiandosi alla porta chiusa
della camera da letto, scalza e con il pigiama e la vestaglia che le
aveva dato Saga – pescandoli dall’immenso
guardaroba che
divideva con il gemello – mentre cercava qualcosa da farle
indossare per dormire più comodamente, visto che il suo
bagaglio
era rimasto chissà dove e lei aveva a disposizione solo
l'abito
da cocktail che indossava. Glieli aveva mostrati con un sorriso
dolcissimo e al tempo stesso imbarazzato, spiegandole che li aveva
usati da adolescente.
Chiuse gli occhi nel ripensare a quel momento, alla serenità
di
Saga. Era conscia che avrebbe dovuto parlargli di quanto era successo;
sarebbe stato un segreto troppo grande da portare con sé, ma
non
sapeva come affrontare quell’argomento, né quando.
Non le
sembrava giusto rattristare il suo amore con una decisione che comunque
non sarebbe dipesa da lui, né da lei stessa. Ed era proprio
quello ciò che più le straziava il cuore: lei non
aveva
potuto opporsi.
Se ne stava lì, immersa nei suoi pensieri e nel silenzio di
quelle prime ore del mattino, a osservare il lieve chiarore che
lentamente sorgeva all’orizzonte. L’alba era uno
spettacolo
che raramente si era concessa di vedere. Quel mattino del 31 maggio
invece, era lì in prima fila ad attenderla, seduta un poco
rannicchiata su una delle poltrone scure del salottino da giardino,
sotto il portico posteriore di quella grande villa. Per qualche
momento, quel meraviglioso panorama da cartolina d’altri
tempi,
che incantava al primo sguardo, le fece dimenticare i dispiaceri che
l’avevano tenuta sveglia. Sospirò, stringendosi
nella
vestaglia di flanella leggera e portandosi il piede sotto al sedere,
affondando sul cuscino bianco a righe larghe color sabbia della
poltrona. Vi riuscì a fatica. Da diverse ore avvertiva un
dolore
sordo al ventre, già rigido e tirato. Non se ne
stupì di
quei fastidi, considerato che era passato poco più di un
giorno
dall’intervento, ma non aveva voglia di prendere un altro
antidolorifico: ricordava com’era stato qualche anno prima,
quando i dolori post operatori tormentavano le sue giornate anche dopo
che fisicamente era tornato tutto a posto. E poi, rendevano la sua
mente poco lucida. O quelli erano gli antibiotici? Forse tutti e due.
Gli occhi le si velarono di lacrime, sentiva le gote calde. Forse le
stava tornando la febbre. Non sarebbe stato affatto strano. Se sua
madre fosse stata lì con lei le avrebbe ordinato di tornare
a
letto e poi le avrebbe preparato una salutare tazza di latte caldo col
miele: “una cura buona per tutti i mali”, diceva.
Ma Cora
aveva sempre odiato il latte addolcito e in quel momento, sua madre non
era lì con lei. Una lacrima le rigò la guancia,
facendole
un antipatico solletico.
Tornò con la mente al giorno prima. Il dr Ferretti
l’aveva
dimessa dall’ospedale solo dopo la promessa che sarebbe stata
a
riposo assoluto. Le aveva ribadito, con quel suo sguardo profondo, la
voce calda e quel suo modo di fare ammiccante e convincente da
dongiovanni – ma ugualmente pregna di fermezza –
che doveva
riguardarsi; che, nonostante tutto fosse andato nel migliore dei modi e
che l’operazione non avesse avuto alcuna complicazione, se
non
una lieve emorragia subito arginata, doveva evitare qualsiasi sforzo,
stress o affaticamento e poi avrebbe potuto riprendere con la sua vita
di sempre.
Glielo aveva ripetuto anche quando, lei seduta sulla sedia a rotelle,
la stava accompagnando all’uscita dell’ospedale,
spingendola personalmente e salutandola con un abbraccio di
incoraggiamento, chiamandola di nuovo “la sua
miracolata”.
Perché era vero, lei era stata miracolata: era sopravvissuta
a
quel colpo di rimbalzo, una pallottola calibro 38 che per altri sarebbe
stata fatale. Aveva resistito e stretto i denti quando i paramedici
avevano faticato a tamponare l’emorragia durante il trasporto
in
ambulanza, li aveva sentiti – in quelle fasi concitate
–
che non le davano alcuna chance; era tornata in vita dopo che il suo
cuore si era fermato per due volte mentre era sotto i ferri. Aveva
persino battuto l’infezione post operatoria che non era poi
così rara in casi del genere.
“Prenditi un po’ di tempo solo per te
stessa”, le
aveva consigliato il dr Ferretti. “Da quel punto di vista tu
sei
sana come tutte le altre donne”, l’aveva
rassicurata
ancora; e glielo aveva ripetuto di nuovo, prima di lasciarla salire sul
taxi assieme alla madre. “Quando ti sentirai pronta, vedrai
che
andrà tutto bene.”
Ma lei ancora ci pensava.
“Potrò avere dei figli?”
Glielo aveva domandato fin quasi allo sfinimento, si poteva dire;
perché non ci credeva. Non riusciva a crederci.
Nascose il viso fra le mani, cercando di trattenere altre lacrime. Che
fine aveva fatto la sua vita spensierata di un tempo? Quando tutto
aveva iniziato ad andare a rotoli?
«Da quando sei morto tu, papà»,
mormorò senza
rendersene conto, piangendo in silenzio, desiderando in quel momento di
essere circondata dalle braccia rassicuranti del padre. Si sentiva allo
stremo. Aveva dovuto affrontare troppe prove. Le era venuto automatico
scrollare la testa: niente sarebbe stato come prima.
Con la mente ritornò a quando – ancora nella casa
della
madre – la donna le aveva sussurrato che tutto sarebbe andato
per
il meglio. Eppure, davanti ai suoi occhi la natura stava dando il via
al suo spettacolo, iniziando a risvegliarsi e il chiarore
dell’aurora si trasformava, secondo dopo secondo, in giorno.
Il suo compleanno… che giornata surreale che era stata,
quella.
Divisa a metà, trascorsa in due luoghi differenti, due
città diverse, con due famiglie diverse. Non era certo
iniziata
nel migliore dei modi, con i postumi dell’operazione che
l’avevano costretta a letto fino a tarda mattina, riuscendo a
salvarsi dall'irruzione del fratellino, che voleva essere il primo a
farle gli auguri, solo con la complicità della madre.
E poi… non era molto sicura, però immaginava che,
per
altri versi, quella giornata fosse finita anche peggio. Ma non era
stato il compleanno peggiore che lei ricordasse; forse il
più
triste, ma non il peggiore. Il lato positivo era stato che almeno
Mickey l’aveva trascorso serenamente, dimenticandosi di tutti
i
guai del giorno prima, persino della strigliata che incombeva su di lui
e che avrebbe subìto più avanti dallo zio Phil,
perché lui era un uomo di parola.
Sospirò, tirando su col naso. Un leggero brivido la scosse
in tutto il corpo, ma era stata solo una cosa passeggera.
In casa c’era stata un po’ di tensione,
perché sua
madre non era stata abbastanza brava a nascondere la preoccupazione per
lei e zio Phil se n’era accorto; e lei stessa non era
riuscita a
sorridere e divertirsi come avrebbe dovuto. Sì, si era
sentita
in dovere di mostrarsi felice in quel giorno, almeno per gli altri.
Alla fine però, quella tensione si era finalmente sciolta
quando
Mickey e Chris erano usciti di casa per andare al parco, dove i ragazzi
della squadra di baseball avevano organizzato una festa per lui; e lei
aveva potuto lasciar cadere quella maschera e tornare a piangere in
silenzio.
Tutto le era sembrato scorrere con lentezza; forse, pian piano, anche
il dolore che stava provando sarebbe passato, come l’acqua
placida di un ruscello. La casa materna si era di nuovo immersa nella
normale tranquillità di tutti i giorni, con Teresa che si
divideva fra l’essere una brava casalinga e la scrittrice
famosa.
L’aveva vista entrare nel suo studio e uscirne con un
pacchettino, porgendoglielo con un sorriso. Al suo interno
c’era
il suo nuovo libro; non uno di quelli della collana per ragazzi che le
avevano spalancato le porte al successo, ma un romanzo vero, con una
storia vera, corposa e piena di sentimento. Non gliene aveva mai
parlato, di quella nuova storia. Forse l’aveva iniziata
quando
lei era partita per Boston, o forse, per scaramanzia, la donna aveva
preferito tenere tutto segreto. Si era rigirata quel libro fra le mani:
non era la solita edizione, bensì era quella italiana. Era
stato
allora che negli occhi della madre aveva notato un orgoglio diverso e
una certa emozione, soprattutto quando le aveva annunciato i suoi
prossimi programmi, ovvero che sarebbe tornata in Italia per qualche
settimana, non appena fossero iniziate le vacanze estive per Mickey,
perché era stata invitata per una presentazione ufficiale.
Era
stata una notizia così bella che per un attimo le aveva
fatto
dimenticare la sua sofferenza.
E poi, tutto d’un tratto, mentre la madre era tornata a
occuparsi
della cucina, quelle parole erano risuonate nella
tranquillità
della stanza come un fulmine a ciel sereno.
Cora ricordava che erano passate da poco le tre e mezza del pomeriggio
e loro due avevano tutta la casa per loro: Mickey e Chris erano fuori e
zio Phil si era rintanato giù, negli uffici
dell’agenzia
investigativa, teso e concentrato come ogni volta che era in procinto
di chiudere un caso importante. Lei era seduta su uno degli sgabelli
del bancone per la colazione che sfogliava quel libro, provando a
leggere qualche frase nel suo italiano quasi del tutto dimenticato,
mentre Teresa finiva di pulire il piano di lavoro per passare poi il
panno umido sullo sportello del microonde e sulle antine dei pensili. E
all’improvviso lei le aveva detto di preparare la borsa per
tornare a Boston quel giorno stesso, perché Aiolos sarebbe
passato a prenderla di lì a poco. Gliel’aveva
detto
così, come se le avesse chiesto di aggiungere il detersivo
per i
piatti alla lista della spesa.
Ricordava di essere rimasta con la pagina sollevata e lo sguardo
inebetito che fissava la schiena della madre. Ci aveva messo un
po’ a capire cosa avesse voluto dire con quelle parole e
ancora
di più a capire il perché la madre avesse preso
quella
decisione. Ma le era bastato osservare il suo sguardo malinconico,
quando poi si era girata verso di lei, per comprendere che lo faceva
per il suo bene. Perché lei, anche se come madre avrebbe
voluto
tenerla accanto a sé e aiutarla ad affrontare quel grande
dolore, come donna sapeva che la sua bambina aveva bisogno che fosse
qualcun altro a starle vicina, ora più che mai. Soprattutto
dopo
che lei le aveva rivelato, fra le lacrime, che il ragazzo che la donna
aveva visto nelle fotografie al cellulare di Aiolos era in
realtà suo marito, che si erano sposati su due piedi
perché… perché quel
“sì, lo
voglio” era stata la cosa più facile e desiderata
da dire,
di tutta la sua vita; e perché loro si amavano e non serviva
aspettare un solo giorno di più.
E poi… poi si era ritrovata, più o meno un paio
di ore
dopo, a Boston, con Saga che la stringeva fra le braccia e la baciava
in quella camera del Country Club, solo loro due; e l’aveva
fatta
sentire al sicuro.
Sorrise. Le erano mancati i suoi baci. Le erano mancati i suoi
abbracci. Le era mancato lui, davvero tanto.
Saga l’aveva rassicurata, mentre la trascinava fino al tavolo
dove era riunita la sua famiglia. Le aveva assicurato che
l’avrebbero accolta a braccia aperte, ma non era andata
proprio
come lui aveva detto. L’avevano trattata con cortesia; prima
con
un certo stupore, naturalmente, poi… aveva sentito su di
sé tutti quegli sguardi diffidenti e la tensione e
l’imbarazzo che ne erano seguiti. Non poteva certo
biasimarli.
Che pazzia era stata quella che avevano fatto lei e Saga; e ancora
più era stata una pazzia credere che gli altri avrebbero
reagito
bene una volta svelato quel segreto.
Fissò il suo sguardo sulla sua mano sinistra, indugiando
sull’anulare che non era ancora impreziosito da alcun anello.
Non
c’era, ma sapeva che presto quel cerchietto d’oro,
simbolo
delle loro promesse, avrebbe adornato il suo dito. In tutti quei giorni
era stato come se lei ne avesse sempre sentito la presenza; fin da
quando aveva detto quel “lo voglio” –
benché
ancora le sembrasse un sogno – sotto lo sguardo solenne
dell’uomo che li stava unendo in matrimonio e di quelli
commossi
dei due testimoni, che altri non erano che la segretaria del giudice di
pace e un semplice custode.
Era stato un giovedì mattina. Sì,
giovedì 29
aprile, che lei avrebbe ricordato come il giorno più bello
della
sua vita. Saga l’aveva trascinata fuori di casa poco dopo le
dieci con la scusa di farsi accompagnare per portare gli ultimi
documenti in comune per le autorizzazioni degli imminenti lavori per
l’appartamento. Invece, prima l’aveva portata in
una
boutique del centro e le aveva fatto scegliere un abito corto, con la
gonna ampia, color pastello e delle scarpe coordinate, delle splendide
décolleté che l'avevano fatta sentire una
principessa e
poi...
Forse, già in quel momento avrebbe dovuto porsi qualche
domanda,
ma Saga, con quel suo sorriso dolce e rassicurante che le faceva
dimenticare tutto ciò che aveva attorno, l’aveva
persuasa
che fossero solo un regalo.
Invece di presentarsi all’ufficio preposto per le
autorizzazioni
edilizie, lui l’aveva portata davanti al giudice di pace; e
nella
cartelletta, al posto dei documenti della casa, c’era la
licenza
di matrimonio. Da quel giorno si era ripromessa di non dubitare
più della verosimiglianza delle commedie romantiche che si
vedevano in televisione.
Si passò una mano sul viso, dopo un sospiro trasognato, e
cambiò posizione sulla poltrona, girandosi un poco di lato:
il
fastidio al ventre si stava facendo sentire più insistente e
prolungato. I suoi occhi vagavano per quella piccola porzione di
giardino che vedeva di fronte a sé, sempre che si fosse
potuto
definire “giardino” una distesa verdeggiante che
neanche si
riusciva a scorgere dove finiva.
Non si sarebbe meravigliata se anche l’intero lago, non solo
la
sponda sulla quale si affacciava la casa, facesse parte delle vaste
proprietà della famiglia. Poco più in
là iniziava
a comparire qualche piccolo scintillio sull’acqua che
rifletteva
il chiarore del giorno sempre più presente.
Di nuovo fece un sospiro; di nuovo si guardò la mano
sinistra.
Il suo Saga, così pieno di sorprese e di risorse…
eppure
si era dimenticato di quel piccolo particolare. Ma lei non se
l’era presa. Come poteva? Con quel sorriso tanto dolce gli si
perdonava tutto. E comunque non le era poi così
indispensabile.
Nonostante lui gliene avesse promesso uno da lasciarla senza fiato, si
sarebbe accontentata di una vera semplice e sobria come quella di sua
madre.
Dalla casa sembrava non arrivare alcun rumore: forse era ancora troppo
presto. Lei invece era sveglia da un pezzo e iniziava a sentire i primi
brontolii dello stomaco. Rimpiangeva un poco di non essere riuscita a
mangiare praticamente nulla a cena. Un po’ perché
non
stando bene il suo stomaco si era rifiutato di dare il proprio
consenso; e un po’, doveva ammettere, anche per il
menù
che era stato elaborato per quella serata.
«Povero caro», mormorò, accennando un
altro sorriso.
«Era così entusiasta di come aveva organizzato
quella
cena.»
Ricordava bene come, mentre si stavano incamminando verso la villa,
prima di essere entrambi “sequestrati” da Shion che
aveva
chiesto loro di salire in macchina, aveva appena fatto in tempo a dirle
che aveva fatto preparare una cena speciale in suo onore, con alcuni
piatti tipici della sua terra. Poi, con non poco imbarazzo, aveva
rimediato alla gaffe specificando che intendeva dire della terra
d’origine di sua madre, ma sperava fossero graditi anche a
lei.
Gli aveva sorriso, lusingata per quella dimostrazione di affetto,
rassicurandolo che lei adorava la cucina italiana e che in famiglia non
si era mai persa quella tradizione, anche grazie ai suoi nonni.
Peccato però che la sorpresa non si era rivelata tanto
piacevole: il bollito freddo di lingua di vitello in salsa verde non
era mai stato fra i suoi piatti preferiti. Quando era bambina sua madre
aveva provato a farglielo assaggiare, ma ne era rimasta traumatizzata,
soprattutto dopo che ne aveva visto un pezzo ancora sul tagliere.
Forse, se non avesse azzardato a domandare che tipo di carne fosse
– benché molto invitante e presentata in modo
tanto
elegante e professionale, sul piatto di portata – le cose
sarebbero potute andare in maniera diversa… forse. Invece,
dopo
quella rivelazione, si era ripresentato il trauma
dell’infanzia,
bloccandola e provocandole ancora più nausea di quella che
già l’aveva tormentata tutto il giorno. Alla fine,
prima
di alzare bandiera bianca, era riuscita a mandar giù solo un
paio di bocconi di un tortino di polenta che faceva da contorno.
Per un attimo le tornò la nausea.
Nonostante il ricordo non proprio piacevole, trovò anche un
aspetto divertente della faccenda. Rammentava di aver notato come Kanon
e Aiolos sulle prime non avessero avuto una reazione molto positiva, ma
dopo qualche attimo di titubanza e scambi vicendevoli di sguardi
– che avevano alternato ai rispettivi bocconi sulle proprie
forchette – avevano ripreso a mangiare addirittura con
maggiore
gusto, arrivando poi a chiedere una seconda porzione. Saga invece, che
le era seduto accanto, le era sembrato avere – ma di sicuro
la
sua impressione era stata condizionata dalla nausea che poi
l’aveva fatta correre via dalla tavola per rifugiarsi in uno
dei
bagni del pian terreno – un’espressione un
po’
infantile e imbronciata, come di chi rimane deluso da ciò
che
aveva davanti.
Un paio di colpi di tosse le squassarono il petto, ripercuotendosi fino
al ventre, acuendole i crampi. Dopo un gemito sommesso si convinse a
cambiare ancora una volta posizione, cercandone una più
composta.
Il suo sguardo si intristì di colpo: sapeva di non aver
fatto
una buona impressione durante quella cena, ma fin da subito aveva
sentito su di sé il giudizio severo dei membri della
famiglia
Hayes. E non erano state di grande aiuto le risposte balbettate che
aveva dato al capofamiglia. E dopo? Dopo cos’era successo?
Da quel momento la sua mente era un po’ confusa. Ricordava
solo
una pezza bagnata sulla fronte e Saga che le parlava con affetto e
preoccupazione, chiedendole come stesse. E alla fine, portandola fra le
braccia, l’aveva accompagnata al piano superiore,
depositandola
con delicatezza sul letto, rimanendo con lei finché non si
era
addormentata.
Quando aveva riaperto gli occhi, ancora più stanca di prima
e
dolorante alla gola e al petto, per quanto aveva vomitato in
precedenza, la sveglia segnava poco dopo la mezzanotte. Saga aveva
aperto la porta proprio in quel momento, portando un piatto con un
sandwich. Con un sorriso le aveva detto che era per lei,
perché
non aveva mangiato nulla a cena, ma il suo viso era tirato e lo sguardo
cupo.
Inconsciamente raccolse il ginocchio al petto e vi si
appoggiò
con la guancia. Sentì una fitta dolorosa al primo respiro;
questa volta però non le importava. I suoi occhi si
inumidirono
di nuove lacrime. L’immagine del sorriso di Saga, il
ricordare
quanto impegno ci avesse messo per lei, per farla stare bene, la
commuoveva e la faceva stare ancor più male, rendendole
difficile prendere quella decisione. Un sussulto, un singhiozzo
strozzato, le scosse il corpo. Sarebbe scomparso quel suo bel sorriso
nel momento in cui lei gli avrebbe detto la verità sul suo
stato
di salute? L’avrebbe odiata per quanto era accaduto?
Si strinse nella vestaglia e fece un respiro profondo, chiudendo gli
occhi che minacciavano seriamente di liberare lacrime che lei non
sarebbe stata poi in grado di arrestare.
Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic.
Ti-tic. Ti-tic.
Dei rumori, suoni ritmici e continui, creavano un sottofondo quasi
ipnotico. Cora iniziò a dondolarsi un poco.
Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic.
Ti-tic. Ti-tic.
Quel lieve rumore continuava imperterrito. Era sicura di immaginarselo,
eppure aveva una sorta di effetto che la confortava. Le faceva sentire
nostalgia di casa e della famiglia; le riportava alla mente ricordi
lontani di quando, bambina, con i genitori aveva trascorso le vacanze
estive in Italia, a casa dei nonni materni. Era stato l’unico
viaggio all’estero che avesse mai fatto. In
quell’occasione, a causa della sua scarsa conoscenza della
lingua, restava molto tempo a casa e passava le ore a far compagnia
alla nonna che, a sua volta, passava ore e ore a sferruzzare a maglia.
Quello di allora però era un po’ diverso,
più forte
e incisivo, più veloce e allegro, pieno d’amore.
Quello
che invece sentiva ora era più ovattato, discreto; ma, ne
era
certa, ugualmente amorevole.
Alzò la testa e si guardò attorno.
Dall’altro lato
della veranda, su una vecchia sedia a dondolo chiara, una donna anziana
stava lavorando a maglia, osservando in silenzio l’orizzonte.
Poi, come se avesse sentito uno sguardo su di sé,
voltò
lo sguardo su di lei e le sorrise, in quel modo che solo le nonne sono
capaci di fare.
«Buongiorno, cara. Sei mattiniera anche tu, vedo»,
la salutò, continuando a sferruzzare.
«Buongiorno, mrs Foster», ricambiò Cora,
affrettandosi a passarsi la mano sul viso per asciugare una lacrima e
poi a sorriderle cordialmente.
Si alzò, un poco dolorante, e si avvicinò alla
donna che
l’aveva invitata a sedersi vicino a lei. Per qualche minuto
la
osservò lavorare con velocità e precisione, senza
neanche
guardare la punta dei ferri.
«Sei riuscita a riposare un poco?» le chiese Nanny,
lavorando e dondolandosi.
«Sì, mrs Foster», rispose
rispettosamente la giovane.
«Chiamami Nanny, come fanno gli altri. Fai parte della
famiglia, ora.»
«Nanny…» mormorò Cora, in un
balbettio timido.
L’anziana governante di casa Hayes continuava a osservarla, a
studiarla. Durante la cena non ne aveva avuto la
possibilità; ma
in quel momento, loro due da sole in veranda, con la casa tranquilla,
poteva fare la sua conoscenza.
«Posso… posso chiederle a cosa sta
lavorando?» disse Cora, seduta sul pouf di fronte alla donna.
Cora fissava, quasi ipnotizzata, le mani di Nanny che si muovevano in
maniera straordinaria. Per terra, accanto ai piedi della donna, vi era
un cestino pieno di gomitoli di lana e alcuni capi già
terminati, ben piegati. Non riusciva a staccare lo sguardo da quel
lavoro a maglia: era appena all’inizio e non si poteva ancora
intuire cosa sarebbe venuto fuori; il filo era molto bello, dai colori
delicati e con lievi sfumature a contrasto.
Nanny sorrise, continuando a lavorare. «Sto facendo una
tutina per neonati.»
Cora arrossì un poco. «Posso?»
Con molta attenzione prese uno dei capi nel cestino e lo distese
davanti a sé, meravigliandosi di quanto fosse piccolo. Era
di un
bel colore verde pastello, morbido al tatto e leggero.
«È per una ragazza che ha lavorato qui da noi come
cameriera fino a qualche mese fa. Abita ancora con la madre in
paese.»
«È veramente bella», disse Cora, con
tono
trasognato; gli occhi si stavano inumidendo di lacrime, eppure lei
sorrideva intenerita. Poi, prese un’altra tutina, questa
volta
bianca con sfumature celesti. «È per un
maschietto?»
chiese, presupponendolo comunque dai colori utilizzati per i vari
lavori.
«Sì. Dovrebbe nascere in settembre.»
«Lei è davvero molto brava», disse la
giovane,
ammirando sinceramente quei lavori. Erano forse semplici nella
realizzazione, ma ben fatti.
«Dammi pure del “tu”, cara»,
concesse la donna,
interrompendosi per un momento e chinandosi verso Cora, accarezzandole
una guancia.
«Ecco dov’eri finita! Quando mi sono svegliato e ho
trovato il letto vuoto, mi sono preoccupato», disse Saga.
«Non è più buona educazione
salutare?» lo riprese Nanny, con tono un poco risentito.
«Buongiorno, Nanny», rimediò il ragazzo,
con un
leggero imbarazzo su quel bel sorriso che esprimeva serenità
e
anche un pizzico di inconsapevolezza, dando un bacio sulla guancia alla
donna, premiato da una carezza.
«Buongiorno anche a te, signora Hayes», si rivolse
poi alla giovane moglie.
Sussurrò il suo nome sfiorandole le labbra, prima di darle
un bacio leggero e dividendo con lei il pouf.
«Buongiorno, signor Hayes», rispose lei,
condividendo quel sussurro, arrossendo per quell'appellativo.
«Di cosa stavate parlando?» chiese il ragazzo, con
disarmante disinvoltura e genuina curiosità.
L’anziana governante lo squadrò per diversi
secondi,
dondolandosi due o tre volte, continuando imperterrita a far scivolare
sopra e sotto le punte dei ferri circolari.
«Di bambini», rispose, con voce ancora un
po’
risentita; ed era proprio quello che voleva si sentisse, per non
dargliela subito vinta, com’era stato purtroppo abituato.
Saga strabuzzò gli occhi, ricambiando lo sguardo di Nanny e
poi
voltandosi verso Cora che, con un sorriso timido, stringeva ancora fra
le mani la tutina, riferendogli ciò che la donna le aveva
raccontato.
«In giro si dice che sia di Kanon, visto che ha la fama di
dongiovanni», le sussurrò all'orecchio,
ridacchiano.
«Fesserie!» intervenne Nanny, in tono secco; era
forse avanti con l’età ma ci sentiva ancora bene!
«Naturalmente, Nanny!» si affrettò a
concordare
Saga, annuendo con vivacità per dare maggiore risalto alla
sua
esclamazione.
Cora si sorprese nel vederlo con un atteggiamento così
partecipe, per delle chiacchiere fra donne. Le faceva uno strano
effetto.
«Il fidanzato di Clare lavora come commesso alla farmacia; a
ogni
cliente che serve racconta sempre quanto sia orgoglioso del bimbo che
sta aspettando», continuò Saga, sempre
più
pettegolo. «E poi è anche molto geloso! Una volta
mi hanno
detto che ha minacciato un tizio con una spranga di ferro
perché, a detta dei testimoni, aveva guardato in modo
inappropriato le gambe della sua fidanzata, che era andata a trovarlo
sul lavoro.»
«Oh, Saga, non fare la comare. Lo sai che non è
affatto
così!» lo rimproverò di nuovo Nanny,
facendo
sorridere il ragazzo.
Sotto sotto però anche lei era un poco divertita,
perché
pettegolezzi di quel tipo le riportavano alla memoria gli anni
dell’infanzia e dell’adolescenza del suo angelo,
dove
l’unico passatempo, fra lo studio, il nuoto – che
aveva
fortemente consigliato il dottore – e il tennis al Country
Club,
erano quei momenti in cui lui restava a sentire le chiacchiere delle
domestiche di casa Hayes. E poi… pian piano aveva iniziato a
unirsi a loro e a partecipare, fino a diventare il
“pettegolo” di casa. Ma solo quando non
c’erano
testimoni ancora più pettegoli di lui.
A dispetto delle apparenze, ovvero era alto quasi due metri e dieci
centimetri e con due spalle larghe quanto un armadio, la persona di cui
stavano parlando era un ragazzone impacciato, timido e generoso.
«Naturalmente sono tutte voci infondate, ma sai,
assomigliando
alla “Bestia”, ed essendo sempre stato preso in
giro da
bambino, si è montato su una reputazione da bullo, ma in
verità è un pezzo di pane», disse,
rassicurando
Cora.
La giovane ridacchiò, nascondendo la bocca con la mano. In
quel
momento così “intimo” e familiare, aveva
forse
scoperto un altro aspetto dell’uomo che amava e che la
sorprese
piacevolmente. L’espressione sul volto di Saga era tanto
dolce e
spensierata che la stava contagiando e, al tempo stesso, le stava
facendo accantonare i suoi tormenti e i suoi dolori.
«E voi due, state già pensando di
averne?»
Cora sgranò gli occhi, poi abbassò lo sguardo,
sperando
non si notasse il senso di colpa che provava, lisciando con mani
nervose la tutina che teneva appoggiata sulle gambe: a quella domanda
non sapeva cosa rispondere.
«Sicuramente!» esclamò Saga, senza alcun
indugio. La sua voce era stata ferma e convinta.
Passò un braccio dietro la schiena della giovane moglie e
l'attirò un poco a sé.
«Vero?» le chiese conferma in un sussurro; e lei,
dopo un
attimo di smarrimento, rispose di sì, anche se con voce un
poco
incerta. «Magari fra un paio di anni e tu, Nanny, potrai
realizzare queste belle tutine anche per noi», aggiunse,
decidendo tutto lui, accarezzando la lana morbida e sottile della
tutina.
Poi, rivolse uno sguardo innamorato alla moglie, prendendole la mano e
distraendola dal fissare con occhi troppo malinconici quel piccolo
capo, mostrandole un sorriso dolcissimo e trovando, nel cenno di lei,
approvazione a ciò che aveva detto.
Sentì un leggero brontolio di stomaco. «Hai
fame?»
le chiese. «Ho visto che il piatto che ti ho portato ieri
sera
non l’hai neanche toccato», la
rimproverò con tono
preoccupato.
«Scusami. Non mi va di mangiare.»
«La colazione è il pasto più importante
della
giornata!» pontificarono all’unisono, Saga e Nanny,
rimbrottando la giovane in tono bonario.
«Scommetto che se assaggi i pancake di Nanny lo ritroverai
subito, l’appetito! Vero, Nanny, che i tuoi pancake sono i
migliori?»
L’anziana donna annuì con orgoglio, sotto lo
sguardo di
Saga che la stava fissando in quel momento con i suoi occhioni verdi e
l’espressione da eterno bambino; e che già dentro
di
sé stava pregustando quelle delizie.
«Hai avuto proprio una splendida idea, tesoro mio. Era giusto
quello che mi andava di mangiare. Perché non vai in cucina,
prendi gli ingredienti e questa volta li prepari tu?» gli
propose
la donna. «Di sicuro saranno più graditi a
Caroline.»
«Ma…»
«Caro, sai leggere delle istruzioni, vero?» disse
la donna,
in tono compassionevole, ricevendo una risposta affermativa, seppur
titubante, da Saga che non capiva perché la sua tata stesse
dicendo quelle cose. «Allora sarai sicuramente anche in grado
di
seguire la ricetta sul mio quaderno. Lo trovi nel cassetto centrale
della credenza», gli disse, con un sorriso sul viso
affaticato
dall’età.
Per diversi secondi il ragazzo la fissò allibito; poi, con
un
rossore che gli stava imporporando le gote abbassò gli occhi
sul
pavimento.
«Ti do una mano, se vuoi», si offrì
Cora, ripiegando
la tutina come l’aveva trovata e riponendola con molta cura
nella
cesta dei lavori.
Alle parole della moglie, Saga riprese immediatamente vigore e, grato
per l’aiuto, le sorrise dolcemente. Si alzò dal
pouf e le
tese la mano per aiutarla ad alzarsi a sua volta.
«No, mia cara», la trattenne Nanny.
«Fatti viziare un
po’ dagli uomini, perché non passerà
molto tempo
che loro inizieranno a dare per scontato di essere serviti di tutto
punto. E poi, mi piacerebbe parlare ancora un po’ con
te.»
*****
In quella tarda mattinata di inizio settimana, che poteva dirsi tutto
sommato incominciata in toni tranquilli, l’improvviso
scampanellare alla porta d’ingresso della grande villa
risuonò come delle dolorose martellate nella testa di
Aiolos.
Forte, rintronante e decuplicato nelle sue note acute; persino
accanito, per come prepotente si stava facendo sentire.
Poi, così com’era iniziato, tutto si era fatto
silenzio ed era tornata la pace.
«Finalmente…» sospirò il
ragazzo che non era certo nel massimo della forma.
Si massaggiò una tempia e fece un profondo respiro, provando
a
riprendere la lettura del libro, sdraiandosi malamente sull'enorme e
morbido divano del salotto. Di tanto in tanto la vista gli andava in
confusione e perdeva il filo, dovendo ricominciare a leggere, senza
comunque riuscire a capirci nulla. Aveva la testa tutta sottosopra e
sentiva che la colazione gli stava tornando su, nonostante la calma che
pian piano stava ritrovando; o forse, quella sgradevole sensazione la
sentiva di più proprio perché tutto sembrava
essere di
nuovo tranquillo.
Il campanello della porta suono di nuovo, ancora, ripetutamente, con
maleducata insistenza. E, ancora una volta, nella sua testa tutto si
amplificò.
«Ma non va nessuno ad aprire?» sibilò
fra i denti,
coprendosi il volto con il libro aperto. Dov'era la cameriera quando
serviva? Dov'era Shura quando serviva?
Scattò nervoso, continuando a sentire quel suono fastidioso:
la
sua mente stava già immaginando di andare lì e
sradicare
il campanello dalla parete.
Sbuffò e si alzò dal divano, affacciandosi dalla
soglia
del salotto: nessuno in quella casa pareva essere anche solo
minimamente interessato ad andare ad aprire. Arricciò la
bocca
in una smorfia, scocciato. Forse, lassù qualcuno ce
l’aveva con lui, quel giorno. Ancora con il libro in mano,
che
teneva completamente aperto con la mano, si avvicinò a passi
pesanti alla porta d’ingresso. Non guardò dallo
spioncino,
né dal monitor della telecamera puntata proprio sul
pianerottolo
antistante e sui gradini, ma si limitò ad aprire quella
porta
con un atteggiamento scostante, con l’unico pensiero di
mandar
via lo scocciatore.
«Ah!» esclamò, senza molta enfasi a dire
il vero,
nel momento in cui vide chi era. «L’amabile zio
Phil,
direttamente dall’accogliente città di
Philadelphia! Come
mai non sono sorpreso di vederti qui?»
Il sarcasmo e la sprezzante arroganza nella sua voce fece serrare le
mascelle all’uomo che aveva di fronte. L’eleganza e
la
pacatezza che aveva dimostrato solo un paio di giorni prima sembravano
non essergli mai appartenute e anzi, Aiolos non si preoccupò
affatto della reazione dell’altro, forte di essere nel suo
territorio, questa volta. Con disinvoltura – e un mezzo
ghigno
sul viso – dimenticandosi del tutto dei postumi della sbornia
che
ancora lo stavano condizionando, allungò un poco il collo e
diede uno sguardo alle spalle dell’investigatore: vicino
all'auto
ferma in mezzo al vialetto ghiaioso c’erano altri due uomini
dall’aspetto cospiratorio che stavano fumando.
«Ti sei portato i rinforzi?»
«Ehi, ma è solo il maggiordomo di casa»,
disse con
un mezzo sorriso Phillip Burton, ai suoi compagni, indicando Aiolos con
un gesto del pollice.
I due in disparte sogghignarono; poi, quello con la giacca scura
buttò a terra la cicca di sigaretta schiacciandola con il
piede.
«Cos’è, il potente Shion Hayes
è caduto tanto
in miseria che non può permettersi di pagarti abbastanza per
la
divisa più decorosa?» rincarò la dose
di dileggio,
squadrandolo da capo a piedi. Il ragazzo infatti si era presentato
davanti a lui con delle semplici infradito, jeans scoloriti e strappati
e una polo che aveva visto giorni migliori.
«Se avessi saputo che erano attesi ospiti così di
“riguardo” sarei andato a ritirare quella buona in
lavanderia», rispose Aiolos, con un sorrisetto. Subito dopo
però fu costretto a una smorfia di dolore per una fitta alla
testa. «Allora, che vuoi?» chiese di nuovo, mutando
repentinamente il tono della voce e l’espressione sul viso.
«Aiolos!» chiamò Kanon, scendendo di
corsa le scale
per dirigersi in biblioteca. «Chi è alla
porta?»
chiese, vedendo che l’altro si stava intrattenendo con
qualcuno.
«È il suocero di tuo fratello!» rispose
Aiolos,
senza distogliere lo sguardo dall’ex poliziotto, osservando
la
lieve contrazione delle mascelle dell’uomo. «O
forse il
sostituto suocero», mormorò maligno.
«Per te cosa
sarebbe, Kanon?» domandò all’amico, con
aria sempre
più strafottente, mettendosi una mano in tasca e assumendo
una
posa fin troppo rilassata.
«Cos’è, un quiz a premi?»
ribatté
Kanon, per nulla in vena di scherzare o fare conversazione, non dopo la
serata passata a discutere con il padre e con il gemello.
«Piuttosto, chiama al garage e chiedi se la Lamborghini
è
a posto! Dopo la riunione in città devo andare a New
York», ordinò, prima di scomparire in biblioteca.
Aiolos sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Quel giorno ci
mancava anche Kanon che si metteva a impartire ordini come un dittatore.
Anche Phillip Burton, che fino a quel momento era rimasto comunque
rispettosamente sulla soglia, iniziava a dare evidenti segni di
impazienza.
«Allora?» ripeté ancora una volta
Aiolos, assottigliando lo sguardo.
«Devo vedere mr Hayes», disse Phillip, lapidario e
con voce ferma.
I due si guardarono negli occhi per diversi secondi, senza cedere dalle
rispettive posizioni, neanche fossero due pistoleri del Far West.
«Non è disponibile», fu la risposta,
altrettanto lapidaria, di Aiolos.
Di nuovo si fissarono a lungo, come due cani da guardia che mostrano i
denti e ringhiano sommessi, prima di azzannarsi a vicenda.
«Non ho tempo di giocare con te, ragazzo», disse
Phil,
mettendosi una mano nella tasca dei pantaloni, spostando con quel
movimento la giacca leggera e mostrando la pistola nella fondina che
questa volta portava alla cintura.
«Io invece ho tutto il tempo che voglio; e questa volta gioco
in
casa», gli rispose per le rime e con inaspettata freddezza
l’altro.
«Ragazzo…» si fece avanti minaccioso uno
dei due
uomini che attendevano poco più in là,
affiancandosi a
Phillip Burton. «Io invece gioco sempre in casa»,
affermò con sicurezza, scostando la giacca e mostrando il
distintivo del dipartimento di Polizia di Boston, Squadra Omicidi,
agganciato alla cintura. «Ora facci entrare e vai a chiamare
il
padrone di casa.»
Aiolos non si scompose più di tanto per quella dimostrazione
da duro. «Avete un mandato, agente?»
«Detective Moore», lo corresse l’uomo.
«Non ho
bisogno di un mandato per una semplice chiacchierata informale,
né di un invito scritto. Restatene al tuo posto, ragazzo e
facci
entrare.»
«Amico…» lo apostrofò Aiolos,
con tono
sprezzante, «non siamo a Chester’s Mill, sotto la
cupola.
Qui i diritti costituzionali sono ancora in vigore e la polizia non
può fare i propri comodi», rispose a tono,
chiudendo il
libro che teneva in mano, l’ultimo che aveva comprato di
Stephen
King, puntandolo al petto del poliziotto, che non sembrava poi
così tanto più vecchio di lui, a giudicare
dall’apparenza.
Il detective scacciò quel libro con un gesto brusco,
portando in
seguito la mano sulla fondina della pistola, frenato però
dall’ex capitano.
«Ehi, big Phil, c’è qualche
problema?»
Anche il terzo uomo raggiunse infine i suoi compagni, ancora fuori
dalla porta d’ingresso della villa.
«Tutto sotto controllo, Ed. Non è vero, signor
Foster?»
Edward Price annuì con la testa, ma rimase in allerta, come
la
sua esperienza di tanti anni sulle strade gli aveva insegnato, con gli
occhi fissi sul giovane che sbarrava loro la strada.
«Ehi, ma che succede qui, Aiolos?» chiese Kanon,
affiancandosi all’amico, ora di umore migliore, appoggiandosi
con
il braccio alla sua spalla.
Tutti erano stati così intenti a osservarsi che non si erano
accorti di quella nuova aggiunta, rimanendo sorpresi.
«Salve! Sono Kanon Hayes, cosa desiderate?» chiese,
stringendo la mano di Phillip Burton che, subito a prima vista, aveva
reputato come “il capo” di quel gruppetto.
Nonostante Burtun avesse già visto una sua fotografia,
qualche giorno prima, rimase allibito nel ritrovarselo di fronte.
«Lui è il patrigno di Caroline», disse
Aiolos a voce
molto bassa, indicando con un cenno del capo l’uomo a cui
Kanon
aveva appena stretto la mano. «È venuto a parlare
con tuo
padre. L’altro è un poliziotto e il terzo non lo
so, ma
dall’aspetto sarà un altro sbirro.»
«Ah, allora questa volta Saga si è cacciato in
guai
davvero grossi?» commentò Kanon, squadrandoli da
capo a
piede, facendo poi un mezzo sorriso. «Beh, Aiolos,
accompagnali
in biblioteca e poi chiama il grande capo. Così finalmente
risolveremo questa storia», gli ordinò.
«Non
andateci troppo pesante, voi… è pur sempre mio
fratello», disse, con tono sfacciato, rivolgendosi ai tre
ancora
fuori dalla porta.
Poi, prima di uscire di casa, informò l’amico che
agli
impegni in ufficio si era aggiunto anche un meeting
dell’ultimo
minuto e di portargli la Lamborghini direttamente nei parcheggi
sotterranei del grattacielo della compagnia, perché il suo
programma di tornare a New York era ancora valido; ed era propenso
questa volta a rimanerci per diverso tempo.
Aiolos annuì svogliatamente, ma non eseguì
subito. Prima
voleva capire il vero motivo per il quale quell’uomo era
venuto
da Philadelphia e si era presentato alla porta di casa Hayes. Di certo
non poteva essere solo per ciò che tutti ritenevano la
sciocchezza più grossa che Saga avesse mai fatto in vita
sua.
Dietro doveva esserci dell’altro, ma gli mancavano ancora
diversi
tasselli per ricostruire il quadro.
«Ma di che stava parlando, quello?» chiese il
detective al
suo ex superiore Price. Solo in quel momento, Moore si rese conto della
reazione allibita dell’uomo quando era comparso davanti a
loro
Kanon.
Anche dopo che il rampollo degli Hayes si era allontanato, Edward Price
era rimasto con le mascelle serrate, lo sguardo fisso e il respiro
trattenuto, prima di scambiare uno sguardo eloquente con Burton e, di
nuovo, stringere le mascelle per la tensione.
Burton fece un passo in avanti per entrare in casa, ma fu respinto
dalla mano di Aiolos.
«Lascia, ci penso io!» intervenne Shura, sbucando
da
chissà dove e arrivando di corsa: sembrava essere inseguito
dal
demonio in persona. «Vai in cucina e trattienili»,
sussurrò all’orecchio di Aiolos, mettendogli una
mano
sulla spalla.
Il ragazzo non fece una piega, ma nemmeno si mostrò
contrariato
per quella che, in altre circostanze, avrebbe interpretato come una
punizione.
«Morales.»
«Capitano Burton», ricambiò il saluto
Shura,
facendoli finalmente accomodare nell’elegante atrio della
villa,
fissando però l’uomo con sospetto.
La tensione di quei minuti, nonostante il cambio degli attori, non era
diminuita affatto; anzi, se possibile era persino aumentata,
perché da quel momento in poi sarebbero potuti riemergere
eventi
del passato che dovevano invece rimanere nascosti.
note:
Tulipe: com'è intuibile, deriva dal francese e
significa
Tulipano; è un bicchiere dalla forma affusolata che ricorda
appunto il suddetto fiore e si usa per la degustazione di vini bianchi
e di alcuni alcolici come la grappa.
Chester's Mill: è la cittadina, inventata, del
Maine nella quale
si svolge la storia di "The Dome", romanzo di Stephen King, pubblicato
negli Stati Uniti nel 2009.
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Capitolo 28 *** Capitolo XXVII ***
XXVII
Contrariamente a quanto avrebbe fatto di solito, quando arrivavano
degli ospiti che avevano affari delicati da discutere con Shion Hayes,
Shura portò Burton al piano seminterrato, nella sala del
biliardo.
«Qui avremo maggiore privacy», disse, facendo
accomodare l’ex poliziotto.
«È qui che fate i vostri loschi affari?»
commentò Burton, dando una lunga e approfondita occhiata a
quell’ambiente.
La stanza era ampia, con le pareti ricoperte di legno e il parquet sul
pavimento. Aveva proprio l’aria di uno di quei vecchi locali
dove
si andava a fumare e giocare, ma il lusso e la raffinatezza la facevano
da padrona. Del resto, non poteva aspettarsi altro da una delle
più ricche famiglie di Boston.
Si avvicinò alla rastrelliera con le stecche posizionate in
verticale, una accanto all’altra, studiandole meglio, ma
già a occhio si capiva che erano di gran pregio, alcune
addirittura erano famose, appartenute a grandi giocatori del passato.
Si lasciò sfuggire un commento poco educato
sull’ostentazione di quella famiglia, mentre ne prendeva in
mano
una, che aveva attirato la sua attenzione in modo particolare,
esaminandola in maniera più approfondita con
l’occhio di
un vero professionista.
Sembrava molto vecchia e molto usata. Appena sopra
l’impugnatura
ricoperta in pelle, c’era una specie di scarabocchio scuro,
un’incisione fatta sul legno nella quale era distinguibile a
malapena una K.
«Al padrone di casa non piacerebbero queste
insinuazioni»,
grugnì Shura, trattenendo a stento la rispostaccia che gli
frullava in testa.
Prese il cellulare e, appoggiandosi al bordo di mogano pregiato del
tavolo da biliardo, che sembrava un pezzo di antiquariato di gran
pregio, telefonò a Shion Hayes. La chiamata fu molto breve,
giusto per avvertire che era atteso. Poi, posò il cellulare
accanto a lui e attese con le braccia incrociate al petto.
«Non mi importa un accidenti di cosa possa piacere o non
piacere
al tuo padrone», ribatté l’uomo, in tono
secco,
mandando una palla in buca e commentando subito dopo, fra sé
e
sé, che la stecca non era proprio niente male, soppesandone
il
peso e il bilanciamento.
«Mettiamo le carte in tavola, Burton,
cos’è venuto a
fare qui?» disse Shura, non nascondendo
l’inflessione
nervosa nella sua voce, bloccando con la mano la palla che stava
scivolando lenta sul panno verde fino alla buca d'angolo.
«Ancora quell’atteggiamento da bulletto di
quartiere,
Morales?» disse l’ex capitano del dipartimento di
polizia
di Boston, accennando un ghigno sardonico.
Ricordava abbastanza bene quella volta che un giovane teppistello
ispanico un po’ troppo scalmanato, era stato trascinato al
distretto con le manette ai polsi da un agente in divisa e sbattuto
nella gabbia assieme agli altri fermati di quel giorno. Ricordava come
quel ragazzetto tutto pelle, ossa e nervi tesi, attaccasse briga con
chiunque e sfidasse con occhi pieni di rabbia ogni singola sventurata
persona incrociasse il suo sguardo. Faceva persino paura a omoni grandi
tre volte più di lui. In seguito non ne aveva saputo
più
niente, almeno fino a quando non l'aveva incontrato – molti
anni
dopo – durante le indagini del caso Taylor, quando lui in
persona
si era presentato a casa Hayes per interrogare Shion e tutti quelli che
erano stati in un qualsivoglia rapporto con Anthony Young.
«Che diavolo vuole, Burton?» insistette Shura. Nei
suoi
occhi si stava riaccendendo la fiammella della rabbia giovanile.
«Non sono affari che ti riguardano, tirapiedi»,
rispose l’uomo, col medesimo tono.
Shura digrignò i denti, sfidandolo con lo sguardo per
diversi
secondi, senza però sortire alcun effetto. Non era facile
riuscire a intimidire uno come Burton. Si buttò allora a
sedere
sulla poltrona di pelle e si accese un sigaro, mentre osservava l'altro
che continuava a mandare palle in buca.
Shion si fece vedere dopo quasi quindici minuti. Le maniche della
camicia bianca arrotolate a tre quarti e il colletto slacciato gli
donavano un'aria molto rilassata. E i jeans scoloriti contribuivano a
farlo sembrare più giovane, nonostante i capelli grigi che
stavano via via diventando più evidenti rispetto al suo
castano
chiaro.
«Capitano Burton. Che piacere inaspettato», lo
salutò il padrone di casa, con particolare gentilezza, tanto
che
Shura se ne stupì, muovendosi poi nervoso sulla poltrona.
«Qual buon vento la porta qui, dopo tutti questi
anni?»
«Come potevo non venire, viste le particolari
circostanze?»
rispose con altrettanto garbo Burton, avvicinandosi e stringendogli la
mano.
Entrambi mantennero la stretta per diversi secondi, fissandosi negli
occhi. In quello sguardo reciproco erano espressi tanti sottintesi che
non avevano bisogno di essere svelati a parole. L'uomo fece poi un
breve cenno col capo in direzione di Shura, mostrando così
quanto fosse poco incline a svelare il vero motivo della visita data la
presenza dell'altro, ma Shion lo rassicurò con un gesto
della
mano che poteva parlare liberamente. Allora, si avvicinò di
nuovo al tavolo da biliardo e vi appoggiò sopra la stecca,
prendendosi un momento per riflettere su come affrontare il discorso.
«Come sta il tuo ragazzo?» chiese, provando a
prenderla
alla lontana. Il tono che aveva usato non sembrava affatto di
circostanza. «Non ne ho più sentito parlare, da
quel
giorno alla clinica.»
«è cresciuto bene», rispose con orgoglio
Shion Hayes.
«Come diavolo fa a sapere di Saga?» disse Shura,
scattando in piedi e facendosi cadere addosso della cenere.
«Calmati, Shura», lo placò il
capofamiglia Hayes.
«Sì, calmati, Morales», fece eco Burton,
ma in tono
provocatorio. «Ero lì per motivi personali e ho
visto mr
Hayes che accudiva il figlio. A quel punto non poteva certo
nasconderlo.»
«Quindi lui ha sempre saputo dei gemelli e di... allora
perché non ha mai detto niente in questi anni?»
chiese
Shura, con voce preoccupata e diffidente.
«Ha lavorato dietro le quinte per nascondere ogni possibile
notizia fosse potuta trapelare a proposito dei gemelli»,
svelò Shion, mantenendo una tranquillità
invidiabile.
«Cosa che tu non saresti certo stato in grado di
fare», intervenne Burton, con un sorriso sghembo sulle labbra.
«E in cambio cos’hai voluto?» disse
Shura, con tono sprezzante.
«Niente. L'ho fatto solo perché non mi sono mai
andati a
genio i Taylor. A questo mondo ce ne sono già abbastanza di
squali. Se quei due bambini fossero finiti nelle loro mani,
chissà come sarebbero diventati oggi.»
Shion non replicò, poiché quello era anche il suo
pensiero. Certo, fare uno sgarro di quella portata alla famiglia Taylor
gli aveva dato una grande soddisfazione, ma non era stato solo per
quello. Aveva protetto e amato l’eredità che aveva
ricevuto dalle uniche due persone che aveva amato nella sua vita.
«Allora, Burton, qual è il vero scopo di questa
tua
visita?» chiese Shion Hayes, offrendo da bere al suo ospite.
«Mi stupisce che tu non lo immagini», disse
l’uomo,
facendo una lunga pausa per valutare la reazione del suo ospite.
«Gli accordi erano che non avremmo più incrociato
le
nostre strade e che tu avresti tenuto a bada i tuoi ragazzi, ma quello
più giovane è venuto a pascolare dove non avrebbe
dovuto.»
Ci fu un lungo e pesante silenzio nel quale Shion e Shura si
scambiarono uno sguardo perplesso: nessuno dei due riusciva a
comprendere cosa intendesse dire Burton.
*****
Che quella non fosse una mattina come tutte le altre Aiolos ne aveva
già avuto sentore a colazione, con la sua bella dose di
nausea
da overdose di sdolcinatezze generosamente servitegli da un Saga fin
troppo gentile che, di fronte a Caroline, che lui vedeva solo come un
elemento estraneo e fuori luogo nella “loro”
famiglia, si
era trasformato in un servizievole cameriere; il tutto sotto lo sguardo
della nonna, particolarmente accondiscendente a tale spettacolo
indegno. Ma se ne rese davvero conto solo quando, rientrato in cucina,
il suo umore – già di per sé pessimo
per il dopo
sbornia e l'incontro con Burton – non era ulteriormente
guastato
all'idea di dover fare da balia ai due piccioncini. Gli costava fatica
doversi preparare psicologicamente a “Vita da
strega” in
versione Hayes.
Si guardò attorno: Francine era già impegnata ai
fornelli, neanche fosse stata a servizio in una grande magione del
secolo passato, dove si lavorava in cucina dalla mattina alla sera, ma
degli altri non pareva esserci traccia.
«Dove sono andati?»
La donna alzò lo sguardo dall'impasto che stava
energicamente
sbattendo e lo fissò come se non avesse inteso la domanda.
Aiolos aveva già aperto la bocca per ripetere di nuovo, ma
fu
interrotto dall'arrivo della nonna, sbucata da chissà dove.
«Li ho mandati fuori in giardino», disse con un
poco di
fatica la donna, camminando a piccoli passi. Aveva le mani piene di
pacchi di farina, zucchero e frutta secca avanzata
dall’inverno.
«Dammi qua! Lo sai che non dovresti portare pesi»,
la
rimproverò il giovane, scrollando la testa in
disapprovazione,
mentre la liberava da quei pesi eccessivi, appoggiando poi i pacchetti
sul piano di lavoro.
«Quella povera ragazza è pallida come un cencio,
ha
bisogno di tanto sole, di stare all’aria aperta e di mangiare
sano», continuò la donna, sedendosi sullo sgabello
vicino
al forno.
Aiolos invece sbuffò, guardandosi bene dal dirle che le
condizioni di Cora non sarebbero certo magicamente migliorate stando
semplicemente “all’aria aperta”, o
“mangiando
sano”, ma stando invece a letto a riposare e provando a
lasciarsi
al più presto alle spalle quella brutta storia.
Dal forno arrivava un odorino a dir poco invitante che distrasse il
ragazzo dai suoi pensieri e dall'incarico che gli era stato affidato.
«Cosa state combinando voi due?»
Inspirò profondamente, allargando ben bene le narici per
meglio
saggiare ogni aroma che si spandeva nell'aria. E proprio in quel
momento il ding del timer di uno dei due forni avvertiva la cuoca che
ciò che custodiva così gelosamente era pronto.
Francine lasciò la ciotola dell’impasto, si
infilò
in fretta il guanto imbottito e aprì lo sportello, liberando
così un’improvvisa zaffata di cacao; poi estrasse
la
teglia piena di soffici e invitanti muffin di goloso cacao e gocce di
cioccolato extra fondente, che posò a raffreddare sulla
griglia
già predisposta.
Aiolos allungò la mano, pronto a rubarne uno, ma una
sculacciata sul sedere lo fece desistere.
«Fermo con quelle manacce!» lo
rimproverò Nanny,
provando a replicare il colpo, ma questa volta col mestolo di metallo
che aveva trovato lì vicino, poiché dopo il primo
la mano
le doleva. Aiolos fu invece lesto a scansarsi, anche se ciò
lo
fece rimanere a mani vuote.
Non gli era andata però poi così male,
perché
sotto il canovaccio che era steso sul piano di lavoro trovò
una
scatola di biscotti all’uva passa. Non ci pensò
due volte
e ne arraffò uno, trangugiandolo praticamente intero.
«Aiolos! Sei proprio impossibile!» disse Nanny,
esasperata
da quel comportamento infantile. E la bocca gonfia come quella di un
criceto in piena fase di “abbuffamento” era la
prova che
per certi versi bambino lo era rimasto davvero. In fin dei conti le
faceva piacere, perché lui nonostante fosse ormai un uomo,
era
sempre il suo piccolino.
«Questi biscotti sono per qualcosa di particolare?»
chiese,
facendo fatica ad articolare le parole che uscivano dalla sua bocca
goffe e comiche.
«Tutto quello che stiamo preparando oggi è per la
festa
per il bambino di Claire di questa sera», spiegò
Nanny.
«E tu...» gli disse, facendogli cenno di
avvicinarsi, per
poi cingergli con affetto la vita. «Tu quando ti deciderai a
sistemarti con una brava ragazza e a farmi diventare
bisnonna?»
«Queste idee da dove vengono?» disse con una certa
perplessità Aiolos. «Ah! Non me lo
dire!»
esclamò, vedendo l'espressione sul viso della vecchia nonna.
«Ti sono venute per colpa di Saga, non è vero? Il
principino prende moglie e tu ora ti stai facendo prendere dalle
fantasticherie di avere una nidiata di marmocchi di nuovo per casa! Ma
non ti siamo bastati noi a rovinarti la vita?»
«Non ti permettere!» lo sgridò la donna,
punzecchiandogli dispettosa la pancia con il dito. «Voi tre
siete
stati la cosa più bella della mia vita, oltre naturalmente a
tua
madre, prima che…» Lasciò in sospeso la
frase,
perché altrimenti sarebbe terminata con qualche insulto nei
confronti di Thomas. E anche se sapeva che ad Aiolos non importava
affatto, non le pareva comunque giusto continuare ad infierire su
quell'uomo che aveva ormai rimediato al suo errore di
gioventù
diventando un buon marito e un buon padre.
Sospirò e si alzò dallo sgabello. Aprì
l’antina del mobile per prendere un piatto pulito sul quale
posò un tovagliolo e si avvicinò alla scatola dei
biscotti, borbottando che non sarebbero comunque stati sufficiente e ne
avrebbero quindi cotti degli altri.
«Per cortesia, portali a quei due ragazzi», disse
ad
Aiolos, mettendo alcuni dolcetti sul piatto e coprendoli poi con
l’altro lembo del tovagliolo.
Il giovane fece una smorfia, ma non si sottrasse a quel favore che gli
aveva chiesto la nonna, quantomeno per non darle un motivo di
lamentarsi anche di lui. A volte ci voleva poco a passare dalle grazie
della nonna a far parte della lista dei “cattivi”,
per
usare un eufemismo, che attualmente aveva come unico membro Thomas
Cooper.
Con il piatto in una mano, tenuto con i polpastrelli delle dita come
farebbe un cameriere provetto, si avvicinò alla
portafinestra
del porticato dando una lunga occhiata, prima di varcarne la soglia. Il
giardino era troppo grande e non ci teneva a percorrerlo in lungo e in
largo come un segugio da caccia per trovare quei due. Con
l’altra
mano sfiorò la tasca posteriore dei jeans, dove teneva il
cellulare. Poteva sempre fare uno squillo a Saga e domandargli dove si
trovasse di preciso in quel momento, così da non doverlo
rincorrere; ma perché dargli a intere che si interessava di
lui?
Non visto dalla nonna, già impegnata con Francine nel
porzionare
l’impasto per la nuova infornata di muffin, prese un biscotto
dal
piatto dandogli un bel morso, mentre usciva nel porticato. La buona
sorte gli stava dando una mano, se così si poteva dire: li
intravide camminare mano nella mano paralleli alle siepi di bosso,
quelle che erano state piantate poche settimane prima, e si stavano
dirigendo verso il lago. Ciò voleva dire che erano stati
dalle
parti della serra. Non che vi fossero grandi motivi per appartarsi
lì, se non proprio per
“l’appartarsi” in
sé, era però anche vero che proprio in quei
giorni erano
arrivati diversi alberi e arbusti per l’allestimento del
nuovo
giardino orientale che Shion aveva ordinato come regalo per la giovane
Sakura, per farla sentire più a casa.
«Strano, Saga non ci mette mai piede lì dentro.
Avrà voluto mostrarle le nuove piante»,
commentò
con indifferenza, finendo di mangiare il biscotto.
Poi, abbassò lo sguardo sul piatto, soppesandolo per qualche
secondo con entrambe le mani, tamburellando col pollice sul bordo.
Indugiava ancora nel porticato, domandandosi perché diavolo
doveva fare da cameriere a Saga.
«Cosa avrò mai fatto di male alla nonna,
perché si
ingegni in una punizione simile?» borbottò,
cercando
qualsiasi scusa possibile per tergiversare.
Non ne aveva proprio voglia. Più passava il tempo e
più
sentiva tornare a galla la sua antipatia per Saga. Ma c'era anche un
lato positivo, poteva... Ma che andava a pensare, anche se gli sarebbe
piaciuto sopra ogni altra cosa metterlo in difficoltà, stava
diventando troppo pigro per cose del genere.
Si guardò un attimo alle spalle, di nuovo. Sua nonna gli
dava la
schiena e non poteva vederlo, sempre indaffarata con Francine a
sfornare altri dolci e, almeno a giudicare dall’odorino di
bacon
e formaggio che lo aveva raggiunto, anche qualcosa di salato. Davanti a
lui, la coppietta in giardino continuava la sua passeggiata. Poteva
quasi udire la voce di Saga, gentile, ilare, mentre descriveva i
dintorni a Caroline. E lei in risposta lo guardava estasiata negli
occhi, sorridendo, rispondendo magari con commenti sciocchi e poi
stringersi al suo braccio e lasciarsi abbracciare.
Masticò amaro, fissando quei biscotti sul piatto. E nella
sua
testa si fece sentire la voce dell'adolescente Kanon che gli sbatteva
in faccia senza pietà come stesse diventando un rosicone di prima
categoria.
«Al diavolo! Sai che mi importa di quello che
dici?» sibilò, rispondendo alla voce immaginaria.
Afferrò i lembi del tovagliolo e ne fece un fagotto che
subito
si mise in tasca. Poi, lasciò il piatto sul primo appoggio
che
gli capitò a tiro, per liberarsene. Quasi per caso
l’occhio gli cadde sul cestino dei lavori che sua nonna
quella
mattina aveva lasciato vicino alla sedia a dondolo, dove era solita
sedersi. Osservò quei piccoli capi in morbida lana e dai
colori
delicati.
«Ma perché la gente è così
fissata nel voler
fare figli?» mormorò, dopo un altro sbuffo,
scrollando la
testa.
Lui non ne sentiva affatto la necessità di avere attorno
delle
mini persone sempre col moccio al naso, che fanno i capricci o piangono
per un nonnulla. E non comprendeva l'entusiasmo della nonna quando si
parlava di neonati, né il suo darsi tanto da fare per
realizzare
corredini e quant’altro per i figli di estranei. Ma del
resto,
sua nonna era una donna e in quanto tale per natura guidata da un
indelebile istinto materno.
Sbuffò per l'ennesima volta, mentre finalmente si decideva a
scendere quei cinque gradini che separava il porticato dal giardino e
si incamminava verso Saga e Caroline. Si mise le mani in tasca e
procedette a passi lenti, misurati. Da lontano le voci di quei due gli
arrivavano fastidiosamente felici. Non che augurasse loro
infelicità eterna, ma che diamine, almeno che mostrassero un
po’ di considerazione per il suo stato d’animo
scocciato!
*****
«È un posto magnifico»,
sospirò Cora,
guardandosi attorno con occhi pieni di meraviglia. Sapendo quanto fosse
facoltosa la famiglia di Saga, se lo aspettava; eppure, essere
lì, passeggiare in quel parco enorme, con tutte le sue
varietà di piante e fiori che poteva competere con una
riserva
naturale, le faceva girare la testa per lo stupore. «Sei
fortunato a poter vivere in questo paradiso.»
«Sì, è vero. È davvero bello
e tranquillo,
qui», confermò Saga, stringendole un poco la mano
per
rafforzare quella sua conferma e farle sentire che le era vicino.
Stavano passando di fianco a dei grossi vasi di lavanda francese tutta
in fiore e, con un gesto rapido strappò la cima di uno
stelo,
odorandola: era di un bel colore viola brillante e aveva un profumo
pungente, ma gradevole. «Adatto a far crescere dei
bambini», aggiunse, con lo sguardo che vagava lontano. Quello
era
un panorama che conosceva da sempre, ma che non si stancava mai di
ammirare.
Cora abbassò lo sguardo per un momento. Sentiva uno strano
formicolio nello stomaco e nel petto. Il calore del corpo di Saga era
inebriante, la sua voce confortevole e il profumo dei fiori e delle
piante che arrivavano alle sue narici si mescolavano
all’odore
naturale di lui in un mix che le faceva girare la testa. E poi c'erano
quelle ultime parole che aveva pronunciato il marito. Lo aveva fatto a
mezza voce, forse involontariamente, ma lei le aveva udite con
chiarezza; l'avevano fatta emozionare, ma avevano anche rinnovato il
suo senso di colpa.
«Sarebbe bello… un giorno»,
mormorò con voce tremolante.
I suoi passi iniziarono a diventare più lenti e incerti,
mentre
camminava sul prato all'inglese con quegli zoccoli da giardino di una
misura più grande e di questo Saga se ne accorse subito.
«Ti senti bene?» le chiese, con un poco di
apprensione.
«Sei sicura che il malore di ieri fosse solo del mal
d’aria?»
Lei annuì lentamente, ma in quel preciso momento le sue
gambe
cedettero del tutto e non finì a terra solo
perché lui la
sorresse. Respirò in modo stanco, con la bocca. Sentiva il
suo
stesso fiato uscire bollente.
«Sono una sciocca, mi dispiace», si
scusò Cora,
mentre Saga la faceva sedere sul prato e si accomodava vicino a lei. La
vestaglia che ancora indossava la proteggeva dall'umidità
dell'erba. Dopo colazione non aveva trovato l'occasione di tornare su
in camera per cambiarsi, perché erano subito usciti in
giardino.
«È che non sono più riuscita a chiudere
occhio e
forse…»
«Credo che sia qualcosa di più di una notte
insonne. Stai
scottando», le disse lui, interrompendola e accarezzandole la
guancia arrossata. «Vieni, torniamo dentro. Ti rimetti a
letto e
ti faccio preparare qualcosa che ti farà stare
meglio», le
propose, rialzandosi agilmente.
La giovane scrollò la testa, pregandolo di sedersi di nuovo,
appoggiandosi poi al suo petto.
«Mi basta rimanere qui per qualche minuto. E poi, mrs Foster
ha detto che devi prenderti cura di me.»
«Appunto!» disse Saga, con piglio infantile, come a
ribadire che aveva ragione. «Non voglio che ti ammali. Quindi
ora
fai la brava e torniamo in casa.»
Cora si dimostrò altrettanto infantile e testarda,
rifiutando
per la seconda volta quell’invito che aveva del ragionevole.
No,
doveva essere sincera con se stessa: l’insistenza di Saga era
molto più che ragionevole, considerato come lei si sentiva
e,
soprattutto, considerato le sue reali condizioni.
Sorrise quando lui alla fine l'assecondò. Sapeva che ci
sarebbe
stata più tardi l’occasione per farsi rinfacciare
un
amorevole “te l’avevo detto”; per ora le
andava bene
così. Chiuse gli occhi. Era piacevole e quasi ipnotico
sentire
la mano di Saga che le accarezzava con movimenti lenti il braccio,
dalla spalla fino al gomito e viceversa. Era piacevole condividere il
calore del suo corpo, il suo odore, quella giornata mite.
«Mi sembra di fare un pic-nic», mormorò,
scivolando in un leggero dormiveglia.
Rimasero seduti sul prato per diversi minuti, senza aggiungere altro.
Saga scrutava la superficie del lago, con quella sua acqua scura e le
sue piccole onde sempre regolari. Lo scintillio del sole
sull’acqua era bello, ma gli stava facendo venire il mal di
testa. Pian piano si sdraiò con la schiena
sull’erba,
portandosi il braccio libero sotto la testa. Osservare quel cielo di
primavera, con quella tonalità di azzurro che sembra quasi
finto
e le sue nuvole bianco latte era una cosa che non faceva più
da
quando era bambino; o almeno, non lo aveva più fatto con lo
stesso spirito e la stessa genuina voglia di osservare,
perché
quando si diventa adulti si guarda tutto con occhi diversi.
Anche Cora si era sdraiata, rimanendo appoggiata al suo petto. Distese
le gambe: i pantaloni del pigiama si erano alzati un poco, fino a
metà polpaccio; con un braccio cinse la vita di lui, l'altro
braccio, il destro, era invece piegato sul proprio ventre e la mano
posata mollemente sul fianco.
«Di cosa avete parlato tu e Nanny?» le chiese Saga.
Aveva
provato a fare l’indifferente, ma era da prima di colazione
che
moriva di curiosità.
«Di alcune cose», rispose lei, distrattamente.
«Anche di… me?»
Cora si tirò su un pochino e si allungò per
dargli un
bacio sulle labbra. «Non ti preoccupare, mi ha detto solo
cose
belle. Cose che già sapevo.»
Saga le sorrise, scostandole un ricciolino dalla tempia. Gli sembrava
che lei iniziasse a sentirsi meglio. La sua voce era dolce e non
più rotta dall’affanno. Le gote, nonostante
fossero ancora
arrossate e spiccassero sul pallore che quel mattino la sua pelle aveva
assunto, non erano più calde da farlo preoccupare e i suoi
occhi
castani non erano più lucidi di febbre, ma avevano ripreso
un
poco di vivacità. Anche se... in fondo a quel bel colore,
caldo
e rassicurante, intuiva un velo di tristezza al quale forse poteva dare
una spiegazione.
«Perdonami», le disse, deviando lo sguardo da lei e
fissandolo di nuovo sulle nuvole in cielo. «Ti ho
delusa.»
«Perché dici questo?»
Saga fece un lungo respiro, senza risponderle. Preferì
seguire
il transito di una nuvola che si stava sfilacciando come zucchero
filato.
«Perché pensi di avermi delusa?»
insistette Cora.
Con la mano sinistra gli accarezzò la fronte, scostandogli i
capelli e poi gli stuzzicò la guancia con un filo d'erba.
«Abbiamo fatto tutto così in fretta. Senza dirlo a
nessuno», disse lui, tormentandosi l'angolo del labbro
inferiore
con i denti. «Ho voluto affrettare le cose, ma forse tu
preferivi
avere più tempo. Forse avresti voluto vivere il periodo dei
preparativi, decidere il come e il dove, avere la tua famiglia vicina.
Non hai potuto contare sull’aiuto e il sostegno di tua madre,
non
hai potuto avere i suoi consigli...» Lasciò quella
considerazione in sospeso, ma avrebbe voluto aggiungere molto altro.
Cora si appoggiò di nuovo con la testa a lui, la mano
accarezzava lentamente il suo petto. Quelle parole la stavano facendo
riflettere. Era vero, tutto si era svolto così in fretta che
in
quattro e quattr’otto erano sposati. Ma questo non valeva
anche
per Saga?
«Ti ho mai detto che anche i miei genitori si sono sposati in
tutta fretta e in gran segreto? Non perché fosse un
matrimonio
di riparazione, io sono arrivata dopo, con tutta calma, ma
perché il loro era stato una specie di un colpo di fulmine.
E
sono stati felici, finché è durata.»
Sospirò
nel parlare dei suoi genitori, i suoi occhi si velarono di lacrime e la
sua voce tradì una certa commozione. «Per quello
che
riguarda me, non ho rimpianti per come sono andate le cose. Certo, non
c’era mia madre al mio fianco, non c’era il mio
fratellino
Mickey, non c’era nessuno ad accompagnarmi
all’altare… c’era però la
persona più
importante, quella che spero vorrà condividere il suo futuro
con
me: c’eri tu.»
«Però ti ho negato tutte quelle cose che di solito
fa una
promessa sposa: un anello di fidanzamento, l’esperienza della
scelta dell’abito bianco, l'addio al nubilato... persino la
fede
nuziale.»
«Quella è solo rimandata, vorrai dire»,
puntualizzò lei, per nulla scoraggiata da quel discorso che
invece stava iniziando a sortire qualche effetto su Saga.
«Hai
detto che sarebbe stato da lasciare a bocca aperta e adesso me lo
aspetto!» disse, tirandosi su di nuovo e muovendo le dita
sotto
il suo naso, ridacchiando. «E comunque, nessuno ci proibisce,
quando tutti avranno metabolizzato la situazione, di fare una cerimonia
più tradizionale e rendere partecipi anche le nostre
famiglie.»
Gli accarezzò la guancia e lo baciò teneramente
sulla
bocca, prima di lasciarsi andare a un bacio più coinvolgente
e
passionale. Di quelli pieni di sentimento che fanno dimenticare tutto e
lasciano senza fiato.
«Forse...» disse lui, con le labbra umide e
stanche,
«potremmo valutare seriamente l'idea di un figlio e...
iniziare
subito.»
Saga sorrise all'espressione stupita di lei e all'imbarazzo che si
stava manifestando sulle sue guance, colorandole di una sfumatura di
rosso che trovava molto attraente. Non erano state però solo
le
sue parole a creare quella reazione, con la mano le stava accarezzando
il gluteo, mentre la stringeva a sé.
«E vorresti farlo qui, ora?» disse lei, con un
pizzico di
ironia nella voce, ma anche con una certa emozione che non riusciva a
nascondere.
«Non mi dispiacerebbe affatto», rispose lui, con
una strana
luce negli occhi. «Mi è mancata mia moglie. Mi
è
mancato condividere il letto con te.»
«Anch'io mi sono sentita sola, nel tempo che siamo stati
separati», confessò Cora, sfiorandogli il profilo
della
guancia. Le stava venendo il batticuore nell'avvertire su di
sé
quello sguardo innamorato che valeva più di mille parole.
Provava una forte emozione nel vedere quelle labbra dolci piegate in un
sorriso sereno e nel sentire le sue carezze gentili sopra lo strato
poco sensibile della flanella della vestaglia. Eppure, lo stomaco le si
stava aggrovigliando anche per il senso di colpa che la tormentava.
«Un bambino...» mormorò con voce
tremante e gli
occhi che si stavano facendo di nuovo lucidi. «Sì,
lo
voglio anch'io.»
«Ma non iniziate a farlo proprio ora, per favore.»
La voce
scocciata di Aiolos arrivò inaspettata e fu accompagnata da
una
leggera ombra che oscurò il cielo sopra la testa di
entrambi.
«All'ospedale, il dottore ti aveva detto espressamente di
riposare», arrivò poco dopo anche il rimprovero
nei
confronti della giovane, nel quale Aiolos sottolineò
volutamente
le parole “ospedale” e
“dottore”.
«Ospedale? Dottore?» inquisì Saga. Il
suo sguardo
esprimeva tutta la sua confusione. «Allora è
qualcosa di
serio!» disse in tono preoccupato, puntellandosi sui gomiti.
Cora rabbrividì a quelle parole. Nonostante tutto il
rimuginare
di quella mattina era impreparata ad affrontare quell'argomento. Le sue
mani divennero gelide e tremavano un poco. Abbassò lo
sguardo.
«No, non è nulla di preoccupante. È
solo un po' di
anemia. Il livello di ferro nel sangue è un po' basso.
È
per questo che in questi ultimi giorni sono più
stanca»,
rispose, facendo un respiro profondo e sperando di essere stata
abbastanza convincente; ma anche se aveva appena mentito a Saga, non
era stata una completa bugia. Si sentiva stanca, senza forze, eppure il
suo cuore batteva tachicardico. «Dati i miei precedenti, sono
tutti più apprensivi del necessario.»
«Te lo avevo detto che sarebbe stato meglio se ti mettevi a
letto», la rimbrottò Saga. Ma il suo tono non era
affatto
arrobbiato. Si mise seduto e le tolse un filo d'erba dai capelli.
La giovane signora Hayes abbassò la testa, girandosi un poco
e
dando le spalle al marito. Raccolse un ginocchio al petto, ma in quel
momento avvertì una profonda fitta al ventre che le
mozzò
il respiro; per sua fortuna Saga non se ne accorse.
«Dai, rientriamo in casa», le propose Saga, posando
le mani sulle sue spalle.
Si accovacciò e, in modo inaspettato per Cora, la prese in
braccio, alzandosi con un movimento fluido e senza apparente sforzo.
La giovane invece lanciò un gridolino di sorpresa.
«Aggrappati forte a me», le disse con un sorriso.
Poi, la
prese più saldamente e si incamminarono verso la villa.
Aiolos sbuffò. Avrebbe dovuto immaginare che sarebbe potuta
finire in quel modo, con i due che avrebbero continuato a fare gli
sposini innamorati. Rabbrividì a tali considerazioni e li
seguì a distanza di sicurezza, ovvero sufficiente
affinché non fosse investito dalla scia dei cuoricini
svolazzanti che si lasciavano dietro. Saga era così ottuso
quando c'era di mezzo l'amore. Sospirò rassegnato, ma subito
si
formò uno strano ghigno sulle sue labbra, perché
immaginare il momento in cui l'altro avrebbe scoperto la
verità
sarebbe stata una soddisfacente rivincita sul principino di casa Hayes.
*****
«Cosa c'è che ti dà pensiero?»
Kanon le diede le spalle, mentre si era riallacciava i pantaloni,
grugnendo qualcosa di incomprensibile; ma anche se non avesse detto
nulla sarebbe bastata l'espressione che aveva mantenuto da quando era
arrivato negli uffici della società e poi per tutto il tempo
in
cui avevano fatto sesso, per far intendere che quella mattina non era
aria.
La donna fece spallucce per il comportamento poco collaborativo
dell'altro, riabbassandosi la gonna. La rigirò un poco
–
affinché fosse di nuovo dritta e con la chiusura sul fianco
– e se la lisciò un paio di volte con le mani, per
togliere eventuali pieghe sospette. Anche se ormai tutti, negli uffici
del piano, sapevano cosa accadeva quando Kanon Hayes passava per quei
corridoi, nonostante lei facesse del suo meglio per essere discreta.
Si avvicinò alla scaffalatura di metallo dello stanzino
delle
fotocopiatrici, dove erano riposte le scatole con le scorte delle risme
di carta e quelle dei toner, e riprese gli occhiali che vi aveva
appoggiato poco prima, rimettendoseli sul naso.
«Non hai dato il tuo solito. Cos'è che ti
preoccupa
così tanto da monopolizzare i tuoi pensieri anche quando
stai
con me? Lo sai che se hai qualche problema, puoi parlarmene. Il mio
ufficio è sempre aperto», gli disse, rassettandosi
la
pettinatura.
«Preferisco quando sono le tue gambe a essere
aperte», mormorò lui.
Non gli importava di essere poco elegante nelle sue esternazioni da non
farsi sentire e quando lei gli rivolse un meritato epiteto a mezza
voce, non se la prese poi molto.
«È colpa di mio fratello»,
sbuffò,
infilandosi la camicia nei pantaloni e sistemando la cintura nei
passanti.
«Di nuovo? Povero piccolo...» disse la donna con
finta
compassione, prendendogli il viso fra le mani e dandogli un bacio sulle
labbra. Non per questo però si era risparmiata lo sguardo
risentito di Kanon.
Eleonor sorrise materna. Da quando Shion Hayes l'aveva assunta come
sostegno psicologico per i dipendenti, lei e Kanon avevano subito
intrecciato una relazione sessuale clandestina. Del resto, lei era
bella e decisamente sensuale, per essere una strizzacervelli. E, cosa
che non guastava, particolarmente sicura di sé. Insomma, era
proprio il tipo di donna che aveva sempre attirato l'attenzione
dell'erede di casa Hayes. Ma non c'era da dimenticarsi di un altro
fattore importante: da sempre, Kanon aveva una predilezione per le
donne più grandi di lui.
«E nelle questioni amorose, come vanno le cose? Ti vedi
ancora
con quella hostess? Come si chiamava, Kimberly, vero?» chiese
lei, mentre gli risistemava il nodo della cravatta.
«Che fai, dottore, vuoi psicanalizzarmi? O forse sei
gelosa?» ribatté Kanon, piegando le labbra in una
smorfia
provocatoria. «Lascia perdere.»
Le accarezzò l'angolo della bocca col pollice, dove si era
fatta
una piccola sbavatura del rossetto rosso passione che portava quel
giorno. La guardò per qualche secondo in quegli occhi
azzurro
cielo che sembravano ancora più intensi dietro le lenti
degli
occhiali e la baciò. Non era stato però un bacio
passionale, né dolce. Solo possessivo e invadente,
addirittura
rabbioso, che le tolse ogni forza e la volontà di reagire.
Quando Kanon si staccò da lei, le ginocchia della donna
cedettero e lei si dovette aggrappare alla sua camicia per non cadere a
terra.
«Tu hai qualche problema», ansimò la
donna.
Alzò lo sguardo su di lui e gli rifilò un sonoro
ceffone.
«Perdi le attenzioni di tuo fratello e allora ti comporti da
stronzo con gli altri!»
«Immagino che le nostre scopate siano finite.»
Kanon controllò l'ora sullo smartphone, commentando
distrattamente che a quel punto alla riunione dovevano aver superato la
parte più noiosa e poteva quindi presentarsi e prendere il
proprio posto. «Beh, finché è durata mi
sono
divertito. Ma ora...»
«Ora mi scarichi perché sei uno stronzo.»
“E due...” pensò Kanon, senza scomporsi.
Tanto ci
era abituato a essere etichettato in quel modo dalle donne che aveva
frequentato in quegli anni. E non poteva dar loro torto, visto che
passava da una all'altra con una frequenza tale che quasi non aveva il
tempo di chiederne il nome.
«In teoria dovrei scaricarti perché sei manesca e
continui
a darmi dello stronzo», le disse, con tono vagamente
sarcastico.
«In pratica dovrei farlo perché sono ufficialmente
fidanzato, o non te lo hanno riferito quelle chiacchierone delle
risorse umane?»
«E una cosa del genere quando mai ti fermerebbe dal farti una
bionda o una bruna, o dallo scoparmi ogniqualvolta passi per la sede di
Boston?»
Kanon non le diede corda, non aveva intenzione di iniziare una
discussione sulla fedeltà o il rispetto delle donne, che
francamente in quel momento non gli interessava. Raccolse da terra la
giacca, la sploverò con la mano per qualche secondo e,
rimettendosela addosso si apprestò a uscire.
«No, per favore, non andartene via
così!» lo
fermò lei, quando il giovane aveva già aperto la
porta.
«Lo sai che non mi piace lasciare le cose in sospeso,
perché poi si trasformano in problemi; e questi
successivamente
diventano talmente grossi che sono difficili da risolvere.»
Kanon sbuffò, appoggiandosi a una delle fotocopiatrici.
Sapeva
che lei era il tipo che non mollava l'osso e l'ultima cosa che aveva
bisogno era che si aggiungessero problemi ad altri problemi; ma forse,
poteva anche darsi che... ma sì, in fin dei conti Eleonor
era
una psicologa, magari poteva essergli di qualche utilità,
forse
avrebbe capito perché ultimamente si sentiva diverso e in
collera con il fratello.
«Saga si è sposato senza dire nulla a nessuno.
Neanche
sapevo che faceva sul serio con quella ragazza che frequentava di
nascosto. Ha così tanti segreti che non sono più
sicuro
di conoscerlo», rivelò, passandosi una mano dietro
il
collo, che avvertiva irrigidirsi con il passare dei secondi.
«Tutto qui? Sei depresso e intrattabile solo
perché tuo
fratello si è sposato? È un po' troppo tardi per
soffrire
ora della sindrome del gemello scomparso!» rispose lei, con
una
breve risata. Lui voleva drammatizzare e lei gli stava dando una sorta
di appiglio medico dal quale partire per riflettere, anche se era certa
che sarebbe stato inutile. «Datti una svegliata, caro. E
pensa a
farti una famiglia tutta tua!»
Kanon alzò lo sguardo furibondo su di lei. Non si aspettava
di
essere deriso in quel modo, poiché lui si sentiva tradito
dal
suo stesso gemello. Perché nessuno riusciva a capirlo?
«Non guardarmi in questo modo. Stai sbagliando approccio alla
cosa», continuò Eleonor. «Dimmi, quanto
della tua
vita hai condiviso con tuo fratello? Quanto gli dici delle tue
relazioni sessuali e dei tuoi veri sentimenti? E quanto invece ti sei
davvero interessato della sua vita e di ciò che prova?
Ebbene,
signor vicepresidente, quando troverai le risposte a queste domande,
troverai anche la soluzione ai tuoi patemi d'animo», gli
disse,
prima di dargli le spalle per uscire; e questa volta sarebbe stata lei
a lasciarlo lì, da solo, in quell'angusto stanzino delle
fotocopiatrici.
«Eh no, non mi lasci in questo modo!» la
fermò lui,
afferrandola per un braccio e fissandola negli occhi, respirando in
modo pensate. Lei non sembrava né impressionata,
né
spaventata e questo lo turbava. Non che fosse mai stato violento con le
donne; anzi, tutto il contrario: le faceva cadere ai suoi piedi con il
suo fascino e con la sua caratteristica galanteria sfrontata che al
gentil sesso piaceva e lusingava. Ora però si sentiva una
persona così distante da quello che era sempre stato. Lui
stesso
non si riconosceva in quel comportamento.
Eleonor non aveva alcuna intenzione di cadere nella provocazione di
Kanon. Era troppo matura e soprattutto troppo esperta nel capire le
persone per non vedere che l'atteggiamento dell'amante era dettato da
problematiche che trovavano origine lontano nel tempo. Gli
mostrò un sorriso comprensivo e si lasciò
trascinare
vicino a lui, mentre si appoggiava di nuovo alla fotocopiatrice, mesto.
Gli passò le mani fra i capelli, incoraggiandolo a spostare
indietro la testa.
«Sei rimasto ancora un bambino, vero? Quando le cose non
vanno
come vuoi tu, reagisci male», gli ussurrò con tono
materno. «Dovresti seriamente considerare l'idea di passare
dal
mio ufficio per una bella chiacchierata.»
«Lo sai, non mi piace parlare troppo. Preferisco usare il tuo
ufficio per cose più piacevoli.»
Lei gli sorrise e gli diede un bacio sulla fronte. Gli disse che anche
se fidanzato, lei ci sarebbe sempre stata per lui, sia per una scopata
veloce, sia per parlare. Poi, uscì dallo stanzino per
tornarsene
nel proprio ufficio.
*****
«Dai, lasciami scendere, ora mi sento meglio!»
esclamò Cora, con un tono di finto rimprovero.
«Voglio
camminare con le mie gambe!» insistette, scalciando con le
gambe
per indurre il suo sposo a fare come chiedeva, o quanto meno ad
ascoltarla. Le era però risultato impossibile rimanere col
broncio e soprattutto concentrata sul suo obiettivo di rimettere
finalmente i piedi a terra, poiché Saga – sordo a
tutte le
sue proteste che erano iniziate già in giardino –
continuava imperterrito a farle fare il giro turistico della casa
tenendola saldamente fra le braccia. Anzi, di tanto in tanto, con
puntiglio dispettoso la faceva sobbalzare; e lei, ogni volta, si
stringeva al suo collo con un gridolino, per poi ridere divertita.
«Basta, lasciami andare!»
«Signora Hayes, questa è solo la prova generale
per quando
ti farò fare il giro della nostra casa», le disse
Saga,
mostrandole un sorriso magnifico, che le scaldò il cuore,
facendole dimenticare per un attimo le sue tribolazioni.
Era una novità per quella casa e quella famiglia. Non era
infatti mai accaduto prima di allora che nella grande villa degli Hayes
si fossero sentite le risate di una signora Hayes. Quelle di Caroline
Miller Hayes erano forse un poco infantili, data la sua giovane
età, ma genuinamente felici. Erano un soffio di freschezza
che
si faceva largo fra il vecchiume dell'antiquariato di cui quella casa
era piena e del ricordo dell'arcigno mr Hayes che mai l'aveva lasciata.
«Mettimi giù! Mettimi giù!»
disse lei,
scoppiando di nuovo a ridere. E questa volta, sfruttando un momento di
cedimento dell'altro, riuscì a liberarsi.
Corse a piedi nudi verso l'ingresso, poiché le scarpe da
giardino che aveva calzato fino a poco prima le aveva perse, o meglio,
gliele aveva fatte togliere Saga prima di rientrare in casa, per andare
a rifugiarsi al piano di sopra; ma quando si affacciò
nell'ampio
atrio e si accorse della presenza dei due uomini, si bloccò
di
colpo.
«Presa!»
Saga la raggiunse e subito le cinse la vita, facendola sussultare dalla
sorpresa. La baciò sul collo, stringendola in un abbraccio,
ma
l'attenzione della giovane era ormai catalizzata ai due uomini che si
erano voltati verso di loro.
«Mr Price? Cosa... cosa ci fa qui?»
balbettò.
D'istinto si strinse la vestaglia addosso, colta da un improvviso senso
di imbarazzo.
«Caroline Miller», la salutò l'altro,
ugualmente
sorpreso. «Non mi aspettavo di trovarti qui. Big Phil lo sa
che
frequenti posti del genere?» disse, con un tono a
metà fra
il sarcastico e il disprezzo, indicando con la mano quel lussuoso
ambiente. Quando poi spostò lo sguardo anche su Saga,
sgranò gli occhi. Se pochi minuti prima era rimasto di
stucco
alla vista di Kanon, di fronte a Saga era praticamente impietrito,
poiché quel giovane accanto a Caroline aveva una
più
spiccata somiglianza con un uomo con il quale aveva avuto a che fare
quando era un giovane poliziotto.
«Ehi, ma quello non se n'era già
andato?»
commentò il detective Moore, dando un colpetto col gomito
all'altro.
«Salve! Voi chi siete?» disse Saga.
«Il signore è Edward Price, il titolare
dell'agenzia
investigativa nella quale lavoro», lo presentò
Cora,
indicando l'afroamericano. Nella sua mente però, si chiese
con
preoccupazione se avesse ancora o meno un lavoro.
«Detective Warren Moore, della polizia di Boston»,
si
presentò l'altro, mostrando il distintivo. «Lei
invece?»
«Saga Hayes, figlio di Shion Hayes. E lei è mia
moglie
Caroline», rispose Saga. «Polizia? È
successo
qualcosa?» domandò poi, con tono stranito.
«Siamo venuti per parlare con mr Hayes», rispose il
detective.
«È venuto anche Phillip», aggiunse
l'investigatore privato.
«Cosa?» Cora fu scossa da un brivido.
«Perché?
Quale motivo lo ha portato qui?» mormorò, come se
fosse
terrorizzata da quella notizia. Ricordava la reazione del patrigno
quando gli aveva detto che sarebbe andata a convivere; possibile che
l'uomo non si fosse dato pace e alla fine lo avesse rintracciato solo
da una fotografia? Sì, era possibile. In fin dei conti lo
zio
Phil era un bravissimo investigatore privato e non sarebbe stato strano
che avesse sfruttato i suoi agganci nella polizia per scoprire
l'identità di Saga, ma non era necessario, perché
gliene
avrebbe parlato lei quando si sarebbe sentita pronta.
Iniziò a avvertire delle fitte violente al ventre. Forse per
lo
stress improvviso della situazione, ma se invece fossero state dovute
ad altro?
«Cora, dove stai andando?»
«Di sopra, a cambiarmi. Non sta bene che sia ancora in questo
stato», rispose lei, abbassando il capo e stringendosi di
nuovo
la vestaglia addosso. La voce le uscì incerta e timorosa.
Barcollò nel fare quei pochi passi per arrivare allo
scalone. Il
dolore si stava facendo più intenso e le girava la testa.
«Ti senti bene?» chiese Saga, raggiungendola e
sfiorandole una spalla, ma lei si ritrasse, scusandosi subito dopo.
Se il giovane non ci aveva fatto troppo caso alla reazione della sua
sposa, questa non era invece sfuggita al detective Moore. L'uomo
passò il suo sguardo prima su di lei e poi su Saga, infine
ancora su Caroline. Gli era già capitato di trovarsi in
situazioni del genere: quando era ancora un semplice poliziotto di
pattuglia talvolta veniva chiamato a risolvere delle liti domestiche e
quasi tutte nascondevano dei maltrattamenti sulle mogli.
«Signora, è sicura che vada tutto bene?»
domandò Moore, frapponendo fra la giovane donna e Saga. La
fissò negli occhi e li trovò sfuggenti: ne era
certo,
stava nascondendo qualcosa.
Caroline iniziò a respirare in modo affannoso, accasciandosi
sui
primi gradini dello scalone. Alzò lo sguardo su Saga, mentre
si
stringeva le mani al ventre; i suoi occhi erano spaventati.
«Cora?» la chiamò Saga, avvicinandosi di
un passo a lei.
«Resti indietro, signore.»
«Ma...»
«Le ho detto di stare indietro!» Moore gli
intimò quell'ordine portandosi la mano alla fondina della
pistola.
«Ehi, calmati! Non c'è bisogno di alzare i toni in
questo
modo», intervenne Price. Si chinò su Caroline e le
domandò ciò che per i due uomini era evidente,
vista la
grande esperienza che potevano vantare, ma doveva comunque
accertarsene. «Perdonami, Caroline, ma devo insistere.
Permettimi...» le disse con tono rammaricato. Poi, superando
le
ritrosie della giovane, con molta delicatezza lui le slacciò
la
cintura della vestaglia e le scoprì il ventre, portando alla
vista di tutti l'enorme ecchimosi scura.
Quando notò quel segno, Moore – che aveva ancora
la mano
posata sull'arma d'ordinanza, mentre con l'altra teneva a distanza Saga
– scambiò uno sguardo d'intesa con Price e rapido
estrasse
la pistola, puntandola contro il giovane Hayes.
«Bastardo...» lo apostrofò, guardandolo
con
disprezzo. «Mettiti in ginocchio e mani sulla testa! Sei in
arresto, stronzo!» gli urlò, puntandogli la
pistola
proprio in piena faccia.
Saga rimase immobile, con gli occhi sgranati, atterrito da quella
situazione così surreale. Non riusciva a capire cosa stesse
succedendo, né come fossero arrivati a quel punto. Sentiva
Caroline piangere e gridare qualcosa, ma non riusciva ad afferrarne il
senso, poiché la voce della giovane era sovrastata da quella
del
poliziotto che continuava a minacciarlo e a dargli ordini.
Provò
ad avvicinarsi a lei, ma all'improvviso avvertì un forte
dolore
alla testa e cadde a terra.
«Che diavolo stai facendo, Moore?» urlò
Price, trattenendo Caroline che voleva raggiungere Saga.
«Hai il diritto di rimanere in silenzio, qualunque cosa dirai
potrà essere usata contro di te in tribunale. Hai il diritto
a
chiamare un avvocato, se non puoi permettertelo te ne verrà
assegnato uno d'ufficio. Hai compreso i tuoi diritti?» Mentre
elencava i suoi diritti a Saga, Moore lo costringeva a terra e gli
ammanettava le mani dietro la schiena. Poi, si avvicinò al
suo
orecchio. «Dammi un buon motivo per darti una bella
lezione», lo provocò, facendogli sbattere la testa
contro
il pavimento.
«Lo lasci andare! Lo lasci andare! Saga non ha fatto
niente!» continuava a gridare con disperazione Caroline.
«Aiolos! Ti prego, aiutalo! Aiutalo!» si rivolse
all'altro,
non appena lo vide.
«Ma che...» Aiolos non ci mise molto a inquadrare
la
situazione, avendone vissuta una molto simile solo pochi mesi prima.
Corse subito verso Saga, per aiutarlo, ma anche lui fu bloccato dal
detective che gli intimò di fermarsi, puntandogli l'arma
contro,
mentre con un ginocchio teneva il rampollo degli Hayes premuto a terra.
Strinse le mani a pugno: era così vicino all'amico ma non
poteva
fare nulla per lui a parte rimanere a guardarlo mentre veniva costretto
in una posizione sottomessa. Sentiva una grande frustrazione e una gran
rabbia, perché anche lui aveva conosciuto quel tipo di
umiliazione che ora stava sperimentando Saga.
Le grida dei presenti avevano richiamato nell'ingresso anche le altre
persone che abitavano la casa. Da un'altra entrata arrivarono Nanny e
Francine.
«Stai indietro, nonna!» urlò Aiolos,
spostandosi di
lato per frapporsi tra lei e il poliziotto, poiché l'uomo
iniziava a dare eccessivi segni di nervosismo, alzando l'arma anche
contro le due donne.
«Basta così, Moore!» lo riprese Price,
nel momento
stesso in cui accorrevano anche Burton e Shion Hayes, seguiti da Shura.
«Ed, che diavolo sta succedendo qui?» disse Phillip
Burton.
Osservò la situazione e, con piglio deciso,
ordinò a
Moore di riporre la pistola, ma questi non gli diede retta.
«Ragazzo, metti subito via quella pistola! Non fartelo
ripetere
un'altra volta!» intervenne Price, sovraponendosi alla sua
voce
dell'ex capitano.
Burton vide la figlioccia in lacrime, seduta sui gradini.
«Caroline! Stai bene?» le chiese, inginocchiandosi
di
fronte a lei e stringendola in un abbraccio. «Ed,
spiegami!» si rivolse all'altro, mentre Shion e Shura avevano
subito raggiunto Saga, rimasto rannicchiato a terra, tremante e con lo
sguardo vacuo.
Shion provò ad accarezzargli una guancia, la sua pelle era
gelida e pallida come quella di un fantasma. Lo aiutò a
mettersi
seduto e poi tentò di abbracciarlo, ma Saga lo
scacciò
con uno scatto rabbioso.
«Scusami, Phil, quello ha perso la testa dopo che ha visto la
ragazza in quelle condizioni», disse Price.
«Hanno visto il livido, zio Phil. E poi... e poi è
successo tutto così in fretta che io... Mi
dispiace»,
pianse Cora, con il viso nascosto nel petto dell'uomo.
«Bambina mia», le sussurrò lui,
accarezzandola sulla
testa. «Ed, libera quel giovanotto. Non le ha fatto niente.
Caroline ha avuto un piccolo incidente quando era a
Philadelphia.»
«Sempre violenti voi della polizia, vero? Non cambierete
mai», spuntò con disprezzo Shura.
«Mi dispiace per il tuo ragazzo, Hayes», si
scusò
Burton, con tono sincero. Poi, si rivolse di nuovo a Caroline.
«Tua madre ha sbagliato ha lasciarti partire, dopo quanto ti
è successo. Vieni, tesoro, ti riporto a casa con me. Ti
riporto
a Philadelphia.»
«No, zio Phil! Non voglio!» disse lei, scrollando
la testa.
«Ma sii ragionevole! Avevi promesso a tua madre che ti
saresti
presa cura di te stessa. Invece non stai bene. E di certo non
migliorerai con tutto questo stress», insistette l'uomo.
«Dopo l'aborto...»
«Smettila! Smettila!» gridò lei,
terrorizzata.
Spostò il suo sguardo su Saga, sperando non avesse sentito
quelle parole, invece lui la stava fissando sconvolto.
Caroline provò ad alzarsi, ma le fitte al ventre stavano
diventando più forti e insistenti. Le sue gambe erano preda
di
forti tremori e lei ricadde sul gradino. Trattenne il respiro per il
forte spasmo che aveva sentito.
«Caroline.»
«Ce la faccio», disse lei, rifiutando l'aiuto di
Phillip.
«Vado di sopra a cambiarmi e poi...» si
girò per un
momento verso Saga, che invece si era chiuso in se stesso. Si morse il
labbro, abbassando lo sguardo.
«Aiolos» disse Saga, in un sussurro.
Aiolos gli mise una mano sulla spalla. «Ci penso
io», disse, senza aggiungere altro.
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Capitolo 29 *** Capitolo XXVIII ***
XXVIII
Aiolos non era di certo un sensitivo, ma lo aveva predetto che molto
presto sulla famiglia Hayes sarebbero piovuti guai. Che poi sarebbe
toccato a lui rimediare, sopratutto se questi guai riguardavano da
vicino uno dei gemelli – Saga in particolare –,
anche
questo era abbastanza prevedibile, così come il senso di
fastidio che lo avrebbe accompagnato. Eppure, quando era stato tirato
in causa, aveva accettato senza pensarci un attimo; ma piuttosto che
ammettere a voce alta che lo faceva perché era stato proprio
Saga a chiederglierlo, si sarebbe fatto castrare. E senza anestesia! E
ora, a distanza di neanche un giorno, si ritrovava ancora una volta
invischiato nelle vicende sentimentali di quei due impiastri.
Con qualche difficoltà riuscì a inserire e girare
la
chiave nella serratura della porta d'ingresso. Una mano era occupata a
tenere due grosse borse della spesa, mentre sulla spalla destra reggeva
la tracolla del trasportino della gattina che al suo interno si stava
agitando.
«Un'altra femmina Hayes...» sbuffò,
alzando gli
occhi al cielo; ma ciò che intendeva dire era:
“altri
grattacapi”. Non era mai andato matto per gli animali,
specialmente i felini, troppo imprevedibili per i suoi gusti; e quel
felino in particolare pareva rispecchiare in tutti i sensi i suoi due
padroni. «E stai buona, accidenti!»
sbottò, facendo
un mezzo movimento con la spalla.
Aveva la sensazione che la gattina, nel continuare a muoversi, grattare
e spostarsi da un lato all'altro del trasportino, gli facesse scivolare
la tracolla giù dalla spalla e, nel cercare di tenerla
più stabile, perdere gradualmente la presa sulle buste della
spesa.
Dopo aver ritirato la chiave – ed essersela anche quasi
lasciata
sfuggire dalla mano –, con il piede diede una leggera spinta
alla
porta, riuscendo finalmente a entrare in casa. Quando aveva
accompagnato Caroline non ci aveva fatto caso. Ora invece, stava
subendo in pieno l'impatto con quell'ambiente e si sorprese dei
cambiamenti radicali che vi erano stati fatti. Se prima dimostrava
tutti i “suoi anni”, ora aveva completamente
cambiato
pelle. Niente più predominanza di legno scuro, carte da
parati
vecchie e tinte opprimenti, ma tanto bianco, alluminio e macchie di
colore qua e là, che finalmente avevano fatto entrare quel
vecchio appartamento nel terzo millennio.
Mentre si dirigeva verso la cucina studiò con lo sguardo il
nuovo arredamento e la sua disposizione. Forse adesso la casa era
persino troppo moderna. Però doveva ammettere che Saga aveva
un
ottimo gusto per il design; era un aspetto che non conosceva e che mai
si sarebbe aspettato da uno come lui. Rallentò il passo,
sovrappensiero. Fece appena in tempo a posare le buste della spesa sul
piano in granito scuro dell'isola, prima che queste – o Kitty
– gli scivolassero dalle mani per atterrare poco
delicatamente a
terra. Sbuffò nel liberarsi del trasportino, posando
anch'esso
sul piano di lavoro, accanto alla spesa. Al suo interno, la bestiola
era forse più insofferente di lui per quella situazione:
continuava a girare su se stessa come se volesse catturarsi la coda, si
ribaltava prima da un lato e poi dall'altro e grattava forsennata,
incastrandosi più volte nella stoffa trapuntata con le
unghiette. Dall'esterno, il trasportino sembrava muoversi indemoniato.
Aiolos si chinò un poco all'altezza della grata metallica
posta
sul lato corto e sogghignò nel sorprenderla in una posizione
contorta e imbarazzante. Anche lei lo guardava fissa, a occhi sgranati:
con la testa piegata sul fondo, il sedere per aria e le zampette
posteriori che si muovevano a scatti, faticando a toccare il
materassino interno.
Per qualche momento si divertì a stuzzicarla dando dei
colpetti
con la mano, o battendo l'unghia dell'indice sulla grata. Giudicando
poi che il felino aveva “sofferto” abbastanza, si
raddrizzò e, con un gesto rapido, aprì la zip
sulla parte
superiore. Poi, con tono di sufficienza, le disse che era libera,
esortandola a uscire da lì dando un altro colpetto al lato
del
trasportino.
Kitty si ribaltò un'ultima volta, si rimise in piedi e
sbucò fuori con la testa, drizzando le orecchie. Le sue
pupille
si restrinsero subito in due fessure, lasciando spazio al colore
ambrato delle iridi. Uno, due tentativi, che a occhi inesperti potevano
sembrare tentennamenti impauriti. Invece, con un balzo elegante
saltò fuori, atterrando flessuosa sul piano di granito. Per
un
attimo fiustò gli odori circostanti, attirata soprattutto
dagli
alimenti nelle buste lì vicino. Infine, si
avvicinò al
bordo del piano dell'isola e, allungandosi verso il basso, si
lasciò cadere, atterrando sul pavimento di parquet scuro in
modo
perfetto. Si diede due leccate sul fianco in modo nervoso e corse via,
verso la camera da letto. Era come se, nonostante il poco tempo
trascorso in quella casa, tutti quei cambiamenti e l'odore stesso
dell'ambiente, che non era più lo stesso di prima, lei
sapesse
comunque di essere tornata finalmente a casa.
Il giovane la seguì con lo sguardo per un po',
finché lei
non sparì dalla sua vista, distraendosi con la divertente
idea
che Saga avrebbe avuto il suo bel da fare con quella bestiola; e le sue
labbra si piegarono in uno strambo sorriso. Peccato non sapesse quanto
in realtà l'oggetto del suo scherno avesse una naturale
sintonia
con Kitty. Poco dopo però la sua fronte si
corrugò: la
casa gli sembrava troppo silenziosa.
«Caroline!» chiamò, con tono severo.
Nessuna
risposta. Sbuffò, commentando che non aveva voglia di starle
dietro e farle da babysitter. «Caroline, ci sei?»
riprovò, ma subito si diede dell'idiota. Era improbabile che
nel
poco tempo nel quale si era assentato – e soprattutto nelle
precarie condizioni in cui si trovava la ragazza, che a quel punto
erano più emotive che fisiche – fosse potuta
uscire di
casa.
Scrollò la testa, enfatizzando quel suo stato d'animo con un
eloquente gesto della mano e si mise a sistemare la spesa nel
frigorifero e nei vari armadietti. Gli ci vollero diversi tentativi per
trovare la collocazione giusta per ogni acquisto. Non che avesse preso
chissà che, giusto le cose essenziali per un paio di giorni
e
qualcosa di già pronto, affinché la giovane
potesse
riprendersi con tranquillità e non dovesse pensare anche a
prepararsi da mangiare. Chiudendo l'antina dell'armadietto si
fermò di nuovo, tendendo le orecchie, ma gli unici rumori
che
ora si sentivano erano quelli del leggero grattare di Kitty sulla porta
e i suoi miagolii incompleti.
«Davvero buffo come in realtà siano
così diversi da
come ci fanno credere da bambini», commentò.
I richiami della gattina si stavano facendo via via più
insistenti e rumorosi, irritanti per uno con così poca
pazienza
come lui. Sbuffò per l'ennesima volta e si diresse alla
camera
da letto padronale.
«Smettila! Sciò! Via di qui!» la
rimproverò,
provando a smuoverla dalla sua posizione con il piede. Kitty
però, seduta a terra e con una zampetta pronta a grattare
ancora
sulla porta, alzò il musetto verso di lui e lo
guardò con
occhi sgranati, ma senza alcun timore. Sbadigliò e, subito
dopo,
la sua attenzione tornò alla porta, riprendendo a muovere la
zampetta, anche se questa volta erano colpetti leggeri come carezze.
«Non riesco a farmi dare retta neanche da te...»
grugnì, scrollando la testa.
Bussò un paio di volte con le nocche e chiamò
Caroline,
cercando di essere discreto, ma di nuovo non ricevette risposta. Allora
aprì piano, uno spiraglio, facendo capolino all'interno
della
camera con la testa. E Kitty ne approfittò per intrufolarsi
dentro, balzando sul letto e acciambellandosi fra i cuscini. La camera
era vuota, immersa nel tenue chiarore della tenda color avorio che
smorzava la luce del sole pomeridiano; le coperte erano ancora
perfettamente lisce e ben tirate, persino il plaid ripiegato per bene
sul fondo del letto. Borbottò qualcosa, mentre lasciava la
porta
socchiusa, cosicché la bestiola non rimanesse prigioniera e
non
combinasse guai.
Tornò in cucina. Da uno scomparto laterale del trasportino
estrasse due ciotole di metallo, messe una dentro l'altra, e le
sistemò a terra, vicino alla finestra. Una la
riempì di
acqua fresca presa dal rubinettoo, nell'altra vi versò un
paio
di manciate di croccantini. Se con quel rumore avesse attirato Kitty in
cucina, tanto meglio, altrimenti avrebbe mangiato quando ne avrebbe
avuto voglia.
Riaprì l'armadietto nel quale poco prima aveva ritirato una
confezione di cookies e se n'era preso uno, come ricompensa per quella
perdita di tempo, prima di passare nel salotto. Se Caroline non era nel
suo letto, allora era rimasta sul divano, dove lui l'aveva lasciata
prima di uscire per le commissioni. E infatti la ritrovò
proprio
lì, sdraiata – o meglio rannicchiata –
sul divano,
con il viso pallido e le guance ancora umide di lacrime.
«Caroline» Provò a smuoverla con
delicatezza, ma lei
sembrava così sfinita tanto da dormire profondamente.
Sbuffò. Certe cose lo rendevano più insofferente
del
solito; e vedere una donna prostrata come lo era Caroline in quel
momento, gli dava ancora più fastidio, poiché gli
ricordava sua madre – quando lui era solo un bambino
– che
piangeva ogni volta che Thomas le comunicava che sarebbe stato
trasferito in un'altra base, più lontana da Boston. E lei
andava
a sfogarsi dalla nonna e a piangere sul divano di casa Hayes, fino ad
addormentarsi.
Aiolos scrollò la testa e si chinò sulla giovane
moglie
di Saga. Se la caricò in braccio e la portò in
camera,
posandola sul letto e coprendola infine con il plaid. Le concesse un
ultimo sguardo, mentre si massaggiava piano la spalla infortunata,
prima di uscire dalla stanza: non capiva cosa lui ci trovasse in lei, o
forse, quello che non capiva era cosa gli uomini in generale ci
trovassero nelle donne. Prese lo smartphone dalla tasca dei pantaloni
e, nel socchiudere di nuovo la porta, compose il numero della madre.
Con tutto quel movimento Kitty mosse a malapena un orecchio,
continuando a dormire tranquilla, mentre Cora si lamentava in modo
sommesso e si girava stancamente sul fianco sinistro.
*****
Avrebbe dovuto prendere e andarsene da lì. Il suo dovere
l'aveva
fatto, così come aveva promesso all'amico. Invece era
rimasto in
quella casa, passando il tempo a esplorarla – di nuovo
– e
successivamente a leggere, seduto comodo sul divano del salotto. Era
stato così assorto nella lettura che non si era accorto che
il
sole era ormai calato oltre le case e la luce stava andando
affievolendosi rapidamente.
Con un gesto secco richiuse il libro senza mettere un segno: tanto non
lo avrebbe più ripreso in futuro. Prima di alzarsi dal
divano
girò lo guardo verso la camera da letto dove Caroline
riposava
ancora, o così almeno ne era convinto lui.
Controllò
l'ora, borbottando che era quasi il tempo della cena. Si
grattò
la nuca, sbottando un “ma che diavolo!” e alzandosi
da
lì. Non perse tempo a pensare alle conseguenze della sua
permanenza nella casa di una donna sposata; le sue gambe lo avevano
già portato in cucina, di fronte al frigorifero, con la mano
che
ne stringeva la maniglia. Con un movimento svogliato lo aprì
e
tirò fuori la porzione di zuppa di pollo che si era fatto
fare
al ristorante cinese, mentre era sulla via del ritorno verso
l'appartamento sopra il negozio. Tutti dicevano che era un toccasana
per quando non si stava bene e ci si doveva tirar su, quantomeno dal
punto di vista fisico. La versò in una scodella e la
scaldò al microonde per un minuto circa.
Quando si presentò nella camera di Caroline, con entrambe le
mani occupate da un vassoio per la colazione a letto, Aiolos la
trovò che parlottava con la gattina, la stuzzicava con il
dito e
la guardava con occhi tristi. Lei era ancora sdraiata sul fianco e non
aveva accennato a muoversi neanche quando la porta cigolò un
poco nell'aprirsi.
«Ti senti un po' meglio?» le chiese, mentre faceva
il giro
del letto. Attese che lei si raddrizzasse e si sedesse, prima di
sistemarle il vassoio sulle gambe.
«Non ho fame...» sospirò lei, tornando a
guardare
Kitty che invece, distratta dal profumo della zuppa di pollo, si era
ben presto dimenticata del gioco.
«Lo diceva anche mia madre quando stava nelle tue stesse
condizioni», ribatté Aiolos, per nulla
impietosito. Anzi,
le parole di Cora lo aveva infastidito e non fece nulla per dissimulare
ciò che provava. «Per il gelato però di
fame ne
aveva eccome! E ne divorava barattoli interi», aggiunse,
svelando
da sotto il tovagliolo una confezione alla crema variegata allo
sciroppo all'amarena e con pezzi di frutta candita.
«È uno dei miei gusti preferiti! Ma come
hai...»
Aiolos alzò gli occhi al cielo e fece per andarsene; non
aveva
affatto voglia di fare conversazione. «La zuppa non darla al
gatto, devi mangiarla tu!» si limitò a dire. Era
già con un piede oltre la soglia, ma si fermò,
appoggiando la mano allo stipite della porta e voltandosi verso
Caroline. Si era giusto appena raccomandato, invece lei aveva lasciato
che Kitty salisse sul vassoio e allungasse il musetto fin dentro la
scodella, limindosi a lisciarla sul dorso un paio di volte. Allora,
fece dietro front, prese la gattina con una mano e si sedette sul bordo
del letto, rimanendo in silenzio a guardarla.
Caroline corrugò la fronte, squadrandolo per qualche
secondo:
non le piaceva quel tipo di intromissione da mamma preoccupata,
soprattutto in un momento difficile come quello che stava passando e in
cui l'unica cosa che voleva era essere lasciata sola. Però
doveva ammettere che Aiolos in quegli ultimi giorni aveva fatto tanto
per lei. Nonostante non perdesse occasione di dimostrarle la sua
antipatia, le era stato vicino come un buon amico. Si passò
una
mano sugli occhi e, dopo qualche altro momento di indugio,
iniziò a mangiare timidamente la zuppa tiepida.
«Perché fai tutto questo per me?»
«Perché non può farlo lui»,
rispose serafico
Aiolos, lisciando il morbido pelo corto della gattina. In quel momento
sembrava uno dei cattivi dei film di James Bond.
Caroline respirò stanca. Non aveva una gran voglia di
parlare,
ma allo stesso tempo sentiva che il silenzio che si stava creato in
quella stanza sarebbe stato peggio, troppo pesante da sopportare. Si
portò di nuovo il cucchiaio alla bocca, mentre il ragazzo si
alzava dal fondo del letto e faceva uscire Kitty, borbottando che
l'ultima cosa che voleva era farsi riempire i vestiti di pelo,
così come farsi rovinare le mani dalle unghiette affilate di
una
pantera in miniatura che aveva già cercato di affondare
nella
sua pelle. Poi, nello stesso momento in cui immergeva ancora una volta
il cucchiaio nella zuppa, d'improvviso la stanza si fece più
luminosa. Solo allora lei si rese conto di come la camera da letto
fosse diversa; e i suoi occhi – stanchi e gonfi per il troppo
pianto – si velarono di nuove lacrime. Tutto l'ambiente le
ricordava la camera dal letto che lei stessa aveva sistemato quando
aveva ristrutturato il bilocale nella palazzina di Dohko, quando aveva
fatto ritorno alla sua Boston: con un'elegante sfumatura di grigio
perla alle pareti e i mobili chiari, di un bel bianco avorio
antichizzato; l'unica vera differenza che balzava all'occhio
– se
non si considerava il lavoro professionale rispetto a quello che aveva
fatto lei – erano le tende alla finestra, anch'esse bianche
avorio e non più rosa antico. Saga evidentemente aveva fatto
tutto quel lavoro per lei. Le sue labbra si piegarono in un sorriso
triste.
Come doveva considerare quel gesto alla luce di ciò che era
successo quel giorno?
Le cose erano precipitate così tanto che ora non sapeva cosa
le
avrebbe riservato il futuro. Davanti agli occhi vedeva ancora la
reazione di Saga quando aveva scoperto il suo segreto; come avesse
distolto lo sguardo da lei, neanche avesse provato ribrezzo. E, nel
ricordare ciò, avvertì un tremito attraversarle
il corpo.
Spostò il vassoio un poco di lato e si sedette sul bordo del
letto, provando a fare un respiro profondo. Inevitabilmente le si
spezzò in gola.
«Cos'hai intenzione di fare? Dove pensi di andare?»
«Devo prepararmi una borsa e cercarmi una camera in qualche
albergo. Non credo di poter più rimanere qui»,
rispose
Cora, fissando i suoi piedi.
«E perché mai?» ribatté
Aiolos. Si potevano
contare sulle dita di una mano le volte in cui era rimasto davvero
sorpreso in vita sua e quella era una di quelle volte.
«Dopo quanto è successo...»
mormorò lei,
tormentandosi il labbro per trattenere le lacrime, stringendo la mano
sul bordo del materasso.
«Ma la casa è tua! Saga l'ha intestata a tuo nome
quando hanno terminato i lavori!» eslamò Aiolos.
«Cosa?» Caroline alzò la testa di
scatto, fissando
Aiolos a occhi sgranati e un'espressione stupefatta sul viso.
Aiolos accennò un mezzo sorriso un po' supponente, mentre
incrociava le braccia al petto e si metteva in posa, appoggiato con la
schiena allo stipite della porta. La sua intenzione era quella di
mostrare alla donna una grande sicurezza per ciò che aveva
appena asserito e farle credere che avesse partecipato attivamente alla
faccenda. Di certo non poteva raccontarle la verità, ovvero
che
quel pomeriggio si era divertito a frugare qua e là per
l'appartamento e che nella cassaforte a parete, che aveva scovato
dietro un pannello di legno e che doveva essere un elemento originale
degli anni '30, aveva trovato i documenti della casa e altre carte
interessanti, come il certificato di matrimonio e la lettera di un
avvocato di uno studio legale di Philadelphia, il quale comunicava a
Caroline che dal 30 maggio del corrente anno, al compimento del suo
ventiquattresimo anno di età, avrebbe avuto libero accesso
al
suo fondo fiduciario che ammotava a poco più di cinque
milioni
di dollari.
Forse, dopotutto, su di lei poteva anche essersi sbagliato. Quando
aveva conosciuto Caroline – e saputo chi stava frequentando
– gli era scattato un campanello d'allarme. Per come era
comparsa
all'improvviso nella vita di Saga, per come lo aveva cambiato e legato
a sé. Persino la gravidanza e tutta la sceneggiata della
sorpresa per un breve istante l'aveva considerata come una manovra
astuta. Sembravano tutti segnali inequivocabili di una in cerca di
soldi. Solo il dolore e lo strazio che poi aveva visto nella ragazza,
gli aveva fatto cambiare idea. Quelli non avrebbe mai potuto simularli.
Ora, con le nuove informazioni che aveva appreso, comprese che non
aveva capito nulla di Caroline, poiché non aveva bisogno del
denaro della famiglia Hayes, essendo lei stessa ricca e figlia di una
celebrità. Però... anche così Saga era
un partito
che faceva gola a tutti.
«Questo vuol dire che posso rimanere?» chiese
Caroline, con voce incerta.
«Per quel che importa a me, puoi fare ciò che
vuoi»,
le rispose il ragazzo, con il suo solito tono di sufficienza.
«Ma
Saga vorrebbe saperti sistemata in modo adeguato. E soprattutto, che tu
stessi bene.»
Cora si lasciò scivolare addosso la prima affermazione di
Aiolos, poiché tutto sommato l'antipatia era reciproca, ma
le
parole seguenti invece fecero presa sulla sua fragilità.
Respirò profondamente, chiudendo gli occhi per un istante.
Quando li riaprì si rattristò nel vedere che il
bel
vestito da cocktail che le aveva regalato la madre era tutto
spiegazzato. Quasi voleva piangere per quel pensiero così
superficiale. Ma probabilmente, per come si sentiva, avrebbe pianto per
qualsiasi cosa. Si passò una mano sugli occhi, per
nascondere
una lacrima intrappolata fra le ciglia. Inspirò –
lo fece
in modo così prolungato che le sembrò di essere
arrivata
al limite dei suoi polmoni – ed espirò piano, con
lentezza
quasi esasperata, come se in quel modo tutto potesse passare. La
sofferenza che provava però era ancora lì. Si
appoggiò di nuovo con la schiena alla testata del letto e
riavvicinò il vassoio a sé. Ora si sentiva un
poco
più calma e l'appetito stava dando segni di risveglio: la
zuppa
di pollo non era poi così male.
Aiolos si rilassò nel vederla riprendere a mangiare, un
cucchiaio alla volta. Il paragone con Georgina gli era venuto naturale:
al contrario di quanto faceva a suo tempo sua madre, Caroline stava
provando a reagire. Dunque, quel gelato se l'era guadagnato. Con voce
pacata le disse che ora la sua presenza lì non serviva
più e che quindi se ne tornava a casa. Gli parve di vedere
da
parte della ragazza un sospiro di sollievo e sogghignò.
Mentre
si girava, per uscire dalla stanza, un fulmine nero gli
passò
fra le gambe e lo fece incespicare e borbottare maledizioni
irripetibili. Quando si girò di nuovo, vide la bestia
già
sul letto.
«Dovresti metterle un campanellino al collo»,
ringhiò.
Cora non lo sentì neanche, stupita di come Kitty forse corsa
da
lei e che ora le stesse chiedendo qualche carezza toccandole la mano
con il muso.
«Sembra sia diventata più socievole»,
disse,
accennando un sorriso ed esaudendo la richiesta della gattina. Le
faceva uno strano effetto essere finalmente in confidenza con quella
piccola palla di pelo che coincideva però con la separazione
da
Saga.
«Forse aveva solo bisogno di abituarsi alle
persone»,
considerò Aiolos, passandosi le mani fra i ricci castani,
per
ritrovare una certa compostezza.
«Non ha avuto bisogno di abituarsi a Saga. Con lui
è stato amore a prima vista.»
«Come capita a tutti», replicò Aiolos.
«Come capita a tutti...» ripeté lei; e
nel fare
quella considerazione, ancora una volta le labbra di Cora si erano
piegate in un sorriso che però non esprimeva
felicità, ma
una straziante tristezza.
Scansò la zuppa e passò al gelato. Lo
assaggiò,
stava già diventando troppo morbido, e allora
pensò che
assieme non ci sarebbero stati male dei cookies sbriciolati, magari
alle noci; oppure potevano andare bene anche i cereali al cioccolato,
quelli per la colazione. Dopo il secondo cucchiaino lo posò
accanto alla zuppa. Improvvisamente le si era chiuso lo stomaco.
Sentiva che le stavano venendo i crampi e, quando con la mano si
toccò il ventre, i suoi occhi si riempirono di nuove lacrime
che
questa volta non riuscì a trattenere.
«Scusami», sussurrò, passandosi le mani
sugli occhi per asciugarli.
«Perché non ti prendi qualche giorno di vacanza e
te ne
vai da qualche parte?» le propose Aiolos. Nella sua voce non
c'era alcuna intonazione particolare e, di certo, alcuna intenzione di
essere malevolo.
«E dove dovrei andare? Non mi va di tornare a Philadelphia:
mi tratterebbero come un fragile ninnolo di vetro.»
«Non c'è un posto che ti piacerebbe
visitare?» insistette lui.
Caroline sospirò, abbassando lo sguardo. Non ci aveva mai
riflettuto seriamente: vacanze e viaggi non erano fra le cose
importanti a cui pensare. Aveva incanalato i suoi sogni e le sue
speranze al raggiungimento di un unico obiettivo: ritornare a Boston,
la sua città, la città di suo padre. Ora ci era
riuscita;
ed era andata anche al di là delle sue aspettative. Aveva
trovato l'amore, una nuova casa, una nuova vita, una famiglia. Non
c'era stato tempo per crearsi nuovi desideri, aveva già
tutto
ciò che si potesse desiderare. Scrollò la testa e
si
distese di nuovo sul letto, girandosi sul fianco, senza dargli una
risposta vera e propria.
Aiolos scrollò la testa a sua volta. Ora sì che
riconosceva pienamente quei sintomi e non ci teneva a rimanerci
immischiato. Ma, contrariamente a quanto gli diceva l'istinto, era
già accanto a lei, seduto sul bordo del letto e con la
scodella
di zuppa di pollo, ormai fredda, in mano.
«Smettila di fare la vittima e finisci di
mangiare», le
disse con voce dura, obbligandola praticamente a rimettersi seduta.
«Ti conviene, perché prima finisci, prima ti
liberi di
me.»
*****
Toc toc
La giovane bussò discretamente alla porta della camera da
letto.
Come per gli altri abitanti della casa, anche lei era stata contagiata
dall'atmosfera lugubre che aveva avvolto la villa. Ancora, dopo quasi
tre giorni, tutti sembravano camminare sulle uova e stavano attenti a
ciò che dicevano.
Toc toc
Doveva ammettere che si sentiva a disagio nell'insistere in quel modo.
Le era stato detto che Saga passava quasi tutto il tempo chiuso nella
sua stanza ed era preoccupata. Trattenne il respiro, tormentandosi un
labbro. Si guardò attorno, mentre posava incerta la mano
sulla
maniglia. Per un momento le venne il batticuore. Sapeva che non stava
bene entrare nella camera da letto di un uomo, soprattutto se questo
era il fratello del suo fidanzato, ma cosa doveva fare?
Girò piano la maniglia e aprì uno spiraglio: la
stanza
era completamente al buio, ma al suo interno sentì una voce
bisbigliare.
«È permesso?» disse con voce tremante,
facendo capolino all'interno.
I suoi occhi non erano abituati a quell'oscurità e vedeva
solo vaghe ombre.
«Vieni avanti, cara, accomodati pure», la
invitò Nanny.
Saori trovò la donna seduta sul bordo del letto e le dava le
spalle, mentre, rannicchiato al centro, c'era Saga.
«Come sta?» chiese lei, timidamente. In quei
giorni, senza
il suo tutor che le faceva lezione, si sentiva un pesce fuor d'acqua e
messa in disparte; come se il lasciare la suite al Country Club per
trasferirsi alla villa non fosse stato già abbastanza
straniante, la villa stessa era avvolta da un'atmosfera surreale. Aveva
capito subito che era successo qualcosa, ma non era riuscita ad
afferrare cosa. Aveva raccolto solo mezze voci da parte delle
cameriere, ma forse, a causa delle differenze linguistiche, non era
sicura di aver compreso bene. Rimase in disparte, ferma accanto alla
porta, a osservare l'anziana governante nella sua opera di
convincimento.
«Tesoro mio, non puoi continuare così, guarda come
ti stai
riducendo. Non puoi bere in questo modo, non ci sei abituato e non ti
fa bene», disse Nanny, con voce calma e materna,
accarezzandogli
una guancia. Era pallida e fredda. «Devi anche mangiare
qualcosa.
Fallo per me», lo pregò.
Da quasi un'ora era lì, che cercava di persuaderlo a
scendere a
mangiare. A nulla era valso provare a prenderlo per la gola, dicendogli
che in cucina c'era una fetta gigante di Boston cream pie –
la
sua preferita – che aspettava solo lui. Sospirò:
conosceva
fin troppo bene l'infantile testardaggine del suo ragazzo. In parte ne
era responsabile lei, perché quando era più
giovane gli
aveva permesso di fare come voleva; ma Saga non era più quel
bambino. Ora che si era presentato alla famiglia come un uomo sposato,
con tutte le intenzioni di lasciare il nido per intraprendere un nuovo
cammino, doveva dimostrare di sapersi prendere certe
responsabilità. E fino a quel momento non c'era riuscito un
granché, rifugiandosi alla prima occasione nel falso
conforto
della bottiglia.
«So che ti senti ferito e spaurito per ciò che
è
successo; e soprattutto, che ti è difficile comprendere
quello
che è accaduto in seguito», disse la donna,
provando ad
accarezzargli la testa. Le era facile condividere il dolore e la
disperazione che lui stava provando, così come poteva
comprendere – senza bisogno di parole – il dolore
di
Caroline.
«Posso fare qualcosa?» chiese Saori, avvicinandosi
di
qualche passo. Anche lei era stata contagiata dalla tristezza che
aleggiava in casa e avrebbe voluto rendersi utile in qualche modo, ma
non osava fare di più. Sussultò per la reazione
di Saga
che, con un movimento brusco, aveva allontanato la mano di Nanny,
alzando al tempo stesso la testa e guardandola con durezza. Lo vide
tenere le labbra strette in modo capriccioso, i suoi occhi erano
arrossati, lucidi, annebbiati dall'alcol. Sembrava un bambino in
lacrime.
«Siete proprio fatti l'uno per l'altra!»
sbottò
Aiolos, sbucando fuori dalla cabina armadio che avevano in comune i due
gemelli. Era passato dalla camera di Kanon per non farsi notare. In
mano teneva un piccolo trolley che aveva già riempito con il
necessario per un breve viaggio di qualche giorno.
Lo posò malamente sul letto, sotto lo sguardo ancora
rabbioso di Saga e quello invece più perplesso di Nanny.
«Entrambi riuscite a drammatizzare e complicare la situazione
più del necessario.»
«Aiolos, cosa stai dicendo?» provò a
farlo smettere la donna.
«Lasciami parlare, nonna. È ora che il principino
si
svegli e la smetta di fare la vittima», rispose con disprezzo
Aiolos. «Cos'è che ti fa sentire così,
Saga? Il
fatto di essere stato sottomesso da un idiota di poliziotto che non
vedeva l'ora di rivalersi su una persona ricca, oppure di essere stato
tradito dalla persona che ami?» gli chiese, con un mezzo
sorriso
di scherno sulle labbra.
«Non dire queste cose, Aiolos! Tu non sai di cosa stai
parlando», lo rimproverò Nanny, minacciandolo di
dargli
una sonora sculacciata.
«No, nonna, invece so benissimo di cosa sto parlando. Sono
stato
io a portare Caroline Miller in ospedale, quando ero a Philadelphia.
Ero presente quando le è stata comunicata la notizia della
gravidanza e quando poi è crollata a terra, prima di essere
operata d'urgenza. Ed ero sempre là, assieme alla madre,
quando
si è risvegliata dall'anestesia e si è resa conto
di cosa
le era successo.»
Saga scrollava lentamente la testa, mentre Aiolos raccontava,
mormorando in continuazione dei “non è
vero”,
nascondendo il viso dietro le ginocchia raccolte al petto.
«Tesoro mio», disse Nanny. Questa volta lui non si
sottrasse e la vecchia governante riuscì ad abbracciarlo,
accarezzandogli la testa e sussurrandogli parole di conforto. Lo
sentiva piangere in silenzio.
«Non rimanere qui nella tua tana a farti compatire da
tutti», lo rimproverò Aiolos, in tono brutale.
«Ti
ho fatto mettere a disposizione l'aereo della società per
domattina. Da ora in avanti i vostri casini ve li risolverete da
soli», disse, sempre con voce dura e un tono che non
ammetteva un
“ma” come risposta. «Vieni, Saori,
lasciamo che si
crogioli ancora un po' nei suoi problemi, intanto che aspettiamo che
inizi a crescere», si rivolse infine alla giovane ospite,
rimasta
così in disparte e dimenticata in un angolo, che si
confondeva
con la tapezzeria della camera.
*****
Uscirono dall'ascensore col fiatone e i vestiti in disordine. Si
tenevano abbracciati, o forse si sostenevano a vicenda, mentre
percorrevano a zigzag
quei
pochi metri che li separavano dalla porta del lussuoso attico degli
Hayes. Entrambi avevano bevuto un po' più del lecito, quella
sera. Le loro risate – più degli sghignazzi che
delle vere
e proprie risate – si sentivano per tutto il corridoio. Ma a
chi
importava, quel piano era completamente di proprietà della
famiglia Hayes. Kanon piegò la testa all'indietro, passando
davanti a una costosa e indiscutibilmente brutta scultura d'arte
moderna posta in una specie di nicchia, per giunta illuminata. Le
rivolse una pernacchia e rise ancora. Poi, si avvicinò alla
compagnia femminile di quella notte e le sussurrò qualcosa
all'orecchio. Lei rise a sua volta, piegando anch'essa la testa
all'indietro e mostrando la gola ornata da una vistosa collana in
diamanti. La donna era di un'eleganza peccaminosa, da farlo eccitare e
tenerlo nel palmo della sua mano come un cagnolino a ogni sua mossa, se
avesse voluto; ma quella risata gli faceva venire i nervi e rompeva
l'incantesimo. E avrebbe sortito lo stesso effetto anche se fosse stato
ancora più sbronzo di quanto già non fosse in
quel
momento.
La baciò lungamente, per non sentirla una volta di troppo,
sicuro di non riuscire a sopportarla oltre; non voleva rispedirla a
casa e interrompere lì la serata. Lei gli aveva fatto capire
più volte che voleva portarselo a letto e lui non aspettava
altro. La teneva stretta fra sé e la porta d'ingresso. Lei
faceva la civetta; mentre Kanon con una mano le accarezzava il sedere e
con l'altra girava la chiave nella serratura.
Neanche si ricordava il suo nome. Gliel'avevano presentata quella sera
stessa, durante una specie di rimpatriata, alcuni suoi ex compagni di
Università che ora lavoravano come broker a Wall Street e
lei,
unica donna del gruppetto, non lo aveva più mollato. Era
sicuro
che, oltre al suo fascino, avevano contribuito non poco anche il suo
nome e i suoi soldi. Ma quella sera a lui andava bene così.
Voleva solo passare una notte in compagnia. Eppure, se solo avesse
immaginato quanto in realtà fosse appiccicosa...
Però non
baciava niente male, le sue mani così ben curate si
muovevano
esperte e audaci e aveva fatto capire fin dal primo sguardo le sue
intenzioni senza alcuna vergogna. Proprio quello di cui aveva bisogno.
Mentre le loro bocche erano ancora incollate l'una all'altra, si
girò, appoggiandosi con le spalle alla porta e, con una
leggera
spinta, l'aprì, camminando poi all'indietro. Era
più
intento a spogliare la donna, lasciando cadere nel loro percorso pezzo
per pezzo ciò che aveva in dosso, piuttosto che guardare
dove
stava andando. Si avvicinarono così al divano, Kanon le
aprì il gancetto anteriore del mini reggiseno di pizzo nero,
che
subito liberò – quasi in un'esplosione
sorprendente
– i suoi seni abbondanti. Erano sodi e perfettamente tondi,
grazie alla sapiente opera del chirurgo plastico. Poi, le
abbassò le spalline sottilissime sulle braccia bianche e
sinuose, anch'esse troppo toniche per essere naturali. Fece due passi
indietro e si prese del tempo per osservarla, commentando fra
sé
e sé: “Sarà anche rifatta, ma
è uno schianto
di bambola!”
«Come hai detto che ti chiami?» le chiese, mentre
con gli
occhi le accarezzava il petto orgogliosamente nudo e le sue labbra si
curvavano in un sorriso sornione.
La donna sorrise a sua volta, colmando quella breve distanza con passi
da modella, abbassando la cerniera della minigonna e lasciandosela
scivolare giù, fino a terra. Il perizoma era microscopico e
semi
trasparente come il reggiseno ormai abbandonato.
«Camille Sanders», sussurrò lei,
sfiorandosi
maliziosamente le labbra rosso fuoco con la punta dell'indice, mentre
con l'altra mano stuzzicava il pizzo delle mutandine. Si
avvicinò a lui, lo guardò negli occhi e poi
abbassò lo sguardo verso il basso, ad ammirare le
“doti” di Kanon. Dalla sua gola arrivò
un lieve
ruggito, provocante e ferino. Gli posò entrambe le mani sul
petto e lo accarezzò, facendogli sentire le unghie
attraverso la
camicia.
Kanon sentì un brivido attraversargli il corpo a quella
carezza
aggressiva. Di nuovo, la donna diede sfoggio della sua risata, mentre
con le mani scendeva fino alla cintura e andava un poco oltre, dove le
cose si stavano già facendo grosse. Si strusciò
in
maniera generosa su Kanon, fin quasi a fargli perdere l'equilibrio e
cadere sul divano, dalla parte dello schienale. Non vedeva l'ora di
giocare un po' con lui.
«Se mi avvertivi che tornavi così presto e in
compagnia, preparavo qualcosa da mangiare per tutti.»
Al suono di quelle parole, la donna alzò lo sguardo al di
sopra
della spalla di Kanon e lo intravide lì, a pochi metri da
loro,
stravaccato in poltrona e con i piedi sul tavolino, che addentava senza
tanti complimenti un sandwich di proporzioni inumane e sgocciolante di
mostarda. Con l'altra mano invece smanettava sullo smartphone.
Lanciò un urlo tale che la soglia sopportabile dei decibel
fu
superata in maniera preoccupante, mentre si copriva il petto con le
mani come meglio poteva. Si guardò attorno in preda al
panico,
cercando i vestiti e continuando a urlare. Traballando sui tacchi
vertiginosi, li raccolse in tutta fretta, ammassandoseli poi addosso,
per coprirsi alla bell'e meglio.
«Bastardo!» urlò la donna. Lo prese a
pugni e
spintoni sul petto, continuando a insultarlo, perché Kanon
stava
ridendo di lei.
«Mi sa che la sera è rimandata»,
commentò a
mezza voce Aiolos, con la bocca piena e le labbra sporche di mostarda
piccante, proprio quella che piaceva a lui.
Kanon si girò verso l'amico, scambiando uno sguardo d'intesa
come ai vecchi tempi. Poi, si avvicinò alla donna e
l'afferrò per un braccio, interrompendo così la
sua
furia. Lui sembrava essere tornato sobrio tutto d'un colpo.
«Mi
dispiace, cara, sarà per un'altra volta», le disse
con un
sorrisetto sulle labbra.
Camille si divincolò e lo spinse con maggiore forza, fino a
farlo cadere sul divano, a gambe all'aria.
«Vai al diavolo, Hayes! Vai al diavolo!» gli
urlò
nuovamente, mentre si rivestiva in fretta. La risposta di Kanon fu
un'altra fragorosa risata. Ormai l'eccitazione della serata era passata
e lui non aveva più voglia di stare con quella donna.
«Conosci la strada, vero?» le disse, con tono un
po'
canzonatorio. «Chiedi al portiere di chiamarti un taxi. Offro
io!» continuò, alzando la voce, poiché
lei se ne
stava andando. Pochi secondi dopo, si sentì un gran sbattere
di
porte e lui si lasciò andare a una risata ancora
più
forte e divertita, che in sé portava però il
disprezzo
che provava per la situazione in cui si era messo.
«Pare che le tue quotazioni siano in ribasso!»
«Già. Ultimamente non ne mando più una
in buca», sbuffò Kanon.
Passarono diversi secondi di silenzio nel salotto del lussuoso attico
degli Hayes. Il respiro di Kanon si stava normalizzando, dopo tante
risate amare; Aiolos invece continuava imperterrito a mangiare.
«Che diavolo ci fai qui?» gli domandò,
arruffandosi i capelli.
«Non avevo più niente da fare a casa,
così sono
venuto a vedere cosa combinavi», rispose Aiolos, leccandosi
le
dita dopo aver mandato giù l'ultimo boccone.
Kanon sbuffò ancora una volta, più scocciato di
prima.
Avrebbe dovuto mettersi in una posizione più composta,
invece
era rimasto lì com'era, con un principio di mal di testa che
non
preannunciava nulla di buono. «Lui come sta?»
chiese. Non
ci credeva affatto che l'amico fosse lì, a New York, solo
perché si annoiava a stare a Boston. Era più
verosimile
che fosse venuto per dargli notizie di Saga.
L'altro rispose con un'alzata di spalle. Posò sul tavolino
lo
smartphone e si alzò. Fece il giro del divano e si
fermò
proprio sopra Kanon, in mezzo alle sue gambe ancora imprudentemente
larghe. L'erezione si stava pian piano sgonfiando con il passare dei
minuti. Aiolos gli posò le mani sulle ginocchia, pesadovi
sopra
dispettoso e lo fissò con un ghigno ambiguo. Sapeva che
così facendo avrebbe fatto sudare freddo l'amico.
«Che diavolo ti sta passando per la testa?» disse
con un
lieve panico nella voce, che lentamente si stava trasformando in
terrore, nel vedere l'altro troppo interessato ai suoi “paesi
bassi”. E nella sua, di testa, si stava già dando
dell'imbecille, perché mai e poi mai doveva offrirsi in quel
modo.
Aiolos sogghignò. «Ti preparo qualcosa da
mangiare»,
disse, porgendogli la mano e aiutandolo a rimettersi in piedi. E una
vendetta ancora più dolce – per tutte le volte che
l'altro
lo aveva sfottuto – se la prese nel vederlo barcollare e
trattenere dei conati di vomito, portandosi le mani alla testa.
«Allora, me lo dici perché sei qui?»
riprovò
Kanon, con la mano a coprire la bocca, ora pallido in volto. Lo
seguì fino in cucina, ma si bloccò sulla soglia,
trattenendo il respiro. «È successo
qualcosa?»
«Ne sono successe tante, di cose», disse con un
mezzo
sorriso Aiolos, prendendo dal frigo una bottiglietta d'acqua e
lanciandola all'altro.
Kanon ne trangugiò il contenuto a gradi sorsate, sospirando
soddisfatto.
«Ma lui sta bene? Dici che è il caso di
tornare?»
«Sarebbe inutile, l'ho spedito alle Cascate del Niagara prima
di venire qui.»
«Cosa?» Kanon strabuzzò gli occhi a
quella notizia.
«Ma allora la situazione è davvero grave se lo hai
fatto
espatriare!» esclamò quasi scioccato, ma si
tradì
piegando le labbra in un mezzo sorriso di scherno.
«Non ti esaltare in questo modo», disse Aiolos,
tagliando
con un movimento secco il sandwich appena preparato, tanto che il tac
sul tagliere risuonò più minaccioso di quanto in
realtà non fosse. «È andato in Luna di
miele», spiegò, masticando amaro quelle parole.
La stessa reazione, o quasi, la ebbe anche Kanon. «Ah, allora
me ne vado per qualche giorno negli Hamptons.»
*****
Caroline aveva dato poco peso a come aveva ceduto facilmente all'idea
che le aveva messo in testa Aiolos: in quel periodo le mancava la
voglia di fare qualsiasi cosa. Aveva a malapena accennato alle Cascate
del Niagara e, come per magia, si era ritrovata lì. Erano
bastate un paio di telefonate, il tempo di preparare una valigia,
impacchettare la gattina – perché questa volta
l'avrebbe
portata con sé, considerato che non sapeva quanto sarebbe
stata
via – e arrivare in aeroporto per salire sul jet privato
della
Hayes Corporation. E ora si trovava lì, in uno dei
più
lussuosi alberghi in cui avesse mai avuto la fortuna di mettere piede,
costruito quasi sulle sponde della cascata, a meno di una mezz'ora di
auto da Buffalo. E poteva godere di quello spettacolo straordinario
direttamente dalla finestra della sua suite.
Erano due giorni che non si muoveva dalla camera, praticamente da
quando era arrivata. Stava davanti alla finestra per delle ore, seduta
su una comoda chase
longue e
con Kitty acciambellata sulle sue gambe per la maggior parte del tempo.
Il servizio in camera passava tre volte al giorno e almeno
metà
di ciò che le veniva portato ritornava indietro. Non era lei
a
ordinare: tutto era stato stabilito da Aiolos. Come avesse fatto era un
mistero.
Lo sapeva già prima di partire che non sarebbe servito a
nulla,
non era in vena di godersi la vacanza e la solitudine che stava vivendo
accentuava in lei i sensi di colpa che provava. La prima notte aveva
avuto dei forti crampi allo stomaco che l'avevano costretta a passarla
praticamente in bianco; ma anche in seguito aveva fatto fatica a
riposare. Forse era l'aria di Buffalo che non la faceva sentire
rilassata. Questo si era detta quando aveva lasciato la suite, pronta a
tornarsene a casa.
«Come da istruzioni ricevute, le abbiamo prenotato una suite
nel
nostro hotel gemello, sul versante canadese delle cascate. Siamo
spiacenti che voglia lasciarci così presto e ci auguriamo
che la
permanenza sia stata di suo gradimento», disse con tono
professionale la donna al bancone della reception, restituendole i
documenti.
Cora fu investita da quelle parole. Forse, ancora disorientata dal suo
stato apatico, non si rese conto di cosa le stava capitando attorno e
si ritrovò, suo malgrado, sul sedile posteriore di un taxi
che
la stava portando in Canada.
L'hotel era la copia esatta di quello appena fuori Buffalo, con la sola
differenza che a ogni angolo c'erano bandiere del Canada e non degli
Stati Uniti e la gente era più cordiale. Rimase
piacevolmente
sorpresa dal cambiamento. Persino l'aria sembrava migliore,
più
frizzante, più energizzante. E, di conseguenza, il suo umore
ne
fu un poco contagiato. Fece portare il bagaglio nella suite –
anche questa era predisposta per ospitare piccoli animali – e
accettò l'invito del receptionist
di aprofittare della terrazza rialzata, dalla quale si poteva godere di
una vista esclusiva della parte di cascata denominata Ferro di cavallo.
Scelse di sedersi a un tavolo vicino la balaustra fiorita. Il fragore
di quell'ammasso d'acqua che precipitava per oltre cinquanta metri era
potente e, nonostante la terrazza fosse a una buona distanza, si
sentiva frastornante fin lì e faceva da sottofondo alle
conversazioni. Ne rimase da subito attratta, tanto che il cameriere,
quando ritornò al suo tavolo neanche cinque minuti dopo, fu
costretto a ripetere due volte. Le portò una cioccolata
calda e
una fetta di torta allo zucchero di canna. O, come la chiamavano loro,
tarte au sucre brun.
Cora fissò il cameriere, perplessa. Non aveva ordinato
nulla, ma
accettò senza muovere obiezione. Sorrise debolmente e
rigirò la tazza portandosi il manico sul lato sinistro. La
cioccolata calda era stata servita senza tanti fronzoli, accompagnata
solo da manciata di mini marshmallow a parte. Lei li scartò
subito: non le erano mai piaciuti, troppo dolci e appiccicosi alla
masticazione, al contrario di Mickey che invece ne andava ghiotto.
Teneva lo sguardo fisso sulla cascata, mentre sorseggiava la bevanda
densa e profumata. Il sole era alto nel cielo. Intenso e caldo,
mitigato un poco dalla brezza che arrivava direttamente dalla cascata.
Considerò che aveva fatto bene a tenere con sé il
cappello a tesa larga, anche se si sentiva a disagio a indossarlo. Di
tanto in tanto aveva la sensazione che delle goccioline d'acqua
arrivassero sino a lei. Era una sensazione piacevole, anche se le
provocava qualche brivido. Si passò le mani sulle braccia,
indossava dei guanti senza dita, di cotone sottile, lavorati
all'uncinetto e che arrivavano fino a metà avambraccio.
Erano
decorati con una rosellina della stessa tonalità dei guanti,
anch'essa lavorata a mano.
Appoggiò un gomito al tavolino, reggendosi il mento con la
mano.
Per la prima volta dopo giorni le sue labbra si piegarono in un sorriso
leggero. Respirava piano e una timida serenità stava
rilassando
il suo cuore. Si sentiva come se tutte le cose negative che le avevano
gonfiato il cuore di dolore le avesse lasciate alla frontiera.
Iniziò persino a spizzicare la torta con la forchettina,
mettendosene in bocca una punta. Era dolcissima, ma non era affatto
male. Sospirò, avrebbe voluto condividerla con Saga: anche a
lui
sarebbe piaciuta. Avvertì un pizzicore agli occhi quando
formulò quel pensiero. Sentiva la sua mancanza, lo voleva
accanto a sé.
«Signorina», richiamò la sua attenzione
un cameriere. «Va tutto bene?»
Cora alzò lo sguardo su di lui. Poi, si guardò
attorno:
la terrazza sembrava più animata di prima. «Cosa
succede?» chiese lei, cercando di capire il motivo di tale
fermento.
«Più o meno a quest'ora, il sole e l'acqua della
cascata
formano un arcobaleno. È una delle attrattive più
particolari della cascata, in questo periodo», le
spiegò
il cameriere che in mano teneva un vassoio con sopra una fetta di
Boston cream pie e che subito posò sul tavolino, proprio di
fronte alla giovane.
«Non l'ho ordiata io, questa», disse lei,
rifiutandola.
Nello stesso momento in cui se l'era ritrovata davanti, si
domandò come fosse possibile trovare in Canada il dolce
tipico
della sua città.
«Gliela offre quel giovane laggiù»,
rispose il
cameriere, indicandoglielo. «Non è gradita? Devo
riferire
qualcosa?»
Cora si voltò a guardare, ma non riuscì a
individuare il misterioso ammiratore.
«Devo portarla via?» chiese una seconda volta il
cameriere.
Cora scrollò la testa, riaccostando a sé il
piattino.
Non aveva fame, neanche aveva consumato metà dell'altra
fetta di
torta, che per inciso non aveva ordinato ma che aveva scoperto essere
stata “programmata”, così come tutto il
resto del
suo soggiorno. Però, non se la sentiva di rimandare indietro
la
Boston cream pie: le ricordava casa e... lui.
Sotto il tovagliolino di carta c'era un foglietto. Lo prese e lo lesse.
C'era scritto: “È la mia torta preferita. Vorresti
dividerla con me?”
Subito alzò lo sguardo e si affannò a cercare la
persona
che aveva scritto il biglietto. E, quando finalmente la
individuò, il suo cuore perse un battito.
Lo vide avvicinarsi al tavolino a passi lenti, sicuro di sé.
Sembrava un turista come un altro, con quella semplice maglietta polo e
i jeans, eppure riusciva a distinguersi lo stesso, perché i
suoi
occhi ora non vedevano altro che lui.
«Ciao»
«Ciao», rispose Caroline, con voce titubante ed
emozionata.
Gli occhiali da sole, sotto quel grande cappello, nascondevano i suoi
occhi nervosi che si stavano velando di lacrime. Abbassò la
testa e si portò le mani al grembo, iniziando a
tormetarsele:
non sapeva cosa dire e quel silenzio fra loro due si stava caricando di
tensione.
«Sei una ragazza difficile da inseguire»,
provò a
scherzare, Saga. «Quando sono arrivato all'altro hotel, mi
hanno
detto che te n'eri appena andata.»
«Mi dispiace. È stata una sorpresa anche per
me.»
Saga le sorrise: non c'era motivo che Caroline si dovesse scusare, lei
non aveva alcuna colpa. Accennò a un movimento con la mano,
forse per accarezzarla. Invece, si inginocchiò di fronte a
lei.
«Cora...» Deglutì, nervoso. Anche lui
sentiva il
peso dell'emozione. «Caroline Miller», disse subito
dopo,
preferendo essere più formale, poiché il momento
lo
richiedeva. Le prese entrambe le mani nelle sue. «Vuoi essere
ancora la signora Hayes?»
La giovane si irrigidì inconsciamente: era senza parole.
«Vuoi essere mia moglie?» le domandò
ancora una
volta, guardandola negli occhi, sfidando la barriera dei suoi occhiali
da sole.
Le stava girando la testa. Per sua fortuna era seduta, altrimenti le
sue gambe non avrebbero certamente retto. Una folata d'aria smosse
l'ampia gonna del vestito che indossava. Si morse il labbro e il suo
respiro si fece irregolare.
Saga le strinse un poco di più le mani, per incoraggiarla a
dargli una risposta. I suoi occhi esprimevano tutta la convinzione di
quelle parole, ma anche che non era disposto ad arrendersi a un rifiuto.
Cora mosse le labbra, avrebbe voluto rispondergli un “Ancora
mi
vuoi, dopo quanto successo?” ma non riuscì ad
articolare
quelle parole. Dalla sua bocca uscirono parole diverse: «Solo
se
mi prometti che mi darai un figlio.»
«Solo se questo non ti metterà in
pericolo»,
replicò Saga, accennando un sorriso emozionato. Dalla tasca
dei
jeans prese una scatolina di raso e l'aprì davanti a lei.
«Avrei dovuto dartela da tempo. Avrei dovuto fare le cose per
bene...»
«Basta così. Non c'è bisogno di altre
parole», lo interruppe lei, con un sorriso innamorato,
offrendogli la mano sinistra. Saga le prese la mano e le
infilò
l'anello al dito. Poi, Caroline fece lo stesso con l'altra fede nuziale.
Fu solo in quel momento, quando sentirono un lungo ed entusiastico
applauso, che si accorsero di essere attorniati da decine e decine di
persone che si erano radunati attorno a loro e avevano assistito a
quella dichiarazione, condividendone con loro l'emozione. C'erano tanti
cellulari alzati che scattavano foto e filmavano. Qualcuno, in mezzo a
loro, fischiava in approvazione, gridando a gran voce “Bacio!
Bacio!”
Saga sorrise imbarazzato, senza però distogliere gli occhi
dalla
sua Caroline. Si alzò, le scoprì la testa dal
cappello,
le tolse anche gli occhiali da sole e, prendendole il viso fra le mani,
la baciò con passione.
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Capitolo 30 *** Capitolo XXIX ***
XXIX
In tanti anni che frequentava gli Hamptons, non aveva mai fatto caso a
quanto fossero belli e rilassanti quei luoghi a giugno. E neanche
questa volta Kanon se ne sarebbe accorto, occupato com'era a passare da
una festa all'altra, sempre con il bicchiere in una mano e l'altra
appoggiata al formoso lato B di qualche bellezza; e senza mai fermarsi
per più di mezza giornata consecutiva alla villa che aveva
affittato per l'intera estate. Quando si era diffusa la notizia che il
bel rampollo degli Hayes stava trascorrendo qualche giorno di vacanza,
tutti avevano iniziato a fare a gara per contenderselo e lui, da
generoso qual era, si era reso disponibile per animare quelle feste.
Questo era Kanon Hayes in quell'ambiente di ricconi: bello,
affascinante, spiritoso, spregiudicato negli affari e tanto sicuro di
sé con le donne. Insomma era una vera star! Spesso finiva
per
rimanere fino all'alba, ospite di qualche generosa quanto molto
disponibile padrona di casa. Qualche volta, quando la serata non si
concludeva in modo piacevole fra le lenzuola, allora dormiva come un
ghiro, completamente sbronzo, nel buio della sua camera da letto. E
quella mattina era proprio l'epilogo di una di quelle rare volte in cui
era andato in bianco. Non che gli dispiacesse, ci voleva un po' relax
anche da quel lato.
Lo sbadiglio che aveva fatto gli aveva quasi slogato la mascella, ma
era proprio ciò che gli serviva in quel momento per
svegliarsi.
Si grattò la testa, arruffando i capelli ancor di
più di
quanto già non fossero dopo la ronfata e si
stiracchiò la
schiena fino a far scricchiolare le ossa. Il rumore fu perfettamente
udibile e... inquietante, per un tipo sportivo e in forma come lui.
«Mi sa che sto invecchiando», sbuffò,
lasciando
ricadere le braccia lungo i fianchi. Subito dopo si passò
entrambe le mani sul viso, celando un altro sbadiglio e strofinandole
con energia per darsi la carica.
La casa per sua fortuna era deserta, non gli andava di farsi vedere in
quello stato. Camminava con gli occhi praticamente ancora chiusi, come
uno zombie appena uscito dalla tomba. I piedi scalzi lasciavano
impronte invisibili sul parquet chiaro. Si grattò il fianco,
sotto la canottiera sbracciata. I pantaloni del pigiama gli cadevano
abbondanti e, a ogni passo, gli orli gli finivano sotto i talloni. Ma
di questo non se ne preoccupava. Si schermò gli occhi con
una
mano, le grandi finestre dell'open-space facevano entrare troppa luce.
Sbatté le palpebre più volte. Poi, pian piano, i
suoi
occhi iniziarono ad abituarsi.
Entrò in cucina, notò con disgusto che il piano
dell'isola era occupato da diverse bottiglie vuote di vodka, scotch e
birra. «Che schifo... ma quanto ho bevuto?»
borbottò, grattandosi di nuovo la testa e passando oltre.
Dal frigorifero prese una lattina di birra, rabbrividendo. Subito
cambiò idea afferrando la bottiglia di succo d'arancia,
bevendone a grandi sorsate quasi la metà. Due rivoli di quel
nettare aspro gli colarono dagli angoli della bocca, scivolando lungo
la gola e il petto, per poi venire assorbiti dal bordo della canottiera
scura. Il resto se lo portò via con sé, uscendo
sulla
terrazza.
Si appoggiò alla balaustra di legno e osservò
l'oceano.
Gli piaceva l'oceano. Era terapeutico per lui, come lui aveva sempre
creduto di esserlo per suo fratello Saga. Sbuffò nel pensare
a
lui. Era troppo tempo che non parlava con lui. Forse avrebbe dovuto
chiamarlo per sapere come stava.
«Che idea stupida», mormorò fra
sé e
sé, scrollando la testa e tracannando il resto del succo
d'arancia, pulendosi infine la bocca col dorso della mano.
«Ora
va decisamente meglio!» disse, riprendendo fiato. Ora
sì
che era in vena di apprezzare ciò che aveva davanti.
La giornata era un incanto e invogliava a passarla fuori di casa.
«Una bella corsa sulla spiaggia. Sì,
decisamente!»
si disse, con un sorriso sornione sulle labbra ancora umide.
Impiegò appena due minuti a sistemarsi e mettersi la tenuta
da
jogging, ovvero scarpe da corsa e un costume da bagno tipo bermuda,
verde mare con delle righine bianche sui lati. Non aveva bisogno di
rimirarsi allo specchio per sapere che era un vero schianto. Sorrise,
mentre si inforcava gli occhiali da sole e scendeva l'ultimo gradino
prima di mettere piede sulla bianca sabbia della spiaggia di
Southampton. Si guardò attorno per qualche momento, giusto
per
scegliere in che direzione andate. L'istinto gli diceva che avrebbe
fatto qualche incontro interessante; e il suo istinto non sbagliava
mai. Due passate con le mani fra i capelli, il tempo di attivare l'app
di fitness sullo smartphone che teneva legato al braccio sinistro e
iniziò la sua corsa con un ritmo lento e cadenzato, giusto
per
sciogliere un po' i muscoli delle gambe. Ma neanche il tempo di sudare
un po', che aveva raggiunto la mega villa dei Perkins. La
studiò
a lungo, mentre ci passava davanti, sperando di non incontrare nessuno
di quella famiglia. Pie illusioni.
«Eccola là...» masticò fra
sé e
sé, trattenendo un brivido al solo pensiero di essere
agganciato
da lei e passare la successiva mezz'ora a sentirla lamentarsi di
qualche banalità.
La bella Jenny Perkins, nel suo completino rosa confetto e la sua pelle
bianchissima, sotto uno strato di abbronzatura color cioccolato andato
a male, camminava sulla sabbia con lo sguardo fisso sull'ipad, in
compagnia di quell'insopportabile botolo a quattro zampe –
che
lei si ostinava a chiamare cane – al guinzaglio. Sembrava
piangere per qualcosa.
«Si sarà rovinata lo smalto»,
sogghignò. Ma
se sperava di riuscire a passare inosservato e continuare la sua corsa,
si sbagliava di grosso.
«Tu! Brutto bastardo!» ululò la giovane,
alzando
all'improvviso la testa. E subito dopo la bestiaccia prese a tirare,
ringhiare e abbaiare all'indirizzo di Kanon.
Quell'urlo, stridulo e agghiacciante, lo fece incespicare nei propri
piedi. Si fermò, piegandosi in avanti un poco con il
fiatone,
nascondendo uno sbuffo esasperato. Poi, si fece coraggio e si
girò verso di lei, mostrandole la sua dentatura perfetta.
«Jenny!»
La giovane ereditiera lo raggiunse sul bagnasciuga a grandi passi e gli
diede uno schiaffone da fargli fare quasi una piroetta su se stesso. E
il suo carlino, per non smentire il detto “il cane
è
uguale al suo padrone”, gli ringhiò contro ancora
una
volta, tirando e tendando di morderlo.
«Basta, Cicci», lo rimproverò lei,
strattonando il guinzaglio rosa tempestato di strass.
«Ma che diavolo ti prende, pazza svitata!»
«Spiegami cos'è questo!» urlò
isterica lei,
mostrando l'ipad – anch'esso tanto pieno di strass da essere
accecante – a uno scioccato, quanto ora irritato, Kanon.
Sullo schermo da 9,7 pollici scorrevano le immagini di un video preso
da youtube, che aveva già milioni di visualizzazioni e
tanti,
tantissimi like, e commenti pieni di cuoricini che esprimevano quanto
quella dichiarazione fosse romantica.
«E allora?» replicò Ken,
restituendoglielo.
«Guardalo!» insistette Jenny, spingendogli contro
il petto
l'ipad e battendo nervosa il piede, affondando un poco nella sabbia
bagnata con il prezioso sandalo. «Che cosa ci fa il mio Saga
con... quella? E... chi accidenti è quella?»
Kanon aguzzò la vista, la luce del sole faceva strani
riflessi
sul display e le lenti scure rendevano tutto ancora più
scuro.
«Ah!» disse, senza aggiungere altro. Doveva
ammettere che
la cosa era curiosa. Senza rendersene conto sorrise nell'ammirare il
gemello, per nulla impacciato in quell'occasione, inginocchiato di
fronte a Caroline e poi alzarsi e baciarla di fronte a tutto quel
pubblico.
«Lui non mi ha mai portata alle Cascate del
Niagara!» si lagnò lei.
«Lui non ti ha mai portata da nessuna parte, Jenny
cara»,
le rispose, passandole di nuovo l'ipad sbrilluccicoso. «E sai
perché? Perché sei una piattola
rompiscatole!»
infierì. «E poi, cosa pretendi, ti ha scaricata
mesi
fa!»
«No! No! No!» negò lei, alzando sempre
di più
i decibel della sua voce. «Ci siamo solo presi una pausa di
riflessione!»
Il carlino rispose al nervosismo sopra le righe della sua padrona
continuando a ringhiare, mentre dei piccoli rivoli di bava gli
scendevano dai lati della bocca cadente.
«Beh, cara, ora hai perso il treno. A quanto pare lui ha
messo
l'anello al dito a un'altra», disse Kanon, scoccando
un'occhiataccia al cane. Non aveva mai avuto un buon feeling con quel
botolo che non perdeva occasione di dimostrargli tutta la sua
antipatia, ma era un sentimento reciproco.
Per tutta risposta, Cicci gli abbaiò contro due volte,
liberandosi con uno strattone deciso dalla custodia della padrona che
era distratta a piagnucolare ancora sul video e gli si
attaccò
al polpaccio.
«Mollami, botolo rognoso», imprecò a
denti stretti
il giovane. Non gli andava di fare da “osso
giocattolo” per
quello scherzo della natura. Lo acchiappò per la collottola,
come si faceva con i gatti – altra razza che mal sopportava
– e lo scaraventò direttamente in acqua, a una
decina di
metri di distanza.
«Cicci!» gridò Jenny, portandosi le mani
ingioiellate alla bocca. Era lì che camminava sulla sabbia
senza
però andare da nessuna parte. Provò a fare
qualche passo
in avanti, continuando a chiamare disperata il suo cucciolo,
cantilenando il suo nome, ma nel momento stesso in cui la leggera spuma
delle onde strisciava verso di lei, o per meglio dire verso i suoi
sandali firmati, Jenny si ritraeva correndo indietro. E intanto il suo
amato Cicci guaiva e annaspava nell'acqua salata.
«Ma che diavolo... è l'unico cane al mondo che non
sa
nuotare? L'ho sempre pensato che quel coso è
inutile!»
sbottò Kanon, incrociando le braccia al petto e scrollando
la
testa. Settò di nuovo l'app sullo smartphone, fece alcuni
movimenti di stretching e si preparò a ripartire.
«Tranquilla, prima o poi tornerà a
riva!» le disse,
ridendo e riprendendo la sua corsa salutare, ora decisamente
più
di buonumore di quando si era svegliato quella mattina. Era da quando
aveva presentato Jenny a suo fratello che avrebbe voluto dare una
lezione a quella bestiaccia.
*****
Il cimitero di East Boston non era mai stato un luogo lugubre. Almeno,
non la parte nuova, ovvero i lotti di terreno che erano stati
acquistati negli anni '50 come ampliamento di quello storico, racchiuso
fra alte cancellate in ferro battuto nel quale trovavano posto le tombe
più antiche, risalenti addirittura ai tempi delle colonie, e
i
mausolei delle grandi famiglie bostoniane dall'ottocento fino ai giorni
nostri. Il nuovo parroco della chiesa, giovane e anticonformista, che
solo un anno prima aveva preso il posto di Padre O'Sullivan e che
gestiva l'amministrazione del cimitero, aveva dato il via a diversi
lavori di abbellimento che prevedevano delle piccole isole di aiuole
colorate, soprattutto dove si incrociavano i sentieri in ghiaietta, per
rendere più festose le visite dei parenti ai defunti. Ma
quel
giorno, per alcune persone, quei fiori non stavano rendendo
più
leggera la visita alla tomba del defunto nei pressi del quale si erano
dati appuntamento.
«Un altro incontro in così breve tempo»,
disse Shion
Hayes, camminando sull'erba umida, con passi leggeri e misurati.
«L'altro dove lo hai lasciato?» domandò
Burton. «Parlo di Morales.»
«Hai chiesto di vedere me o il mio dipendente? Cosa vuoi
ora?»
Burton gli diede le spalle e si inginocchiò di fronte alla
lapide, accarezzando il nome inciso sopra. Si sentiva un meschino
traditore. Non solo perché era felice con la moglie del suo
migliore amico, aveva cresciuto Caroline e il secondogenito lo chiamava
papà, ma anche e soprattutto perché fin
dall'inizio
sapeva certe cose e non aveva mai parlato. Se lo avesse fatto, forse
Greg non sarebbe morto.
Shion Hayes abbassò lo sguardo, intristendosi. Nonostante la
conoscenza con il poliziotto si era limitata ad alcuni brevi incontri,
si sentiva in qualche modo legato a quella persona.
«Ti ringrazio per esserti preso cura della sua
tomba»,
disse l'ex capitano di polizia. «È strano come
più
ci si impegni a tenere sepate le nostre strade, più queste
si
intersechino.»
«Evidentemente doveva andare così»,
sospirò
Shion Hayes. Anche lui aveva qualcuno a cui fare visita e nei confronti
del quale sentirsi in colpa.
Era lì. Ironia della sorte, o forse no, la tomba di Anthony
Young era proprio a pochi passi da quella del poliziotto. Vi
posò lo sguardo e i suoi occhi minacciavano di velarsi di
lacrime: la lapide era stata volutamente lasciata anonima e solo la
scritta Devoto alla sua
famiglia fino all'ultimo
ne dava il vero significato a chi conosceva la verità. Si
chinò e strappò via alcune erbacce. Con grande
rammarico
era stato costretto a lasciare che la tomba rimanesse per anni
nell'incuria, per non alimentare sospetti. E questo gli faceva male,
perché una persona che era stata tanto importante per lui
meritava di essere ricordata come si conveniva e un trattamento
migliore per quanto riguardava il luogo del suo riposo eterno.
«Immagino sia stato tu a fare in modo che fosse sepolto
proprio
qui, anziché vicino alla tomba dei suoi genitori. Soldi e
potere
evidentemente permettono di fare tutto. Me ne sono sempre domandato il
motivo.»
«Era l'unico a ritenerlo innocente e a continuare a indagare
per
dimostrarlo», rispose Shion Hayes, rimettendosi in piedi.
«In qualche modo gli è stato vicino. Ha cercato di
capirlo
e aiutarlo. Ora gli sta vicino nell'aldilà, così
si fanno
un po' di compagnia. Lui... per tutta la sua vita è stato
solo», sussurrò, sfiorando un'ultima volta il
bordo
squadrato della lastra di pietra.
Si passò una mano sul viso, corrugando al tempo stesso la
fronte. Non era da lui fare il sentimentale e di certo non voleva
mostrare a estranei – a Burton in particolare –
quel suo
lato così intimo, del quale un poco si vergognava.
Inspirò profondamente con il naso, per riprendere di nuovo
padronanza di sé. Alzando lo sguardo intravide Aiolos che si
aggirava pigramente, mani in tasca, fra le altre lapidi, leggendo qua e
là qualche nome e ruminando il chewin-gum come un ragazzino
in
gita scolastica.
«Bella la gioventù», sospirò
ancora,
piengando l'angolo della bocca in un accenno di sorriso. Si
girò
di nuovo verso Burton. «Si può sapere qual
è il
motivo di questo incontro?» gli chiese. Questa volta la sua
voce
era uscita molto più seria.
«Ero intenzionato a chiederti di contrastare il rapporto fra
quei
due. Caroline è la mia figliastra, ma è la figlia
di
Gregory Miller, il mio più caro amico. Non voglio vederla
soffrire come l'altro giorno», spiegò l'uomo.
«Sono
certo che prima o poi lui la farà soffrire ancora.»
«E Saga è il figlio di Tony ed Emma, che il tuo
amico ha
portato alla morte», rispose Shion, mordendosi la lingua per
non
dire qualcosa di troppo, di cui forse si sarebbe potuto pentire in
seguito. «Come credi che potrebbe reagire se sapesse una cosa
del
genere?»
«Di cosa stai parlando? Di cosa lo stai accusando?»
ribatté Burton, con un tono di voce rabbioso, quasi
urlandogli
in faccia e stringendo il pugno.
Shion Hayes chiuse gli occhi e trattenne l'aria nei polmoni per qualche
secondo, mostrando all'altro i palmi delle mani: non aveva alcuna
intenzione di raccogliere le sue provocazioni e fare a cazzotti.
Anche Burton ritrovò la calma, concedendosi un paio di
respiri
profondi. «Lei è una brava ragazza e merita di
essere
amata.»
«Tutto a posto, signore?» chiese Aiolos,
raggiungendo i due uomini.
Shion Hayes annuì. Si voltò e iniziò a
incamminarsi verso l'uscita del cimitero. Ma dopo pochi passi si
fermò. «Saga è un ragazzo serio e
coscienzioso. So
che la ama con sincerità e non le farebbe mai del male. Non
di
proposito», disse. Poi, riprese la sua strada.
Aiolos squadrò Burton per diversi secondi, con una smorfia
sulle
labbra che voleva essere un sorriso di scherno. Avrebbe volentieri
ripreso uno dei suoi duelli di nervi con lui, ma vi rinunciò
subito. L'altro non sembrava certo voler fare lo sbruffone, anzi
tutt'altro. Era visibilmente turbato. Il suo pensiero andò
rapido al quadernetto che ancora teneva nascosto. C'erano diversi
tasselli del puzzle che gli mancavano e nessuno a cui chiedere per
completare il quadro.
A che scopo poi?
Non sarebbe spettato a lui farlo. Ma al punto in cui era arrivato, la
sua posizione si faceva sempre di più compromessa.
«La signora Hayes non è in città in
questi
giorni», disse, facendo un cenno con la testa. Poi,
seguì
Shion Hayes.
*****
Caroline teneva lo smartphone stretto nella mano. Era in quella
posizione da diversi minuti, con il display che mostrava il nuovo
numero della madre. Non sapeva cosa fare, se chiamarla, se dirle degli
ultimi avvenimenti che l'avevano vista coinvolta, se parlarle dello zio
Phil che si era presentato a villa Hayes e aveva sconvolto tutti.
Ancora non capiva cosa ci facesse in quella casa e come facesse a
conoscere il padre di Saga. Di nuovo, fissò lo smartphone,
sospirando. Avrebbe dovuto farsi sentire molto prima. Con la punta
dell'indice sfiorò su “chiama” e attese.
«Mamma...»
«Caroline, tesoro mio!» esclamò Teresa.
«Come
ti senti?» Lo si avvertiva dalla sua voce che la donna era
sorpresa di sentirla, ma anche molto felice, perché erano
giorni
che non aveva sue notizie e cominciava a preoccuparsi, soprattutto dopo
quanto vissuto negli ultimi tempi.
Caroline titubò qualche secondo prima di rispondere,
soprattutto
per non farle intuire il suo vero stato d'animo. Fece un bel respiro e
continuò con la telefonata. «Va meglio»,
le disse,
stentando un sorriso. Parlava piano, quasi sottovoce.
«Mi fa piacere, tesoro. Vedrai che andrà sempre
meglio», le disse la madre, con affetto.
«Tu e Mickey... voi come state? Mickey ce l'ha ancora con
me?»
«No, Caroline. Stai tranquilla, tuo fratello non ce l'ha mai
avuta con te. È solo che gli manchi. Ma lo sa che la tua
vita
è a Boston e non più qui con noi. Ora
è tutto
eccitato per la partenza», rispose la donna. E il sollievo
nella
sua voce era un sollievo anche per Cora.
«Quando partirete?»
«Fra qualche giorno. Ho già prenotato i
biglietti.»
«Spero che Mickey si diverta tanto. Verrà con voi
anche lo
zio Phil? Dovrai presentarlo ai nonni, prima o poi.»
«Lavoro permettendo, Caroline. Ha detto che ci
raggiungerà
più avanti, dopo aver chiuso un caso che sta seguendo. Ora
è a Boston, sai? Ma perché non venite anche voi
due?
Intendo dire... tu e... tuo marito.» Nel pronunciare quelle
ultime parole, si sentì distintamente dell'imbarazzo. Per
Teresa
era ancora così strano pensare a Caroline, la sua bambina,
come
a una donna sposata. «Stare un mese in Italia, dai nonni, non
potrà che farti bene. Il clima, il buon cibo... E poi, mi
piacerebbe conoscerlo di persona.»
«Mi piacerebbe, mamma. Ma non so. Fra una cosa e l'altra,
Saga e
io non siamo riusciti a stare molto da soli fino a ora. Questa per noi
è... la Luna di miele che non abbiamo fatto prima. Non so se
vorrebbe venire», disse, abbassando ancora di più
la voce.
Quasi inconciamente coprì il cellulare con la mano e si
girò un attimo verso il suo fianco, dove Saga stava dormendo
placido sull'altro lato del letto.
«Vorrà dire allora che verremo tutti da te, quando
torneremo. Non vedo già l'ora di riabbracciarti.»
«Sì, mamma. Anch'io non vedo l'ora di
riabbracciarti», rispose Caroline, asciugandosi una lacrima.
«Non essere triste, bambina mia. Lo sento dalla voce che
è
così, quindi non mentirmi», la
rimbrottò con
affetto Teresa. «Ci sentiremo spesso, tutti i giorni, con le
videochiamate su skype», le promise.
«Sì, mamma.»
*****
Alla giovane signora Hayes piaceva innegabilmente guardarlo dormire. Il
viso di suo marito aveva un'espressione così angelica che
sembrava un miracolo poterlo avere al suo fianco. Da più di
mezz'ora era lì, seduta in mezzo al letto, con i capelli
ancora
umidi del bagno che aveva fatto e che ricadevano disordinati
sull'accappatoio bianco dell'albergo, e distrattamente si accarezzava
la fede nuziale che portava al dito. Si strinse al petto quella spugna
morbida e profumata, aggiustandola anche sulle gambe, senza mai
distogliere lo sguardo da lui. Non voleva perdersi neanche un istante
del suo amore, ma più lo osservava e più i suoi
occhi si
velavano di lacrime. Si morse il labbro, per trattenersi. Poi, un
respiro profondo per riprendere il controllo di sé. Infine,
un
lieve sorriso si disegnò sulle sue labbra, perché
quella
tenerezza che provava le faceva palpitare il cuore più forte
del
senso di colpa che sentiva costantemente dal giorno dell'aborto. Ma
quella sofferenza era sempre lì, pronta a prendere il
sopravvento.
Non importava se fosse stato naturale, o se si fosse reso necessario
per salvarle la vita. Quel bambino arrivato così inaspettato
l'aveva perso per sempre, ancora prima di sentirlo dentro di
sé.
Deglutì a fatica, strofinandosi gli occhi con il bordo della
manica dell'accappatoio e inspirò profondamente dalla bocca,
per
calmarsi. Lo guardò ancora per un po', si chinò
su di lui
e, con un certo timore, gli sfiorò i capelli che gli
ricadevano
sulla fronte. Non voleva svegliarlo. Sospirò d'amore. Dopo
tutto
quello che avevano vissuto – e così velocemente da
non
riuscire ancora a metabolizzarlo – ora lui sembrava sereno,
almeno nel suo riposo. Le aveva dimostrato un affetto e un amore
incredibili in quei giorni che avevano passato in albergo, ma
chissà cosa aveva pensato di lei dopo che si era tirata
indietro
ancora una volta, quando le aveva chiesto di fare l'amore. Certo,
l'aveva rassicurata che la capiva, che avrebbe aspettato tutto il tempo
necessario, che avrebbe atteso il momento in cui si sarebbe sentita di
nuovo pronta.
Ma per quanto tempo ancora Saga sarebbe stato così
disponibile con lei?
Si portò una mano alla bocca e trattenne un singulto di
pianto,
che di nuovo si stava riaffacciando in lei. Era ancora così
tremendamente emotiva. Forse, era colpa degli ormoni sballati. Forse lo
era sempre stata e non se ne era mai resa conto sul serio.
«Sei troppo buono, troppo gentile, troppo comprensivo, per
essere
reale», sussurrò, avvicinando la mano tremante
alla
guancia di suo marito; ma non riuscì a daregli quella
carezza
che avrebbe voluto. E allora rimase a guardarlo, senza muoversi, per
non turbare il suo sonno. Eppure, più stava lì,
più pensava, e più le veniva da piangere,
perché
non si meritava un uomo così meraviglioso al suo fianco.
Qualcosa la distrasse all'improvviso. Rumori e suoni strani, per non
dire sospetti, che provenivano dalla parte opposta della suite. Si
girò verso la porta, tendendo l'orecchio per ascoltare
meglio.
Li sentì di nuovo, ma questa volta era sicura di cosa si
trattasse: era il miagolio della gattina e il suo raspare su qualche
superficie dura, ed erano insistiti e frustrati. Stava per alzarsi dal
letto, per farla smettere. Poi tutto tornò silenzio e pochi
secondi dopo la vide zampettare rapida, impettita, fiera; oltrepassare
la soglia della camera e arrivare fino ai piedi del letto. Allora,
batté piano la mano sulla coperta e Kitty fece un balzo sul
materasso, avvicinandosi a lei e strusciandosi prima con il musetto e
poi con il fianco, sulla sua gamba.
«Brava, piccolina», le sussurrò,
accarezzandola sulla testolina nera con la punta dell'indice.
Kitty rispose facendo le fusa e muovendo il musetto, chiedendo ancora
coccole. Affondò le unghiette aguzze nella spugna, iniziando
a
impastare, ma rimanendovi subito incastrata. Quella situazione non le
piaceva e provò a liberarsi dando degli strattoni, senza
ottenere alcun risultato, tirando solamente i fili della stoffa.
«No, no, stai buona. Aspetta!» le disse Cora,
ridacchiando
piano. «Non in questo modo, così si
rovina!»
Le afferrò con delicatezza la zampina e, rischiando
l'incolumità della propria mano, la tirò
leggermente per
liberarla, ma non la lasciò andare subito. Si
divertì a
giocherellarci un po'. Vedendo che si stava innervosendo, la prese in
braccio e la coccolò, stringendosela al petto, sentendola
fare
le fusa. La sensazione della pelliccia morbida di Kitty sulla sua pelle
era piacevole. La gattina era calda e soffice. La teneva fra le braccia
come un neonato, coperta dalla manica abbondante dell'accappatoio. Con
il dito le astuzzicò il musetto. La vide aprire la bocca e
mostrare i dentini lattei. C'erano ancora i doppi canini. Allora le
sfiorò le vibrisse e di nuovo lei mosse la bocca e le
zampine,
come se avesse voluto catturarle il dito e morderla, facendola
ridacchiare per il solletico che le procuravano inevitabilmente quelle
“carezze”.
«È bello vederti ridere.»
Cora alzò di scatto lo sguardo su Saga, colta di sorpresa.
«Ti ho svegliato? Mi dispiace.»
Il giovane si tirò su, appoggiandosi con il braccio al
materasso, scrollando piano la testa, mostrandole un'espressione
serena. Allungò una mano e accarezzò Kitty.
Subito la
piccolina non si lasciò sfuggire l'occasione di dimostrare
la
sua preferenza per lui, leccandogli la punta delle dita con la sua
piccola lingua rasposa.
«Sembra quasi un neonato», mormorò Saga.
Se ne
pentì nel momento stesso in cui lo aveva detto, osservando
la
lieve reazione di lei e le sue labbra che si erano mosse a pronunciare
un muto “perdonami”. Fece un respiro profondo e si
sedette
sul bordo del letto, dandole le spalle. «Vado a farmi una
doccia», disse, celandole la delusione che si
sentì
addosso all'improvviso.
«No! Non andare!» esclamò Cora,
abbandonando Kitty
– che si era rigirata sul materasso per poi zampettare via e
acciambellarsi sul cuscino di Saga – e appoggiandosi alla
schiena
del compagno.
Saga le accarezzò la mano posata sulla propria spalla.
«Non vuoi che vada a lavarmi?» le disse, provando a
stemperare quel momento di tensione. Avvertì il movimento
della
testa della moglie; poi, anche le sue labbra che gli lasciavano dolci
baci sulla pelle. Fece un lungo sospiro. Non aveva idea di come
comportarsi con lei: un momento era serena, un momento dopo –
per
una parola di troppo – si intristiva spezzandogli il cuore, e
un
altro momento si comportava in maniera sensuale e romantica, facendolo
eccitare. Proprio come stava accadendo in quel momento. Se avesse
continuato in quel modo lui le avrebbe chiesto di fare l'amore e lei,
probabilmente, si sarebbe tirata indietro, come succedeva sempre.
«Per favore», sussurrò Cora,
nell'avvertire il
movimento di Saga, che voleva alzarsi dal letto. «Per
favore», ripeté in un respiro caldo che si
infranse sulla
schiena del marito. Sembrava un'invocazione di aiuto.
Appoggiata a lui con la fronte, con le mani si allentò la
cintura dell'accappatoio e lo aprì, offrendosi completamente
nuda a lui.
«Non puoi fare così», le disse Saga.
Seppure non la stava guardando, capiva la situazione.
«Lo so. Perdonami.» Fece una pausa. «Ho
paura»,
gli confessò lei. «Mi sento come se fosse la mia
prima
volta, ma questa volta... ho paura.»
«Una nuova verginità»,
mormorò lui.
«È strano, eppure... mi piace. Mi sento...
lusingato», disse, arrossendo lievemente. Si girò
verso
Caroline, trovandola con lo sguardo basso. «Se fosse solo
questa
la tua paura», le disse, alzandole il mento e mostrandole un
sorriso.
Non voleva sviscerare di nuovo la vera ragione di quella
rigidità che bloccava la sua Caroline. Non voleva vederla
piangere. Lui era un uomo e probabilmente non avrebbe mai capito fino
in fondo il dolore che aveva provato e che sempre avrebbe provato lei
come donna. E allora preferì accettare ciò che
gli aveva
detto. La baciò. Prima piano, con dolcezza, per vincere le
sue
resistenze. Poi, con maggiore insistenza e passione, per coinvolgerla e
magari permetterle di lasciarsi andare. La incoraggiò a
sdraiarsi e, con la mano, le accarezzò il ventre.
La vedeva nuda, bellissima, perfetta ai suoi occhi. Sorrise, Caroline
non si mostrava imbarazzata, eccetto per quella piccola cicatrice che
nascondeva con la mano quando lui la sfiorava.
«Se te ne vergogni, possiamo consultare un chirurgo plastico
per
farla togliere», le propose. Non erano parole dette
così,
tanto per dire, avrebbe fatto di tutto per farla stare bene.
Cora lo rassicurò che non c'era problema. Eppure, qualcosa
non
andava in lei. La vide chiudere gli occhi e trattenere per un attimo il
respiro.
Saga scrollò la testa, le rimise addosso l'accappatoio e le
si
sdraiò a fianco, stringendola in un abbraccio.
«Non fa
niente», le sussurrò all'orecchio, dandole un
bacio sulla
guancia.
Kitty balzò sul suo stomaco all'improvviso, miagolando e
impastando con le zampine, facendolo ridere. «Abbiamo
lei»,
disse senza riflettere, prendendola con una mano e sollevandola sopra
di sé, ridendo nel vederla agitarsi.
«Sì, abbiamo lei», ripeté in
un mormorio
atono Caroline, ancora con gli occhi chiusi, cercando la mano di Saga e
intrecciando le sue dita a quelle di lui.
Ma in realtà la giovane non voleva accontentarsi di un
gatto,
seppure ora le era molto affezionata. Si morse il labbro: dentro di
sé voleva ritrovare quella determinazione che l'aveva
aiutata in
passato a riprendere in mano la propria vita e che, era certa, avrebbe
fatto anche questa volta.
«Non voglio solo questo», disse, stringendo la mano
di suo
marito. «Rivoglio la mia vita, la felicità che mi
hai
promesso e...»
Di nuovo trattenne il respiro, per poi buttarlo fuori tutto in una
volta. Si tirò su e fece un respiro profondo. Sentiva che
stava
per venirle voglia di piangere, ma non voleva più permettere
a
se stessa di autocommiserarsi.
«Io ti amo», gli disse, facendo scivolare
nuovamente via da
sé l'accappatoio. Si girò e lo guardò.
«Voglio darti dei figli.»
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Capitolo 31 *** Capitolo XXX ***
XXX
Una telefonata inattesa aveva colto Anne Taylor, quasi a
mezzanotte di
sabato sera, nello studio che un tempo era del padre, nella casa di
famiglia, con un bicchiere di vino rosso in mano, mentre lavorava
all'arringa finale per il processo che si sarebbe concluso il
lunedì successivo. Per casi importanti come quello, era
solita
lavorare da sola e scriverle da sé, le arringhe: non si
fidava
degli associati del suo studio legale, né permetteva a
Richard,
il gemello, di prendere parte a quella fase delicata, soprattutto
perché non voleva condividere il merito della sicura
vittoria
con nessun altro che non fosse lei stessa.
Era stata una conversazione breve, nella quale il suo interlocutore le
aveva dato appuntamento in un bar nei pressi del porto, ma lei invece
aveva stabilito che si incontrassero allo studio legale per l'indomani
mattina, perché sapeva sarebbe stato deserto.
E quella domenica mattina la donna si trovava lì, nel suo
lussuoso ufficio, seduta dietro la sua scrivania da quindicimila
dollari, dal design moderno, con un bicchiere di pregiato scotch whisky
in mano e le gambe accavallate in posa sensuale.
«Allora?» disse lei con evidente fastidio. Si
aspettava di
incontrare l'altro socio, quello più anziano, quello a cui
aveva
affidato l'incarico più di vent'anni prima. Invece a
trattare
con lei c'era uno sbarbatello che poteva avere sì e no
vent'anni.
Il giovane uomo, seduto su una delle poltroncine di fronte a lei,
piegò le labbra in un ghigno, togliendosi la sigaretta dalla
bocca e sbuffando una maleodorante nuvola grigiastra alla sua destra.
Dalla tasca interna della giacca di jeans sgualcita tirò
fuori
delle fotografie e le fece scivolare sulla scrivania. La donna le
blocco con la mano, facendo rumore con il grosso anello che portava al
dito.
La prima fotografia era di Anthony ed era stata ricavata dall'annuario
del 1983 dell'Università di Harvard; la seconda
era invece
una polaroid dei gemelli, scattata pochi giorni dopo la loro nascita,
mentre l'ultima ritraeva un uomo molto somigliante ad Anthony.
Anne Taylor fece una smorfia nel vedere il giovane volto di Anthony e
trattenne a fatica il proprio disgusto. Poi, alzò lo sguardo
interrogativo sul cacciatore di taglie.
«Ho chiesto a un mio amico di elaborare una seconda volta
l'immagine dei bambini con il software che usano all'FBI nei casi di
scomparsa, per invecchiare i volti e vedere come sarebbero oggi. Con le
nuove tecnologie il procedimento è più affidabile
e il
risultato è più realistico»,
spiegò.
«È solo per questo che ha chiesto di incontrarmi,
mr Scorpio?» domandò la donna.
L'altro sogghignò, prendendo una lunga bocca dalla
sigaretta.
«C'è dell'altro, naturalmente, ma ha un
prezzo.»
«Non ne dubitavo», replicò lei.
Dalla borsa posata poco più in là, prese il
carnet degli
assegni: ce n'era già uno compilato, mancante solo della
cifra.
A quello pose rimedio lì sul posto. Afferrò la
stilografica d'oro e, con tratti rapidi e decisi, lo
completò.
«Cinquemila dollari dovrebbero essere più che
sufficienti
per un'informazione. Se poi questa porterà a risolvere in
maniera definitiva il problema, allora ne riceverà altri
ventimila.»
Attese la conferma da parte del giovane e staccò l'assegno
con
un movimento secco, allungandoglielo, tenendolo con due dita; ma nel
momento stesso in cui il cacciatore di taglie tentò di
prenderlo, lei ritrasse la mano, fissandolo con piglio severo. Non
erano necessarie altre parole.
Scorpio stette al gioco e, dalla stessa tasca, tirò fuori un
vecchio modello di Ipad. Selezionò il filmato, lo fece
partire e
lo mostrò alla donna.
Anne Taylor lo guardò per intero ben tre volte, con occhi
attenti, prima di restituire l'apparecchio all'altro. «La
somiglinza è sconcertante, non c'è che
dire»,
mormorò, rigirandosi nervosamente l'anello con un rubino da
dodici carati. «Hai altre informazioni a riguardo?»
«Sono entrato in alcune chat e ho fatto un po' di domande,
per
scoprire qualcosa di più, ma ancora non sono riuscito a
scoprire
quale nome usi. Per quel che riguarda il filmato, è stato
girato
alle Cascate del Niagara. Purtroppo però non ci sono
significativi riferimenti per capire su quale versante si trovi, se
quello canadese o americano. Inizierò da Buffalo, ho il volo
nel
pomeriggio.»
Se pensava di ottenere l'approvazione da parte della donna, esponendole
i suoi piani nell'immediato, aveva sbagliato i conti, poiché
Anne Taylor rimase impassibile. Lei voleva risultati e non chiacchiere.
«E per quell'altra faccenda?» domandò
ancora la donna.
Scorpio scrollò la testa. «Tutte le prove e i
documenti
ufficiali dicono che è deceduto in carcere. Non ci sono
tracce
che possa essere ancora in giro. E comunque, malato com'era, non
può essere sopravvissuto. È passato troppo tempo.
Quella
ormai è una pista morta.»
«Anche per i gemelli era passato troppo tempo, eppure uno dei
due
è spuntato fuori.» La donna lanciò
l'assegno sulla
scrivania, ma era già concentrata su come muoversi da quel
momento in avanti.
Dopo esserselo rigirato due o tre volte fra le mani, il cacciatore di
taglie lo intascò. Poi si mise di nuovo in bocca la
sigaretta,
lasciandosi cadere addosso la cenere senza preoccuparsene. Si
alzò, fece un breve cenno di saluto con la mano e
uscì,
con quel nuovo incarico implicitamente accettato.
Anne Taylor si appoggiò allo schienale della poltrona e
rifletté per qualche secondo, sorseggiado il suo whisky.
Dopo
così tanti anni ne aveva ritrovato uno. Forse, quella
somiglianza così sorprendente poteva anche essere una
coincidenza, o più semplicemente il risultato mostrato nella
foto poteva essere stato guidato. Del resto, quel tipo di manipolazioni
digitali era solo il risultato di un mero calcolo matematico e
algoritmi astratti; ma la fisionomia di una persona dipendeva da molti
fattori, anche ambientali.
Accese il laptop e cercò quel video su internet. Rimase a
visionarlo per più di un'ora. Quel giovane uomo biondo era
quasi
sempre inquadrato di profilo, a volte di spalle, perché chi
stava filmando preferiva concentrarsi sulla ragazza. La
qualità
delle immagini non era un granché, ma la voce aveva qualcosa
di
terribilmente familiare. Ne cercò altri dello stesso genere
per
essere sicura; ne trovò uno più completo che
andava oltre
a quella dichiarazione smielata che le aveva dato il voltastomaco: i
due giovani erano stati ripresi seduti al tavolino, mano nella mano, a
sorseggiare una bevanda calda e si dividevano una fetta di torta.
Riconobbe la Boston cream pie e si lasciò sopraffare per un
istante dai ricordi, pensando che quello era il dolce preferito di Emma.
Si biasimò: tali debolezze non erano da lei. Poi,
sgranò
gli occhi, incredula. In quei fotogrammi, in quei pochi secondi di
filmato, dove il giovane era inquadrato proprio di fronte, le
sembrò di rivedere in lui i modo pacati di Anthony. Lo aveva
conosciuto bene in passato, in tutti quegli anni che aveva vissuto in
casa Taylor, con loro. Era stato il pupillo di suo padre e... il suo
burattino.
Mise in pausa il filmato e stampò l'immagine, studiandola
con insistenza.
«Se solo quell'idiota non si fosse divertito con
quell'orfanello
che papà si era portato in casa....»
grugnì,
mandando giù tutto d'un fiato il whisky rimasto nel
bicchiere.
Non aveva mai creduto alla morte di Anthony. Se anche la corporatura,
il colore dei capelli e il gruppo sanguigno corrispondevano, il viso
del cadavere che le avevano mostrato era troppo tumefatto per un
riconoscimento ufficiale; neppure le lastre dentali erano servite a
dare una corrispondenza certa. E all'epoca le analisi del DNA erano
troppo costose e non così affidabili come oggigiorno.
Gettò il foglio sulla scrivania, prese il cellulare e
compose il
numero privato di JJ. Chissà che ora, con quelle nuove
scoperte,
non si sarebbe deciso ad acconsentire a richiedere la riesumazione del
corpo.
*****
Da quando erano tornati nella loro casa di Boston, quella sopra il
negozio, Saga si era svegliato quasi ogni mattina da solo nel letto. In
quelle occasioni, sospirava deluso e si girava sull'altro fianco,
rimanendo poi sdraiato ancora qualche minuto con lo sguardo fisso sulla
sveglia. Aveva imparato, nelle settimane trascorse alle Cascate del
Niagara, che Caroline non era una persona mattiniera. Per questo,
quando trovava il lato del letto della compagna vuoto, la sua testa si
riempiva di pensieri tristi, immaginando che in quelle occasioni lei si
estraniasse e pensasse a cose che invece dovrebbe lasciarsi alle spalle.
Gli tornò in mente la breve chiacchierata fatta con il
padre; e
con essa anche la voglia di bere, nonostante fosse la persona
più lontana dall'alcolismo che potesse esistere al mondo.
Chiuse
gli occhi e strinse le labbra.
Il padre lo aveva
trovato in
biblioteca, con in mano un bicchiere di whisky e la bottiglia quasi
vuota lì vicino. Non gli aveva nascosto il suo stupore,
poiché sapeva che lui non era tipo a cui piaceva bere, ma
poteva
comprendere perché lo stesse facendo, soprattutto in quel
modo.
Shion si era avvicinato
al mobile
bar, aveva preso un bicchiere e del ghiaccio dal secchiello, poi si era
seduto sull'altra poltrona e aveva osservato il figlio di sottecchi,
rimanendo in silenzio per diversi secondi. Dopo un debole sospiro,
aveva preso la bottiglia dal tavolino e si era riempito il bicchiere.
Si era bagnato le labbra, assaporando lentamente quel forte liquido
ambrato, mentre continuava a tenere d'occhio Saga, notando con dolore
il suo sguardo perso nel vuoto. Ma sapeva che lui era comunque
presente. Se gli avesse parlato, l'altro avrebbe ascoltato.
«Una
volta...» aveva
rotto il silenzio, «una nostra illustre concittadina, la
matriarca della famiglia più famosa del mondo,
pronunciò
queste parole: “Alcuni dicono che il tempo sana tutte le
ferite.
Io non sono d'accordo. Le ferite rimangono. Col tempo, la mente, per
proteggere se stessa, le cicatrizza e il dolore diminuisce, ma non se
ne vanno mai.”.»
Aveva fatto una pausa,
per osservare
la reazione dell'altro che invece continuava a rimanere in silenzio,
impassibile, neanche fosse stato perso nei suoi pensieri. Ma Shion
Hayes era più che sicuro che stesse ascoltando.
«Era una donna
che aveva perso
molto nella sua vita, ma non si era mai arresa», aveva
aggiunto
in un sospiro. «Non voglio paragonare le due situazioni. La
tua e
quella della matriarca dei Kennedy. Il dolore che stai provando in
questo momento non credo di poterlo neanche immaginare: sei venuto a
sapere in modo traumatico – in un momento
altrettanto
drammatico, nel quale eri a terra e ammanettato ingiustamente
–
che stavate aspettando un figlio, e non ti è stato dato il
tempo
di rendetene conto che già ti era stato strappato via. E ora
sei
qui ad annegare i tuoi dolori nell'alcol.»
Saga aveva portato il
bicchiere alla
bocca e aveva trangugiato il contenuto in un solo sorso, continuando a
fissare i mattoni anneriti da decenni di fuliggine del camino vuoto.
Shion aveva fatto una
smorfia,
scrollando impercettibilmente la testa. Aveva notato come il figlio
subito dopo avesse strizzato gli occhi per un momento, forse per
fermare le lacrime.
«Anche in
questo aspetto
assomigli molto ad Anthony. Neanche a lui piaceva bere, ma non
perché non lo reggesse; sospetto... che non volesse
rischiare di
lasciarsi andare e di perdere il controllo. Era così attento
in
tutto, manteneva il controllo in ogni situazione.»
Shion non si era mai
soffermato a
pensarci seriamente, ma doveva essere così. In effetti non
ricordava di aver mai visto Tony andare oltre un paio di bicchieri, le
rare volte che riusciva a farlo partecipare alle feste delle
confraternite, quando erano stati studenti ad Harvard. Invece lui
finiva sempre per ritrovarsi sdraiato da qualche parte, completamente
ubriaco. Aveva abbassato lo sguardo sul suo bicchiere ancora pieno.
All'improvviso gli era passata la voglia di bere.
Saga aveva corrugato la
fronte nel
sentirsi paragonato a un uomo a lui del tutto sconosciuto. Aveva
provato fastidio, ma anche una punta di curiosità. Cos'altro
avrebbe scoperto che lo rendeva simile ad Anthony Young, l'uomo che
aveva abbandonato lui e il gemello e aveva fatto poi quella brutta fine?
«Credi che in
qualche modo Anthony abbia provato lo stesso?» aveva
domandato il figlio, con voce atona.
«Forse anche
di
più», aveva risposto Shion, senza esitare.
«Sono
certo che quando si è separato da voi, lui e anche tua
madre, si
siano sentiti morire. Ma è stato diverso, loro sapevano che
voi
due avreste vissuto una vita migliore, che sareste stati
protetti.»
«Non ha avuto
il coraggio di
dirmi niente», aveva sussurrato Saga, parlando di Caroline.
«Ha lasciato che facessi progetti, che parlassi dei miei
sogni...
quando era con Nanny sembrava così naturale.»
Aveva allungato la mano
per prendere
la bottiglia e servirsi dell'altro whisky, ma la sua mano era stata
bloccata da quella di Shion. Saga lo aveva guardato con gli occhi
arrossati e visibilmente annebbiati dai fumi dell'alcol, incontrando
quelli più comprensivi e saggi del padre.
«Lo so che
stai soffrendo, che
ti senti tradito, preso in giro, ma pensa a cosa possa aver provato
lei. Per una donna è diverso. È più
straziante.
Soffre dentro, senza darlo a vedere. Quando perde un figlio, la
cicatrice rimane indelebile nel suo cuore, ma sa essere forte, per
amore, per continuare ad andare avanti.»
Saga scostò il lenzuolo e si sedette sul bordo del letto.
Prima
di alzarsi si pettinò i capelli con le mani, passandole due
o
tre volte in quella bella capigliatura bionda che gli arrivava un poco
oltre le spalle. Fece un mezzo sbuffo e si mise in piedi. Quella
mattina faceva caldo. Si vestì con i pantaloni del pigiama
che
prese dalla sedia e uscì dalla camera. La casa era
tranquilla e
la luce dell'alba si rifletteva sulle pareti e sui mobili con un
chiarore soffuso e rilassante. Fece un paio di respiri profondi: non
sentiva odori particolari provenire dalla cucina, anche se tutto
sommato era presto per la colazione. Percorse il corridoio e vi si
affacciò, rimanendo appena al di là della soglia.
Vide
Cora seduta sulla cassapanca bianca, fissata sotto la finestra e
incassata fra la credenza dei piatti da un lato e una piccola libreria
dall'altro. Teneva le ginocchia al petto e sorseggiava qualcosa dalla
tazza. Entrando non aveva sentito l'aroma del caffé e sapeva
che
la sera precedente non ne era avanzato. La cucina poi era in perfetto
ordine, anche l'angolo destinato alla gattina.
Allora, quando l'aveva preparato? Da quanto tempo era sveglia, se
quella sera avevano fatto l'amore fino a tardi?
Kitty era acciambellata vicino ai piedi di Caroline e muoveva
pigramente su e giù la punta della codina. Spostò
per un
attimo l'attenzione sulla bestiola e la osservò stiracchiare
una
zampina e puntare le unghiette nella stoffa del materassino. Poi,
sbadigliare e portare all'indietro le piccole orecchie nere, facedole
tremare in modo lieve.
Saga sorrise e si avvicinò piano a Caroline che invece
sembra
più interessata a guardare qualcosa giù nel
cortile.
«Buongiorno», la salutò, baciandola
sulla testa.
«Credevo non ti piacesse il caffè nero»,
le disse,
osservando il contenuto della tazza.
La giovane alzò lo sguardo su di lui e ricambiò
il
sorriso. «Non è vero caffè:
è quello d'orzo,
aromatizzato con il ginseng. Me lo ha consigliato una delle commesse
del minimarket», rispose, porgendogli la tazza per farglielo
assaggiare.
«Ha un profumo particolare», commentò
Saga, posando
entrambe le mani su quella della moglie e avvicinando la tazza al naso
per sentirne l'aroma, bevendone poi anche un sorso.
«È
freddo! Ha un gusto strano e... è dolce.»
«Sì. Mi piace molto in questo modo. È
dissetante.»
«Allora ne terremo sempre una caraffa piena in
frigorifero», le disse, addolcendo ancora di più
la voce.
«Ti va di fare colazione? Ci vogliamo riprovare con i
pancake?» le propose, considerato che erano abituati a
mangiare
solo latte e cereali.
Vide con rammarico che la sua proposta era caduta nel vuoto e, un po'
avvilito, si apprestò a prendere il libro di ricette dei
dolci:
benché i pancake fossero una delle ricette più
semplici,
ancora non conosceva a memoria le dosi e gli ingredienti.
Caroline sgranò gli occhi e scattò in piedi.
«Sì! La preparo subito»,
esclamò, appoggiando
la tazza sul piano dell'isola e affrettandosi a prendere una ciotola di
vetro e la frusta.
Poi, dal frigorifero prese due uova, il latte e il burro. Ci mise
troppa foga, tanto da lasciare Saga sbigottito e con il libro ancora a
mezz'aria, incredulo sull'effetto che le sue parole avevano avuto su di
lei. Le mani Caroline ebbero un tremito improvviso e una delle uova le
scivolò, schiantandosi a terra ai suoi piedi e schizzando
ovunque sul parquet scuro.
«Scusami. Ora pulisco», disse lei, con voce
nervosa,
strappando alcuni fogli dal rotolo di carta cucina e inginocchiandosi
per raccogliere i pezzi di guscio.
«Cora...» provò a richiamarla lui,
bloccandole le mani ancora tremanti.
«No. Caroline. Il mio nome è Caroline. Basta con
questi
giochi infantili, con i nomi inventati e progetti impossibili.
È
tempo di fare le persone adulte», disse, scrollando la testa
e
nascondendogli lo sguardo addolorato.
Saga la fece alzare e la strinse in un abbraccio disperato. La tenne
così per diversi secondi, sentendola tremare. «Ora
il
pigiama è completo», sussurrò, come se
quella fosse
stata una cosa di fondamentale importanza.
Caroline rise per quell'affermazione, rimanendo con il viso nascosto
nel suo petto, odorando la sua pelle calda e confortevole. Era vero,
quando si era alzata dal letto si era messa addosso la giacca del
pigiama del marito. Gli strinse le braccia dietro la schiena e si
aggrappò a lui, soffocando le lacrime che non riusciva a
fermare, mentre ai loro piedi Kitty leccava avidamente il tuorlo
dell'uovo caduto, solleticando al tempo stesso con la coda la sua
caviglia.
«Va tutto bene, amore mio. Va tutto bene», la
rassicurò Saga, continuando a tenerla stretta a
sé.
Non era uno psicologo, ma sapeva che così lei non poteva
andare
avanti. Fin quando erano stati in Luna di miele, dopo i primi giorni,
lei pareva aver ritrovato una certa serenità, ma dal loro
ritorno a Boston, pian piano aveva iniziato a spegnersi. Non era colpa
sua, lei ci stava provando, ma evidentemente non bastava. La sua
Caroline, la donna che amava, aveva bisogno di un sostegno per superare
il trauma; e forse, trovare qualcosa che la impegnasse, che non la
facesse pensare, le sarebbe stato d'aiuto.
Il corso di criminologia cadeva giusto a proposito, ma mancavano ancora
due settimane al suo inizio e lui non era sicuro che nel frattempo le
cose non potessero anche peggiorare. Questa situazione così
incerta lo angosciava molto.
«Che ne dici se questa volta proviamo a fare i pancake al
cacao,
o magari al burro di arachidi?» le propose, baciandola ancora
una
volta sulla testa. «Poi, se te la senti, potremmo uscire e
andare
da qualche parte.»
«Mi piacerebbe, ma devo passare all'agenzia di mr Price.
Manco da
troppo e chissà quanto lavoro si è accumulato,
oltre
quello che già dovevo sbrigare. E poi, devo organizzarmi con
i
nuovi orari, prima dell'inizio del corso», rispose lei,
staccandosi dal marito e mostrandogli il viso ora più sereno
nonostante fosse bagnato di lacrime.
*****
Saga l'accompagnò fino all'agenzia investigativa.
Camminarono un
bel pezzo, mano nella mano, dalla fermata dell'autobus fino al portone
della palazzina, parlando un po' di tutto, anche della
possibilità di comprare un'auto, perché nessuno
dei due
pareva possederne una. Caroline aveva riso quando lui le aveva
confessato che aveva passato a stento l'esame per la patente e, non
fidandosi delle sue capacità, guidava di rado; per quel
motivo,
benché in famiglia ne possedessero diverse, non aveva
un'auto a
suo nome e preferiva muoversi con i mezzi pubblici. Quando fu il turno
di lei, cambiò argomento. Erano stati bene. Lui si era
sentito
bene durante quella passeggiata, immaginando che la vita da sposato
potesse essere sempre come in quei minuti: a ridere, a fare progetti
per piccoli acquisti, a decidere cosa preparare per cena. Caroline era
più serena quando cucinava, aveva scoperto che le piaceva
provare piatti nuovi e sperimentare; spesso lo facevano assieme: lui
leggeva le istruzioni nel libro e lei eseguiva; e poi improvvisavano.
Rimasero di fronte all'entrata della palazzina dell'agenzia ancora per
alcuni minuti, poi Saga la salutò con un bacio e attese, con
il
sorriso sulle labbra, che entrasse.
Tornando verso il semaforo, per arrivare sulla via principale e fermare
un taxi, prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni scuri e
chiamò casa. Passò di fianco a diverse automobili
parcheggiate, pensando vagamente ai vari modelli, scrollando la testa:
per lui erano tutte uguali. Incrociò la strada con un
passante
che gli sfiorò il braccio, senza dare l'impressione di
essersene
accorto. Per un secondo gli sembrò Aiolos. Ebbe la
tentazione di
chiamarlo, ma non poteva essere, altrimenti l'altro si sarebbe fermato.
Non gli diede più peso e proseguì per la sua
strada.
Durante il viaggio in taxi, continuò a rimuginare su cosa
avrebbe detto e come si sarebbe comportato; e anche su cosa loro
avrebbero potuto dirgli. Di sicuro avrebbero cercato di convincerlo a
tornare, adducendo come giustificazione le sue condizioni di salute.
Quello era un deterrente che lo aveva frenato per quasi metà
della sua vita. Si toccò inconsciamente la tempia destra,
grattandosi la cicatrice con insistenza, come capitava sempre quando
c'era qualcosa che lo impensieriva, e uno strano malessere prese a
pesargli addosso.
Si presentò alla porta d'ingresso della villa verso le
quattro e
venti del pomeriggio, suonando il campanello come un estraneo
qualunque. Gli venne ad aprire Shura. All'uomo bastò un
primo
sguardo per capire come stesse il giovane. Non gli fece domande
–
e di questo Saga gliene fu grato –, né lo
subissò
di attenzioni, che per lui in quel momento sarebbero sembrate pesanti
come un biasimo. Ma non poté evitare quelle di Nanny, quando
entrambi misero piede in cucina.
«Saga, tesoro mio!» esclamò la donna,
andandogli incontro e abbracciandolo con le lacrime agli occhi.
Lo tenne stretto a sé come se, lasciandolo poi andare,
avesse
timore di non rivederlo più. Fu rincuorata in piccola parte
nel
sentire che lui stava ricambiando l'abbraccio, ma era davvero poca cosa
per il suo cuore sempre in pena. Il suo Saga non era mai stato per
così tanto tempo lontano da quella casa e da lei. Si
staccò infine da lui e si asciugò gli occhi con
un angolo
del grembiule sporco di farina e cacao.
«Quando Shura mi ha detto che saresti venuto a casa non
riuscivo
a crederci. Mio Dio, fatti vedere. Mi sembri
così...»
Nanny preferì non completare la frase, i suoi occhi
già
esprimevano con chiarezza ciò che avrebbe voluto dire,
ovvero
che lo trovava un po' sciupato. Gli accarezzò la guancia e
trovò la conferma che il suo bambino aveva qualche problema
che
lo preoccupava molto.
«Nanny, sono venuto solo a parlare con...» Nel
pronunciare
quelle parole, la voce di Saga ebbe un attimo di incertezza.
L'anziana donna rimase visibilmente delusa. Sperava si sarebbe
trattenuto di più, magari fino a cena. Sospirò e
gli
prese le mani. «Tuo padre è in giardino. Ma prima
che ti
lasci andare da lui, parlami di te: come stai? E Caroline, quella
povera ragazza, come sta? Ti prego, dimmi la
verità», lo
esortò, con tono accorato.
«Sta meglio. Oggi è voluta tornare al
lavoro», disse
Saga, ma nel risponderle era evidente il suo disagio. Provò
a
distogliere lo sguardo da quello indagatore della donna,
perché
sapeva fin troppo bene che Nanny era in grado di capire subito quando
mentiva.
Nanny lo strinse forte in un altro abbraccio, accarezzandogli la testa
bionda. Anche lei aveva qualcosa da nascondere: sentiva che da un
momento all'altro avrebbe pianto e non voleva farsi vedere in quello
stato, soprattutto non dal suo bambino. «Per
Caroline»,
sussurrò, indugiando a lungo, dandogli anche un bacio sulla
guancia. «Ora vai da tuo padre, che io ho da fare
qui!»
disse, riprendendo il suo solito vigore. Poi squadrò
severamente
Shura che rispose con un cenno del capo, seguendo il giovane.
Saga si fermò per qualche secondo nel porticato. Diede una
lunga
occhiata all'immenso giardino di fronte a sé.
Notò il
gazebo bianco, di forma ottagonale: quell'anno lo avevano contornato di
azalee rosa e bianche. Quando mise piede oltre il porticato, venne
investito da un sole caldo e accecante. Si schermò gli occhi
con
una mano e si diresse al gazebo.
Il padre gli dava le spalle, seduto su una delle poltroncine da
giardino. Non era solo, Saga aguzzò un poco la vista e
intravide
un'ombra che si muoveva sull'altra poltroncina, quasi di fronte a
Shion. Percepì una voce lieve e poi una risatina, e vi
riconobbe
Saori. Sorrise al pensiero che, con la presenza dei due ospiti
giapponesi, il padre e Nanny non sarebbero rimasti soli in quella
grande casa.
Continuò a camminare sul prato perfettamente curato, ma
più si avvicinava, più sentiva le gambe diventare
molli,
più cresceva in lui un certo disagio.
Saori alzò per un momento gli occhi dal libro mentre girava
la
pagina e si accorse dell'arrivo di qualcuno in compagnia di Shura.
«È tornato Kanon», disse a bassa voce,
rimanendo a
bocca aperta. Erano quasi due mesi che non lo vedeva e all'improvviso
sentì una strana attrazione. Arrossì e
abbassò gli
occhi, toccandosi prima i capelli e poi lisciandosi con entrambe le
mani la gonna del suo vestitino di cotone chiaro con stampe a fiori.
Shion girò un poco la testa e lo vide. «No, cara,
è
Saga», disse, allungandosi per prendere il bicchiere di
tè
freddo e bevendone un piccolo sorso. Con la coda dell'occhio
notò una punta di delusione nella giovane. Guardò
l'ora.
«Chiedi a Nanny di prepararti qualcosa per
merenda», le
disse.
Saori annuì, chiuse il libro che stava leggendo e si
alzò
dalla poltroncina. Intuì subito che si trattava di una scusa
e
che l'uomo voleva parlare in privato con il figlio. Nel dirigersi verso
la casa incrociò la strada con Saga. Si fermò un
attimo e
lo salutò con un inchino.
«Buongiorno, Saori», la salutò lui.
«Buongiorno, mr Hayes», rispose la ragazza.
«Sono semplicemente Saga», le disse, sorridendo, ma
in
lieve imbarazzo per tanta formalità da parte della giovane.
«Ora siete un uomo sposato», replicò
Saori, con un
pizzico di delusione nella voce, continuando a tenere lo sguardo basso.
«Con permesso.»
Saga si scostò per lasciarla passare; poi, tornando con lo
sguardo al gazebo, fece un respiro profondo. Il disagio di prima stava
diventando più pressante. Gli sembrava di essere un bambino
che
va incontro a una punizione inevitabile, di essere tornato a qualche
mese prima, quando il padre lo aveva chiamato in biblioteca e lo aveva
tenuto lì, in piedi di fronte a lui, senza nemmeno
rivolgergli
uno sguardo o una parola, ferito e umiliato. Ma ora, nonostante avesse
fatto tutto così in fretta e di nascosto, sapeva di essere
nel
giusto, perché aveva fatto qualcosa per se stesso, per la
sua
vita.
«Buongiorno, papà. Come stai?»
Shion Hayes girò la pagina del quotidiano che stava
leggendo,
gli diede una scorsa veloce, come se non avesse sentito il figlio e lo
ripiegò con cura. Poi si tolse gli occhiali da lettura:
nonostante fossero già alcuni anni che gli era stato
consigliato
l'uso, aveva preferito ignorarli, accantonati in una delle taschine
della ventiquattrore. Era solo nelle ultime settimane che non aveva
potuto farne a meno, sentendo i suoi occhi più stanchi e
affaticati del solito.
«Accomodati, Saga. Gradisci un po' di tè
freddo?»
chiese, prendendo la caraffa e riempiendo il bicchiere della bevanda
fresca.
Saga sfogò la tensione di quel momento, di predentarsi
lì
a chiedere un favore personale, stringendo con la mano il cuscino dello
schienale della poltroncina, poi la spostò un poco indietro
e vi
si sedette, accettando il bicchiere che il padre gli aveva offerto,
mentre Shura prendeva posto nell'altra poltroncina. «Porti
gli
occhiali?» domandò meravigliato.
«La vecchiaia», rispose laconico l'uomo,
massaggiandosi la
base del naso. «Qual buon vento ti porta da queste
parti?»
gli chiede, permeando quelle parole di una lieve sfumatura di ironia.
Saga abbassò lo sguardo sulle sue mani appoggiate alle cosce
che si erano mosse nervose.
«Scusami, non volevo metterti in
difficoltà»,
riprese Shion. «Come va la tua nuova vita, come state tu e
Caroline?» domandò, questa volta con sincero
interesse.
«Sono qui proprio per lei», sospirò
Saga, mostrando
ora tutta la preoccupazione che provava fin da quella mattina.
Shion lo fissò sbigottito, ma anche Shura, che era rimasto
in
silenzio – quasi disinteressato – durante quella
conversazione che stentava a svolgersi, a quelle parole si fece
più attento.
«Saga, c'è qualche problema?» gli
domandò
l'uomo, sporgendosi verso di lui e posandogli la mano sul braccio.
Il giovane annuì lentamente. «Lei non riesce
ancora a
riprendersi da quello che è successo e io non posso fare
niente
per rimediare.»
«Ma quanto è capitato non è colpa
tua», lo interruppe Shura.
Saga lo guardò con gratitudine per quelle parole, ma
ugualmente
se ne sentiva responsabile. Se solo fosse stato più attento
lei
non avrebbe sofferto in quel modo. «Caroline ultimamente ha
avuto
diverse delusioni», iniziò a raccontare.
«Qualche
mese fa si è iscritta a un corso di criminologia che si
tiene ad
Harvard. Lei ne ha bisogno, non tanto per il lavoro, ma quanto per se
stessa. Ieri è arrivata dall'Università la
lettera di
conferma», disse, prendendo dalla tasca dei pantaloni la
lettera
un po' spiegazzata, «solo che... per il momento la sua
iscrizione
è sospesa. Dicono che per potervi prendere parte deve
presentare
altri documenti oltre quelli già forniti. E questo non
sarebbe
un problema.» Indugiò qualche secondo,
massaggiandosi la
tempia, poi riprese. «Ma, come requisiti, richiedono anche un
determinato numero di crediti ed esami. E Caroline purtroppo non li ha.
Gli esami che ha dato a Philadelphia, al tempo del College, non le
vengono riconosciuti.»
Shion rimase ad ascoltarlo in silenzio, con le mani appoggiate al
giornale ben piegato sulle gambe mollemente accavallate.
«Cosa
vuoi chiedermi?»
«Lei non sa ancora di questo intoppo. Non le ho detto niente
della lettera. Io... non posso darle anche questa delusione. Allora,
considerato che sei un ex allievo e contribuisci ogni anno con una
generosa donazione... ho pensato che se tu ci mettessi una buona
parola, se le scrivessi una lettera di raccomandazione, potrebbero fare
un'eccezione per lei.»
Nell'esporre il vero motivo per il quale si era presentato di nuovo a
casa, aveva gettato completamente la maschera e mostrato ai due uomini
quanto stesse male anche lui. Di nuovo si toccò la tempia,
nel
punto dove c'era la piccola cicatrice, grattandosi fino a farla
diventare rossa.
Era una pena vederlo così prostrato.
«Shion», intervenne Shura.
I due erano in attesa di una reazione da parte dell'altro, ma l'uomo
continuò a rimanere impassibile, con lo sguardo fisso sul
figlio. Ci fu un pesante sospiro e altri momenti di silenzio, nei quali
si sentì il rumore del ghiaccio che si scioglieva nella
caraffa
del tè.
Saga alzò la testa: i suoi occhi delusi incrociarono quelli
del
padre, seri e indecifrabili. «Scusami per averti
disturbato.» Non aggiunse altro. Attraversò il
giardino e
prese il sentiero che portava a Winchester.
«Potevi dire qualcosa. Diavolo, Shion, è venuto a
chiederti aiuto», lo rimproverò Shura, alzandosi e
seguendo con lo sguardo il giovane che si stava allontanando.
«Capisco che tu non voglia cedere subito, che preferiresti
tornasse a vivere qui, in modo da tenerlo sotto controllo, ma
così, non facendo nulla, lo perderai. Shion, non essere
testardo!»
«Non mi sono rifiutato di aiutarlo», rispose
l'uomo,
appoggiando il giornale sul tavolo, «ma non posso neanche
mostrarmi troppo accondiscendente, anche se viene da me a capo chino.
Non è più un bambino, i suoi problemi deve
imparare a
risolverli con le proprie forze.»
I suoi pensieri però erano differenti. Vederlo in quello
stato
gli aveva fatto provare una stretta al cuore, perché si era
ritrovato in una situazione simile a quella di tanto tempo prima,
quando Anthony ed Emma lo avevano supplicato di aiutarlo e lui si era
rifiutato.
Prese il cellulare dal taschino della camicia chiara e compose
rapidamente il numero del suo ufficio di Boston. Parlò con
la
sua segretaria per qualche minuto e le diede istruzione di controllare
la pratica relativa ad Harvard.
*****
L'uomo chiuse la telefonata con un mezzo sogghigno. Poi, prese la busta
di tabacco appena comprata e iniziò a rollarsi una sigaretta
che
subito si mise in bocca. Era seduto sul muretto basso che contornava un
cespuglio da siepe modellato a sfera. La main street di Whinchester era
insolitamente deserta in quell'ora del tardo pomeriggio e nessuno lo
avrebbe scocciato perché intendeva fumare.
Imprecò fra i
denti contro quelle stipide leggi sul fumo. Dal taschino della camicia
sudaticcia prese l'accendino; ma, anziché usarlo, se lo
rigirò nella mano. La sigaretta rimase a penzoloni fra le
labbra, perché la sua attenzione venne attirata da
qualcos'altro
e quella specie di ghigno mutò in un sorriso inquietante.
Pensava si sarebbe rivelata una totale perdita di tempo quel viaggetto
fuori Boston, soprattutto dopo che aveva perso di vista il taxi che
stava seguendo; invece, eccola lì la persona che aveva
attirato
la sua attenzione, che camminava proprio di fronte a lui, ma dall'altra
parte della strada; e si dirigeva verso la fermata dell'autobus.
Raccolse la busta del tabacco e lo seguì a distanza,
fermandosi
poi accanto all'auto che aveva parcheggiato pochi minuti prima. La
posizione era ottima, la fermata era solo qualche decina di metri
più in là.
La ruota della fortuna aveva girato ancora una volta in suo favore,
facendo uscire un colpo doppio e poco importava se in realtà
aveva dovuto attendere qualche mese: avrebbe atteso anche un anno per
darle ciò che si meritava.
«Se l'è scelto proprio bene»,
mormorò fra
sé, appoggiato con un braccio al tettuccio dell'auto che
aveva
preso a noleggio. In quei mesi passati a Boston, ne aveva cambiate
più di dieci di auto, tutte sempre pagate in contanti, per
non
lasciare tracce di sé. Con il cellulare fece un breve video,
quando lo vide salire sull'autobus. Sapeva già dove abitava
assieme a lei, per diversi giorni era rimasto appostato nei dintorni di
quella palazzina, sia prima che dopo il viaggetto di lei a
Philadelphia. Ora non gli restava che scoprire il nome dell'uomo e
attendere il momento giusto.
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Capitolo 32 *** Capitolo XXXI ***
XXXI
A Kanon Hayes era
sempre piaciuto quando una donna gemeva il suo nome, stretta fra le sue
braccia e avvolta solo nel tepore del suo corpo atletico. Era qualcosa
che sapeva fare dannatamente bene, che lo gratificava e ne esaltava
l'ego già di per sé smisurato, soprattutto quando
si
trattava di piacevoli attività da letto.
A volte si divertiva
con qualche giochetto erotico; nulla di volgare, o quella
“roba” che andava di moda in quel periodo. A volte
gli
bastava “farsi sentire” affinché quei
gemiti gli
rendessero onore, facendolo sorridere della giusta soddisfazione.
Però, da
quando il gemello si era sposato, in quel modo, senza dirgli nulla,
aveva iniziato a vivere il sesso in modo differente: era meno
appagante, meno divertente. E quei gemiti, un tempo musica per le sue
orecchie, arrivavano a infastidirlo, anche quando a produrli era la
persona che più si avvicinava a fargli provare amore.
Più volte si
era domandato come sarebbe stato essere monogamo, a come ci si sarebbe
potuti sentire nell'essere legati stabilmente a qualcuno. C'era chi
sosteneva che si era liberi, quando si donava il cuore a un'altra
persona, ma come poteva essere? E comunque, lui era già
libero;
e quella libertà la viveva nella maniera più
piena
possibile: era libero di cambiare donna ogni notte, libero di averne
più di una alla volta, libero di conquistare qualunque donna
desiderasse e... perché no, anche libero di essere conteso.
Insomma, era libero in tutti i sensi. Non come quell'educanda di Saga,
che si faceva sempre tante remore nel chiudere una relazione, prima di
iniziarne un'altra. E questo era capitato anche quando si era trattato
di quella piattola di Jenny, rimanendo in bilico per diverse settimane,
nonostante la lontananza e i numerosi capricci di lei, prima di
decidersi a mollarla.
Kanon invece, lui si
autodefiniva un “assaggiatore” e solitamente non
andava mai
oltre una o due notti, tranne che con due sole donne, che sapevano
dargli – a modo loro – qualcosa in più.
Ma ce n'era
una sulla quale non avrebbe mai dovuto permettersi di soffermare i
propri pensieri. Soprattutto quando era nel letto, già in
compagnia, e con altri gemiti che facevano da colonna sonora al sesso.
All'improvviso sulle
sue labbra sentì la stessa sensazione di quando aveva
baciato
Caroline sulla guancia, quando aveva lambito l'angolo della sua bocca,
come una voluta provocazione al gemello nel giorno della sua
presentazione ufficiale; e aveva provato una sensazione di pulito e
candore: così assolutamente perfetta per suo fratello.
Non sapeva
spiegarselo, eppure fino a poco prima aveva assaporato labbra
voluttuose che avrebbero fatto dimenticare tutto e portato direttamente
in paradiso. Poi, come una conseguenza naturale, gli tornò
in
mente l'odore dell'erba tagliata di fresco e dei fiori che quel giorno
avevano addobbato la terrazza del Country Club. Era tutto
così
vivido che, inspirando, gli sembrò di sentirli ancora,
nonostante nella stanza stessero bruciando dei bastoncini di incenso al
sandalo e oppio.
Inspiegabilmente, in
gola sentì anche il fastidio della terra rossa del campo da
tennis che il fratello gli aveva fatto mangiare proprio quello stesso
giorno, dopo l'ennesima sconfitta. Non aveva mai capito
perché
Saga avesse fatto costruire il loro campo privato con la terra rossa,
anziché in erba com'erano invece gli altri campi, quelli per
i
membri del Club.
Chiuse gli occhi,
mentre la donna sopra di lui si muoveva eccitata e con magistrale
lentezza, per fargli godere ogni istante, ma non riuscì
proprio
a togliersi dalla mente quel pensiero proibito. Anzi, di secondo in
secondo diventava più invadente, arrivando a fargli
immaginare
un'altra donna su di sé in quel momento. Sapeva di
sbagliare, ma
proprio non riusciva a scacciarli e questo lo faceva sentire un vero
schifo.
Per quel poco che la
conosceva, doveva ammettere però che Caroline sembrava la
persona giusta per il gemello, lei così acqua e sapone,
così tranquilla e alla mano, e lui tanto ingenuo e puro, dai
gusti semplici. Non si doveva stupire affatto che con le altre,
così artificiose, non fosse mai durata, nonostante l'impegno
che
Saga ci aveva sempre messo. Kanon grugnì, imponendosi di
smettere subito di pensare a lei, a loro due, perché non
avrebbe
portato a nulla di buono. Doveva invece concentrarsi di nuovo sulla sua
amante e sull'orgasmo che stava arrivando.
Se solo Saga non
avesse fatto tutto così in fretta e di nascosto, se solo si
fosse confidato con lui, o gli avesse lasciato il tempo di
metabolizzare quel distacco...
*****
«Quello di
prolungare le vacanze a tempo indeterminato deve essere un vizio di
famiglia,», disse Aiolos, entrando nella camera da letto
della
villa sulla spiaggia e trovando Kanon, ancora a letto e in compagnia.
Arricciò il naso quando avvertì l'odore
dolciastro che
persisteva in quell'ambiente.
Il giovane Hayes si
mosse un poco, mugugnando qualcosa mentre si girava sul fianco,
grattandosi la natica sinistra e sbadigliando fin quasi a slogarsi le
mascelle. Poco dopo tornò a russare con quel suo modo lieve
e un
po' infantile.
Aiolos
scrollò la testa, borbottando qualcosa sul fatto che alle
due
del pomeriggio anche i figli di papà più viziati
e
petulanti erano già in piedi. Con un colpo secco
aprì le
tende della doppia finestra scorrevole, poi fece altrettanto con
l'altra e la grande stanza da letto si inondò di luce.
Kanon gemette, ferito da tanto chiarore.
«Che
diavolo!» imprecò con voce impastata, provando a
coprirsi
il volto con il cuscino. Ma ormai il danno era fatto e,
benché
cercasse di resistere, non c'era più nulla da fare: lui era
sveglio. Sbuffò. Alzò un poco il cuscino, fino a
scoprire
un occhio per vedere chi fosse il rompiscatole e lo tirò
dritto
in mezzo alla schiena di Aiolos, che ignaro si era soffermato ancora
qualche istante a guardare fuori dalla finestra.
Il breve scossone che mosse il letto
ridestò la donna stesa al suo fianco.
«Kanon? Che
succede?» biascicò lei, infastidita.
Accarezzò il
braccio dell'amante e si tirò su, mostrando la capigliatura
bionda completamente arruffata. Il suo bel viso non mostrava i segni
della notte brava che i due avevano appena passato, né i
suoi
occhi azzurri erano contornati dal trucco sfatto.
«Tranquilla, Kim, è solo il
cameriere del servizio in camera», rispose lui, passandosi le
mani sul viso.
La donna alzò
lo sguardo oltre l'amante e intravide Aiolos con un'espressione
scocciata sul viso un po' in ombra. Non le era d'aiuto che il terzo
incomodo avesse il sole alle spalle. «Ciao, Aiolos, cosa ci
hai
portato di buono?» gli domandò con tono vagamente
divertito, tirando un poco il lenzuolo e coprendosi il petto. Non si
sentiva più di tanto in imbarazzo in sua presenza
perché
sapeva che era gay e comunque lo conosceva abbastanza da poterlo
considerare, fuori dal lavoro, come una specie di amico.
L'altro schioccò la lingua, facendo
anche un breve scatto con la testa. «Quasi non ti
riconoscevo, Kimberly.»
«Lo so,
è colpa del foulard, vero?» scherzò
lei. Si
girò e si sedette sul bordo del letto; poi, si mise in
piedi,
portandosi dietro il lenzuolo e avvolgendoselo addosso, entrando subito
nel bagno attiguo alla camera. Lo scroscio dell'acqua della doccia
arrivò poco dopo.
Kanon invece rimase
ancora sdraiato, con gli occhi di nuovo chiusi. Si mosse pigramente sul
materasso, mostrandosi completamente nudo e alla mercé della
vista interessata di Aiolos.
«Cosa sei venuto a fare
qui?» gli chiese, con voce ora più decisa.
Aiolos piegò
la testa di lato, continuando a fissarlo. Era appoggiato con la schiena
alla finestra scorrevole, braccia incrociate al petto, e lo osservava
con una punta di eccitazione negli occhi.
«È sempre lui,
vero?» chiese ancora Kanon, ma in realtà temeva di
conoscere già la risposta.
«Perché pensi che venga a
romperti le scatole per qualcosa che riguarda lui?»
«E allora perché sei
qui?» insistette Kanon, grattandosi vicino all'inguine.
A quella domanda
Aiolos non rispose, ma il ghigno sulla sua faccia, che Kanon
però non poteva vedere, era più che eloquente.
Rimase
ancora un minuto buono con lo sguardo sull'amico, ma quando
iniziò a sentire una certa tensione al basso ventre,
corruggò la fronte e si staccò dalla finestra per
uscire
dalla stanza. Nel passare vicino al letto raccolse da terra il
copriletto e glielo gettò addosso, mugugnando scocciato.
Kanon trattenne la
risata finché non sentì la porta chiudersi, poi
si
lasciò andare: non provava alcun interesse a essere oggetto
di
attenzioni da parte dei maschi, ma gli piaceva da morire provocare
Aiolos in quel senso. La sua risata scemò in fretta. Si
girò sul fianco destro e fissò per alcuni minuti
la
porzione di oceano che si intravedeva dalla finestra. Il suo cellulare
era lì, a portata di mano, posato sul comodino. Gli mancava
parlare con il gemello, sapere come stava e intromettersi nella sua
vita. Ma forse era il solo a sentirsi in quel modo. Lui se n'era andato
senza dirgli nulla e Saga non gli aveva fatto mai neanche uno squillo.
Quanto era passato dall'ultima volta?
«Quasi tre mesi...»
bofonchiò.
Fece un respiro
profondo e si mise seduto sul bordo del letto. La camera era un vero
macello. Individuò il pezzo sopra del bikini che aveva
indossato
Kimberly la sera precedente buttato malamente sul paralume della
lampada a stelo, dietro la poltroncina nell'angolo. L'altro pezzo
invece non ricordava dove l'aveva lanciato. I suoi vestiti erano
disseminati sul pavimento, assieme a uno degli stringatissimi sandali
dorati di lei e a una bottiglia vuota di champagne.
«Dove sono finiti i boxer?»
si chiese, grattandosi la testa e continuando a scandagliare la stanza
con gli occhi.
Poi, si accontentò di prendere da
terra un asciugamano usato e se lo legò in vita.
Con passi svogliati,
sbadigliando ancora un paio di volte, si diresse in cucina e al
frigorifero. Prese il latte e bevve dei lunghi sorsi direttamente dalla
bottiglia. Poi tirò fuori il necessario per preparare
qualcosa
di veloce da mangiare.
Fece un cenno all'amico, mostrandogli le uova e
la frusta, ma ricevette una breve scrollata di testa in diniego.
«Pensi di
fermarti a lungo?» gli domandò con l'eloquente
tono di chi
non vuole un terzo incomodo che gira per casa, iniziando a sbattere
delicatamente le uova in una boule.
Mostrando di non
voler dare troppo peso all'eventuale risposta continuò a
cucinare, aggiungendovi un pizzico di sale, qualche fogliolina di
prezzemolo, che tritò sul momento, un goccio di latte e,
come
tocco finale, abbondante peperoncino.
«Non ne ho
idea», rispose Aiolos, allungando la mano e mettendo in bocca
un
mini hotdog che aveva pescato dalla confezione lì vicino,
continuando a osservare l'altro che si destreggiava con sicurezza tra i
fornelli.
Kanon sbuffò.
Prese un paio di fette di pane in cassetta e le inzuppò per
bene
nelle uova, appoggiandole poi su un piatto. Tornò al
frigorifero
e prese anche del prosciutto cotto, del formaggio a fette e un pomodoro
maturo. Preparò tutto con ordine e minuzia, ritagliando il
prosciutto in pezzi un poco più piccoli delle fette di pane,
vi
aggiunse una fetta di formaggio e richiuse il toast, premendo un poco
sui bordi. Mise del burro a rosolare in una padella e subito dopo anche
ciò che aveva appena preparato.
«Ora che siamo
soli, qual è il vero motivo di questa tua visita?»
domandò ancora, mettendo sul fuoco un'altra padella,
più
piccola, nella quale versò i mini hotdog per arrostirli
leggermente.
«Siamo ad
agosto, no? Mi sono preso qualche giorno di ferie», rispose
Aiolos, allungandosi per un altro assaggio, ma trovando il piatto vuoto.
Kanon rigirò il french toast
nella padella facendolo saltare con un colpo di polso, al tempo stesso
iniziò a impiattare e, quando Kim fece la sua entrata,
indossando uno sfavillante bikini rosso con strass e un pareo legato in
vita, le presentò con un sorriso il suo piatto preferito
ancora
fumante.
«Che programmi
hai per la giornata?» le chiese, servendole anche un
bicchiere di
acqua frizzante, mentre lei si sedeva sullo sgabello di fianco ad
Aiolos.
«Un ultimo
bagno di sole e poi riparto per New York. Stasera è in
programma
un volo per Las Vegas. Dei liceali viziati hanno organizzato un weekend
ai casinò per festeggiare la maggiore
età»,
raccontò lei, arricciando le labbra in una mezza smorfia.
Si morse le labbra,
pregustando il suo toast fritto e ne tagliò un bel boccone,
mettendolo subito in bocca, incurante del formaggio fuso ancora fumante
al suo interno.
«Ma non hai paura di ingrassare a
mangiare quella roba?» le domandò Aiolos.
«Da quanto non ti fai una bella
scopata?» ribatté Kim.
Al di fuori del suo
ruolo di hostess, che la obbligava a mostrare un sorriso in qualunque
situazione si trovasse, lei era una persona che non aveva paura di
rispondere a tono alle provocazioni. Con la forchetta a mezz'aria, Kim
lo squadrò per qualche secondo, sogghignando: era tentata di
fargli notare quel lieve rotolino che si intravedeva dalla maglietta
color kaki che gli fasciava in maniera così sexy il petto,
ma si
trattenne.
«Mia
cara», intervenne Kanon, accarezzadole la guancia,
«ti stai
forse proponendo? Lo dovresti sapere che non sei il suo tipo: hai
qualcosa di troppo sopra e ti manca qualcosa di sotto.»
Aiolos
assottigliò lo sguardo e grugnì qualcosa,
confermando
quanto avesse subito il colpo, soprattutto dopo l'ennesima sonora
risata di Kanon. Fece un'alzata di spalle e, incurante dell'altro che
ancora se la rideva, intento a tagliare un'arancia rossa, si mise a
frugare nel frigorifero. Il nervoso gli aveva risvegliato l'appetito.
*****
Alle sette e mezza
del mattino, nella casa si respirava già silenzio e
tranquillità, ma nella mente di Saga, quando
entrò in
cucina, ancora risuonavano i saluti di Cora alla gattina e le sue
raccomandazioni di non fare danni; infine, dopo un breve trambusto, la
porta d'ingresso che si chiudeva con un leggero click e un giro di
chiavi. Aveva trovato divertente come la moglie fosse uscita di corsa
perché in ritardo per l'autobus, senza neanche accorgersi
della
sua presenza. Si versò una tazza di caffè
fumante,
fermandosi a sorseggiarlo di fronte alla finestra. Nella palazzina
dall'altra parte del cortile, Jade era alla sua di finestra e lo stava
salutando con la mano. Le fece un sorriso e ricambiò il
saluto,
ma subito si scostò da lì, avvicinandosi
all'isola della
cucina, dove era stato lasciato il quotidiano del mattino, ancora ben
piegato e una cloche in alluminio, di quelle professionali, un poco
scostata dal piatto che avrebbe dovuto coprire. Appoggiato a essa c'era
un bigliettino piegato in due, scritto a mano da Caroline.
Questa
è una specialità italiana che ci manda mia madre.
Assaggiala, ma lasciamene un po' per quando torno!
Saga alzò la
cloche: nel piatto c'erano due fette di pane fresco cosparse di quella
che sembrava della crema alla nocciola.
«Nu...te...la»,
lesse il nome sull'etichetta del barattolo gigante. La pronuncia non
era stata delle migliori, perché alla doppia elle gli venne
naturale leggerla alla spagnola. «Non era necessario farla
arrivare fin dall'Italia. Se la voleva la poteva prendere anche al
minimarket qui vicino», commentò. Poi,
girò il
bigliettino che teneva ancora in mano. Il messaggio continuava: Lo so che ce l'abbiamo anche qui
da noi, ma vuoi mettere quella originale che è stata
confezionata in Italia?
Sorrise divertito,
perché era stato come se lei gli avesse letto nella mente,
ma
più facilmente aveva previsto l'obiezione che lui avrebbe
potuto
fare.
Prese una fetta di
pane e l'addentò, mentre con l'altra mano spiegava il
giornale
sul piano dell'isola e si portava più vicino la tazza di
caffè. Lesse un paio di articoli dalle pagine finanziarie,
intanto che beveva e mangiava anche la seconda fetta. Quando
trovò il piatto vuoto, alzò lo sguardo sul
barattolo,
considerando che se solo Caroline avesse saputo quanto lui era goloso
di dolci, nonostante non sembrasse affatto, non sarebbe stata tanto
incauta da lasciarglielo a portata di mano.
Da qualche mese
riceveva sempre meno lavoro dagli uffici di New York. Seduto a gambe
incrociate sul divano – e con il laptop appoggiato sulle
gambe
– controllò la casella email professionale, ma di
nuovo
materiale non ce n'era. Sbrigò le vecchie pratiche in poco
meno
di un paio di ore e si ritrovò con il resto della giornata
libera.
Sbadigliò
annoiato e si distrasse a seguire con lo sguardo Kitty che zampettava
silenziosa verso la cucina, con quella sua codina dritta verso l'alto e
perfettamente immobile. Piegò la testa di lato e si sporse
un
poco, per vederla meglio. Poi, quando la bestiola scomparve dietro
l'angolo, fece spallucce e sospirò, chiudendo il laptop e
buttandosi sdraiato sul divano. Un tempo non avrebbe avuto
difficoltà a occupare le ore libere: gli sarebbe bastato
fare
una passeggiata fino al Country Club e prestare il suo tempo come
maestro di tennis, oppure lavorare nel laboratorio del vecchio Josh.
Ora il laboratorio l'aveva a disposizione in qualsiasi momento, doveva
solo varcare la porta di casa e fare due rampe di scale, ma in qualche
modo questo gli faceva passare la voglia.
Fissò il
soffitto per qualche minuto, rimuginando un po', anche se su nulla in
particolare. Al piano di sopra, la soffitta era stata rimodernata
così come il resto dell'appartamento, ma la vecchia mobilia
c'era ancora tutta. Gli balenò l'idea di fare qualche lavoro
lì sopra.
«Sono sicuro
che a Josh farebbe piacere se qualcuna di queste cose potesse essere
utile ad altri, anziché prendere polvere qui»,
commentò mettendo piede in quello stanzone, grande ancora
quando
metà dell'appartamento, nonostante fossero state ricavate
due
camere e un bagno.
Non si
soffermò a domandarsi come mai gli fosse venuto in mente
proprio
di salire in soffitta, ma in poco tempo era già
completamente
preso a suddividere le cose che avrebbe potuto tenere da quelle che
invece poteva dar via.
Fra le vecchie cose
dell'uomo, Saga trovò una bella scrivania a serranda degli
anni
'30. La osservò con attenzione, nonostante la polvere e
qualche
intaccatura era ancora in ottimo stato. La trascinò in mezzo
alla stanza, annuendo soddisfatto, poi si guardò attorno:
c'era
anche una vecchia libreria bassa, o forse era la parte superiore di un
mobile che a suo tempo era stato ben più grande. Ne
accarezzò la superficie con la mano, valutando che con una
passata di cera sarebbe tornata come nuova e, appoggiata alla parete
bassa, proprio sotto il lucernario nuovo – che aveva
completamente cambiato l'aspetto della soffitta donandole un'aria
più luminosa e ariosa –, sarebbe stata perfetta.
Di nuovo,
diede un'occhiata in giro. Trovò anche un paio di mobiletti
che
potevano trasformarsi in schedari e una cassettiera bassa, che poteva
essere sfruttata eventualmente come piano per la stampante.
A sinistra
accantonati della porta, c'erano ancora alcuni scatoloni di Caroline.
Sorrise. Quello era un aspetto di lei che forse non sarebbe mai
cambiato, ma neanche avrebbe voluto cambiasse. Li prese uno dopo
l'altro e li sistemò, proprio come aveva già
fatto una
volta.
Senza rendersene
conto si erano fatte le cinque del pomeriggio. Lui si era ritrovato
pieno di polvere e ragnatele, ma era soddisfatto. Si scrollò
di
dosso la polvere e scese in casa. Non si fermò, ma
continuò fino al laboratorio. Prese il cellulare che usava
per
gli affari della sua “vita segreta” e
telefonò al
centro giovanile della parrocchia del quartiere. Si accordò
con
Brian, il responsabile dei volontari, per lo sgombero in giornata:
voleva finire tutto prima del ritorno di Caroline e farle una sorpresa.
Dopo i grandi lavori
effettuati in casa, dopo la loro separazione, dopo il Canada e il tempo
passato a recuperare intimità e sintonia fra loro, non c'era
stata ancora una vera occasione per Caroline di organizzarsi uno spazio
tutto suo. La cameretta che volevano utilizzare per farne uno studio
aveva mantenuto la sua funzione originaria, così come la
seconda
camera matrimoniale, quella per gli ospiti, che non aspettava altro che
accogliere la famiglia di lei, se avesse voluto far loro una visita.
Le cose di Caroline
erano perlopiù ancora impacchettate o riempivano parte della
biblioteca della sala, messe fra qualche rara edizione dei classici
americani – che Saga aveva raccolto nel corso degli anni con
il
suo hobby del restauro – e oggetti di design moderno; e lei
si
sacrificava a studiava in cucina o accoccolata in una delle due
poltrone, sommersa da libri di testo, codici e fascicoli di casi creati
ad hoc per il corso.
Ora che finalmente
la loro vita stava iniziando a viaggiare sui binari giusti, che lei
aveva superato i suoi blocchi e accantonato le lacrime per la perdita
del loro primo figlio, era diventata tanto energica che non si fermava
un minuto. Le sue giornate erano suddivise fra il lavoro al magazzino
prove dell'agenzia investigativa di Edward Price, il corso di
criminologia ad Harvard e le prove sul campo. Paradossalmente, con la
ritrovata serenità di Caroline, faceva da contraltare un
velo di
tristezza su Saga, ma che ancora non sbiadiva la sua voglia di vedere
felice la compagna. Del resto, era stato educato da Nanny a pensare
prima di tutto al benessere delle persone amate, e cosa poteva volere
di più che prendersi cura di Caroline?
Fare il necessario per farla stare bene, faceva
sentire bene anche lui.
*****
Da qualche tempo
ormai, nei giorni in cui aveva lezione, Caroline aveva preso a
rientrare tardi la notte; e, quando invece rimaneva in casa, si
rintanava in soffitta, oppure si estraniava in sala, sempre immersa
nello studio di vecchi casi di polizia. A volte, con il permesso del
suo datore di lavoro, prendeva in prestito alcuni fascicoli
dall'archivio e vi rimaneva così coinvolta nella lettura che
neanche si accorgeva del tempo che passava. Proprio come quella
domenica pomeriggio, che si stava pigramente trascinando verso la sera.
Saga aveva provato
più volte a intavolare una conversazione, chiedendole di
parlargli di ciò che stava studiando, ma Caroline non
sembrava
neanche accorgersene. Sbuffò, annoiato e frustrato,
soffiando
l'aria verso l'alto e smuovendo un poco i capelli che gli ricadevano
sulla fronte.
Kitty mosse un
orecchio, poi alzò la testolina e si girò verso
il suo
padrone. Scese poco dopo dal divano, sul quale era rimasta accoccolata
vicino alla gamba di Saga e si stiracchiò per bene,
allungandosi
sul parquet e facendo un gran sbadiglio. Girò per la casa
zampettando silenziosa, ma tornò quasi subito, rimanendo a
metà fra la cucina e la sala. Seduta sul parquet scuro e con
la
luce del tramonto che proiettava la sua ombra davanti a lei.
Miagolò.
Lo fece di nuovo,
con uno strano tono. Si grattò dietro l'orecchio. Poi si
leccò la zampina un paio di volte, passandosela sul musetto
e
tornò a fare la statuina per qualche altro minuto.
Saga la
osservò tutto il tempo, sorridendo lievemente,
passò
quindi a fissare la moglie: era seduta scomposta, con entrambe le gambe
a cavallo del bracciolo morbido della poltrona e gli dava praticamente
la schiena. La testa bassa e gli occhi sempre incollati su quei fogli.
Erano ore che non si muoveva da quella posizione. Aggrottò
la
fronte e abbassò lo sguardo. Lo stomaco iniziava a
borbottare.
«Caroline», la
chiamò, ma lei non diede segno di aver sentito.
Kitty scambiò
il movimento del braccio di Saga per un richiamo, zampettò
veloce e saltò sul divano, strusciandosi con tutto il corpo
contro la mano del suo padrone, appoggiata – non proprio
rilassata – sulla coscia, facendo le fusa.
«Sai»,
riprovò Saga «l'altro giorno Jade ha portato del
polpettone, lamentandosi che il frigorifero è sempre
più
vuoto, mentre la dispensa è sempre ben rifornita di snack e
schifezze varie. Ha detto anche che è molto preoccupata per
te», le disse, con un tono vagamente serio, accarezzando il
pelo
lucido di Kitty.
Alzò lo
sguardo su di lei attendendo una reazione e dopo qualche secondo
ricevette un mugolio distratto. Fece una mezza smorfia, pensando a
qualcosa che avrebbe potuto scuoterla, scioccarla abbastanza da farle
tralasciare almeno per qualche minuto i suoi interessi e dedicarsi a
lui.
«Ieri ho incontrato la mia ex e
abbiamo fatto l'amore.» Il suo tono divenne più
aspro e indispettito.
Nonostante quelle parole, che avrebbero fatto
balzare in piedi chiunque, da lei provenne invece un altro mugolio.
«La smetti di
ignorarmi?» le urlò, strattonandola per un
braccio. Non si
era reso conto di quanto la sua voce fosse uscita alterata in quel
momento; però, finalmente ottenne la sua attenzione.
«Che
succede?» chiese Caroline, alzando lo sguardo stralunato
verso di
lui, togliendosi lentamente gli auricolari, anche se già da
diversi minuti non stava più ascoltando nulla.
Fissò
l'espressione afflitta di Saga senza riuscire a capire cosa avesse e
perché la guardasse in quel modo. «Va tutto
bene?»
Saga si
accasciò sul tavolino basso, appoggiando stancamente le
braccia
sulle gambe. Scrollò la testa, tenendo lo sguardo sul
pavimento.
Le sue spalle erano tese e la schiena, un poco incurvata, esprimeva una
tristezza difficile da ignorare. Si passò una mano fra i
capelli
con un gesto sfrustrato e provò a dire qualcosa, ma subito
vi
rinunciò.
«Saga»,
lo chiamò la giovane, preoccupata. Mise da parte le carte
che
stava studiando e si accovacciò di fronte a lui.
«Mi
volevi parlare di qualcosa?» gli domandò.
«Perdonami, ero sovrappensiero.»
«In questi giorni lo sei sempre,
quando sei a casa.»
«Lo so. Mi dispiace»,
rispose lei, provando a sorridergli.
«Se hai
qualche problema all'Università, o al lavoro, puoi dirmelo.
Non
tenertelo dentro», la incoraggiò Saga, stringendo
le mani
che lei aveva posato sulle sue e alzando lo sguardo per guardarla negli
occhi. I suoi, di occhi, erano velati di tristezza, nel sentirsi
così messo da parte.
«No, stai
tranquillo. Al lavoro va tutto bene, come al solito, e le lezioni sono
interessantissime. E poi, Aiolia mi sta aiutando ad ambientarmi, fra
campus, biblioteche e aule», gli disse, allargando il suo
sorriso.
Caroline era
consapevole che era solo grazie a Saga se il fratello di Aiolos aveva
iniziato a tollerarla e a trattarla con più
cordialità.
Ma soprattutto, sapeva che lui si sentiva più tranquillo se
qualcuno come Aiolia vegliava su di lei.
«Il fatto è che ho un
pensiero fisso che mi tormenta.»
«Spero che questo pensiero fisso
riguardi me», disse lui, con un tono di voce un po' risentito.
«Se hai un
accento spagnolo e sei sulla quarantina, allora
sì»,
rispose Caroline prendendogli il viso fra le mani e dandogli un bacio
sulle labbra strette in una smorfia dispettosa. «Cosa posso
fare
per farmi perdonare?»
Vide che si stava
facendo sera e si ricordò che aveva delle
responsabilità.
Si alzò da terra e accennò a portarsi verso la
cucina.
Kitty si svegliò nello stesso momento e scese dal divano
zampettando veloce per precederla.
Saga non era dello
stesso avviso. L'abbracciò e la trattenne, senza dire nulla.
La
strinse appassionatamente. Non rispose neanche alle deboli proteste di
lei di lasciarla andare perché doveva preparare la cena, ma
nonostante questo era chiaro che si stava godendo
l'affettuosità
del marito.
«Non hai bisogno di farti perdonare
nulla», sussurrò Saga, sfiorandole il collo con le
labbra.
La fece girare verso
di sé e la baciò. Nei suoi occhi c'era la voglia
di fare
l'amore con lei, di consolidare una volta di più quella loro
intimità che, nonostante non fosse mancata in quelle
settimane,
lui sentiva di aver bisogno; e questi suoi sentimenti trasparivano da
ogni suo gesto.
Caroline
arrossì e si lasciò coinvolgere dal momento, ma
con un
unico miagolio Kitty frenò sul nascere ogni possibile
sviluppo
romantico.
«Hai sentito?
C'è anche qualcun altro che ha fame. Fammi andare a
preparare la
cena», disse lei, con voce emozionata.
Saga invece non
sembrava intenzionato a darle ascolto. Si convise solo all'insistenza
di Kitty che si era fermata ai suoi piedi e lo fissava con i suoi
teneri occhioni, toccandolo delicatamente anche con la zampina.
Per una giovane
coppia come loro non sempre era necessario apparecchiare la tavola di
tutto punto per cenare, soprattutto quando potevano stare appollaiati
sugli sgabelli della cucina, usare il piano dell'isola come tavola e
spizzidare da un unico piatto, mentre osservavano Kitty seduta sul
cuscino della cassapanca bianca e guardare fuori dalla finestra,
chiacchierando del più e del meno.
Non avevano bisogno
di usare il servizio buono, di vino pregiato e tovaglioli finemente
ricamati, ma solo della reciproca compagnia e di condividere nell'amore
e nel rispetto quei momenti di vita quotidiana.
«Allora, chi
è questo misterioso ispanico?» chiese Saga,
scansando le
tartine alle uova di lompo e prendendo invece l'ultima vegetariana al
cetriolo.
«Nel fascicolo
viene appena accennato, inserito in un elenco di possibili persone da
“sentire”, ma non è mai stato
identificato con
certezza», rispose Caroline, avvicinando il rapporto della
polizia sul caso che in quei giorni, nei suoi momenti liberi, studiava
con assiduità. «Purtroppo le indagini sono state
decisamente superficiali: si sono lasciati sfuggire un più
che
probabile testimone.»
«Davvero? E la polizia non lo ha mai
sentito?»
«Da quello che
ricordo dei racconti di mio padre sul lavoro di indagine, non tutte le
persone interrogate vengono poi anche verbalizzate. Forse, chi ha
parlato con questo tizio non deve aver ritenuto importanti le
informazioni raccolte, o forse queste non portavano da nessuna
parte.»
Rimasero in silenzio
per alcuni minuti, nei quali Caroline preparò una veloce
macedonia di frutta con pesche, melone e l'ultima fetta di anguria
rimasta, che servì in due coppette, spolverando il tutto con
lo
zucchero di canna. Fissò Saga per un momento: teneva gli
occhi
incollati al materiale del caso del quale avevano parlato un attimo
prima, intento a rimuginare su qualcosa.
«Non è
uno dei casi per il corso di criminologia», disse, rompendo
quel
silenzio, ottenendo l'attenzione del marito. «È il
rapporto sulla morte di mio padre.»
«Capisco», rispose Saga. Poi
tornò con gli occhi all'incartamento.
«Non hai nulla da chiedermi in
proposito?» domandò lei, trattenendo il respiro.
Lui scrollò la testa e le sorrise.
Caroline rimase
senza parole alla reazione fin troppo pacata di Saga, ma
capì
che le stava lasciando la libertà di affrontare la
situazione
con i suoi tempi e i suoi modi.
«Ho la sua chiamata al 911»,
disse ancora.
Saga girò di nuovo lo sguardo
perplesso su di lei.
«Quell'uomo quella notte
chiamò la polizia.»
«Una chiamata vera?»
domandò lui con tono incredulo, sgranando gli occhi.
«Non è
poi questo granché», replicò lei,
facendo
spallucce. Vedendo la delusione sul viso di Saga si spiegò
meglio. «Non è come nei film o in quelle
ricostruzioni
televisive dei crimini che passano a notte fonda su Investigation
Channel. La voce non è chiara, la chiamata è
disturbata e
ci sono anche vari rumori di sottofondo che coprono alcune parole.
Insomma, è una vera delusione», concluse, passando
il
panno umido sul piano dell'isola per raccogliere le briciole.
Mentre continuava a
rassettare la cucina, vide con la coda dell'occhio la crescente
curiosità dell'altro che non smetteva di fissare il
materiale
lì vicino. Si asciugò le mani, prese il suo
vecchio
lettore mp3 e offrì a Saga gli auricolari.
«Negli anni
'90 usavano ancora i nastri magnetici, anche per questo la
qualità è bassa. Grazie ad Aiolia ho conosciuto
un tipo
all'Università che me lo ha digitalizzato ed è
riuscito
anche a ripulire un poco la traccia, anche se purtroppo i miglioramenti
non sono serviti a molto», gli spiegò. Poi, gli
lasciò ascoltare la registrazione, tornando a lavare i
piatti.
Saga ascoltò
diverse volte la chiamata e ogni volta con maggiore attenzione. Era
solo una sensazione, ma c'era qualcosa di familiare in quella voce. Non
che potesse dire di essere un esperto di voci o accenti, eppure...
Aggrottò la fronte e rimase con un'espressione pensosa,
togliendosi gli auricolari. In quella registrazione gli
sembrò
di riconoscere la voce di Shura che solo quando era nervoso, o molto
arrabbiato, faceva uscire il suo accento spagnolo. E poi, c'era
quell'intercalare così particolare...
«Allora?» chiese Caroline,
avvicinandogli una coppetta di budino al cacao e un cucchiaino.
«Avevi
ragione, non si capisce molto», rispose lui, appoggiando il
lettore mp3 e gli auricolari sul fascicolo del caso.
«C'è la trascrizione, se
vuoi.»
Saga scrollò
di nuovo la testa: per il momento era soddisfatto. Ciò che
voleva era che lei lo rendesse partecipe e Caroline lo aveva fatto.
«Vado un po'
in laboratorio. Se faccio troppo tardi vieni a chiamarmi», le
disse, dandole un bacio e portandosi via il budino.
*****
Con l'arrivo
dell'autunno, con le giornate che si stavano facendo più
corte e
le serate più umide e fredde, Saga aveva sperato che
Caroline
passasse più tempo a casa. Le aveva consentito tacitamente
di
continuare le sue “esercitazioni” sul campo oltre a
quelle
assegnate nel corso, sicuro che non fosse da sola a svolgerle, ma
affiancata da qualche compagno. Queste però le stavano
prendendo
un po' troppo la mano e lei aveva iniziato a rincasare anche a notte
fonda. Qualche volta, Saga riusciva ad aspettarla sveglio, ma il
più delle volte si addormentava con la consapevolezza che la
parte di letto della moglie sarebbe rimasta vuota.
Quella notte in
particolare, non era riuscito a chiudere occhio. Jade, la vicina un po'
troppo impicciona, gli aveva detto che da qualche tempo aveva notato la
stessa auto parcheggiata nello stesso punto per diverse ore durante il
giorno. E, al suo interno, la stessa persona che una volta l'aveva
fermata per chiederle delle informazioni, che sul momento le erano
sembrate banali. Nonostante la donna vivesse dall'altra parte del
cortile interno – e le finestre anteriori del suo
appartamento
dessero su tutt'altra zona del quartiere – lei era sempre ben
informata su tutto ciò che accadeva sulla strada di fronte
alla
bottega del vecchio Josh. Gli aveva detto di fare attenzione,
offrendosi anche di tenere gli occhi aperti nel caso il tizio fosse
stato un malintenzionato, poiché aveva sentito dire in giro
che
c'erano stati dei furti negli appartamenti della zona nelle ultime
settimane.
Caroline si richiuse
la porta dietro di sé, troppo stanca, arrabbiata e delusa
per
badare al rumore: quella notte era stato un altro buco nell'acqua.
Sbadigliò, facendo seguire poi una lieve smorfia di dolore,
portandosi la mano al viso. Buttò il mazzo di chiavi nello
svuotatasche che Saga aveva realizzato per lei, lasciò
cadere la
borsa a terra e, con la casa avvolta nel buio, entrò in
cucina.
«Dove sei stata finora?»
La giovane
sobbalzò nel sentire una voce alle sue spalle e nel vedere
la
luce accendersi all'improvviso. Si girò e vide Saga;
sembrava
avesse dormito ancora vestito e il suo viso portava i segni di una
duratura stanchezza.
«Scusami, non
volevo svegliarti», disse lei, voltandosi di nuovo per
prendere
dal frigorifero la bottiglia d'acqua. «Sono stata alla
biblioteca
dell'Università a visionare i film di alcuni vecchi
quotidiani
del 1998.»
«Sono quasi le quattro del
mattino!» ribatté Saga, fissandola con occhi
arrossati e nervosi.
«Sono rimasta
fino alla chiusura, verso mezzanotte. Nei periodi di esami la
biblioteca rimane a disposizione degli studenti fino a tardi. Poi, sono
andata in una tavola calda, aperta tutta la notte, per studiare gli
articoli che ho stampato», spiegò lei.
«Sono nella
mia borsa, raccolti in una cartelletta di plastica»,
terminò, passandosi una mano sugli occhi e trattenendo un
altro
sbadiglio.
In quel momento Saga
si avvicinò a lei e le bloccò il polso.
«Cos'hai
fatto al viso?» Le prese il mento e le alzò il
viso a
favore della luce, per esaminarlo meglio.
«Non è niente»,
disse lei, provando a divincolarsi.
«Hai un labbro
rotto e la faccia livida. Non mi dire che questo non è
niente!» le rinfacciò con voce irritata.
«Dimmi la
verità: sei stata di nuovo in giro da sola in posti poco
raccomandabili, vero?»
«Sono gli
inconvenienti del mestiere. A Philadelphia ho lavorato per alcuni anni
con lo zio Phil e capitava di avere a che fare con gente poco
collaborativa. E comunque, davvero, non è nulla di
grave»,
provò a chiudere l'argomento lei, sperando che quella
piccola
bugia potesse far desistere Saga dall'approfondire cosa fosse successo
realmente.
«Smettila con
queste cose! Smettila di mettere in pericolo la tua vita! Tu non sei
una poliziotta, non hai l'addestramento, né le
capacità
per affrontare queste situazioni così pericolose!»
urlò Saga, strattonandola con eccessiva forza.
Caroline rimase
interdetta da quella reazione così veemente. Per diversi
secondi
fissò a occhi sgranati l'espressione alterata del marito.
Non
sapeva cosa rispondere; ma sicuramente, qualunque cosa avesse provato a
dire in quel momento per giustificarsi non sarebbe riuscita a placare
la rabbia che balenava negli occhi di Saga.
«Non volevo farti preoccupare in
questo modo», sussurrò contrita.
«Non voglio
che tu vada avanti con questa assurdità. Lo so che stai
lavorando a un'indagine tutta tua, che non fa parte dei casi per il
corso di criminologia. Da ora in poi non lo frequenterai più
e
smetterai anche con il lavoro part-time!»
«So di aver
esagerato e mi dispiace, ma non puoi dirmi cosa devo fare»,
replicò Caroline, provando a mantenere una voce calma ma
determinata, sostenendo lo sguardo del marito.
Se non fosse stata
consapevole che stava tirando troppo la corda con il suo modo di fare,
avrebbe dimostrato maggiore combattività rispondendo a tono,
schiaffeggiandolo magari, ma sapeva che Saga aveva ragione. Non era
necessario dover ammettere che quella sera aveva rischiato davvero
grosso quando si era avventurata in una zona malfamata; e solo grazie
allo spray al peperoncino, che portava sempre con sé in
borsa,
era sfuggita per un pelo all'aggressione di uno spacciatore. Era
consapevole anche che quell'incoveniente non sarebbe stato l'unico, ma
in lei si era risvegliata la voglia di scoprire la verità
sulla
morte del padre e riempire le lacune di quel rapporto di polizia che
teneva ben chiuso nel cassetto della sua scrivania, assieme al
materiale che in quelle settimane era riuscita a raccogliere in
proposito.
Come se non fosse
bastato, da quando aveva aumentato le ore di indagine, aveva iniziato a
sentirsi osservata, soprattutto quando girava in città da
sola.
Per quel motivo aveva avviato le pratiche per un nuovo porto d'armi,
visto che in Massachusetts non le veniva riconosciuto quello che le era
stato rilasciato in Pennsylvania. E, sempre per lo stesso motivo,
confidandosi con il suo datore di lavoro, questi le aveva dato,
esclusivamente per difesa personale, una calibro 22 non registrata che
teneva solitamente in ufficio.
«Io
finirò quello che ho cominciato e lavorerò
fintanto che
ne avrò voglia», concluse la discussione
accennando un
sorriso, mentre accarezzava con la mano libera il viso di Saga.
Fu in quell'istante
che vide negli occhi verdi del marito formarsi delle lacrime e scendere
poi sulle guance pallide. Era stata così concentrata a
perseguire i suoi obiettivi che non si era accorta che lui,
così
sensibile, ne stava soffrendo.
«Per favore, amore mio, concedimi
ancora un po' di tempo», lo pregò.
«Non se sarai
da sola a farlo, non se ti dovessi trovare di nuovo in pericolo. La
prossima volta voglio venire con te», disse lui, stringendola
forte a sé.
Nei giorni
successivi Caroline aveva mantenuto la parola data implicitamente a
Saga. Dopo le lezioni, o dopo il lavoro, tornava subito a casa e
passava il tempo con lui, aiutandolo a organizzare il lavoro di
restauro che di tanto in tanto lui ancora faceva, preparando cassette e
scatoloni di libri da portare al centro giovanile della chiesa o alla
scuola elementare del quartiere. Lei partecipava agli interessi del
marito e lui si interessava senza più ingerenze su come
procedeva lo studio.
Con la
serenità ristabilita, e il viso completamente guarito,
Caroline
pensò che fosse arrivato il momento giusto per coinvolgerlo
più attivamente. Dopo cena avrebbe provato a introdurre il
discorso, fiduciosa di poter condividere con lui il desiderio di andare
a vedere il luogo dove era morto il padre, perché finalmente
lei
si sentiva pronta a quel passo.
Le cose non erano
andate proprio come aveva pensato, ma il fuori programma era stato
molto gratificante. Avevano fatto l'amore in modo molto appassionato e
con la mente libera che le aveva fatto provare lo stesso eccitante e
piacevole stordimento della prima volta. Saga glielo aveva promesso:
ogni volta sarebbe stata come una prima volta.
Erano distesi sul
letto, avvolti nelle lenzuola bianche di cotone che profumavano di
bucato fresco, abbracciati l'uno all'altra. Il cuore di Caroline
batteva ancora emozionato. Avrebbe voluto rimanere così per
sempre, con l'orecchio appoggiato al petto di Saga ad ascoltare il
battito del suo cuore, invece ruppe il silenzio.
«C'è un posto dove vorrei
andare, stanotte.»
Saga mugulò e si mosse un poco,
stringendo lievemente l'abbraccio.
«In tutto
questo tempo non ho mai trovato il coraggio di vedere dov'è
morto mio padre. Ora credo di essere pronta», disse lei.
A quelle parole, il giovane aprì gli
occhi, ma non disse nulla.
«Verresti con me?»
«Sì», rispose
semplicemente lui.
La stanza ricadde
nel silenzio per diversi minuti. Poi, entrambi si alzarono dal letto e
si vestirono. Non avevano sentito la necessità di farsi
prima
una doccia: addosso avevano l'uno l'odore dell'altra e questo, in
qualche modo, dava a entrambi la forza e il coraggio per ciò
che
li aspettava là fuori.
Caroline salì
in soffitta e prese dalla scrivania il rapporto della polizia che
conteneva le foto della scena del crimine. Indugiò per
qualche
secondo con la mano sulla maniglia di uno dei cassettini, poi si decise
e prese qualcosa che era avvolto in un foulard scuro. Mise tutto nella
sua borsa a tracolla e raggiunse il marito.
Dopo poco meno di
mezz'ora, arrivarono in una zona di Boston che Saga non riconosceva, ma
forse perché non aveva mai frequentato la città
al di
fuori del quartiere della residenza principale di famiglia e la zona
della bottega del vecchio Josh. Caroline invece sapeva che si trovavano
non troppo lontano dalla casa di Dohko.
Il taxi li
lasciò in un parcheggio poco illuminato. La giovane
sentì
all'improvviso addosso dei brividi e si sfregò le braccia.
La
notte era umida ma non abbastanza fredda da far loro pentire di non
essersi messi addosso qualcosa di più pesante.
«Tutto bene?» chiese Saga,
immaginando che quella reazione fosse dovuta al luogo e a cosa
rappresentasse per lei.
Caroline
annuì. Fece un respiro profondo per calmare quella strana
sensazione che stava provando e tirò fuori dalla borsa il
rapporto della polizia. Si spostò più vicino
all'unico
lampione funzionante, iniziando a rileggere alcune informazioni e
verificandole poi con lo sguardo, parlottando fra sé, mentre
Saga faceva un giro e si guardava attorno.
Il giovane si
avvicinò all'ingresso di un locale che sembrava essere
chiuso da
diversi anni. Alla porta era ancora attaccato un cartello che riportava
la dicitura “Chiuso per fallimento.”
Quel posto non gli
piaceva affatto, gli stava facendo provare disagio. Aggrottò
la
fronte e tornò verso la moglie, che vide invece concentrata.
Per
alcuni minuti la seguì a distanza, camminando quasi
parallelo a
lei: Caroline procedeva a testa bassa e con gli occhi fissi
sull'asfalto, si fermava dopo qualche metro e si accovacciava. La vide
ripetere quella sequenza diverse volte e, chinandosi un'ultima volta,
gli sembrò che lei accarezzasse un punto preciso,
indugiandovi
di più. Ebbe la sensazione che lei tentennasse, che
tremasse, ma
subito la vide riprendere sicurezza e alzare lo sguardo verso di lui.
«Quello
è il vicolo dove dovevano trovarsi due dei testimoni che
erano
stati sentiti all'epoca. Erano dei drogati, quindi probabilmente si
erano appartati lì per farsi una dose», disse
Caroline,
indicandolo con il dito.
Saga guardò
alle sue spalle: non aveva badato a dove si era fermato e in quel
momento si accorse di essere proprio all'imboccatura del vicolo. Era
oscuro, tetro. Lo fissò e ciò che gli suggeriva
era di
andar via il prima possibile. Fece un passo indietro, pronto a girare i
tacchi, prendere sua moglie e tornare a casa, quando si vide affiancato
proprio da Caroline che gli porgeva la borsa e il fascicolo.
La giovane frugò nella borsa e prese
una pila tascabile, prima di addentrarvisi.
«Cosa pensi di
trovare?» domandò Saga, con tono dubbioso. Erano
già più di dieci minuti che lei stava
controllando in
modo minuzioso quello sporco e buio vicolo e lui iniziava a diventare
insofferente per quella situazione.
«Nessun
indizio diretto, ma sicuramente qui c'è qualcosa che possa
dirmi
chi frequenta ancora questo posto. I barboni sono abitudinari,
soprattutto quando individuano un posto sicuro dove stare. E conservano
tutto quello che trovano. Se riesco a risalire a chi occupa, od
occupava di recente, questo vicolo, forse potrei arrivare a scoprire
chi ci veniva prima e chissà, magari arrivare anche ai
testimoni
che cerco.» Caroline si soffermò di fronte a degli
scatoloni umidi, accatastati gli uni agli altri a formare un riparo di
fortuna.
«I testimoni
non dovrebbero lasciare le proprie generalità, quando
vengono
interrogati?» domandò ancora lui.
«Di norma
è così. Ma il rapporto è pieno di
falle. Mancano
tanti dati, alcuni anche piuttosto banali.»
«Dici che è stato fatto di
proposito?»
«Era la
vigilia di Natale, probabilmente chi lo ha stilato non vedeva l'ora di
tornarsene a casa. E comunque, qualunque cosa possa essere successa
all'epoca, qualunque mancanza potesse esserci stata, non lo
ammetterebbero mai. I poliziotti si coprono sempre le spalle.»
«Anche nel caso fosse stato un altro
poliziotto a uccidere tuo padre?»
Caroline sussultò: non voleva
minimamente prendere in considerazione una cosa simile.
«Credo che sia
tutto lavoro sprecato», mormorò Saga, stringendosi
nelle
spalle; quelle parole però gli uscirono dalla bocca con
sufficiente chiarezza tanto che Caroline poté udirle.
«Me ne rendo
conto che potrebbe essere un lavoro inutile», ammise lei,
«ma vorrei almeno fare un tentativo, perché
altrimenti so
che lo rimpiangerei in futuro. Se fosse successo a tuo padre, tu non
faresti di tutto per conoscere la verità?»
Saga si morse il
labbro, abbassando lo sguardo. In un certo senso anche lui si trovava
in una situazione simile a quella di Caroline. Forse, sarebbe stato
normale voler scoprire qualcosa sul suo vero padre, quello biologico,
che pochi mesi dopo la nascita sua e del gemello li aveva affidati a
Shion Hayes.
Smise di fare
domande e si girò verso il parcheggio, prendendo il
cellulare
dalla tasca. Stava già componendo il numero del servizio
taxi
quando, alzando lo sguardo, vide qualcuno fermo a pochi metri da lui.
«Aiolos? Cosa
ci fai qui, come ci hai trovati?» chiese, visibilmente
sbigottito, credendo di riconoscerlo. Strizzò gli occhi, ma
era
in controluce e non lo vedeva bene. Oltretutto, si era formata anche
una leggera foschia.
«Vi ho seguiti», rispose
l'uomo, impassibile, avvicinandosi di qualche passo.
Nella mano, nascosta un poco dietro la gamba,
stringeva un tubo di ferro arrugginito.
Saga aggrottò
la fronte, infastidito dall'ingerenza da parte dell'amico.
«Dovrei prendemela con te, ma ormai che sei qui mi risparmi
di
dover aspettare un taxi. Avverto Caroline e torniamo a casa»,
disse. Gli diede le spalle, ma ebbe il tempo di fare appena un passo
che l'altro vibrò un colpo secco alla testa che lo
tramortì, facendolo crollare a terra.
Sul volto dell'uomo
comparve un sorriso compiaciuto. Si avvicinò a Saga e lo
trascinò per qualche metro – fuori dalla visuale
del
vicolo – prendendolo per le caviglie. Con un calcio
allontanò il cellulare che la sua
“vittima”
stringeva ancora in mano. Gli tolse anche la borsa a tracolla,
gettandola poco più in là. Poi, tornò
all'imboccatura del vicolo.
«Ho trovato
una spilletta militare e un biglietto con l'indirizzo di un ricovero
per senzatetto. Per questa notte possiamo tornare a casa. Grazie per la
tua pazienza, Saga», disse Caroline, rimettendosi in piedi.
Con le dita
provò a pulire la spilletta per vedere se riportava qualche
riferimento che l'avrebbe potuta ricondurre al suo proprietario. Poi,
se la mise in tasca assieme al foglietto e si girò per
raggiungere il marito.
«Ciao, Caroline. È un
piacere rivederti.»
La giovane si bloccò sul posto,
raggelata da quella voce che avrebbe riconosciuto fra mille.
«Deline»,
balbettò.
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Capitolo 33 *** Capitolo XXXII ***
XXXII
Johnson Deline era a Boston ed era proprio di fronte a lei. Com'era
possibile?
Nonostante il vicolo scarsamente illuminato, Caroline lo vedeva bene,
fissandolo con occhi sgranati. Non poteva crederci, lui non poteva
essere lì. Non poteva averla seguita fino a Boston, fino a
quel
vicolo...
Il suo cuore iniziò a battere forte nel petto. Strinse le
braccia allo stomaco: le fitte erano tanto prepotenti da toglierle il
respiro. La sua vista era appannata dalle lacrime imbrigliate fra le
ciglia. Iniziò a indietreggiare, lentamente, quasi
strisciando
le suole, incespicando nelle piccole buche dell'asfalto umido e sporco.
Le sue gambe tremavano a ogni passo e le sue labbra balbettavano quel
nome maledetto in una sorta di delirio terrorizzato.
Deline avanzava verso di lei con altrettanta lentezza, ma inesorabile,
mantenendo inalterata la distanza. Sul suo volto spiccava un sorriso
maligno, che rivelava la sua anima nera. In mano stringeva il tubo di
metallo che aveva usato poco prima, ne faceva strisciare una
estremità sull'intonaco scrostato del muro esterno del
locale
alla sua sinistra, producendo un suono stridulo e inquietante; quando
incontrava un ostacolo, che fosse un cartone o un cassonetto, lo
colpiva con violenza e ferocia e ogni colpo era come lo sparo di un
proiettile. Si esaltava nel vederla sussultare spaventata.
«Caroline Miller», disse, pronunciando quel nome
con voce
calma, addentrandosi sempre di più nel vicolo.
«Che
fortunata coincidenza ritrovarci nella stessa città, non
credi?»
I suoi occhi scintillavano di torbido piacere, poiché a ogni
passo che faceva nell'avanzare, la sua preda indietreggiava,
avvicinandosi alla rete metallica che bloccava il vicolo e sbarrava
qualsiasi sua possibilità di fuga.
«Perché ti affanni in questo modo?» le
disse, stringendo la presa sul tubo di ferro.
«Perché non mi lasci in pace?»
mormorò lei,
ansimando pesantemente e con le lacrime che scendevano tiepide sulle
guance pallide. Si girò all'improvviso e corse fino a quella
maledetta rete metallica, scuotendola e aggrappandovisi con
disperazione. Imprecò, con la mente sconvolta per essere
senza
via di scampo.
L'uomo reagì quasi istantaneamente e, quando la raggiunse,
l'afferrò per i capelli, colpendo al tempo stesso, e con
violenza, la rete con il tubo di ferro.
Caroline gridò, Deline le teneva premuto il viso sulle
maglie
metalliche. Chiuse gli occhi quando lui la tirò per i
capelli e
la costrinse a tornare indietro.
«Non trovi anche tu che il destino è stato
generoso nel
darci la possibilità di finire ciò che avevamo
iniziato?»
«Lasciami andare, ti prego, lasciami andare e non
chiamerò
la polizia», disse lei in tono supplichevole, provando a fare
resistenza. Sapeva che le sue parole sarebbero rimaste inascoltate e,
soprattutto, sapeva cosa l'aspettava. Faticava a respirare e il cuore
le scoppiava nel petto. Lui le stava facendo male, spingendola e
strattonandola in continuazione per farla camminare, insensibile ai
suoi singhiozzi; ma ciò che più l'atterriva era
la
consapevolezza che questa volta non c'era lo zio Phil a salvarla,
né la polizia a intervenire.
«Dovresti saperlo come vanno queste cose», le
sussurrò lui a un orecchio.
La voce di Deline era impregnata di una malsana dolcezza che fece
rabbrividire Caroline. Provò a divincolarsi, approfittando
di un
momento in cui avvertì la presa dell'uomo più
lenta. Lo
colpì alla bocca dello stomaco con tutta la forza che aveva
e,
non appena lui la lasciò – sorpreso dalla reazione
–
corse via, verso l'uscita del vicolo.
«Dove credi di andare!»
Deline brandì il tubo di ferro e la colpì di
striscio a
una spalla, ma tanto bastò per sbilanciarla e farla cadere a
terra, fra gli scatoloni e i rifiuti. Si fermò a un passo da
lei, ansimando. Le sue labbra erano piegate in un ghigno furioso.
Caroline era riuscita ad arrivare quasi al parcheggio.
«Sapevo che con te mi sarei divertito, ma ora è il
momento
di fare la brava», disse, afferrandola per la giacca di jeans
e
rialzandola di peso, scaraventandola poi contro il muro, in mezzo ad
altri scatoloni fradici e sporchi.
Le strinse una mano alla gola, mentre con il tubo di ferro le
accarezzava l'esterno della coscia sinistra. Arrivò
all'altezza
del fianco e si spostò sul ventre, premendo
l'estremità
di quell'arma improvvisata fino a farla gemere, guardandola soffrire
con una certa soddisfazione negli occhi.
«Ho saputo cosa ti è successo ultimamente. Me ne
dispiace
molto, sai? Avresti meritato molto di più dalla
vita», le
disse avvicinando il suo viso a quello di lei.
Caroline rabbrividì a quel tono così mellifluo,
lo stesso
che lui, il mostro di Philly, era solito usare con le sue vittime per
carpirne la fiducia. Ma lei non era mai stata una sua vittima; non come
Shirley e nemmeno come le altre. Le faceva rabbia ripensare a cosa era
successo alla sua migliore amica, che non si era mai ripresa e alla
fine aveva deciso di farla finita. Si sentiva in colpa per quello,
perché non era riuscita a starle vicina come avrebbe dovuto,
ma
anche lei aveva passato i suoi guai e aveva faticato a raccogliere i
pezzi della sua vita.
Deline le accarezzò il profilo della mascella. Era divertito
dalle sue resistenze ed eccitato dalla paura che lei stava provando.
«Ti sei scelta proprio un buon partito. Peccato non ci
sarà alcun futuro per voi.»
A quelle parole, Caroline strinse i denti, cercando di trattenere le
lacrime: era una sentenza troppo crudele per lei.
«Saga...»
ansimò; la sua mente sconvolta era piena di immagini
terribili.
«Cosa gli hai fatto?»
«Se ti può essere di consolazione, gli ho
risparmiato di assistere all'epilogo di questa nostra
rimpatriata.»
Sentire il respiro di quell'uomo sul suo viso la disgustava. Udire le
sue parole sprezzanti le faceva venire da vomitare. Avrebbe voluto
gridare, ma quella mano la stringeva troppo e le spezzava le parole in
gola. Non riusciva a liberarsi, a respirare. Avvertiva come lui stesse
premendo sempre di più: se fosse andato avanti ancora un po'
di
sicuro avrebbe perso i sensi e questo non poteva permetterselo.
Raccolse tutte le sue forze e il suo coraggio e lo colpì con
una
ginocchiata fra le gambe.
Deline gemette per il dolore e si piegò in due, perdendo la
presa sul tubo di ferro che cadde a terra con un gran frastuono.
«Maledetta!» ringhiò, portandosi le mani
ai
genitali. D'improvviso era bianco in volto e il suo corpo tremava.
Per qualche istante, Caroline rimase sbalordita da ciò che
era
riuscita a fare. Approfittando del momento, gli diede una spinta e
scappò verso il parcheggio con l'unico pensiero di
raggiungere
il marito e accertarsi che stesse bene. Si sentì tirare per
i
capelli e provò un forte dolore al viso; poi si
ritrovò
stesa a terra, con un peso che le schiacciava il bacino.
«Devi stare al tuo posto!» urlò Deline,
sferrandole
altri due pugni in piena faccia con una ferocia mai vista. Il suo volto
era trasfigurato dall'ira. Le mise le mani intorno al collo e strinse
forte. Ora i suoi programmi erano cambiati, ora voleva ammazzarla
subito.
«Lasciala stare!»
La voce di Saga risuonò strascicata in quel vicolo buio, ma
abbastanza forte e sicura da distrarre l'uomo.
«Ero convinto di averti sistemato a dovere», disse
Deline, alzando lo sguardo vero di lui.
Sulle sue labbra comparve un mezzo ghigno nel vedere che l'altro gli
stava puntando addosso una pistola, ma questo non era un incentivo
sufficiente a farlo desistere dai suoi propositi. Strinse
più
forte; sotto di sé sentì Caroline dibattersi per
la
propria vita e boccheggiare nel tentativo di respirare.
«Non te lo ripeterò un'altra volta: allontanati da
lei!» urlò Saga. Era ancora stordito e vedeva con
difficoltà a causa della botta alla testa.
«Non fare l'eroe e aspetta il tuo turno», lo
sbeffeggiò Deline, abbassando di nuovo lo sguardo sulla sua
preda, ma fu un attimo appena. Un forte scoppio rimbombò
nell'aria umida nel vicolo e un dolore lancinante infiammò
la
sua spalla sinistra. Cadde all'indietro e rimase a terra, a occhi
sgranati, tenendosi la spalla.
Saga gemette e si accasciò, appoggiando un ginocchio a
terra, ma
con le braccia indolenzite ancora tese in avanti e le mani che
stringevano l'arma. Il rinculo dello sparo gli aveva causato un forte
giramento di testa.
«Caroline! Caroline!» chiamò.
Faticava a tenere gli occhi aperti e respirava con affanno. La testa
pulsava e gli faceva male, qualcosa di umido e caldo gli colava dietro
il collo, inzuppando la camicia.
La giovane tossì diverse volte, rigirandosi a stento sul
fianco
e riuscendo poi a mettersi a carponi. Alzò lo sguardo pieno
di
lacrime sul marito, passandosi il dorso della mano sulla bocca piena di
sangue. Ci mise diversi secondi per riprendersi e rendersi conto di
cos'era appena accaduto, ma soprattutto di cosa avesse fatto Saga. Si
rimise in piedi, barcollando, e si avvicinò a lui.
«Saga, Saga...» lo chiamò, pronunciando
il suo nome
con tono pacato, ma pieno di amore e preoccupazione, perché
il
suo unico pensiero era lui. «È finita, va tutto
bene. Va
tutto bene.»
L'arma era sempre puntata su Deline, che si trovava a terra, immobile,
ma rideva, seppure era una risata intrisa del dolore alla spalla. Non
c'era più alcun pericolo, nonostante ciò Saga non
accennava ad abbassare la pistola e a rilassarsi.
Caroline gli sfiorò le mani.
«È finita, mettila giù», lo
pregò, ma lui era come in trance.
Gli tolse l'arma dalle mani con delicatezza e in quello stesso momento
il marito si lasciò andare addosso a lei, esausto e senza
forze.
Avrebbe voluto tenerlo fra le sue braccia per sempre, proteggerlo da
quel suo passato che non aveva mai avuto il coraggio di condividere;
aveva fallito in quello, ma ora doveva chiudere i conti per poter
andare avanti. Lo doveva a se stessa e lo doveva anche a Shirley.
Strinse l'impugnatura della pistola e tornò nel vicolo. Si
fermò a un passo da Deline e gliela puntò in
faccia: lui
aveva quel maledetto sorrisetto sulle labbra.
«È così che avevi immaginato sarebbe
finita questa serata?»
«Sapevo che dietro questo tuo aspetto così comune
si
nascondeva una persona non comune. Lo sapevo fin dalla prima volta che
ti ho vista, con la tua amica. Come si chiamava?» disse lui.
Accennò un movimento per tirarsi su e Caroline
indietreggiò di un passo, impugnando la pistola anche con
l'altra mano.
«Non parlare di lei, non ti permettere di
nominarla!»
urlò la giovane, agitando la pistola. I suoi occhi si
riempirono
di nuovo di lacrime. Lui non doveva neanche osare rivolgere un pensiero
a Shirley, non quando le aveva spezzato la vita in quel modo
così brutale.
«Ho letto sui giornali della sua morte. È davvero
una tragedia.»
«Stai zitto! È colpa tua, bastardo, tutta colpa
tua!» urlò Caroline, con le mani tremanti e il
dito
nervoso che iniziava a premere sul grilletto.
Ansimava in modo pesante e la sua mente faceva sempre più
fatica
a trattenere l'odio che provava nei confronti di quella bestia.
Deline rise di scherno: oltre la canna di quella pistola puntata su di
lui vedeva una giovane donna impaurita che si nascondeva dietro una
finta maschera da dura. Questo lo divertiva e lo eccitava al tempo
stesso. Anche in una posizione così di svantaggio, era
ancora
lui il vero predatore.
«Già, una gran tragedia»,
continuò, in barba
alle minacce. «Ma è ingiusto da parte tua darmi la
responsabilità di tutto, anche di ciò che
è
successo in seguito. È lei che se l'è andata a
cercare.
Si è messa in mezzo, si è offerta con una tale
voglia che
quasi è stato un fastidio per me.»
Nel parlare, nel pronunciare quelle parole, continuava a fissare
l'espressione sempre più scioccata di lei. E ora, lo sapeva,
era
il momento di dare la stoccata finale.
«A dire la verità... la responsabilità
è
tua, Caroline. Era te che puntavo fin dall'inizio, ma la tua amica si
è letteralmente buttata fra le mie braccia. Ti ha lanciato i
segnali giusti e tu, che avevi così fretta di tornartene a
casa,
l'hai lasciata sola, con me. Quanta impazienza avevi quel giorno,
quanta insofferenza c'era sul tuo viso per l'eccessiva
espansività della tua amica, che invece voleva
divertirsi», disse, con un sogghigno malevolo sulle labbra.
Le mani di Caroline tremarono e, nello stesso momento in cui
sentì la sua risata, nel vicolo riecheggiarono tre spari
ravvicinati. Poi, ci fu spazio solo per il suo respiro ansimante.
«Lei si è uccisa per colpa tua, non
mia»,
mormorò, tremando con tutto il corpo. «Per colpa
tua, hai
capito? Per colpa tua!» urlò fra le lacrime, poi
cadde in
ginocchio e si portò una mano al volto.
Rimase a terra per diversi minuti, tremando di rabbia e piangendo tutta
la disperazione che provava e che aveva provato in quegli ultimi anni.
All'improvviso si rese conto che tutto era troppo calmo.
Possibile che nessuno nei dintorni avesse sentito le urla e gli spari?
Un freddo intenso le penetrò fin nelle ossa. Ebbe un brivido
che
la scosse in tutto il corpo, risvegliandola dai suoi tormenti.
«Saga»
Si ricordò delle parole pronunciate da Deline e un forte
panico
crebbe in lei. I suoi occhi si riempirono di angoscia quando intravide
il marito steso a terra e privo di sensi.
Corse da lui con il cuore in gola. Lo girò, singhiozzando e
tenendolo fra le braccia. Era pallido. Aveva gli occhi chiusi e una
sottile striscia di sangue, che gli era colata dalla testa
impiastricciandogli i capelli biondi, gli solcava lo zigomo. Gli
sfiorò la guancia con la punta delle dita, la sua pelle era
gelata.
*****
Tutto taceva in quell'angolo squallido di Boston. Dove prima la voce di
Deline era in parte offuscata dalle ventole dei condizionatori, ora,
nel silenzio di quel vicolo, lei era sola con i suoi pensieri e proprio
per quello aveva paura.
Erano rimasti lì a terra, a due passi dall'uscita di quel
vicolo
male illuminato, umido e maleodorante delle immondizie, ammonticchiate
contro i muri. Nell'aria persisteva l'odore acre della polvere da sparo
che lei conosceva bene. Nelle sue orecchie rimbombavano ancora quei tre
colpi esplosi a bruciapelo. Inorridiva al pensiero che non aveva avuto
remore a premere il grilletto e tremava, impaurita e angosciata,
perché erano bastate quelle parole provocatorie e lei aveva
dato
libero sfogo al desiderio di vendetta.
Non sapeva quanto tempo fosse trascorso da quando aveva chiamato i
soccorsi. Sicuramente troppo per le condizioni di Saga. Caroline era
china su di lui, con i vestiti strappati e sporchi di sangue, teneva
stretto a sé l'uomo che amava. Si dondolava avanti e
indietro,
lentamente, sussurrandogli che l'incubo era finito, che presto sarebbe
stato bene. Avrebbero dimenticato quella brutta notte e sarebbero stati
di nuovo felici.
Le lacrime scendevano silenziose sul suo viso tumefatto e insudiciato
del sangue del mostro di Philly che si mescolava al suo e pizzicavano
sulle ferite già gonfie. Qualche metro più in
là,
riverso nel suo stesso sangue, giaceva Deline, lei stessa aveva messo
fine alla sua vita, ma a quale prezzo?
Aveva ucciso un uomo, spezzato una vita, ma ne era rimasta coinvolta
lei stessa. Nonostante fosse quella di una persona indegna, che avrebbe
meritato di passare il resto dei suoi giorni in carcere, lei si era
arrogata il diritto di prendere il posto di giudice e giuria, imponendo
la sua sentenza e applicandola con le sue stesse mani. Ora
però,
iniziava a sentire il peso delle sue azioni. E poi, anche Saga stava
pagando per i suoi sbagli. Questo le spezzava il cuore. L'ultima cosa
che avrebbe voluto era fargli del male.
Un refolo di vento trasportò fino a lei l'odore della morte,
investendola come un'accusa. Cosa avrebbe fatto da ora in avanti? Quale
giustificazione avrebbe dato a sua madre, allo zio Phil e a Mickey?
Come sarebbe apparsa agli occhi dell'uomo che amava?
Sarebbe stata biasimata per aver sprecato il suo futuro, ne era certa.
Questa volta non se la sarebbe cavata. La polizia non ci avrebbe messo
molto a capire che non si trattava di legittima difesa e allora, lei
che sentiva di non avere più la forza per opporsi, sarebbe
stata
separata per sempre dalle persone che amava.
Fu distratta dai suoi pensieri da un lamento sommesso di Saga.
Respirava piano, ma era sofferente. Gli sfiorò appena la
guancia. Lui era vivo, solo quello contava per lei.
«Ho ucciso un uomo, amore mio», sussurrò
fra le
lacrime, «e ora... sono morta anch'io.» Con la mano
tremante gli pulì la guancia da quello sbaffo di sangue.
«Cos'ho fatto... cosa ti ho fatto...»
singhizzò.
Lo aveva coinvolto di nuovo nei suoi guai, ma questa volta non si
trattava di uno stupido trasloco, ma di qualcosa di molto
più
serio e pericoloso e per poco non ne era rimasto ucciso. Aveva la
nausea all'idea di perderlo. All'improvviso avvertì al
ventre
una forte fitta e un gemito le si strozzò in gola. Si morse
il
labbro e strizzò gli occhi. Due grosse lacrime caddero dalle
sue
ciglia e finirono sul volto di Saga.
«Ma perché non arriva ancora nessuno»,
mormorò con rabbia.
«Ehi, tutto bene, hai bisogno di aiuto?»
Caroline trasalì nel sentire una voce alle sue spalle.
Afferrò rapidamente la pistola a terra accanto a
sé e,
voltandosi di scatto, la puntò contro lo sconosciuto.
«Non ti avvicinare!» gli intimò.
«Calma, calma! Non voglio farti del male!»
esclamò
con tono sorpreso il giovane, mostrando i palmi delle mani per
dimostrarle che non era armato e che non aveva cattive intenzioni.
Si mosse piano verso di lei, camminando con molta cautela: lei non
sembrava intenzionata a credergli sulla parola e lui non aveva voglia
di fare la stessa fine di quello steso nel vicolo.
«Chi sei?» chiese lei, spostando l'indice sul
grilletto.
«Sono solo un tizio che passava di qui per caso»,
rispose
il giovane. «Avevo finito le sigarette e sono uscito per
comprarle. Sai, senza non riesco a studiare», le disse, con
un
sorriso malandrino sulle labbra, prendendo il pacchetto dalla tasca
della giacca militare.
Estrasse una sigaretta e se la mise in bocca. Poi, come nulla fosse,
l'accese usando un fiammifero.
«Questo è un brutto quartiere per fare una
passeggiata
romantica», disse, accovacciandosi di fronte a lei, notando
la
fede che la giovane portava al dito. «Siete stati
aggrediti?» chiese, offrendole il fazzoletto, ma non
ricevette
alcuna risposta. Di fronte a lui, Caroline aveva posato di nuovo l'arma
sull'asfalto e piangeva in silenzio.
Osservò meglio Saga che giaceva a terra privo di sensi e un
leggero sogghigno incurvò le sue labbra nel riconoscerlo;
non
pensava di trovarlo in una circostanza simile, ma evidentemente la
fortuna era girata dalla sua parte e ora, finalmente, poteva chiudere
l'incarco con successo, alla faccia del suo capo che gli dava il
tormento da mesi.
«Sei una persona difficile da scovare, amico»,
mormorò, togliendosi la giacca e mettendogliela sotto la
testa.
Pochi momenti dopo, nella surreale calma di quel quartiere in declino,
risuonarono le sirene delle auto della polizia e quelle dell'ambulanza.
*****
Caroline era seduta sul quel lettino ormai da più di due
ore.
Indossava lo scomodo camice azzurrino da ospedale che sembrava fatto di
carta e le teneva scoperta la schiena. L'infermiera se n'era andata via
senza rivolgerle una parola, portando con sé i suoi vestiti
e
tirando la tenda divisoria, isolandola così dal resto della
sala
visite del pronto soccorso. Non era sembrato un gesto di gentilezza nei
confronti di una vittima, quanto una indifferente consuetudine del suo
lavoro.
La giovane non aveva detto più una parola da quando i
paramedici
l'avevano visitata sul luogo dell'aggressione e il detective incaricato
le aveva fatto le prime domande di routine; lo stesso era successo
anche quando l'uomo l'aveva poi raggiunta in ospedale, dopo che era
stata separata da Saga.
Un leggero fruscio anticipò il movimento della tenda e, da
dietro di essa, sbucò la testa bionda del giovane studente.
«Ehi, ciao!» la salutò sottovoce, ma con
un entusiasmo che stonava in quel luogo e in quella circostanza.
Si guardò in giro come se temesse di essere visto e si
infilò rapido dietro la tenda. Poi, si avvicinò
al
lettino, più rilassato. Fissò Caroline per
qualche
secondo, studiando le sue reazioni. O forse doveva dire le sue
non-reazioni. La vedeva completamente assente, ma poteva comprenderla,
dopo quello che aveva passato quella notte.
«Ehi», ripeté, «scusami se
sono sparito. Ti
senti un po' meglio?» Di nuovo non ottenne alcuna reazione:
lei
era come imbambolata. Solo quando le si mise di fronte, allora Caroline
diede segni di ridestarsi.
La giovane mosse un poco la testa, alzò lo sguardo e
sgranò gli occhi nel vedere il giubbotto che lui teneva
piegato
sul braccio, tutto imbrattanto di sangue.
«Questo?» disse il giovane, mostrandogliela,
«Non ti
preoccupare, non è un gran danno. Era da tempo che dovevo
decidermi a buttarlo.»
D'istinto lei provò ad allungare la mano destra, ma si
sentì frenata e non ci riuscì. Si
guardò il
braccio: era stata ammanettata alla sponda del lettino.
«Beh, wow... questo non me lo aspettavo. Non mi sembravi
affatto un tipo pericoloso», rise lui.
Caroline abbassò la testa e i suoi occhi si riempirono di
lacrime. «Ho ucciso una persona»,
mormorò,
stringendo i pugni.
«Sicuramente se lo meritava», convenne lui.
«Ti ho riportato la borsa», disse, posandola
accanto a lei.
«Ma dove...»
«Era vicino all'entrata del vicolo, ma stai tranquilla, ci
dovrebbe essere ancora tutto», le sorrise comprensivo.
«A
proposito, ho saputo che tuo marito ha ripreso conoscenza.»
A quelle parole la giovane riprese maggiore presenza di spirito.
«Lo hai visto? Hai visto Saga, lui sta bene? Ti prego,
rispondimi, rispondimi, dimmi come sta!» disse con voce
stravolta.
«Calma, calma!» la trattenne, posandole una mano
sulla
spalla. «Ho solo sentito un'infermiera che ne parlava.
Scusami,
non volevo farti agitare.» Le chiese il tacito permesso di
guardare meglio le ferite sul suo viso e scrollò debolmente
la
testa, indignato. «Ma guarda come ha ridotto il tuo bel
viso.»
Sbuffò, passandosi la mano fra i capelli spettinati, non era
abituato a situazioni del genere, non era il tipo da consolare le
vedove afflitte e in fin dei conti non era nemmeno fra le sue
competenze. Aveva perso abbastanza tempo e per lui il tempo era denaro;
ciò che gli serviva lo aveva già preso e ora non
doveva
far altro che portarlo al suo cliente e chiudere la pratica.
«Beh, ora devo andare. Spero che tuo marito si riprenda
presto.
Buona fortuna», le disse, facendo un cenno di saluto con la
mano.
«Aspetta!» lo trattenne Caroline. «Non ti
ho neanche
ringraziato per l'aiuto, nemmeno so chi sei e come ti chiami.»
«Mi chiamo Milo e sono un semplice studente del Boston
College,
anche se fuori corso», disse, lasciandosi andare a una
risatina
imbarazzata.
«Grazie, Milo», disse lei, con una lacrima che
scendeva lenta sulla guancia.
*****
Il giovane cacciatore di taglie si presentò poco prima
dell'alba
alla residenza della famiglia Taylor, quando tutti ancora dormivano,
con la cartella clinica del paziente “Saga Hayes”
sotto il
braccio e una faccia di chi la sapeva lunga.
«Spero per lei che sia davvero una cosa importante, mr
Scorpio», disse Anne Taylor, annodando con gesti nervosi la
cintura della vestaglia porpora e accompagnandolo nello studio.
«Più di quanto lei possa immaginare,
signora»,
rispose Milo, con un tono strafottente. Si fermò di fronte
alla
scrivania antica e vi posò una grossa busta di plastica
trasparente, di quelle usate per le prove forensi, che conteneva la sua
vecchia giacca militare sporca di sangue. Poi, sprofondò
sulla
poltrona lì vicino. Sembrava sfinito, ma nel suo sguardo
c'era
l'arroganza di chi si sentiva il re del mondo.
Anne Taylor si avvicinò a sua volta alla scrivania e, con
uno
sguardo pieno di disgusto, afferrò la busta. «Cosa
dovrei
farmene di questa?»
«Potrebbe essere nel suo interesse fare il test del DNA del
sangue che si trova lì sopra.»
«E per quale motivo?» chiese con tono scettico la
donna.
Nei suoi occhi però si era già acceso l'interesse.
«Per confermare che la persona corrispondente al nome scritto
in
questa cartella è la stessa che cerca», rispose
Milo,
gettando la documentazione sulla scrivania. Dalla tasca dei jeans prese
il cellulare e mostrò alla donna la foto che aveva scatto a
Saga
in ospedale, approfittando di un momento in cui era stato lasciato solo.
«Come ha fatto a trovarlo?» chiese Anne Taylor,
sedendosi
lentamente dietro la scrivania. Dall'ultimo cassetto prese le
fotografie che il cacciatore di taglie le aveva dato durante il loro
ultimo colloquio e iniziò a confrontarle. Era innegabile: si
trattava proprio della stessa persona.
«Non è stato affatto facile, ho girato a vuoto per
diverse
settimane; quel tizio sembra non esistere. Allora ho cambiato strategia
e ho cercato la ragazza. È stato uno scherzo rintracciarla.
L'ho
studiata per qualche tempo, l'ho seguita e questa notte...
bingo!»
«È proprio lui, non ci possono essere dubbi,
è la
sua copia vivente», mormorò Anne, mentre uno
strano ghigno
le curvava le labbra. «Saga Hayes... si nascondeva proprio
sotto
il mio naso. Quel bastardo di Shion mi ha presa in giro per tutti
questi anni.»
«Direi che possiamo passare al compenso», propose
Milo, alzandosi stancamente.
«Il suo lavoro non è ancora terminato, mr
Scorpio.»
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Capitolo 34 *** Capitolo XXXIII ***
XXXIII
«I prossimi giorni potrebbero essere difficili»,
disse il
medico del pronto soccorso. Alle sue spalle, in bella vista sul
diafanoscopio, c'erano le lastre che mostravano il cranio di Saga.
«Sbalzi di umore, brevi amnesie, mal di testa, in alcuni casi
anche perdita dei sensi.» Si soffermò a studiare
ancora
per qualche secondo le lastre, con un'aria pensosa.
«Considerata
la presenza di una vecchia frattura, i sintomi potrebbero presentarsi
più marcati.»
«Sì, dottore, ne siamo consapevoli», lo
interruppe
Shura, con tono brusco. Si era presentato quasi un'ora dopo con un
ordine del tribunale che dichiarava la sua temporanea carica di tutore
legale del paziente per le questioni mediche e di salute.
Non era nella disposizione d'animo per sopportare spiegazioni troppo
lunghe e altrettanto non intendeva darne lui, rivangando il precedente
incidente di Saga. Assicurò il medico che erano in grado di
gestire la situazione. Firmò il consenso per le dimissioni
e,
alla debole obiezione dell'uomo, lo liquidò con
un'occhiataccia.
Il medico scrollò la testa e non insistette oltre,
più
che felice di scrollarsi di dosso quella responsabilità e di
non
dover avere a che fare con un tipo losco come lui.
«Aiolos, andiamo.»
Il giovane fece un cenno di assenso e accompagnò Shura nella
stanza di Saga, celando il malcontento che lo stava divorando. Oltre
alla preoccupazione per lo stato di Saga, gli rodeva che l'amante
– dal momento in cui era stato informato dall'ospedale
– lo
trattasse con risentimento. Che colpa ne aveva lui se Saga aveva deciso
di visitare dei vicoli malfamati in piena notte e senza avvertire
nessuno? Che colpa ne aveva lui se il figlio prediletto di Shion Hayes
si era messo intesta di escludere la famiglia per vivere un capriccio?
Una volta nella stanzetta privata guardò Shura di sottecchi.
Lo
vide accostarsi al letto di Saga, parlargli con gentilezza e
comprensione e sfiorargli la mano mentre si sedeva sullo sgabello
lì vicino. Intravide nei suoi modi un senso di colpa che non
riusciva a comprendere, perché Shura non era responsabile di
quanto era accaduto quella notte, eppure era lo stesso che tormentava
anche il suo cuore. Di questo ne era certo.
«Ti riporto a casa. Te la senti di alzarti?» gli
sentì
dire a Saga, che però non reagiva a nulla, continuando a
fissare
il vuoto. Aveva gli occhi infossati e con la testa abbondantemente
fasciata sembrava ancora più pallido.
Sospirò e uscì. Con la testa piena di pensieri
percorse
il corridoio del pronto soccorso, fino alle sale vista. Era sicuro che
ci fosse anche Caroline, forse era nelle medesime condizioni di Saga, o
forse era stata più fortunata. Nei suoi confronti non
sentiva
alcun obbligo, ma la cercò ugualmente.
«Sempre a cacciarti nei guai, vero?» disse,
scostando la tenda divisoria.
Caroline si girò di scatto e ancora una volta le manette al
suo
polso cozzarono con la sponda di metallo del lettino.
«Aiolos», mormorò, sgranando gli occhi.
«Che diavolo ci facevi in quel vicolo e a quell'ora di
notte?»
Lei abbassò lo sguardo sulle sue mani ancora insudiciate:
l'infermiera era passata per medicarla e qualcun altro aveva raccolto
da lei delle prove forensi, ma nessuno le aveva ancora dato il permesso
di pulirsi.
«Volevo scoprire qualcosa di più sulla morte di
mio padre», confessò lei.
«E dovevi proprio coinvolgere anche Saga in questa tua pazzia
inutile? Tuo padre non ha già causato abbastanza
morti?»
l'aggredì lui. Vederla tormentata dal senso di colpa gli
faceva
provare rabbia.
A quelle parole la giovane sgranò di nuovo gli occhi. Cosa
c'entrava suo padre con quanto accaduto a lei e Saga?
«Non ti permettere di parlare di mio padre e di insultare la
sua
memoria!» urlò, scattando verso di lui, ma era
ammanettata
al lettino. I suoi occhi si velarono subito di lacrime.
Aiolos strinse le labbra per frenare la collera e la voglia di
risponderle che quell'irresponsabilità che la metteva
costantemente nei guai l'aveva ereditata da Gregory Miller, che quel
pensare solamente a se stessa e a raggiungere i suoi fini, senza
riflettere sulle conseguenze, era lo stesso atteggiamento che aveva
condizionato la vita del padre e forse portato alla morte.
Si sentiva frustrato, confuso e arrabbiato. Lei aveva il potere di
scatenare la gelosia in lui come nessun altro e questo lo faceva
infuriare ancora di più, perché si scopriva
vulnerabile.
Caroline singhiozzò, trattenendo a stento la voglia di
piangere.
Si passò il dorso della mano libera sugli occhi.
«Lui sta
bene?» chiese con voce supplichevole. «Ti prego,
dimmi che
lui sta bene.»
Aiolos rimase in silenzio. Prese il cellulare e compose velocemente un
paio di messaggi. Poi, una volta inviato l'ultimo, si
avvicinò
allo sgabello metallico e vi si sedette. Gli venne in mente che non era
la prima volta che faceva una cosa simile. «C'è
qualcuno
che può occuparsi di te?»
«Mi posso arrangiare da sola.»
Aiolos si lasciò andare a un sogghigno, incrociò
le
braccia al petto e chiuse gli occhi, mettendosi comodo per la lunga
notte che si prospettava: se c'era di mezzo anche la polizia, di sicuro
si sarebbe andati per le lunghe.
Caroline lo fisso per diversi secondi: non sapeva cosa pensare di lui.
Era antipatico e scostante, ma era sempre lì nel momento del
bisogno. Abbassò di nuovo lo sguardo. Sentiva le lacrime che
premevano per uscire e la frustrazione che provava non l'aiutava di
certo. Lei continuava a chiedere, ma nessuno voleva darle notizie di
Saga.
*****
«Lo vuoi uno Scotch?»
Caroline scrollò la testa; rannicchiata sul divano, teneva
lo
sguardo fisso sul vecchio poggiapiedi occupato da Kitty: sembrava
sonnecchiare tranquilla, così tutta acciambellata dove solo
la
punta della codina era libera e si muoveva su e giù.
Sulle spalle, a coprire l'anonima tuta di cotone che le aveva fornito
l'ospedale, prima di permetterle di tornare a casa, portava il
giubbotto di Aiolos, per ripararsi dal freddo e dai tremori che
scuotevano il suo corpo provato.
«Io invece ne ho proprio bisogno»,
mormorò il
ragazzo, aprendo le antine dei pensili della cucina. «Ma dove
diamine lo tieni?»
«Non ne ho.»
«Whisky? Brandy? Vodka?» chiese con insistenza,
ottenendo sempre un breve cenno di diniego.
Trattenne uno sbuffo e aprì il frigorifero: per fortuna,
almeno
c'era della birra. Stappò una bottiglia e ne bevve dei
lunghi
sorsi, lasciando che quel liquido fresco gli andasse giù per
la
gola, dissetandolo. Poi, con la bottiglia in mano, si
rilassò in
poltrona. Rimase in silenzio a bere e a scrutare Caroline.
Ripensò a come si era comportata al pronto soccorso e a come
fosse stata collaborativa con i detective quando erano tornati una
seconda volta per interrogarla; ma anche a come si fosse chiusa in se
stessa quando le domande iniziarono a vertere con maggiore insistenza
su Deline: sui suoi rapporti con l'uomo, sul perché si erano
incontrati proprio in quel luogo e a quell'ora...
Per quei poliziotti poco importava che la vittima se la fosse meritata
una morte come quella, per loro era un omicidio da risolvere. Solo
grazie al nome degli Hayes, Aiolos aveva ottenuto di poterla portare a
casa, ma nemmeno a lui era stato risparmiato un vero e proprio terzo
grado.
Si rigirò fra le mani la bottiglia ormai vuota, ma ancora
umida di condensa.
C'era tensione nell'aria e tristezza e dolore. Non sapeva cosa dire, o
cosa fare.
Fuori c'era già il chiarore del giorno e un sole ancora
forte e
pimpante, ma velato di nuvole sfilacciate che andavano ingrigendosi. Un
raggio di sole pentrava dallo spiraglio delle tende e tagliava come una
lama il salotto, riflettendosi sui mobili bianchi. Guardò
l'ora:
erano le otto e dodici del mattino. Sbuffò, muovendosi
incomodo
sulla poltrona. Sarebbe arrivato in ritardo in ufficio.
Tornò a osservare Caroline, nel tempo che avevano trascorso
in
casa lei non si era praticamente mossa di un millimetro. Iniziava a
irritarsi di quella passività.
«Un'arma... ma dove se la sarà procurata
quell'arma e
perché poi? Sapeva che lo avrebbe incontrato?»
mormorò, corrugando la fronte.
Non riusciva a capacitarsi di cosa era stata capace di fare lei.
Mettersi in pericolo in quel modo, coinvolgere Saga...
«Fatti una doccia e qualche ora di sonno.
Ripasserò nel
pomeriggio», le disse, arrivandole dietro le spalle e
riprendendosi il giubbotto.
Sospirò stancamente nel vedere che la sua esortazione era
caduta
nel vuoto. Si grattò la testa. Non aveva idea di cosa fare
per
scuoterla dal suo torpore. Di certo non poteva permettersi che lei si
lasciasse andare, ma neanche poteva farle da balia: lui non era la sua
babysitter!
*****
Con i primi freddi dell'autunno le sponde del lago Mystic spesso si
velavano di nebbia. L'aria si caricava di umidità e la sera
calava presto. Quel giorno in particolare, si era alzato un poco di
vento e sembrava si stesse preparando un temporale, eppure erano
diverse ore che Saga se ne stava seduto da solo in giardino, nel gazebo
bianco, a fissare le acque scure del lago.
Il medico all'ospedale aveva raccomandato di controllarlo e tenerlo
sveglio almeno per le successive ventiquattro ore per non incorrere in
conseguenze gravi, ma non ce n'era stato bisogno, perché non
era
comunque riuscito a dormire. Non appena chiudeva gli occhi si ritrovava
in quel vicolo, con gli spari che gli riempivano le orecchie e lo
facevano tremare. In quei momenti sopraggiungevano dei forti giramenti
di testa e la nausea gli contorceva lo stomaco.
Saga si rendeva conto di stare male e altrettanto stavano male gli
altri, ma non riusciva a esprimere apertamente ciò che
provava,
perché neanche lui sapeva cosa provava e sentirsi gli occhi
addosso lo faceva chiudere ancora più in se stesso. Gli
mancava
qualcosa, a cui però non era capace di dare una forma o un
nome.
Saori lo aveva osservato per più di un'ora, nascosta nel
porticato della cucina, prima di prendere coraggio e avvicinarsi a lui.
Gli portò una tazza di tè caldo, sperando gli
facesse
piacere, ma si sentiva intimorita dall'aura di tristezza che avvolgeva
l'uomo; da quando aveva lasciato la villa sembrava passato un secolo e
lui era tornato cambiato.
«Come si sente, signor Hayes?» disse la giovane,
facendo un
breve inchino di saluto. Non le era venuto niente di meglio da dire e
pregava di non sembrare troppo sciocca.
Lo vide continuare a fissare lo specchio d'acqua di fronte a
sé.
Il suo viso, sul quale era presente un'ombra di barba, era immobile e
inespressivo, bianco come la foschia che si stava formando sul lago.
Provava un crescente disagio a rimanere lì in piedi. Poi,
avvertì provenire da lui un respiro un poco più
ampio e
un lieve movimento della testa. Si morse il labbro, tesa e nervosa:
sapeva che non doveva permetterselo, ma nonostante tutto era ancora
più affascinata da lui, da quella fragilità
tragica che
veniva da lui. «Povero principe Genji...»
mormorò
sovrappensiero, mentre con un dito si sfiorava rapida sotto l'occhio
per asciugare una lacrima.
Quel paragone le venne naturale, ripensando a quanto avesse sofferto
l'uomo in quegli ultimi mesi, dalla notizia dell'aborto della moglie,
al fatto che lei glielo aveva tenuto nascosto, alle
difficoltà
del suo breve matrimonio e, per finire, con quel brutto episodio di
pochi giorni prima, di cui era stato protagonista. Il secondogenito di
Shion Hayes era bello, ricco, di ottima cultura, sempre gentile con
tutti; si poteva dire che avesse tutto dalla vita, eppure era
così sfortunato.
Vedeva i suoi occhi così spenti, il tratti del suo viso
così scarni, che le si stringeva il cuore.
Saga abbassò gli occhi sulla tazza di tè, i suoi
vapori
salivano in sottili lingue biancastre. Allungò la mano sopra
di
essa; il calore che accarezzava le sue dita lo fece sorridere.
«Signor Hayes?» insistette Saori, accennando a
sfiorargli
il braccio. Ricordò in quel momento che l'ultima volta che
lui
aveva fatto visita alla villa le aveva detto di chiamarlo semplicemente
per nome e allora, in un sussurro appena udibile, balbettò
il
suo nome.
Saga posò lentamente lo sguardo su di lei e nei suoi occhi
comparve una flebile luce di vitalità.
«Indossi l'uniforme della scuola privata», disse
con voce roca.
«Sì, signore, sto frequentando l'ultimo
anno», rispose la giovane, arrossendo un poco.
Per un breve attimo rivide sulle labbra dell'altro un sorriso dolce,
come quello che non gli era mai mancato quando le aveva fatto da tutor,
ma fu davvero solo un attimo: scomparve quando lui si scusò
per
non essere stato presente alla festa del suo diciottesimo compleanno.
«La maggiore età è un traguardo
importante per ogni
giovane, legalmente si diventa adulti e si entra a pieno diritto a far
parte del mondo», le disse, porgendole la mano.
«Anche se
in ritardo, ti prego di accettare i miei auguri.»
Le strinse la mano con insolita delicatezza – che poteva
essere
scambiata per debolezza – e, nel momento in cui lei la
lasciò, rimase a fissare la propria con sguardo vacuo. Il
flebile calore di quella stretta gli parve simile a quello che aveva
provato nello stringere il calcio della pistola.
Ripiombò ancora una volta nel gorgo dei suoi pensieri. In
quel
vicolo buio e maleodorante, in quella notte piena di pericoli, nella
quale aveva ucciso un uomo. Rabbrividì. Non aveva mai preso
in
mano un'arma in vita sua, men che meno aveva mai sparato. Eppure, in
quell'occasione l'aveva maneggiata come se fosse stata una cosa
naturale. Aveva saputo togliere la sicura e colpire il bersaglio senza
neanche mirare, senza pensare. Forse, crescendo leggendo libri gialli e
guardando in televisione film e serie poliziesche, quelle cose gli
erano diventate familiari.
«Chi l'avrebbe mai detto...» mormorò. Si
alzò, si mise le mani nelle tasche del cardigan di lana
pesante
e si incamminò senza dire nulla nella direzione della
rimessa
delle barche.
Quello era un luogo che non frequentava spesso; anzi, erano anni che
non ci metteva piede, perché ogni volta che vi si avvicinava
provava una strana tensione, ma ora sentiva il bisogno di andarci.
Quando vi entrò, calpestando con circospezione le tavole di
legno del pavimento, non lo riconobbe. Era un unico ambiente, un enorme
stanzone, completamente costruito in legno, con due ampie doppie
finestre su entrambi i lati lunghi e la parete di fondo –
quella
che dava sul lago – tutta aperta. Era pulito e luminoso,
sembrava
essere stato rimodernato di recente. Un vecchio motoscafo, coperto da
un telo verde sbiadito, ondeggiava nell'acqua, proprio al centro dello
stanzone. Sulla parete di destra era appoggiata una canoa, un po' di
traverso, e poco più in là anche una coppia di
remi.
Fece ancora qualche passo, fino al punto dove il pavimento si
restringeva in una sorta di pontile coperto, largo non più
di
due metri e proseguiva verso il lago, ricollegandosi a quello esterno a
formare una specie di doppia T.
Saga provò una strana sensazione di morte nel stare
lì,
nonostante tutto fosse nuovo e tirato a lucido. Fece un respiro
profondo e chiuse gli occhi. In quel momento nella sua mente si
formarono le immagini di com'era la rimessa tanti anni prima, con le
tavole originali del pavimento, con gli scricchiolii spettrali, le
macchie di muffa e di alghe e la puzza di acqua marcia.
Provò un
leggero fastidio alla tempia, proprio dove aveva la piccola cicatrice e
riaprì gli occhi.
Ricordò che in quel punto, una volta c'era una grande pozza
di
sangue; ricordò due individui mai visti prima che
massacravano
un uomo già a terra e poi lo buttavano in acqua, tenendolo a
fondo con un remo.
Ricordò la paura che aveva provato, la corsa disperata e il
momento in cui lo avevano preso. Ricordò il dolore e la
vista
offuscata, le forze che gli venivano meno e poi... quelle voci.
«Ci era stato
detto di tenerlo d'occhio, non di ucciderlo!»
«Lo so, ma lui
ci ha visti mentre davamo una lezione a quel ficcanaso di un
giornalista!»
«La ricompensa
ci sta costando troppo cara. Io mollo qui, non ci tengo a passare la
vita in galera!»
Scrollò con vigore la testa per togliersi quelle immagini
dalla
mente e uscì dalla rimessa. Fuori il sole era ormai
tramontato e
tutto era immerso in uno strano grigiore. Si guardò attorno,
il
parco era desolato e il boschetto che circondava la
proprietà
sembrava ancora più oscuro, proprio come quel vicolo.
Osservò le sue mani, che pochi giorni prima avevano
impugnato la
pistola. Non poteva credere di aver sparato a un uomo.
«È così facile porre termine a una
vita?»
Si girò verso la villa e la fissò per diversi
secondi. Il
suo sguardo era diverso. Si sentiva stanco, piegò le labbra
in
un mezzo sorriso e rientrò in casa.
*****
Kanon se la stava proprio godendo quella settimana di fine ottobre
sullo yacht, invitato da un amico di un amico di Jenny Perkins.
Feste, sole, mare, grandi bevute, pesca d'altura, ancora feste... e di
tornare al lavoro non ne voleva proprio sentir parlare.
L'ultima sera, si trovava a mollo in una mega vasca a idromassaggio
assieme a una moretta niente male, una di quelle indossatrici finte curvy
che andavano di moda in quel periodo, a bere champagne e a guardare le
stelle. Si sentiva in paradiso, senza pensieri, senza preoccupazioni e,
soprattutto, senza pensare una sola volta al gemello traditore. Poi,
arrivò quello stramaledetto messaggio da Aiolos, che
riuscì a guastare tutto quanto.
Il suo primo istinto fu quello di gettare lo smartphone direttamente
nell'oceano – tanto tutti i contatti, i documenti, le foto e
qualunque altra cosa importante era caricata sul cloud
– ma sarebbe stato solo uno spreco. E lui odiava quel tipo di
spreco. Poi, sopraggiunse l'altro, quello di mamma chioccia, sempre in
apprensione e, se fosse stato possibile, sarebbe partito subito per
Boston e poi di filato alla villa sul lago Mystic senza fare sosta! Del
resto, era suo fratello e benché l'ultima volta che avevano
parlato i toni si erano accesi più del dovuto –
probabilmente da parte sua –, il suo istinto da mamma
chioccia
stava prevalendo su tutto il resto e al diavolo il suo orgoglio ferito!
Per sua sfortuna non era in grado di portare una barca a remi,
figurarsi quel cinquanta metri extra lusso, anche se aveva il pilota
automatico.
Alla villa si presentò due giorni dopo aver ricevuto il
messaggio. Salì i gradini dello scalone tre alla volta,
tanto
era il livello di ansia che aveva addosso, e spalancò la
porta
della camera da letto di Saga. Poteva andare a colpo sicuro con il
gemello, poiché sapeva che quando lui aveva un problema si
metteva seduto a terra, debole e dimesso come un cucciolo abbandonato e
con lo sguardo fisso a guardare fuori dalla finestra. Allora, si
sarebbe specchiato in quegli occhi tristi e si sarebbe visto superiore,
nel suo tentativo di consolarlo. Invece, quando fece la sua entrata
trionfale, la stanza era vuota.
«Saga! Saga!»
Il sorriso da vincitore sulle sue labbra si era via via smorzato fino a
svanire, lasciando un'espressione di sconcerto e una paura di fondo che
gli faceva tremare le gambe.
«Saga!» urlò, entrando con foga nella
cabina armadio. Anche lì non trovò nessuno.
Con il cuore in gola si affacciò nel bagno in comune e lo
trovò lì, di fronte allo specchio di uno dei due
lavabi,
con un asciugamano legato in vita e una mano sporca di schiuma da barba
che lo fissava.
«Tu lo sai come si usa questo affare? Io continuo a
tagliarmi», gli disse, mostrandogli un rasoio a lametta: era
in
argento e con il manico di madreperla, molto raffinato.
Kanon sgranò gli occhi, spiazzato e sconvolto dalla
tranquillità che mostrava l'altro. Avanzò a passi
lenti
fino al water e vi si sedette come sfinito, mentre l'altro si
sciacquava il viso. Da un lato era sollevato perché Saga
sembrava in gran forma, ma dall'altro sentiva che il suo preoccuparsi
tanto di quegli ultimi giorni era stato del tutto inutile. Poi, si
sciolse in una gran risata.
«Mi avevano detto che ti eri spaccato la testa e giacevi
moribondo nel letto, ma vedo che quelle voci sono infondate»,
disse, dopo essersi calmato. Si avvicinò a lui e dal primo
cassetto del mobiletto prese un rasoio elettrico a tre testine.
«Di solito usi questo, per questa tua pelle così
delicata», lo sfotté, accarezzandogli ambiguamente
la
leggera peluria sul profilo della mascella con le dita.
«Questa tua recita riservala per qualcun altro»,
ribatté Saga, bloccando con forza la mano del fratello e
lasciandolo senza parole.
Kanon lo fissò a lungo. In quegli occhi verdi brillava una
luce
diversa, più cupa, mentre sulle sue labbra un poco
screpolate
comparve un sorriso insolente. Era solo un accenno, ma lo avrebbe
riconosciuto fra mille, perché da sempre era il suo marchio
di
fabbrica.
In quel momento, in quel bagno, loro due soli, ebbe l'impressione di
ritrovarsi dopo tanto, troppo tempo, di nuovo di fronte al vecchio
Saga, quello prima dell'incidente. E finalmente erano di nuovo uguali.
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Capitolo 35 *** Capitolo XXXIV ***
XXXIV
Da due giorni interi la
testa gli dava fastidio. Non erano i soliti giramenti con i quali
poteva convivere, o il dolore sordo e pulsante che di tanto in tanto lo
portava a chiudere gli occhi e a concentrarsi fin quando non passava,
ma erano i punti che il medico gli aveva messo al pronto soccorso, ben
dieci, che lo tormentavano. Continuava a tastare proprio lì
e
ogni volta ne rimaneva impressionato, quasi schifato.
Si guardò fisso
nello specchio del bagno, mentre di nuovo passava le dita fra i
capelli. Erano stati clementi con lui durante la medicazione, gli
avevano rasato solo una piccola parte della testa e questa veniva
mimetizzava tranquillamente dal resto dei capelli. Si diede una veloce
sciacquata e si pettinò con cautela, poi tornò in
camera
e si distese ancora una volta sul letto. Fuori non era ancora sorto il
sole, lo avrebbe fatto di lì a poco, ma lui non aveva chiuso
occhio.
Si portò una mano sotto la testa e si mise a fissare la
sinistra. Quella fede...
Nella sua mente passavano
veloci le immagini degli ultimi mesi e lui le vedeva come dei flash
della vita di un'altra persona, non della sua. Guardava quell'anello e
si rendeva conto di non riuscire a ricordare i sentimenti ad esso
legati.
Rimanere sdraiato sul
letto stava diventando un supplizio. Si alzò e si
avvicinò alla libreria. La studiò con attenzione,
sfiorando i volumi sugli scaffali con la punta dell'indice, senza il
bisogno di accendere la luce: il quarto di luna nel cielo che si vedeva
dalla finestra diffondeva sufficiente chiarore perché lui
potesse distinguere e leggere i dorsi dei vari libri. Si
fermò
su uno sottile, dalla costina ricoperta di nastro di tela nera e senza
scritte. Lo prese e notò che la copertina era stata
riparata,
mentre le pagine erano grinzose, come se fossero state a contatto con
l'acqua.
«Curioso», mormorò, «non mi
sembra di averlo mai visto prima.»
Spostò la sedia
della scrivania e si sedette. Si allungò per accendere la
lampada da tavolo e iniziò a sfogliarlo. Era scritto a mano,
con
una penna stilografica e una bella calligrafia. Alcune pagine erano
ancora in buono stato, altre un po' meno, ma ancora leggibili.
In alto a sinistra notò delle date.
«Un diario», commentò a mezza voce.
Lo richiuse subito. Non
amava particolarmente i diari personali, ma gli tornò in
mente
che apparteneva a Caroline e quale valore aveva per lei. Ricordava
anche in quale occasione ne era venuto in possesso. «Ma erano
più di uno.»
Lo studiò con
maggiore attenzione e si accorse che infatti non era un quaderno unico,
ma almeno tre uniti assieme. Si massaggiò la fronte, il mal
di
testa stava aumentando. Nelle orecchie risuonò il pianto di
Caroline e la sua disperazione di quella notte. Lo riaprì
facendo attenzione: da quando li aveva restaurati non aveva mai pensato
neanche una volta di leggerli, perché non trovava giusto
invadere la privacy della giovane in quel modo. Aveva pensato di
restituirglieli una volta che la sua situazione si fosse stabilizzata,
ma poi erano successe altre cose, altri problemi e se ne era
dimenticato.
Girò le prime pagine e iniziò a leggere.
24 Maggio 1987
Oggi è
arrivata una notizia che mi ha rattristato molto. Anthony è
morto. Credo che ormai posso considerarlo alla stregua di un amico e
permettermi di chiamarlo per nome, dopo tutte le volte che sono andato
a fargli visita in prigione, anche se lui è sempre stato di
poche parole.
Pare che sia
stato coinvolto in una rissa, forse un regolamento di conti, durante il
quale sono morti altri due detenuti. Cose del genere non sono poi
così rare in un ambiente come quello.
Ho sentito dire
che nessuno alla procura ha intenzione di approfondire. Non mi
sorprende affatto, visto come si sono comportati con il caso Taylor fin
dall'inizio. A chi vuoi che importi la vita di qualche criminale?
Se non fosse
perché c'è andato di mezzo Anthony, probabilmente
non importerebbe neanche a me e questo mi spaventa.
Ora che ci
rifletto, sono andato a trovarlo non più di un mese fa e mi
è sembrato teso, nervoso. Come se avesse paura di qualcosa e
che
in qualche modo si aspettasse quello che poi è accaduto. In
quell'occasione, per la prima volta da quando lo conosco, non si
è limitato a parlare del più e del meno, ma ha
accettato
di rispondere alle mie domande. In cambio però mi ha chiesto
di
andare a trovare Emma, stavolta per suo conto.
Gli ho dato la
mia parola, ma ancora non sono riuscito a mantenerla. Devo ammettere
che un po' è colpa mia, ultimamente sto dando la
priorità
alla mia vita privata (la mia bambina assorbe tutto il mio tempo
libero), ma quando ho provato a chiedere di vedere Emma, ho trovato
delle resistenze. Dietro deve esserci la famiglia della donna.
Non
scorderò mai ciò che mi ha risposto quando gli ho
chiesto
come mai non si fosse mai battuto per la sua innocenza. Disse:
«Quando si ha qualcosa di importante da difendere, si
può
sopportare qualsiasi cosa.»
Penso di capire cosa
intendesse dire, farei di tutto per mia moglie e mia figlia.
30 maggio 1987
Finalmente
l'altro giorno ho avuto l'opportunità di vedere Emma Taylor.
Della giovane e affascinante donna che ho imparato a conoscere e
ammirare in questi tre anni, è rimasta solo l'ombra di se
stessa.
È
davvero in uno stato terribile, ora i segni della malattia si sono
manifestati in tutta la loro raccapricciante visione. Suppongo che sia
inevitabile anche per una persona sana di mente se viene rinchiusa in
un posto del genere. È ancora più magra
dell'ultima volta
che l'ho vista, il suo viso è scavato e orribili ombre nere
contornano i suoi occhi. Le bende alle braccia e alle gambe sono
aumentate: sta continuando a farsi del male da sola o è il
risultato del metodo che usano in questo posto per curare i pazienti?
Quegli occhi!
Nonostante tutto hanno mantenuto intatta la lucidità di una
mente forte e tenace, almeno fino a quando non le ho riferito della
morte di Anthony. Detesto essere latore di brutte notizie e mi si
è spezzato il cuore quando dalla mia bocca sono uscire
quelle
parole.
Durante in
nostri incontri, mi chiedeva sempre di lui, era la prima cosa che
chiedeva, ma questa volta non l'ha fatto, come se se lo aspettasse.
L'ho vista rimanere immobile, glaciale, mentre mi ascoltava. Da quel
momento comunque, la visita si è praticamente conclusa: lei
non
ha più parlato con me.
Però,
mentre varcavo la soglia della sua camera, mi ha rivolto un sorriso e
mi ha ringraziato per tutto quanto ho fatto per lei. Che strano, io non
ho fatto proprio nulla se non continuare a farle domande sui bambini.
Oggi avrebbero quattro
anni. (La mia piccola Caroline invece, proprio oggi compie un anno.)
Mentre
terminavo di scrivere questi pensieri, ho ricevuto una telefonata da
una delle infermiere che si occupavano di Emma Taylor. Mi ha comunicato
che è stata trovata priva di vita nella sua stanza. Le ho
chiesto di descrivermi la scena, forse così
capirò cos'ha
tentato di nascondere fino a questo momento.
La donna mi ha
detto che l'hanno trovata seduta sulla sedia, di fronte alla finestra,
e guardava fuori con un'espressione serena. Nella mano destra, adagiata
mollemente sul grembo, teneva un pezzo di plastica dai bordi taglienti,
ricavato da una penna bic. Il braccio sinistro invece pendeva dal
bracciolo e sopra una grossa pozza di sangue; all'altezza del polso
aveva diversi tagli, alcuni più profondi di altri.
La porta della
camera era stata bloccata dall'interno con una sorta di barricata di
fortuna e sono stati costretti a buttarla giù con l'aiuto di
due
inservienti.
L'infermiera mi
ha raccontato un particolare molto interessante e significativo: le
dita della mano destra di Emma erano ombrate di una sostanza rosso
scuro, ma ciò che l'ha impressionata di più
è
stata la scoperta del ritratto di un uomo sul muro, eseguito con il
sangue. Deve essere stata Emma a farlo e deve aver usato il suo stesso
sangue.
Chiederò
ai detective che si occupano del caso di poter visionare il materiale
fotografico, perché sono ormai certo che l'uomo ritratto sia
proprio Anthony.
Saga alzò gli
occhi stanchi e arrossati dal quaderno e si rilassò sulla
sedia.
La luce della lampada da tavolo era smorzata dal chiarore del giorno
che entrava dalla finestra. Diede uno sguardo alla camera da letto e
provò la sensazione di essere rimasto prigioniero per troppo
tempo di una vita che non rispecchiava il suo vero Io. Si mise la
vestaglia di seta blu scuro sopra il pigliama della stessa
tonalità e scese al piano di sotto con il quaderno nella
tasca.
Si fermò in fondo
alle scale: la casa era tranquilla e gli unici rumori presenti
provenivano dalla cucina, dove probabilmente Nanny stava già
preparando la colazione. L'aria era avvolta dall'aroma di
caffè
appena fatto e sarebbe stato un richiamo irresistibile per chiunque, ma
non per lui, non in quel momento e non nello stato d'animo in cui si
trovava.
Entrò nella
biblioteca, chiuse tutte le tende e accese la lampada sulla scrivania
di mogano. Poi, dalla cassaforte dietro il grande dipinto dell'arcigno
Abraham Hayes tirò fuori il plico che conteneva i documenti
che
Shion Hayes custodiva gelosamente. Si sedette alla scrivania e
continuò nella lettura.
10 dicembre 1998
Non ho notizie
di Brett da più di dieci giorni. L'ultima volta mi aveva
detto
di aver messo insieme del materiale esplosivo e stava seguendo una
pista interessante per il caso Taylor. Secondo lui dovrebbe provocare
un bello scossone nell'alta società di Boston, ma prima di
pubblicare l'articolo voleva trovare delle conferme. Non credo ci sia
da preoccuparsi più di tanto, lui è un tipo che
sparisce
anche per giorni e poi riappare come nulla fosse. Comunque, ho parlato
con il suo capo redattore e anche lui è tranquillo.
Brett è
un buon amico, appassionato del suo lavoro. Grazie a lui sono riuscito
a sapere la parte mancante della storia di Anthony Young.
Dalla sua
ricostruzione, pare abbia origini europee, di qualche paese del
mediterraneo, ma non c'è nulla di certo. È
arrivato negli
Stati Uniti con la sua famiglia (padre, madre e un fratello di un anno
più giovane) quando aveva sette anni. Il padre era un
primario
di pronto soccorso che era stato invitato per partecipare a un
congresso a Washington DC sulle nuove tecniche di procedura
d'emergenza. L'intera famiglia è stata coinvolta in un
incidente
mortale e l'unico sopravvissuto è stato Anthony.
Del bambino si
sono poi perse le tracce per diversi anni, probabilmente ha vissuto per
strada o in qualche istituto, ma visto che all'epoca non si era certi
se parlasse inglese o no, questo fatto deve aver complicato la sua
identificazione e il susseguente iter di affidamento dei servizi
sociali.
Alla fine,
è rispuntato fuori come Anthony Young e coinvolto nella
rapina
alla farmacia che gli è costata la condanna. Il resto
è
storia nota.
Sembra
combaciare tutto, ma come avrà fatto Brett a ricostruire
questa
storia? Ciò che mi lascia perplesso, e lo stesso anche lui,
è che secondo i verbali della polizia di Washington
dell'epoca
non erano stati trovati documenti addosso alle vittime, quindi
l'identificazione non è certa. Il lato ancora più
tragico
della vicenda è che la donna era incinta di quasi venti
settimane.
Dopo che Brett
mi ha raccontato questa storia, sono andato a spulciare nei vecchi
numeri del Washington Post; in effetti, in un articolo di cronaca
locale si parlava di un incidente molto simile e dalle foto pubblicate
potrebbe essere lui il bambino biondo.
Perché
annoto tutto questo proprio ora? Non lo so, così come non so
perché mi interessa così tanto conoscere la vita
di
quell'uomo. Forse, se mai un giorno verranno ritrovati quei due
sfortunati ragazzi, vorranno conoscere chi era il loro padre.
Saga girò
quell'ultima pagina aggrottando la fronte. Avvertiva i suoi occhi umidi
di commozione e questo gli dava fastidio. Non provava sentimenti
particolare per quell'uomo, né per l'autore di quelle
pagine;
eppure, nel leggere quelle note, qualcosa nella sua mente era scattato,
come se avesse riconosciuto alcuni degli eventi di cui si parlava.
Ricontrollò la data e le prime righe.
«Possibile che il
tizio nella rimessa fosse lui? E quei due, per chi lavoravano, per mio
padre o per qualcun altro?» Scrollò la testa per
togliersi
quei pensieri pazzeschi.
Si prese un bicchiere di
whisky dal mobile bar e riprese la lettura. Le pagine successive erano
bianche e raggrinzite dall'acqua. Poi, arrivò a quello che
sembrava essere l'ultimo blocco scritto.
24 dicembre 1998
Non credevo che
avrei mai ripreso in mano quest'ultimo blocco di appunti del caso
Taylor, anche se ultimamente pensavo di cedere alle pressioni di Teresa
e darle il materiale per il libro che vorrebbe scrivere. Forse, un
libro-inchesta sul caso Taylor potrebbe smuovere le acque e indurre
qualcuno a uscire allo scoperto... forse, proprio i due ragazzi
potrebbero riconoscersi e farsi vivi. Oggi sarebbero adolescenti.
Chissà se somiglierebbero più al padre o
più alla
madre. Di sicuro sarebbero due splendidi ragazzi.
Comunque, credo
che se non dovesse uscire qualche nuova pista, questa sarà
l'ultima nota che scriverò su questo caso. Ho passato
più
di quattordici anni a cercare, ma ho sempre fallito.
… Poco
dopo essere tornato in centrale dalla pausa pranzo ho ricevuto una
strana quanto inattesa telefonata da parte di una donna. Non mi ha
lasciato il suo nome, ma si è presentata come la sorella
minore
di una ex infermiera della clinica privata nella quale era ricoverata
Emma. Credo fosse la stessa che mi diede la notizia del suo suicidio.
Mi ha detto che
ultimamente non si sente al sicuro, ha la sensazione di essere
osservata e seguita. Le ho offerto il mio aiuto, ma lei ha insistito
che deve incontrarmi con urgenza. Sembrava sorda a tutto il resto.
Quando le ho chiesto il motivo, mi ha detto che deve darmi qualcosa di
molto importante collegato alla scomparsa dei figli di Emma Taylor.
Dopo tutti questi anni, quando ormai mi ero quasi messo l'animo in
pace, ecco che compare una potenziale pista. Forse il destino vuole che
non mi arrenda e che continui a indagare.
La voce di quella donna
e i suoi modi mi hanno convinto che sta dicendo la verità.
Stasera la
incontrerò in un pub in periferia, durante una serata di
speed
date, quando il locale sarà pieno di gente. (Ma cosa diamine
è uno speed date?)
Ne ho parlato
con Phillip per un consiglio, gli ho raccontato della telefononata; lui
mi ha dato una pacca sulla spalla, ha ammiccato e ha detto che
è
così che ha trovato l'ultima fidanzata, quella che ci
presenterà domani sera a cena. Poi però si
è fatto
serio, mi ha preso da parte e ha provato a convincermi di lasciar
perdere, ma quando ho insistito sulla possibilità di una
svolta
significativa, il suo consiglio è diventato un ordine.
Questa volta non posso
proprio obberdire.
… Ho
lasciato pochi minuti fa l'informatrice (la chiamerò
così
perché non ha voluto dirmi il suo nome, addirittura si
è
presentata con una parrucca e un grosso berretto di lana pesante) e ora
mi ritrovo seduto in auto con una busta gialla appoggiata sul sedile di
fianco. All'interno c'era una lettera dell'infermiera e un'altra busta,
sigillata, con un piccolo oggetto dentro. Di solito ci metto qualche
giorno per elaborare le informazioni e riportarle nel quaderno, ma
questa volta è diverso. Questa volta non posso aspettare di
tornare a casa e mettermi al tavolo a scrivere, anche se è
tardissimo e dovrei essere con la mia famiglia in questa notte di
vigilia, ma ciò che la donna mi ha detto e che mi ha
portato, mi
ha scombussolato. Ho le mani che tremano mentre sto scrivendo.
Quella donna mi
ha raccontato quanto le aveva riferito sua sorella anni prima, riguardo
gli ultimi giorni di vita di Emma Taylor. Ha detto che Emma aveva
cambiato atteggiamento dall'ultima volta che le avevo fatto visita; era
più serena e in pace con se stessa, come se non avesse alcun
rimpianto. L'ultimo giorno in particolare, lo aveva passato a scrivere
alcune lettere personali, che poi aveva affidato all'infermiera stessa
affinché me le consegnasse.
Dopo aver letto
la lettera destinata a me, mi sono commosso della considerazione che
Emma aveva di me, ma al tempo stesso mi sento un vero schifo per come
sono andate a finire le cose. Se penso che potrei essere stato io a
spingerla a suicidarsi... non so come potrò guardare in
faccia
mia moglie e mia figlia.
Insieme alla lettera
c'è anche una chiave, sembra di una cassetta di sicurezza.
Non so cosa fare...
«Entrambi hanno avuto a che fare con il padre di
Caroline», mormorò Saga, sfregandosi gli occhi con
le dita.
Chiuse il quaderno e
vuotò il bicchiere a piccoli sorsi, sprofondato nella
poltrona
di pelle. Aveva bisogno di riflettere e metabolizzare tutto quello che
aveva appreso. E non era affatto facile.
Quella appena letta era
l'ultima pagina scritta e la frase era rimasta a metà, come
se
l'uomo fosse stato interrotto e non avesse più avuto modo di
andare avanti. E poi, la chiave di cui parlava... l'aveva vista.
L'aveva trovata all'interno della copertina di uno dei quadernetti,
quando ci aveva lavorato su. Aveva pensato di parlarne a Caroline una
volta risistemati i quaderni del padre, quindi per non perderla se
l'era portata a casa e l'aveva riposta nel cassetto della scrivania ed
era ancora là.
«Chissà quali segreti custodisce»,
mormorò.
«Da quando fai colazione con il whisky?»
La voce di Shion Hayes
irruppe nel silenzio della biblioteca con un marcato tono di
rimprovero, misto a delusione e sorpresa. Era stato attirato dalla luce
che filtrava dalla porta socchiusa, ma non si sarebbe mai aspettato di
trovare il figlio con un bicchiere in mano.
«Posso capire che
non stai bene, che sei ancora frastornato», disse, fermandosi
di
fronte alla scrivania, «però mi sembra eccessivo
che tu ti
riduca a bere fin dal primo mattino.»
Saga alzò lo
sguardo su di lui e lo fissò dritto negli occhi; il suo viso
era
privo di espressione e i suoi occhi erano ben lontani da quelli dolci e
limpidi che tutti amavano. Posò il bicchiere sulla
scrivania,
accanto ai due vecchi ritagli di giornale che parlavano della morte di
Tony ed Emma. Ciò che non era stato riportato dal
giornalista,
lo aveva appreso dalla mano del poliziotto morto.
«Non hai nulla da dire?»
«Hai già
tirato le tue conclusioni», risposte atono Saga. Si sporse un
poco verso la scrivania e spinse il quaderno verso il padre.
«Che cos'è?»
«Un pezzo del passato.»
Shion Hayes sfiorò
il quaderno con le dita e respirò piano. Lo
studiò per
diversi secondi, la tentazione di conoscerne il contenuto era forte, ma
lo restituì al figlio nello stesso modo. «Non ho
alcun
diritto di leggerlo.»
«Eri al corrente
che il padre di Caroline li conosceva e indagava sul caso?»
domandò Saga, mascherando appena un tono di sfida.
«Quando mi hai
presentato Caroline, speravo che il nome Miller fosse solo una
coincidenza, invece è stato un crudele scherzo del
destino», disse in un sospiro l'uomo. «Il detective
Miller
venne diverse volte, sia negli uffici in città, sia
nell'altra
residenza, che all'epoca abitavamo, a farmi molte domande. Fu molto
insistente durante i primi anni, poi diradò le sue visite e
alla
fine non ne seppi più nulla, se non alla sua morte. Mi
dispiacque per quell'uomo, era una brava persona, si vedeva che ci
teneva alle persone coinvolte.»
Saga lo ascoltò in
silenzio, ma indifferente, giocherellando con la fede. Poi, si
alzò, si tolse l'anello e, dopo un attimo di esitazione, lo
posò sul quaderno.
«Questo cosa significa?» chiese Shion, senza
ottenere alcuna risposta.
«Una cosa»,
disse Saga, fermandosi sulla soglia, dando sempre le spalle al padre.
«I Taylor di cui si parla in quel quaderno, sono
“quei” Taylor?»
Shion non aveva bisogno di sforzarsi per interpretare quelle parole e
rispose subito affermativamente.
«Sarà bene allora andare a presentarsi
ufficialmente, non trovi?» disse, facendo un breve sorriso.
Quando lo vide sparire
dietro la porta, Shion ebbe un violento tremito e si dovette afferrare
alla scrivania. A fatica riuscì a sedersi sulla poltrona e,
dal
fondo del cassetto centrale tirò fuori un pacchetto di
sigarette. Erano molti anni che non fumava, forse due decenni, ma ora
sentiva la vitale necessità di riprendere quel vizio.
*****
Aiolos parcheggiò
di fronte alla vetrina oscurata della legatoria del vecchio Josh e si
rilassò sul sedile. Dalla tasca del giubbotto prese una
confezione piccola di M&M's, si riempì la mano di
lenti di
cioccolato e le soppesò per qualche secondo prima di
divorarle
in una volta sola. Poi, ne offrì anche all'amico, ma al suo
rifiuto scrollò le spalle e se le finì senza
rimorsi.
«Cosa ci facciamo in questa parte della
città?»
«Voglio mostrarti
una cosa», iniziò. «Lo so che
potrà sembrarti
paradossale, conoscendolo...»
«Più
paradossale di come si sta comportando in questi giorni?» lo
interruppe Kanon, con uno scatto nervoso. Fece un respiro profondo per
calmarsi. «Ha definito la sua camera da letto come quella di
un
ragazzino, poi ha buttato all'aria il suo guardaroba e ora si serve dal
mio. Quando provo a protestare, mi rinfaccia che ho detto che
condividiamo anche le mutande! Ma la cosa più inconcepibile
è che non mangia più il suo dolce
preferito!» si
sfogò con insolita veemenza.
Aiolos lo lasciò
parlare. Scese dall'auto e sbuffò, alzando lo sguardo verso
la
finestra della cucina dell'appartamento di Caroline.
«Allora, vuoi spiegarmi cosa ci facciamo qui?»
insistette Kanon, chiudendo la portiera dell'auto.
«Seguimi e basta», replicò Aiolos,
attraversando la strada.
Si fermò davanti
al portone al numero tre e aprì con la chiave. Poi,
salì
le scale fino alla porta dell'appartamento.
«Vedere dove porti i tuoi amichetti non mi interessa
affatto.»
«Piantala e fai il
serio, una volta tanto!» ribatté Aiolos. Iniziava
a non
sopportare più quel tipo di sfottò da parte
dell'amico.
Aprì la porta come fosse casa sua e lo fece accomodare.
L'appartamento era
avvolto in una calma quiete, le tende delle finestre erano aperte e
facevano entrare la luce del giorno. Sembrava non esserci nessuno,
eppure dalla cucina arrivava un invitante odorino di sugo di pomodoro
e, a quell'ora del giorno, con il momento del pranzo che si stava
approssimando, faceva nascere un certo laguorino.
Kanon si guardò
attorno un po' spaesato, ma curioso. Nell'arredamento, nei colori,
nella conformazione dell'appartamento stesso, riconosceva alcuni
elementi distintivi del fratello e in un certo senso si sentiva a casa.
«Allora è qui che ha abitato in questi
mesi.»
Nel rendere concreto quel
pensiero il suo viso assunse un'espressione seria, quasi contrariata.
Forse però, ciò che lo disturbava veramente era
che non
riusciva proprio ad essere felice per lui.
All'improvviso si
udì un docile miagolio e da dietro il divano
sbucò il
musetto nero di Kitty, con quei suoi furbi occhietti color ambra. Kanon
si irrigidì nel vedere quella pantera in miniatura
avvicinarsi a
lui; e quando la bestiola si fermò a metà strada,
fissandolo con insistenza, iniziò a temere per
l'incolumità dei pantaloni.
Kitty si esibì in
un grosso sbadiglio, mostrando i suoi dentini aguzzi, poi si
stiracchiò sul parquet e zampettò verso Aiolos
con la
codina dritta. Si strusciò sulle sue gambe, arcuando la
schiena
e miagolando un paio di volte, per attirare la sua attenzione.
«Dov'è
finita la tua padrona?» disse il ragazzo, prendendola per la
collottola e alzandola fino al livello del viso.
La gattina squittì
e mostrò di nuovo i dentini e lui, giusto per provocarla un
po',
le soffiò sul musetto, facendola agitare. La mise
giù e
si diresse in cucina, subito seguito dalla gattina, mentre Kanon si
rilassava per lo scampato pericolo. Lasciato solo, il giovane riprese a
guardarsi attorno e a rimuginare.
La porta d'ingresso si aprì poco dopo.
Nonostante il carico
ingombrante, Caroline entrò in casa senza fare rumore, con
la
cesta del bucato appena ritirato dall'asciugatrice sotto un braccio, la
posta tenuta fra i denti e nell'altra mano un sacchetto di plastica con
dei vasetti di vetro vuoti. Alzò lo sguardo e lo vide
lì,
girato di tre quarti, che studiava i libri nella libreria. Le cadde la
corrispondenza dalle labbra e quasi si lasciò sfuggire anche
la
cesta.
«Saga»,
balbettò. Non poteva crederci, finalmente era tornato a casa
e
stava bene. Fece un respiro incerto, spezzato dall'emozione che stava
provando in quel momento. «Saga!»
Appoggiò la cesta
e il sacchetto per terra e corse ad abbracciarlo, stringendosi a lui e
singhiozzando contro il suo petto. Sentì le braccia
dell'altro
stringerla piano, dapprima con indecisione, poi con maggiore
convinzione e calore. Si morse con forza il labbro per trattenere il
pianto. Non aveva il coraggio di alzare la testa e mostrarsi a lui, non
dopo quello che era successo, ma al tempo stesso aveva bisogno di
essere consolata da lui.
Sul momento, Kanon si
ritrovò spiazzato e imbarazzato, ma inaspettatamente si
sentiva
anche bene in quella situazione. Chiuse gli occhi, fece un respiro
profondo inalando il profumo delicato dei suoi capelli e
ricambiò l'abbraccio. Avrebbe potuto rimanere
così in
eterno, invece la sua indole da buontempone prese il sopravvento.
«Buongiorno... cognatina», si lasciò
sfuggire dalle labbra.
Caroline sussultò
e alzò la testa, fissandolo a occhi sgranati: erano lucidi
di
lacrime e spaventati. Si staccò da lui e provò a
indietreggiare, ma Kanon l'afferrò per i polsi e allora lei
si
scansò alla sua vista, nascondendo il viso come meglio
poté.
Fu solo un gesto istintivo da parte di entrambi.
«Lasciami andare», disse Caroline con voce agitata.
«No»
Lui non aveva intenti
negativi, eppure non aveva alcuna intenzione di esaudire la sua
richiesta. Il calore e il sentimento di quell'abbraccio, la sua
disperazione... non aveva mai provato nulla di simile. Lui stesso era
sorpreso e sconcertato del proprio comportamento.
«Per favore,
lasciami andare!» insistette lei, alzando involontariamente
la
voce, tanto che Aiolos si affacciò dalla cucina.
«Kanon, piantala di fare l'idiota!»
inveì il giovane, con in mano un pezzo di pane intinto di
salsa.
Sedevano tutti e tre in
salotto, la casa era avvolta in una sorta di imbarazzo generale. Il
rampollo degli Hayes se ne stava sulla poltrona, con lo sguardo basso,
quasi in disparte, mentre Caroline sedeva al centro del divano e Aiolos
invece sul un angolo del tavolino, di fronte a lei. Nonostante Kanon si
fosse scusato per il suo comportamento inappropriato e lo avesse fatto
con sincerità – ed era stato perdonato –
non aveva
il coraggio di guardare in faccia la giovane donna. Quei desideri
reconditi erano tornati a galla e lo spaventavano.
Aiolos invece era fin
troppo a suo agio e in confidenza, soprattutto quando era tornato dalla
cucina portando con sé un bicchiere d'acqua e le medicine
per la
padrona di casa, anche se lei gli aveva detto che le aveva
già
prese.
«Non l'ho fatto
apposta a scambiarti per Saga, te lo assicuro, è solo che...
la
mia vista è ancora un po' annebbiata e voi due vi
assomigliate
così tanto. O forse, è che mi manca e ho sperato
fosse
lui», si giustificò Caroline, passandosi la mano
sugli
occhi che sentiva affaticati. Erano passati alcuni giorni, ma il suo
viso non era migliorato affatto e portava ancora evidenti i segni dei
pugni presi.
Kanon fece un breve e
timido cenno di assenso con la testa, rifiutandosi ancora di guardarla,
ma osservò Aiolos di sottecchi, pregando che l'amico si
inventasse qualcosa per far progredire la loro visita.
Aiolos ricambiò
quell'occhiata e non gli ci volle un grande sforzo per leggergli dentro
il senso di colpa che lo schiacciava. Un infondato senso di colpa, gli
avrebbe detto, se fosse stato libero di parlare. Invece, si sporse
verso Caroline appoggiando gli avambracci sulle gambe e le
spiegò il motivo – quello apparentemente ufficiale
–
per il quale erano lì.
«Il procuratore
generale di Boston ha deciso di non procedere con alcuna
incriminazione. In considerazione dell'identità del morto e
di
quanto gli è stato riferito dalla procura di Philadelphia ha
accettato la tesi della legittima difesa. Non sarà avviato
alcun
processo. È stato assicurato a Shion Hayes che né
il tuo
nome, né quello di Saga saranno resi pubblici o associati a
questo caso», disse, nel tono più formale e legalese che
conosceva.
Caroline ascoltò
in silenzio, con lo sguardo fisso su una ciotolina di cristallo al
centro del tavolino, che conteneva delle caramelle in vetro soffiato.
Quasi le sembrava di essere la protagonista di una delle repliche di Law&Order
che trasmettevano a notte fonda in quel periodo.
Tutta l'agitazione e
l'angoscia provate poco prima erano sparite, ora sostituite da una
strana consapevolezza che le faceva apparire tutto chiaro. In quel
momento finalmente capiva cosa doveva aver provato la madre al funerale
del marito. Fece un respiro profondo e abbozzo un sorriso.
«Grazie per essere
passati a informarmi», disse, alzandosi e tornando
all'ingresso,
riprendendo la cesta del bucato che aveva lasciato vicino alla porta.
Si muoveva con calma, senza lasciar trasparire le emozioni, ormai
azzerate.
L'invito ad andarsene era
esplicito e non aveva bisogno di altre parole. Con una mano
aprì
la porta e rimase lì in attesa, evitando il loro sguardo
mentre
le passavano davanti.
«Kanon», lo
chiamò un attimo prima che questi varcasse completamente la
soglia di casa. «Non volevo fargli del male. Te lo
giuro»,
disse, mentre una grossa lacrima le scendeva sul viso.
«Lo so.»
*****
«Un po' pretenzioso per una famiglia senza tradizioni e senza
futuro, non trovi?»
Shion Hayes si sedette
accanto a Saga sulla panchina di marmo lucido. In mano si rigirava il
vecchio borsalino che da almeno due decenni non portava più,
ma
a cui era affezionato. Quel giorno l'aveva voluto rispolverare un po'
per nostalgia e un po' anche per sentirsi più vicino al suo
passato.
Alzò lo sguardo
verso il mausoleo della famiglia Taylor. La facciata in marmo bianco e
le due colonne classiche che incorniciavano il grande portone di bronzo
– decorato con inserti d'ottone lucido, così come
il nome
a grandi lettere posto sul frontone neo classico – spiccava
su
tutto il resto che sapeva invece di decadente.
«Devo essere
sincero, quando ti ho visto prendere l'auto e andar via in quel modo
non sapevo cosa pensare, ma di certo non mi sarei mai aspettato che
saresti venuto proprio qui.»
Saga rimase ancora in
silenzio. Si appoggiò con gli avambracci alle ginocchia e si
portò una mano alla fronte, premendo un poco le dita sulle
tempie per arginare il mal di testa che lo affliggeva.
«Ti senti
bene?» chiese Shion. Non era tanto l'essere taciturno del
figlio,
a cui peraltro era abituato, a renderlo apprensivo, quanto le possibili
complicazioni del trauma cranico e una seria ricaduta della sua salute.
Il giovane respirò
profondamente con la bocca e si raddrizzò: era pallido in
viso,
ma aveva lo sguardo determinato. Dalla tasca interna della giacca prese
una busta bianca e la chiave della cassetta di sicurezza della banca di
Boston nella quale aveva trovato la busta stessa e diverse altre cose,
stringendole nella mano.
«Cos'ha scatenato
tutta questa situazione? Perché gli eventi ci hanno portato
nostro malgrado a questo punto?»
«L'ambizione di
uomo», rispose Shion, «un uomo nato povero che
voleva fare
grande il suo nome e la sua famiglia; voleva dar vita a una dinastia e
ora, vecchio e solo, non ha nulla se non un presente che presto
diventerà passato.»
«Non è forse
la stessa cosa che voleva anche nonno Abraham?» disse Saga,
sentendosi strano a chiamare nonno una persona che non aveva mai
conosciuto e che non aveva alcun legame di sangue con lui.
«Sì,
è vero, anche lui era ossessionato dal potere e dalla
ricchezza,
ma non ha avuto la possibilità di portare a termine i suoi
piani. James Taylor senior aveva una perla rara fra le mani e la sua
smania di controllo l'ha portata alla rovina, condannando alla fine la
sua stessa famiglia», svelò Shion, con un poco di
commozione nella voce.
«Stai parlando di Emma?»
«Tua madre, Saga.
Lei era una persona determinata, che sapeva ciò che voleva
dalla
vita e non si lasciava comandare. Aveva davanti a sé un
futuro
brillante, avrebbe fatto grandi cose, se solo...»
«Se solo non si fosse rovinata la vita facendosi mettere
incinta?» intervenne Saga.
«Un tempo lo
pensavo, e sicuramente lo pensava anche la sua famiglia, ma aveva
ragione lei. Ha sempre avuto ragione lei. Aveva fatto la scelta giusta.
Con Anthony aveva trovato un equilibrio perfetto. Lui era la medicina
che teneva sotto controllo i suoi sbalzi d'umore, che la manteneva a
contatto con le cose veramente importanti. Purtroppo però,
Anthony veniva da un ambiente troppo diverso. Era inadatto per lei,
avrebbe macchiato la reputanzione dei Taylor.»
«Non sai quanto...» mormorò Saga,
facendo un respiro profondo.
«Che vuoi dire?»
«Qui dentro ci sono
gli scheletri della famiglia Taylor», disse Saga,
mostrandogli la
busta corposa. «Forse, se Gregory Miller non fosse morto,
tutto
sarebbe stato diverso.»
Shion Hayes posò
una mano su quella del figlio e questi alzò lo sguardo su di
lui. Gli occhi di Saga avevano ritrovato la limpidezza di sempre e il
suo viso, che portava i segni della notte insonne, esprimeva la
pacatezza e la sensibilità che erano sue caratteristiche.
«Tu che ruolo hai avuto?» gli chiese.
«Mi stai accusando
di qualcosa?» ribatté l'altro, ma senza intenti di
rimprovero. Era conscio di essere colpevole, lui stesso si sentiva
responsabile per tutto quanto. «Probabilmente hai
ragione»,
sospirò, massaggiandosi la fronte. «Se a quel
tempo li
avessi aiutati...»
«Saremmo stati diversi?» lo interruppe Saga.
«Sareste stati due
splendidi ragazzi come lo siete ora, ma avreste conosciuto l'amore dei
vostri genitori», rispose l'uomo, lasciandosi vincere dalla
commozione.
«Le stesse parole
usate da Gregory Miller. Allora deve essere vero»,
mormorò, alzandosi dalla panchina. Un improvviso giramento
lo
fece sbandare e lo costrinse a risedersi.
Volse lo sguardo al
cielo, la giornata era piacevolmente calda e il sole splendeva forte e
solitario, ma gli feriva gli occhi. Li chiuse per un momento. Poi,
avvertì un'ombra davanti a sé e qualcosa gli
coprì
la testa.
«Dovresti riguardarti di più», disse
Shion Hayes, porgendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi.
«Grazie» Saga sorrise sereno accettando l'aiuto del
padre.
Insieme camminarono fra
le lapidi del cimitero. Shion lo accompagnò fino alla tomba
di
Gregory Miller, dove gli raccontò che ogni anni, verso la
fine
di febbraio, veniva a deporre un mazzo di fiori come ringraziamento per
i suoi sforzi nel tentare discolpare Anthony; e poi gli
mostrò
la tomba trascurata di Anthony a due passi da lì. Gli si
stringeva il cuore quando la vedeva. Avrebbe voluto prendersene
maggiormente cura, ma ogni volta si costringeva a passare oltre e
ignorarla per non destare sospetti. Forse però, ora non
sarebbe
più stato necessario. Forse ora poteva parlare a cuore
aperto
anche con Kanon e sistemare le cose.
«Dovrebbero riposare assieme... lui ed Emma», disse
Saga, accovacciandosi e sfiorando la pietra della lapide.
«Sì, dovrebbero»
Si mise la mano nella
tasca della giacca e prese la fede nuziale che Saga aveva lasciato a
casa. Se la rigirò nella mano un paio di volte. Sembrava il
momento giusto per restituirgliela e dargli la sua benedizione.
«Ma che bella
riunione di famiglia, quasi non credo ai miei occhi. Sapete, mi avete
risparmiato un mucchio di tempo e di lavoro», disse il
giovane,
sbucando da dietro un albero. Alle sue spalle c'era un piccolo
boschetto e poco dietro la cancellata in ferro.
Sollevò gli
occhiali da sole sulla testa e sfoggiò un sorriso
accattivante,
ma il suo sguardo era indubbiamente di sfida.
«Tu chi sei?» disse Shion Hayes, con tono allarmato.
«Sei quello dell'ospedale, vero?» intervenne Saga.
«Esatto! Mi chiamo Milo Sanders, ma nel mio ambiente sono
conosciuto come Scorpio.»
«Che tipo di ambiente?» inquisì Shion,
con preoccupazione crescente.
«Cacciatore di taglie, signore. E sono il migliore sulla
piazza!»
«Quanto ti pagano i Taylor per starci dietro?»
chiese Saga, mettendosi le mani in tasca, provocando un visibile choc al padre con
quella domanda.
In un attimo il suo
atteggiamento era mutato. Il suo viso assunse tratti duri e spavaldi, i
suoi occhi erano freddi e determinati e la sua postura esprimeva la
sicurezza di chi non teme nulla.
Milo fece un sorriso
sghembo. «Mi piace il tuo modo di fare. Bene, allora possiamo
evitare spiegazioni inutili. Vieni con me con le buone o devo passare
alle cattive maniere?» disse, facendo scrocchiare le dita.
«Nessuna delle due,
ma puoi riferire ai Taylor che sarò ben lieto di fare la
loro
conoscenza domani, nel loro studio.»
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Capitolo 36 *** Capitolo XXXV ***
XXXV
Caroline iniziava a cedere.
Più volte al giorno si doveva ripetere che presto la sua
vita
sarebbe tornata alla normalità, che si sarebbe buttata alle
spalle quel periodo da incubo; ma quando si guardava allo specchio e
osservava il suo viso, con quell'occhio un poco cadente a causa del
gonfiore, non si vedeva com'era in quel momento, ma ancora tumefatta,
con mezza faccia livida, le labbra gonfie e il sangue secco sulla
pelle, proprio come si era vista riflessa quella notte al pronto
soccorso. Un'immagine che forse non avrebbe mai cancellato dalla sua
mente.
Poi, a quel ricordo, sopraggiungeva la nausea; e, ad acuire il tutto,
anche il mal di testa, perché da quell'occhio vedeva ancora
sfocato e questo le creava problemi.
Fece un respiro profondo e raddrizzò la schiena: non poteva
permettersi di lasciarsi andare.
Caroline si sentiva sola.
Non perché quella casa, da dopo quella tragica notte, la
condivideva solo con Kitty, non perché l'altra
metà del
suo letto era da troppo tempo vuota e fredda. Dentro di sé
percepiva strisciante un senso di abbandono. E questo era diventato
ancora più presente e pesante dopo la visita di Kanon, che
aveva
fatto nascere in lei la falsa speranza del ritorno di Saga. Forse, se
suo marito se ne fosse andato per un tradimento, o perché
non
l'amava più, le si sarebbe spezzato il cuore di certo, ma
l'avrebbe potuto accettare; ma era difficile quella situazione di
sospensione in cui viveva, senza una parola da parte sua, una chiamata,
un messaggio. Era come se l'avesse dimenticata, che per lui non
esistesse nemmeno.
Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
Se li avesse riaperti in quell'istante, si sarebbe ritrovata di nuovo
nel bilocale di Dohko, ancora tutto sottosopra per i lavori? Sarebbe
poi uscita per gli ultimi acquisti e si sarebbe imbattuta in quel
ragazzo dallo sguardo limpido, e al tempo stesso smarrito, di un
bambino e il viso d'angelo?
La suoneria del nuovo smartphone interruppe i suoi pensieri e la
riportò alla sua ancor più triste
realtà. Quasi
aveva la tentazione di lasciarlo suonare fin quando chiunque fosse a
chiamare non si fosse stancato. Non aveva voglia di affannarsi per
andare a rispondere, non ricordava dove lo aveva posato l'ultima volta;
e poi, non era neanche il suo, non c'era dentro nulla di suo, era vuoto
come vuota era la sua vita, azzerata da quella notte nel vicolo.
Si piegò in avanti, appoggiandosi con le mani e la fronte al
bordo del lavabo del bagno, trattenendo a stento le lacrime.
«Tutto andrà bene. Tutto tornerà come
prima»,
mormorò, prima di fare un altro grosso respiro e tornare in
camera da letto.
Quel maledetto aggeggio continuava imperterrito a suonare e non voleva
lasciarla in pace.
Con gesti svogliati iniziò a spostare i vestiti abbandonati
sopra le coperte in disordine in una ricerca senza esito. Poi, quasi
per caso, lo trovò semicoperto dal lembo di lenzuolo
ripiegato
sulla coperta. Vide sul display il nome della madre e,
benché
non se la sentisse in quel momento di parlare con lei, rispose.
Le doveva molto.
Non solo perché, appena saputo dell'agguato di Deline, era
corsa
da lei per darle tutto il proprio sostegno, ma anche perché
per
lei aveva messo in standby
la sua vita, rimandando il matrimonio a pochi giorni dal sì
e interrompendo il tour promozionale dell'ultimo libro.
Si sedette sul letto e riuscì a sorridere quando Teresa le
chiese se per pranzo preferisse la pizza ai peperoni e salsiccia, al
prosciutto, oppure capricciosa.
«Perché non la facciamo noi in casa?»
propose lei.
«Ho voglia di cucinare. Prendi solo gli ingredienti. Scegli
tu.»
«D'accordo! Allora vedrò di sbrigarmi»,
rispose
Teresa; nella sua voce c'era speranza e sollievo nel sentire la figlia
aver voglia di fare qualcosa.
Caroline si era chiesta in quei giorni cosa facesse la madre quando
usciva di casa, ma non intendeva approfondire, per non sembrare
invadente e ingrata.
Averla in casa era un aiuto insostituibile e questo lo poteva vedere
soprattutto nelle piccole cose di tutti i giorni: il frigorifero era
sempre rifornito di cibo fresco e sano, la casa era in ordine, cucinava
per lei e le teneva compagnia; ma anche... le lasciava tempo e spazio
per commiserarsi, quando ne aveva necessità.
Salì in mansarda, in attesa del ritorno della madre.
Quando percorreva quella bella scala a chiocciola che aveva sostituito
la vecchia e scricchiolante in legno, accarezzando il corrimano in
acciaio, si diceva che ci andava per riordinare, ma non appena metteva
piede in quell'ambiente che Saga aveva preparato per lei, faceva una
lunga panoramica e sospirava, perché quel leggero caos che
persisteva le riportava alla mente ricordi piacevoli, ma anche gli
ultimi momenti del suo matrimonio.
Si accomodò su una poltrona imbottita, di quelle con il
sistema
di sollevamento per le gambe e che si reclinavano. Forse faceva anche i
massaggi, ma lei non se ne era mai curata di testarla. Di solito si
metteva lì, incrociava le gambe e rimaneva a pensare.
Kitty arrivò dopo pochi minuti e le saltò subito
sopra le
gambe. Era come se non volesse più lasciarla sola.
Accarezzare
il suo pelo morbido, sentire le sue fusa e avvertire attraverso il
contatto con le dita le soffuse vibrazioni che produceva era piacevole
e rilassante. La calmava e regolarizzava il battito del suo cuore, che
altrimenti, se lasciato a se stesso, probabilmente si sarebbe fermato
per il dispiacere.
Pet therapy,
la chiamano i dottori.
La gattina era la sua medicina, per non lasciarsi andare alla deriva.
Chiuse gli occhi. Era certa che la sua mente si sarebbe riempita di
ricordi e rimpianti; invece il suo respiro si fece calmo, quasi
impercettibile, e il vuoto prese il sopravvento. Trovava gradevole e
confortante l'odore della cera d'api per i mobili che si respirava
nella stanza. Le faceva provare uno strano senso di nostalgia.
Un breve rumore, come quello di schiarirsi di gola, le fece riaprire
gli occhi e girare la testa verso la porta. Sgranò gli occhi
e
si irrigidì nell'intravedere un'ombra appena al di
là
della soglia. Strinse la presa sul bracciolo morbido.
«Chi c'è?» chiese lei, sforzandosi di
mantenere un tono deciso.
«Non volevo spaventarti, Caroline Miller.» Shura si
fece avanti, fino ad essere completamente alla sua vista.
«Come ha fatto a entrare?» chiese lei,
raddrizzandosi.
«Non dovrei vantarmi, ma sono un eccellente
scassinatore», rispose lui, con un sorriso sghembo sulle
labbra.
Benché la gattina non avesse accennato ad alcuna reazione
che
premonisse pericolo, le recenti esperienze vissute da Caroline la
portavano a mantenere un certo livello di allerta e poco importava che
quell'uomo facesse parte della famiglia Hayes, era un estraneo che si
era introdotto in casa sua senza permesso. Lo scrutò con
attenzione: era combattuta, tra il dargli fiducia e tentare di fuggire;
ma l'unica via d'accesso – e di conseguenza di fuga
– era
ostruita proprio da Shura.
Aprì la bocca per domandargli il motivo per il quale si
trovasse in casa sua, ma venne anticipata.
«Shion Hayes aveva il desiderio di incontrarti e parlarti,
così l'ho accompagnato», spiegò.
Preferì
però tralasciare per il momento che anche lui avrebbe avuto
qualcosa da dirle, da confessarle, e del quale neanche Shion era a
conoscenza. «Mi sono fatto dare l'indirizzo da
Aiolos»,
aggiunse, notando l'espressione turbata sul viso di Caroline. Fece un
passo indietro per liberare il passaggio e le diede strada.
Scesero al piano inferiore.
La giovane faceva ogni gradino con molta attenzione, cercando di
appoggiare bene il piede e di concentrarsi soprattutto sull'occhio
buono, ma non era facile. A metà scala, mise un piede in
fallo e
barcollò. Shura l'afferrò per un braccio
perché
non cadesse. Caroline si divincolò, scostandosi da lui e
proseguendo più sicura, senza dire una parola.
Quando si affacciò nel salotto, la sua attenzione fu subito
attirata dal padre di Saga. Se ne stava in piedi di fronte alla
libreria, proprio come Kanon solo pochi giorni prima, e teneva in mano
la cornice con la fotografia di Gregory Miller in uniforme. Persino di
schiena la figura dell'uomo era molto distinta e metteva soggezione,
tanto che il cuore della giovane iniziò a battere nervoso
nel
petto.
Mentre si avvicinava a passi leggeri, le si formò un breve
sorriso d'imbarazzo sulle labbra. Le sembrò che il
capofamiglia
Hayes fosse circondato da una sorta di aura luminosa, mistica, e si
bloccò, trattenendo il respiro. Rimase a fissarlo per almeno
un
minuto, come estasiata. Poi, si rese conto che quell'effetto era dovuto
al riverbero del sole sui mobili chiari e ritornò con i
piedi
per terra.
«Buongiorno, signor Hayes», lo salutò,
facendolo voltare nella sua direzione.
«Buongiorno a te, cara. Ti prego, chiamami Shion»,
rispose
lui, posando con attenzione la cornice sul ripiano della libreria e
avvicinandosi a lei. «Devi perdonarmi se mi sono presentato
qui
senza preavviso», disse in tono formale, ma sul suo viso vi
era
un sorriso paterno.
La giovane sentì un improvviso pizzicore agli occhi per la
gentilezza con la quale le stava parlando e, d'istinto, si
passò
la mano sul viso. Poi, ricambiò la stretta di mano, ma si
sorprese quando Shion la trattenne, posando l'altra mano sul dorso
della sua. Non poteva fare a meno di guardarlo e sentire nel suo cuore
un senso di nostalgia e di mancanza, per quel padre che aveva perso
troppo presto e che le mancava ogni giorno, nonostante la presenza di
Phillip Burton nella sua vita. Ma un padre era molto di più
di
un volenteroso zio acquisito e Shion Hayes sarebbe potuto essere quel
padre che le era stato portato via tanti anni prima, se le cose fossero
andate in modo diverso.
«Vieni, sediamoci un momento», disse l'uomo,
facendo gli onori di casa.
Si accomodarono sul divano, mentre Shura preferì sedersi sul
bracciolo della poltrona, osservandola con uno sguardo cupo,
tormentandosi l'unghia del pollice sinistro.
«Ti starai domandando perché siamo qui.
Innanzitutto devo
chiederti scusa da parte di tutta la famiglia: in questo momento
così difficile non ti siamo stati vicini come avremmo
dovuto. E
anche, di nuovo ti chiedo scusa per il comportamento di Saga, per
questo suo silenzio così prolungato.»
«Non deve scusarsi, sono io che le devo delle scuse. L'ho
trascinato con me nel pericolo ed è quasi morto. Lui voleva
che
smettessi di indagare, mi ha pregato di lasciar perdere di cercare la
verità sulla morte di mio padre. Mi aveva avvertito che era
pericoloso, ma io non gli ho dato retta. Sono stata testarda, sorda,
volevo andare avanti... e Saga si è sentito obbligato ad
accompagnarmi», confessò lei, con voce alterata
dalla
disperazione e gli occhi lucidi di lacrime. Faticava a trattenersi:
quando ripensava a quei terribili momenti l'unica cosa che voleva fare
era piangere. «Non lo biasimo se ora non vuole parlarmi,
né vedermi. Gli ho fatto del male e non se lo
merita»,
concluse, asciugandosi il viso con le dita.
«Hai certamente commesso un errore, mia cara, ma nessuno
può obbligare Saga a fare qualcosa contro la sua
volontà.
Se quella notte era con te è perché voleva essere
al tuo
fianco», la consolò Shion, battendole il dorso
della mano
con delicati colpetti.
Nello sguardo e nella voce dell'uomo non c'era ombra di rimprovero.
Eppure, dal punto di vista di Caroline sarebbe dovuto essere in collera
con lei, perché aveva messo in pericolo la vita di Saga.
Sentiva
però che quella comprensione non sarebbe durata ancora a
lungo;
era in attesa del fatidico “ma”.
«In un certo senso, è proprio per questo che
volevo
parlarti... delle conseguenze che quella notte ha portato»,
continuò l'uomo.
Vide la giovane irrigidirsi, ma anche lui aveva perso quella moderata
tranquillità con la quale si era presentato. Prese qualcosa
dalla tasca della giacca, ma la tenne ancora nascosta nella mano. Si
concesse qualche secondo per riordinare le idee; se fosse giusto che
fosse lui a restituirle l'anello, oppure se doveva essere Saga a porre
fine a quel matrimonio.
«Devi sapere che da quando è tornato dal pronto
soccorso
non è più la stessa persona. I medici hanno detto
che a
causa del trauma cranico lui è...»
Fece una pausa, per cercare le parole più adeguate. Aveva
delle
remore nel rivelarle il reale stato di salute del figlio, ma Caroline
aveva il diritto di sapere, per potersi chiarire con Saga al
più
presto e forse aiutarlo a ritrovare se stesso. Si girò per
un
momento verso Shura, come a cercare un incoraggiamento per proseguire,
ma quando incrociò il suo sguardo cupo corrugò la
fronte.
Il suo braccio destro sembrava avere un peso sulla coscienza e non
desiderava altro che potersene liberare.
Tornò a guardare Caroline, che attendeva con penosa
apprensione.
«Saga è cambiato; nello sguardo, nel modo di
rispondere,
nei suoi atteggiamenti. Questo mi preoccupa, perché del
vecchio
Saga che entrambi conosciamo non sono rimasti che sprazzi.»
Caroline strinse i pugni e abbassò la testa, per nascondere
gli
occhi gonfi di lacrime. «Allora è per questo che
non si
è fatto sentire? È colpa mia. Tutta colpa
mia»,
sussurrò, portandosi le mani al viso.
«Non ti sto dicendo questo per farti sentire in colpa, ma
perché tu sia preparata per quando lo incontrerai.»
«Ma come posso fare se neanche risponde ai miei
messaggi»,
si sfogò Caroline, lasciandosi cingere dalle braccia
dell'uomo.
«Shion, dobbiamo andare», disse Shura, che fino a
quel
momento era rimasto in silenzio. Aveva valutato la situazione e non gli
sembrava più il caso di ripulirsi la coscienza e confessare
cosa
aveva fatto più di tredici anni prima, non quel giorno
almeno.
L'uomo annuì e, a malincuore, rimettendosi in tasca la fede
nuziale, si alzò dal divano. Dalla tasca interna della
giacca
prese un biglietto da visita e glielo porse. «Anche con noi
parla
poco, Caroline, ma credo che questa sera lo potrai trovare a
quell'indirizzo.»
La giovane lo strinse fra le mani, fissandolo a lungo con sgomento.
«Lo studio legale Prescott-Cochrane»,
mormorò.
Era il più importante studio legale di Boston, che
primeggiava
in ogni branca della giurisprudenza e che, da quando i Taylor erano
stati nominati soci titolari, era diventato anche il più
spietato. Se Saga si era rivolto a loro, cosa doveva aspettarsi lei che
non aveva quel tipo di risorse?
«Siamo già arrivati a questo punto», si
lasciò sfuggire dalle labbra tremanti. Se fino a un attimo
prima
le sembrava difficile poter risolvere la situazione, ora si era
trasformata in un'impresa impossibile.
«Caroline, tesoro, sono tornata!» disse Teresa,
aprendo la
porta di casa con le mani piene di sacchetti del supermercato e di un
paio di una boutique del centro.
Era così entusiasta di cucinare con la figlia, di fare
qualcosa
con lei, che non si accorse degli ospiti fin quando non alzò
lo
sguardo e li scorse nel salotto, vicino al divano. Si bloccò
sul
posto. L'atmosfera in casa era tesa. Osservò i due uomini
che
nel frattempo si erano voltati verso di lei, le diedero l'impressione
che sovrastassero Caroline, seduta sul divano. D'istinto
avanzò
bellicosa verso di loro, ma venne preceduta da Shion Hayes che, con un
sorriso affascinante, le tese la mano.
«Mrs Miller, finalmente la conosco, anche se in un'occasione
poco
felice. Sono Shion Hayes, il padre di Saga», la
salutò,
stringendole la mano con delicata fermezza. «Le presento
Fernando
Morales, il mio più stretto collaboratore.»
Teresa scambiò uno sguardo con il più giovane dei
due e
indietreggiò di un passo. Quegli occhi scuri e torvi le
fecero
una brutta impressione. «Cosa volete da mia figlia?»
«Solo esprimerle la nostra vicinanza», rispose
Shion.
«Ma forse non era opportuno il modo in cui ci siamo
presentati,
avremmo dovuto chiamare prima. Ci perdoni per il disturbo.»
Fece
un cenno di saluto ed entrambi uscirono dall'appartamento.
«Tesoro, va tutto bene?» chiese la donna alla
figlia,
appoggiando i sacchetti sulla poltrona e sedendosi accanto a lei.
Caroline annuì.
«Cosa volevano quei due?»
«Parlarmi di Saga e sapere come stavo.» Nascose il
biglietto da visita e fece un respiro profondo. «Non ti
preoccupare, mamma, non volevano nulla.»
Teresa la strinse in un abbraccio e la lasciò andare solo
una
volta convintasi che la figlia stesse veramente bene. E poi, dovevano
cucinare assieme; di certo sarebbe stata un'efficace distrazione ai
suoi crucci. La incoraggiò a seguirla in cucina.
«Sai, tua nonna mi ha svelato il segreto del suo favoloso
impasto
per una pizza croccante. Ce la preparava ogni domenica e tuo fratello
non mancava mai di fare il bis», le raccontò,
versando la
farina sul piano dell'isola, formando poi una fontanella nella quale
versò il lievito disciolto in un poco d'acqua, iniziando a
impastare.
Intimamente tirò un sospiro di sollievo nel sentirla ridere
e
commentare che se Mickey avesse continuato così sarebbe
diventato un barilotto. Ma quella sensazione di serenità e
spensieratezza che aveva contagiato anche lei, durò giusto
il
tempo di quella preparazione.
Essere lì in quei giorni per Teresa era vitale come
respirare,
ora che la sua Caroline aveva più bisogno di lei. Nel corso
degli anni si era domandata spesso se avesse fatto abbastanza per sua
figlia, se fosse stata una buona madre per lei.
Guardò di sottecchi sua figlia: gli anni della sua
ribellione
adolescenziale erano ormai lontani e sbiaditi come un ricordo quasi
dimenticato, la testardaggine che l'aveva contraddistinta dopo le
superiori l'avevano resa indipendente e capace di affrontare le
difficoltà della vita, ma non aveva cancellato del tutto il
bisogno naturale di appoggiarsi a sua madre nei momenti critici.
«Per favore, tesoro, puoi tagliare la mozzarella a
scriscioline?»
Si perse ancora qualche secondo a osservarla, mentre Caroline
avvicinava a sé il piattino con la mozzarella e il coltello,
per
assecondare la sua richiesta. Dio le aveva donato quella figlia
stupenda che nel tempo era diventata una donna altrettanto stupenda,
forte e determinata nelle sue scelte, ma nonostante la sua giovane
età aveva già sofferto molto, troppo.
Finalmente era stata messa la parola fine al capitolo Deline, ma
Caroline ne era uscita a pezzi e con il cuore spezzato, anche se
cercava di nasconderglielo.
Come poteva ora sopportare di vederla soffrire ancora, non solo nel
fisico ma anche nell'anima?
Non conosceva più nessuno a Boston che potesse darle una
mano.
Non si era fatta amicizie durature, né aveva coltivato i
rapporti con i vecchi colleghi di Gregory, ad eccezione di Phillip che
col tempo era diventato il suo nuovo compagno. Non sapeva a chi
rivolgersi per aiutare Caroline. Però... una cosa la poteva
tentare. Una volta Gregory le aveva detto che se mai avessero avuto un
problema, avrebbero potuto chiedere aiuto al professor Taylor.
Guardò la sua Caroline, che fingeva serenità per
lei, e
maturò la decisione di fare qualcosa di più
concreto per
sua figlia. Si sciacquò le mani, prese la borsa e le chiavi
dell'auto che aveva noleggiato per quei giorni e uscì dalla
cucina.
«Mamma, dove stai andando?» disse con tono
preoccupato
Caroline. Si alzò per seguirla, ma inciampò nello
sgabello accanto.
«Non ti preoccupare, tesoro, torno presto», rispose
Teresa, chiudendosi la porta di casa alle spalle.
*****
«Hai delle mani meravigliose. Se fossi una donna, Ted, ti
sposerei.»
«Se fossi una donna, mr Hayes, non apprezzerebbe in questo
modo il mio massaggio.»
«Hai ragione... una donna non saprebbe mandarmi in estasi
come te.»
Era strano sentir uscire dalla bocca di Kanon Hayes parole di
apprezzamento verso un altro uomo, soprattutto se lo stava toccando e
lui era praticamente nudo; ma in quel momento, sdraiato a pancia in
giù sul lettino per massaggi, si sentiva in paradiso e con
un
principio di erezione.
Quelle mani erano davvero magiche ed erano un toccasana per le sue
spalle e la schiena irrigidite da troppe ore dietro la scrivania.
Aiolos grugnì qualcosa di indecifrabile, nauseato dalla
situazione. Era seduto poco più un là, tenuto in
ostaggio
dalla manicure che lottava invano con le sue cuticole, ma solo
perché lui non riusciva a stare fermo.
Kanon gemette più forte quando le mani robuste di Ted
spinsero
sulla zona lombare, facendogli provare scariche di piacere.
«È quasi meglio del sesso.»
Nuove lagne e mezze imprecazioni da parte di Aiolos si fecero sentire
in sottofondo a quell'esternazione.
«Di' la verità, vorresti esserci tu al mio posto,
vero?» lo schernì Kanon.
Congedò Ted e si mise seduto, risistemandosi l'asciugamano
striminzito che gli copriva le parti intime. Poi, saltò
giù dal lettino e si stiracchiò; si sentiva
decisamente
meglio e anche il suo umore era tornato quello di sempre. Era certo che
nulla avrebbe rovinato quella giornata.
Almeno fino all'arrivo del direttore del Country Club che fece
irruzione nella stanza con un'espressione disperata sul volto,
mettendosi a piagnucolare che qualcuno si era barricato nella zona
della piscina bloccando le porte d'accesso, o qualcosa del genere, e la
squadra locale di nuoto non poteva allenarsi.
«Non è compito suo risolvere questi
inconvenienti?»
disse Kanon, sbuffando perché il momento idilliaco che stava
vivendo era sfumato in un attimo.
«In altre circostanze non mi farei problemi a chiamare la
sicurezza e far cacciare il responsabile, ma si tratta di suo fratello,
mr Hayes; sono quasi quattro ore che occupa la piscina e non lascia
entrare nessuno», spiegò, tamponandosi la fronte
con un
fazzoletto ormai sgualcito.
«Quattro ore? Siete sicuro che non si sia sentito
male?»
chiese Kanon, indossando l'accappatoio. Stranamente non sembrava
preoccupato.
«Ma... ma... santo cielo, sarebbe molto sconveniente per il
buon
nome del Club», mormorò il direttore, impallidendo
a
quell'eventualità.
«Ah, non ne dubito, considerato che è uno degli
azionisti
di maggioranza di questa baracca», replicò il
giovane, con
una risatina.
Si strinse la cintura alla vita e, ciabattine ai piedi,
sparì nella stanzetta attigua che fungeva da spogliatoio.
«Mr Hayes, cosa devo fare?» implorò il
direttore.
«Lasci perdere», si intromise Aiolos, studiando le
sue mani
da “signorina” con una smorfia di disgusto. Le
unghie erano
così lucide e ben limate che sembravano avere su lo smalto.
Si
stava già pentendo di essersi lasciato convincere a farsi
fare
quel trattamento. Nascose le mani nelle tasche dei pantaloni,
riflettendo su come potesse ridar loro un aspetto virile, mentre
attendeva i comodi di Kanon.
Il rampollo Hayes si rifece vivo dopo una ventina di minuti, vestito di
tutto punto, pronto ed entusiasta di tornare in ufficio e affrontare la
riunione riepilogativa del secondo semestre delle aziende secondarie.
Alzò gli occhi al cielo e trattenne a stento uno sbuffo nel
trovare ancora lì il direttore del Country Club, con
un'espressione supplicante – e sudando disperato –,
in
attesa che facesse qualcosa.
Cosa pensava potesse fare lui?
Al massimo poteva parlare con Saga, ma non garantiva alcun risultato;
il fratello era diventato un tale testone che a volte stentava a
riconoscerlo. Scambiò uno sguardo con Aiolos, ma non
trovò alcun sostegno da parte sua.
«Ma che diamine!» imprecò fra i denti,
uscendo dalla spa a grandi falcate per dirigersi alla piscina.
Nel Country Club c'erano tre piscine, ma solo due erano esclusive dei
soci; la terza invece, che era stata costruita con i criteri per essere
usata in competizioni agonistiche ufficiali, spesso veniva lasciata in
uso alle squadre dei college per gli allenamenti e veniva usata per il
meeting di nuoto delle scuole superiori.
Il direttore non gli aveva detto in quale delle piscine si era
rintanato Saga, ma a giudicare dalla piccola folla di curiosi che
stazionava davanti alle porte sbarrate che davano accesso a quella
olimpionica, non poteva essere che lì.
Seguito da Aiolos, mosso più che altro dalla
curiosità,
si fece largo fra gli studenti con i borsoni e, dopo aver provato ad
aprire le porte, con scarso risultato, bussò al vetro. Da
dentro, un inserviente si avvicinò e gli fece cenno che non
era
autorizzato a lasciar passare nessuno, ma l'occhiataccia che Kanon gli
scoccò fu tale da valere come lasciapassare.
L'aria era calda e afosa. D'istinto si allentò la cravatta e
sbottonò il colletto della camicia; già si
sentiva
soffocare. Nell'avvicinarsi alla vasca poteva sentire i suoi passi e
quelli dell'amico che gli rimbombavano nelle orecchie. Si
guardò
attorno: dalle ampie finestre prorompeva un sole quasi estivo in larghi
fasci di luci, eppure la piscina, vuota com'era, sembrava spettrale.
Arrivò fino al bordo della vasca e vide il gemello che
galleggiava a corpo morto nell'acqua. La luce del sole creava un
fastidioso effetto scintillante sulla superficie, increspata da lievi
onde, e gli dava noia agli occhi. Saga stava fissando il soffitto, o
forse il cielo incredibilmente azzurro che si vedeva dalle vetrate. Si
chiese cosa gli fosse passato per la mente per volersi sfiancare con il
nuoto se poi doveva ridursi in quel modo.
«Bel trambusto stai provocando, il direttore è
sull'orlo di una crisi di nervi.»
Attese la risposta da parte dell'altro, ma sembrava che neanche
l'avesse sentito. Allora si sporse un poco, appoggiando il piede su uno
dei blocchi di partenza. Sul braccio teneva la giacca ben piegata e le
maniche della camicia erano arrotolate fino ai gomiti, per la troppa
umidità nell'aria. Aveva pensato di fare altrettanto con i
pantaloni per non bagnarli, ma a tutto c'era un limite.
Saga ancora non si muoveva. Poi, all'improvviso, Kanon lo vide
immergersi fino a toccare il fondo nella parte meno bassa e, dopo una
spinta con i piedi, nuotare in apnea per oltre metà vasca.
Rimase a guardarlo per qualche minuto completare la vasca e tornare
indietro, seminascosto dalla spuma creata dalle bracciate e dalle
poderose gambate; si dovette scostare, quasi scappare da lì,
per
non finire bagnato quando il fratello fece la virata. Era evidente che
avesse fatto apposta a schizzare.
Saga fece avanti e indietro altre due volte a ritmo forzato, prima di
toccare il bordo con la mano e fermarsi, ansimante.
«Ora sei soddisfatto?» chiese Kanon, con un mezzo
ghigno.
Saga si tolse gli occhialini e la cuffia e si immerse completamente,
riemergendo un attimo dopo, scrollando la testa. Ricambiò lo
sguardo, ma non rispose subito. Nei suoi occhi però c'era
una
strana luce.
«Questa volta di cosa si lamenta quel pagliaccio?»
Kanon aggrottò la fronte, sorpreso per il tono e le parole
del
fratello. Non si era mai espresso in quella maniera; e più
passavano i giorni, più lui si comportava in modo strano,
come
se fosse un'altra persona. Scambiò un'occhiata con Aiolos e
tornò a guardare il gemello.
«Si può sapere cosa ti prende?»
Saga, in risposta, si riempì la bocca di acqua e la
buttò
fuori a fontanella contro il gemello, ma il getto risultò
troppo
corto, arrivando a mala pena a schizzare sul rivestimento antiscivolo.
«Il colpo che hai preso in testa ti ha fatto davvero male.
Sei
più taciturno del solito, enigmatico, scostante e
maleducato.»
Kanon lo fissò negli occhi per diversi secondi, per capire
cosa
gli stesse passando per la testa. Aveva la netta impressione di dover
stare attento alle prossime parole che avrebbe pronunciato. Ci
rifletté per un momento, poi buttò fuori quello
che gli
premeva dire.
«Non parli mai di cosa ti è successo,
né di
Caroline. Dicevi di amarla, te la sei sposata in segreto, te ne sei
andato da casa per stare con lei... ed ora non ti preoccupi di come
stia. Non hai mai chiesto di lei.»
Saga indurì lo sguardo e si allontanò di qualche
metro,
nuotando all'indietro, dandogli poi le spalle. Sembrava voler
riprendere a nuotare.
Il cuore di Kanon prese a battere più veloce.
«Capisco che
tu stia passando un momento difficile, Saga, ma dovresti prenderti cura
di quella ragazza. Ti ama ed è disperata, perché
non ha
tue notizie», disse, alzando progressivamente la voce.
Aiolos era seduto sulle gradinate, occupato più a rovinare
con i
denti il duro lavoro della manicure che a seguire le scaramucce che
stavano mettendo in scena i due Hayes; ma quando l'argomento della
conversazione si spostò su Caroline, si irrigidì.
A
preoccuparlo era stato soprattutto lo strano tono che aveva usato Kanon
nel parlare della giovane, come se ciò che era successo a
casa
di lei, non fosse stato un episodio isolato, ma il preludio a qualcosa
di più complicato e pericoloso.
Imprecò, stizzito. Non ci teneva affatto a finire in mezzo a
una
più che probabile disputa tra fratelli; ne aveva
già
troppe di sue con Alan, che si era messo in testa di pagarsi da
sé gli studi invece di continuare ad accettare il suo aiuto.
Sentiva Kanon continuare a parlare e, nei suoi tentativi di convincere
Saga, a peggiorare la situazione, almeno a parer suo.
Kanon non poteva credere all'indifferenza di Saga. «Senti,
fratellino, Caroline è una brava ragazza. Quando Aiolos e io
siamo andati a trovarla e lei mi ha scambiato per te...»
Era indeciso se rivelargli che quando lei l'aveva abbracciato aveva
provato il desiderio di consolarla, di baciarla, di tenerla fra le sue
braccia senza lasciarla più andare; ma forse l'aveva
già
tradito la sua stessa voce.
«Se non inizi a comportarti bene con lei, se non te ne prendi
cura, allora ci penserò io! Evidentemente non te la
meriti!»
A quelle parole, Aiolos sgranò gli occhi e quasi gli
scivolò di mano lo smartphone che aveva appena preso per
avvisare in ufficio del nuovo ritardo. Non poteva crederci: l'aveva
detto veramente?
Saga si girò di scatto verso il fratello e lo
fulminò con
lo sguardo. Al solo sentir nominare il nome di Caroline da parte di un
altro uomo, i tratti del suo viso si indurirono, come se trattenesse a
stento la rabbia. Si immerse di nuovo e nuotò sott'acqua
fino a
riemergere aggrappandosi al bordo della vasca, ma nei suoi occhi c'era
ancora una luce pericolosa.
Kanon avvertì la pelle accapponarsi a quello sguardo. Per la
prima volta nella sua vita, il suo gemello lo stava spaventando. Fu
solo un attimo. Poi, vide il viso e gli occhi di Saga tornare quelli di
sempre, quelli che lui ricordava, e si sentì rinfrancato.
Gli offrì la mano per aiutarlo a uscire dall'acqua. Non si
sorprese quando il fratello l'afferrò, ma quando fu il
momento
di assecondare la spinta, Kanon avvertì una resistanza e un
attimo dopo si ritrovò a mollo nella piscina.
Cercò con lo sguardo Saga, che se ne stava dritto in piedi,
fuori dall'acqua, sgocciolante.
«Vattene, Kanon, per il tuo bene. Fai i bagagli e tornatene a
New
York», sibilò fra i denti Saga. Prese
l'accappatoio e se
ne andò negli spogliatoi.
«Chi diavolo sei diventato?» gridò
Kanon, sconvolto e alterato, battendo la mano sull'acqua.
Una volta che l'eco delle urla di Kanon finì,
risuonò la
risata di Aiolos. Il ragazzo, si sporse verso l'amico e, puntando lo
smartphone scattò una foto.
*****
Il giorno del suo colloquio, Edward Price le aveva detto che tra i suoi
compiti sarebbe potuta rientrare anche la consegna di documenti ai
clienti e che fra essi figurava anche il prestigioso studio legale
Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor. L'occasione non c'era ancora
stata, eppure lei in quel momento si trovava proprio di fronte al
palazzo dove risiedevano i loro uffici; ed era lì per motivi
personali.
Alzò lo sguardo verso l'alto, provando a immaginare come
potevano essere quei locali e come sarebbe stata da lassù,
dal
35° piano, la vista della città. Non aveva avuto
molte
occasioni in vita sua di osservare dall'alto la sua città,
troppo piccola quando se n'era andata e travolta dagli eventi quando
poi era tornata.
Il cuore le batteva forte nel petto. Fece un respiro profondo,
dicendosi che era normale sentirsi nervosi al pensiero di entrare in
quegli uffici e avere a che fare con persone tanto potenti; la
verità invece era che quell'emozione così
pesante, che le
faceva tremare le gambe a ogni passo e le spezzava il respiro nei
polmoni, era dovuto al momento in cui lo avrebbe incontrato. Aveva poca
importanza il motivo per il quale Saga si sarebbe trovato
lì,
ciò che importava era che lo avrebbe finalmente rivisto;
avrebbe
avuto la possibilità di scusarsi di persona, di chiedergli
perdono, di accertarsi di come stesse e, forse, convincerlo a darle
un'ultima chance, anche se probabilmente non se la meritava.
Si soffermò ancora per una manciata di secondi di fronte
alle
porte automatiche: non era sicura di avere abbastanza coraggio per
affrontare quell'incontro. Si fece superare da un giovane uomo che
portava due grosse borse da ufficio, seguito da due ragazze che
arrancavano anch'esse cariche di documenti. Li osservò con
una
certa compassione: sarebbe potuto capitare a lei di sfacchinare in quel
modo. Poi, entrò nell'edificio.
I suoi passi si fecero fin da subito più incerti e timorosi.
Si
sentiva soverchiata dalla sfarzosa eleganza della hall, piena di marmi
preziosi ed elementi decorativi in ottone lucido che risplendevano come
oro.
Dietro al bancone della sicurezza c'erano quattro uomini, due in divisa
e due in giacca e cravatta che sembravano usciti dalle pagine dei
fumetti di Man in Black. I tre giovani che l'avevano precenduta erano
inchiodati lì, mentre la sicurezza controllava le loro
generalità e confermava il loro appuntamento. Sembravano fin
troppo scrupolosi.
Si avvicinò con una certa cautela, frugando intanto nella
borsa
per recuperare il suo documento e sperando di non rimanere bloccata per
troppo tempo: era certa che al minimo intoppo avrebbe perso tutto il
coraggio che aveva e se ne sarebbe andata.
Il controllo procedette con straordinaria facilità e lei si
ritrovò, neanche sapeva come, accompagnata dall'ascensorista
fino al 35° piano, occupato esclusivamente dai lussuosi uffici
dei
soci titolari.
L'emozione si faceva via via più evidente. Iniziò
a
toccarsi i capelli, risistemandosi la punta di un ricciolo che le
ricadeva sulla spalla; poi si sfiorò l'occhio ammaccato,
sperando non si notasse troppo. Erano però i lividi che
persistevano sul viso a preoccuparla di più. Si chiedeva in
continuazione se il correttore li mascherava abbastanza da non farli
notare; se il trucco che era costretta a mettersi sulla faccia fosse
abbastanza discreto da non farla sembrare un mascherone, lei che non
era abituata a impiastricciarsi tutta quando usciva di casa; anche solo
un po' di rossetto la faceva sentire strana.
Osservò di sottecchi l'ascensorista: aveva l'impressione che
la
stesse fissando con un po' troppa insistenza, come se avesse qualcosa
di strano sul viso, o come se la stesse giudicando. Forse riusciva a
vedere quei segni che lei voleva cancellare e questo la metteva ancora
più a disagio.
Abbassò lo sguardo, per non offrisi a quella che le sembrava
una
vera e propria inquisizione visiva. Pregava di arrivare presto al
piano, ma più pocedevano, più le sembrava che
l'ascensore
rallentasse.
Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, provando a svuotare la
mente e allontanare le preoccupazioni, sciocche o lecite che fossero,
che l'assillavano in quel momento. Neanche si accorse che si erano
fermati, le porte dell'ascensore si erano spalancate e l'uomo stava
richiamando la sua attenzione perché erano ormai arrivati.
Il 35° piano si apriva davanti a lei elegante e di lusso quanto
la
hall al piano terra, se non di più; ma a differenza di
quest'ultima, vi erano delle piante qua e là a smorzare la
monotonia dei marmi. Pensò che tanto verde non fosse proprio
normale, per un ambiente di lavoro tanto esclusivo; o perlomeno quella
era l'idea che si era sempre fatta, in anni e anni di serie tv,
perché di persona non ci era mai stata in uno studio legale
tanto prestigioso.
Uscì dall'ascensore e si avvicinò di qualche
passo al
bancone del centralino, dove due donne, belle come top model,
faticavano a stare dietro a tutte le chiamate in entrata; eppure, non
perdevano un colpo e riuscivano a mantenere un'aria professionale e un
aspetto perfetto.
Alle loro spalle, a precludere la vista degli uffici ai clienti e ai
visitatori, c'era una grande parete sulla quale campeggiava la scritta,
a grandi lettere d'oro,
“Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor”. Le
bastò
leggere quei nomi perché il suo cuore battesse impazzito e
si
sentisse in soggezione.
Con voce incerta fermò una giovane che stava passando
lì
vicino, quasi correndo, con le mani occupate da una voluminosa cartella
e gli occhiali che le erano scivolati sulla punta del naso, e le chiese
dove fosse la toilette. Aveva il viso in fiamme, provava un senso di
ineguatezza a stare lì, anche nei confronti di quella stessa
ragazza che sembrava poco più di una praticante al primo
anno:
sentiva l'impellente necessità di nascondersi.
Passò cinque minuti buoni a tormentarsi le mani, camminando
avanti e indietro, davanti ai lavandini del bagno, e poi a guardarsi
allo specchio, toccandosi il viso con panico crescente non appena
intravedeva un'ombra attorno all'occhio o vicino alla bocca. Al collo,
invece, i segni del tentato strangolamento non si vedevano
più.
Si chiese se avesse fatto bene a indossare in quell'occasione la
catenina con il diamante che le aveva regalato Saga, o se lui si
sarebbe potuto infastidire nel vederla. Si sciacquò le mani
e
prese un gran respiro, pronta a uscire da lì.
Aprì la porta con un poco di coraggio in più nel
cuore;
ma, mentre si avvicinava di nuovo al bancone delle centraliniste,
addette anche alla ricezione dei clienti, si accorse di un certo
trambusto che proveniva dal corridoio alla sua sinistra. Si
girò
e vide un vecchio su una sedia a rotelle che inveiva contro il
distributore dell'acqua. Si guardò attorno e si sorprese
molto
nel vedere che nessuno diceva o faceva qualcosa a riguardo, come se
fosse una cosa normale da quelle parti.
«Signore, si sente bene, ha bisogno di aiuto?»
chiese
Caroline, avvicinandosi con una certa circospezione per non spaventare
il vecchio. Lui però pareva non averla neanche sentita e
continuava a sbattere con la sedia a rotelle contro la colonnina del
distributore nel vano tentativo di afferrare il bicchierino di carta.
«Signore?» insistette, avvicinandosi di qualche
altro passo.
Vedendo che di nuovo se la stava prendendo con il distributore, gli
passò dietro e poi gli si affiancò.
L'uomo strizzava gli occhi tanto che sembravano completamente chiusi,
la sua mano – ossuta e raggrinzita – si protendeva
a fatica
verso i bicchierini, senza però riuscire neppure a sfiorarli.
Caroline lo osservò per qualche secondo, non aveva mai visto
un
uomo così vecchio. Gli faceva una gran pena nella sua
caparbietà di voler fare da sé. Prese un
bicchierino di
carta al suo posto, lo riempì d'acqua e glielo porse con un
sorriso imbarazzato.
Il vecchio si fermò nel suo dimenarsi e la
squadrò con
uno sguardo arcigno sotto le sue folte sopracciglia bianche. Aveva la
barba lunga di due giorni e la sua capigliatura bianco-giallastra era
trasandata. Non le rivolse una parola e, nel prendere il bicchierino,
fece un movimento nervoso, rovesciandosi addosso alcune gocce d'acqua.
Poi, borbottando, avvicinò l'altra mano alla bocca
– dove
teneva alcune pastiglie di varie forme e colore – e
ingurgitò tutto in un solo sorso.
Tossì più volte, di una tosse convulsa e
soffocante, che
gli squassava il petto fragile sotto alla giacca e al gilet in gessato
di lana pesante, come gli accadeva ogni volta che prendeva le sue
medicine. Rimase senza fiato e quasi si accasciò sulla sedia
a
rotelle. Il suo respiro era diventato poco più che un
rantolo.
Caroline gli offrì un altro po' d'acqua e questa volta il
vecchio lo prese con maggiore gratitudine.
«Si sente un po' meglio?» chiese Caroline.
Il vecchio borbottò ancora qualcosa, poi le fece cenno di
aiutarlo a girare la sedia a rotelle e di spingerlo fino alla saletta
d'attesa. Era un atteggiamento che fece sorridere la giovane e che in
qualche modo la rassicurava.
Percorsero il corridoio fino a tornare davanti agli ascensori e da
lì passarono di fianco al bancone con le due centraliniste
che
finalmente avevano un secondo per rifiatare: una stava sorseggiando un
caffé da una mug con la scritta D&G in oro sullo
sfondo
nero, l'altra si ritoccava il rossetto.
Non appena le due si accorsero di Caroline, la guardarono incredule: a
nessuno il vecchio Taylor consentiva di spingere la sedia a rotella, a
parte sua figlia Anne, soprattutto poi rimanendosene così
calmo.
«Sei una delle nuove praticanti?» chiese James
Taylor, biascicando un poco le parole.
«No, signore», rispose con pacatezza Caroline,
«sono qui per incontrare una persona.»
«Uno degli avvocati, per una causa?»
«No, signore», disse lei, questa volta con un tono
di
tristezza nella voce. Abbassò lo sguardo, sperando che
l'altro
non indagasse ancora, altrimenti non avrebbe saputo cosa rispondere
senza sembrare patetica.
«Ecco, fermiamoci qui», disse l'uomo, senza dare
altre
spiegazioni, girando da sé la sedia a rotelle, mentre
Caroline
prendeva posto sul divanetto.
Da quella posizione, benché un poco nascosti alla vista di
chi
entrava, dalle enormi piante di ficus, entrambi potevano vedere bene
l'interno dell'ufficio di Anne Taylor grazie alla parete di vetro.
Dentro, sembrava ci fosse una specie di riunione di famiglia: oltre
alla donna, seduta dietro alla sua scrivania, c'erano anche il gemello
Richard e il primogenito James junior.
«Quelli sono i miei figli», disse il vecchio,
indicandoli
con il dito ossuto. Nella sua voce non vi era l'orgoglio di un padre
per il successo dei propri figli, ma quasi disprezzo e vergogna.
«Spero tu non ci debba avere a che fare»,
sospirò.
Poi, un nuovo attacco di tosse gli tolse il respiro e lo
lasciò
spossato, ma mentre si asciugava la bocca con il fazzoletto,
con
l'altra mano blocco per il braccio Caroline, che aveva accennato ad
alzarsi per prendergli dell'altra acqua.
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Capitolo 37 *** Capitolo XXXVI ***
XXXVI
«Quanto ancora dobbiamo aspettare i comodi di questo tizio
che
pretende di essere il figlio di Emma?» imprecò
impaziente
James jr, camminando avanti e indietro di fronte alla scrivania di Anne.
L'uomo alternava momenti in cui si tormentava le mani ad altri in cui
si sistemava con scatti nervosi il nodo alla cravatta, senza riuscire a
trovare la giusta posizione per non sentire più quel senso
di
strangolamento che pareva tormentarlo da quando era arrivato. Del suo
famoso aplomb di politico di carriera, che sfoggiava durante le
interviste e le conferenze stampa davanti ai giornalisti, quando si
trattava di questioni personali non ne rimaneva traccia. A fargli eco,
nella sua figura miserabile, Richard beveva un whisky dopo l'altro,
sprofondato nel divano e borbottando fra sé frasi sconnesse.
Al contrario dei suoi due fratelli, la donna era imperturbabile, seduta
alla sua scrivania. Davanti a sé teneva aperto il fascicolo
della causa Bellamy: un contenzioso tra due cugini di primo grado che
si stavano facendo la guerra per dei brevetti che erano stati valutati
non meno di quindici milioni di dollari.
Leggeva e prendeva appunti. Poi, dopo aver riflettuto qualche istante,
chiamò con l'interfono il suo assistente, ordinandogli di
fare
una ricerca su alcuni precedenti potessero avere similitudini con il
suo caso.
«Ma come fai a lavorare in un momento come questo, quando
potrebbe crollarci tutto addosso?» urlò James jr,
sbattendo le mani sulla scrivania, senza ottenere alcun risultato.
«Ci stai tenendo nascosto qualcosa?»
Anne Taylor alzò lo sguardo calmo sul fratello.
«Fatti
anche tu un goccio e vedi di riprendere il controllo», gli
disse,
tornando a dare attenzione alla causa milionaria a cui stava lavorando.
«E tu, Richard, non dici niente?» si
scagliò anche sull'altro il primogenito.
Richard Taylor non aveva la presenza di spirito sufficiente per
intendere l'accusa che gli era appena stata rivolta. Con la mente
già annebbiata dalla mezza bottiglia che si era scolato, lo
sguardo vacuo e i fantasmi del suo passato che non gli davano pace da
quando la gemella gli aveva detto che uno dei due figli di Emma si era
rifatto vivo. Fece un gran sospiro e trangugiò l'ennesimo
whisky.
«Possibile che nessuno di voi si preoccupi delle possibili
conseguenze?»
Richard tremò, ripetendo in un mormorio lamentoso le ultime
parole pronunciate da JJ e lasciando cadere a terra il bicchiere; i
pezzi di ghiaccio al suo interno tintinnaro e si rovesciarono sul
pavimento, formando una pozza d'acqua ai suoi piedi.
Milo, che per tutto il tempo se n'era rimasto in un angolo appartato
dell'ufficio a seguire quei discorsi con molta attenzione, quando cadde
il bicchiere aprì un occhio. Dal suo punto di vista,
benché non fossero affari suoi, le cose si stavano facendo
interessanti, soprattutto l'eccessivo nervosismo di Richard Taylor per
quell'incontro. Quando aveva parlato con Saga Hayes, non gli aveva dato
l'impressione di essere una persona pericolosa, o che potesse nuocere a
degli avvocati potenti come loro; ma chi può sapere cosa
nasconde una persona e quanto può essere un'incognita
qualcuno
che conduce una vita tanto tranquilla?
Doveva solo attendere per vedere soddisfatta la sua
curiosità.
Si accese una sigaretta, prese una bella boccata e sbuffò
verso
l'alto una grossa nuvola grigiastra, appestando l'aria dell'ufficio.
«Quel ragazzino deve proprio stare qui?» si
irritò
ancora di più James jr, rivolgendosi di nuovo ad Anne.
«Tu, con quella sigaretta puzzolente, esci di qui!»
Il giovane cacciatore di taglie alzò le spalle, spense la
sigaretta nel portacenere e uscì. Con le mani in tasca ad
afferrare il pacchetto malanato e già la voglia di
accendersene
un'altra, era intenzionato a dirigersi agli ascensori per raggiungere
poi la zona nella quale era consentito fumare. Mentre passava davanti
alla saletta d'attesa notò Caroline in compagnia di un
vecchio
sulla sedia a rotelle, che a quanto aveva saputo doveva essere il
patriarca dei Taylor.
Sorrise.
Decise di rimandare a più tardi la sua sigaretta e la
raggiunse.
Le ragazze che sapevano maneggiare le armi da fuoco erano proprio il
suo tipo e, da quanto aveva visto quella notte, lei sapeva farlo bene.
Peccato fosse sposata a un riccone, in altre circostanze le avrebbe
proposto di mettere su un'agenzia insieme.
Approfittando di un momento in cui lei era distratta a parlare con il
vecchio – ma probabilmente non l'aveva visto uscire
dall'ufficio
– si avvicinò da dietro, quatto quatto, per
prenderla di
sorpresa, come se fossero vecchi amici.
Quando le fu vicino infatti, le mise le mani sulle spalle e le diede un
bacio sulla guancia, senza lasciarle neanche il tempo di sussultare.
«Ciao!» la salutò poi, con un'allegria
spontanea.
Lei era senza parole, frastornata, ma il sorriso amichevole del giovane
la rassicurò e, superato l'imbarazzo iniziale, rispose al
saluto.
«Cosa ci fai da queste parti?» chiese lui, anche se
il
motivo era scontato, poiché sapeva che doveva avere a che
fare
con Saga.
«E tu, cosa ci fai qui?» disse lei, evitando di
dargli una risposta.
«Per lavoro.»
Sul viso di Caroline comparve un'espressione dubbiosa e subito a Milo
balenò il dubbio di essersi tradito in qualche modo; si
corresse
dicendo che in verità si trattava di un favore a un
conoscente.
Si lasciò cadere accanto a lei sul divanetto e
iniziò a
sfogliare una rivista trovata lì abbandonata; di sottecchi
però non smetteva un attimo di scrutarla e studiare il suo
atteggiamento. Fin dal momento stesso in cui le aveva dato quella
risposta aveva capito che era stato poco convincente.
Rifletté:
cosa le aveva detto la prima volta che si erano incontrati? Che era uno
studente, certo, ma era entrato nei particolari?
Sbuffò un “mah”, girando rumorosamente
una pagina,
finendo su un articolo che parlava di un contenzioso su
un'eredità multi milionaria; e si lasciò sfuggire
un
commento su come i ricconi si facessero la guerra per quattro spiccioli
in più. Continuò a far finta di leggere per
qualche altro
minuto, in silenzio, composto, ma senza mai togliere gli occhi da
Caroline e da quel vecchio, che sembrava ormai così innocuo,
eppure sapeva essere stato in passato un uomo duro e severo, una vera
volpe, sebbene come mentore era stato molto amato e rispettato. Li
vedeva scambiare qualche parola ogni tanto: lei era ancora un po' tesa
e sulle sue, come se qualcosa la preoccupasse.
Sbuffò una seconda volta. La sua gamba si muoveva in preda a
un tic nervoso.
«Ho bisogno di una sigaretta», borbottò.
Ma se
l'avesse accesa lì, qualcuno di sicuro sarebbe venuto a
lamentarsi e lui questa volta avrebbe reagito male. Mise via la rivista
e si rivolse alla ragazza. «Ti va di fare due passi,
così
ti offro un caffé e mi fumo una sigaretta.»
Caroline lo guardò per un attimo, poi abbassò gli
occhi,
tormentandosi le mani in grembo. Scrollò piano la testa.
«Mi dispiace, devo vedere una persona.»
«Dai, staremo via solo pochi minuti», insistette il
giovane, alzandosi in piedi e prendendole la mano.
La sua voce era convincente e il suo sorriso rassicurante quasi quanto
quello di Saga. Lei non conosceva bene Milo; però, se
ripensava
a quanto aveva fatto quella notte per lei, non le sembrava una cattiva
persona. Accennò ad alzarsi, ma venne trattenuta per il
braccio
dal professor Taylor. Allora fece un sorriso imbarazzato e
rifiutò ancora l'invito.
«Prendimi dell'altra acqua», le ordinò
il vecchio in
tono un po' burbero, frugandosi nella tasca interna della giacca con la
mano tremante e tirando fuori un flacone arancione pieno a
metà
di capsule bianche.
Caroline non ci pensò due volte e si alzò con
prontezza;
quando fu abbastanza lontana, il professore si rivolse a Milo:
«Io ti ho già visto qui in giro. Fai affari con i
miei
figli, non è vero?» disse con un vago tono di
disprezzo.
«Lascia in pace quella ragazza. Li conosco i tipi come te,
sembrate così innocenti, così perbene con quella
faccia
pulita, ma sapete portare solo guai.»
Milo rimase a bocca aperta per alcuni secondi: nessuno gli aveva mai
detto che aveva la faccia pulita di uno perbene. Si lasciò
sfuggire un mezzo ghigno e si rilassò sul divanetto.
«Beh, so fare bene il mio lavoro e mi pagano generosamente;
ma
credo che ormai non abbiano più bisogno dei miei
servigi.»
«Cosa stanno macchinando questa volta?» gli chiese
il
vecchio. Nonostante gli oltre novant'anni di età, i suoi
occhi
erano vispi e la sua mente aveva sprazzi di estrema lucidità
che
gli permettevano di capire quanto stava succedendo.
«Segreto professionale», rispose con un sorrisetto
il giovane, mettendosi in bocca l'ultima sigaretta del pacchetto.
Usò uno zippo ammaccato e graffiato, ma dopo qualche
tentativo
andato a vuoto si accorse con disappunto che era scarico.
Bofonchiò qualcosa con evidente contrarietà e
rimise via
la sigaretta, mentre il professore – che a suo tempo era
stato
anch'egli un accanito fumatore – soghignava.
Caroline ritornò qualche secondo più tardi,
porgendo il
bicchierino di carta e aiutando l'uomo ad aprire il flacone delle
pillole. Poi, si riaccomodò con un sospiro. Fuori era ormai
buio
pesto e lei non sapeva che pensare: più il tempo passava,
più sentiva scemare la speranza di riuscire a incontrare il
suo
Saga e chiarire le cose. Se avesse perso quella occasione, quando le
sarebbe ricapitato?
Con la punta delle dita si toccò sotto l'occhio destro,
fermando una lacrima malandrina intrappolata tra le ciglia.
*****
Anne Taylor controllò l'ora sul costosissimo orologio che
indossava quel giorno, trattenendo a stento un'imprecazione, mostrando
così qualche crepa nella calma serafica che l'aveva
accompagnata
durante tutto quel pomeriggio. Sperava di concludere la faccenda in
giornata, ma si erano già fatte le sette della sera, Saga
non si
era ancora fatto vivo e alle otto aveva una cena con un cliente molto
importante.
Alzò gli occhi e fissò lo sguardo oltre la parete
di
vetro del suo ufficio in cerca di Scorpio, riflettendo che forse
l'aveva ingannata solo per prendersi i soldi del compenso.
Indurì lo sguardo nell'intravederlo che conversava con il
padre.
«Cosa ci fa lui qui?» mormorò,
stringendo il pugno.
Poi, fulminò con lo sguardo James jr.
«Perché ti
sei portato dietro anche papà?»
«Perché me l'ha chiesto!»
ribatté secco lui.
«Voi americani non sapete cos'è il rispetto per i
genitori. Lui era certo che se l'avesse chiesto a te, ti saresti
rifiutata», disse, impregnando il termine
“americani”
di un velo di disprezzo, prendendo così distanza dai
fratelli.
Nonostante fosse anch'egli americano, naturalizzato, – a
differenza dei gemelli nati invece da madre americana –
quando i
discorsi o la situazione non gli aggradavano prendeva le distanze e si
rifugiava nella sua origine very
british.
La donna tamburellò con le dita ingioiellate sulla scrivania
per
diversi secondi, quasi a voler scandire il tempo che si stava prendendo
per non rispondergli per le rime, tornando a osservare il padre.
«Cosa starà macchinando?»
mormorò.
Dall'interfono arrivò la voce del suo assistente:
avvertì
che alla portineria si era presentato mr Saga Hayes. I fratelli Taylor
si bloccarono di colpo come raggelati, gli occhi fissi sull'apparecchio.
Richard strinse in modo convulso il bicchiere, per evitare di farne
cadere un altro. Poi se lo portò alla bocca con mano
tremante,
ingurgitando rumorosamente le due dita di whisky che si era servito,
facendosene colare qualche goccia da un angolo della bocca fin sul
mento.
James jr si girò di scatto verso Anne trattenendo il respiro
e
stringendo con forza i pugni. Deglutì. Dopo tanti anni di
parole, supposizioni e ombre a ogni angolo, ora quella spada di Damocle
si era trasformata in qualcosa di reale, tangibile, affrontabile; ma al
tempo stesso era anche una grande incognita. Ancora una manciata di
minuti e colui che poteva rovinare le loro vite e le loro carriere si
sarebbe trovato faccia a faccia con loro.
La calma di Anne era invidiabile e incomprensibile agli altri due.
Diede ordine al suo assistente di andargli in contro e di farlo salire
con l'ascensore ovest. Nei suoi piani, così facendo, non
avrebbe
corso il rischio che il padre lo vedesse arrivare e potesse rovinare
l'incontro.
«Ora siediti, James, riprendi un po' di contegno, sembri un
pulcino spaventato», disse, appoggiandosi allo schienale
della
poltrona in pelle. Era certa che l'altro non l'avrebbe ascoltata e non
diede alcun peso all'acchiataccia che gli scoccò.
Il suo sguardo si era fatto più acuto e la sua mente
già
elaborava la mossa successiva. Milo Sanders non era sceso nei
particolari quando le aveva riferito che aveva parlato con lui; non
sapeva cosa aspettarsi, ma se Saga aveva ereditato anche il carattere
debole del padre, oltre al suo aspetto fisico, non avrebbe avuto alcuna
difficoltà a sottometterlo.
Dal cassetto della scrivania estrasse l'immagine che aveva stampato dal
video, fissandola con insistenza. Non vi era un solo tratto somatico
che le ricordasse Emma.
«Meglio così», mormorò,
richiudendola nel cassetto.
Tre toc
discreti catalizzarono l'attenzione dei Taylor alla porta
dell'accesso privato dell'ufficio. Senza attendere l'invito,
l'assistente aprì la porta e introdusse l'ospite atteso;
poi,
con la stessa discrezione uscì e la richiuse dietro di
sé.
«Buonasera, perdonate il ritardo»,
salutò Saga, con
voce suadente e le labbra piegate in un sorriso appena accennato, ma
glaciale.
Richard si alzò e quasi ricadde fiacco sul divano: a quella
vista le sue gambe lo ressero a malapena, come se il senso di colpa che
provava si fosse trasformato in un macigno impossibile da sopportare.
Inconsciamente biascicò il nome di Anthony, non rendendosi
conto
di averlo pronunciato abbastanza forte da essere udito da Saga, che gli
lanciò uno sguardo di sfida, ammorbidendolo poco dopo nel
vederlo tremare.
James jr invece era in piedi, quasi di fronte a lui; lo
squadrò
con attenzione, ma dall'espressione sul suo viso non trapelava alcuna
emozione, come se l'impazienza e la tensione che aveva provato fino a
poco prima non ci fossero mai state.
Anne Taylor lo guardò con gli occhi di un rapace. Si mosse
verso
l'ospite e gli tese la mano ingioiellata. «Finalmente, caro
Saga,
eravamo ansiosi di conoscerti.»
«Lo stesso è per me», rispose lui,
stringendole la
mano con cordialità, per nulla intimorito nel sentirsi sotto
esame. «Ho pensato che per questa occasione ci volesse
qualcosa
di speciale», aggiunse, mostrando la bottiglia di un pregiato
whisky single malt invecchiato venticinque anni e appoggiandola sulla
scrivania della donna.
Prima di presentarsi
nello studio
legale Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor c'era stato un altro
luogo
in cui Saga aveva sentito il dovere di andare e qualcun altro con il
quale doveva parlare. Troppe cose della sua vita erano ancora nebulose,
così come della sua vera famiglia. Voleva conoscerle per
prepararsi all'incontro che di sicuro avrebbe condizionato il suo
futuro.
Aveva dato appuntamento
a Dohko al
cimitero, di fronte alla tomba anonima di Anthony Young. Era stato
molto persuasivo, tanto da abbattere la naturale diffidenza del vecchio
cinese e la sua codardia.
«Raccontami di
nuovo di
lui», gli aveva detto, con lo sguardo duro rivolto alla
lapide e
un tono che sembrava dichiarare disprezzo per qualsiasi tipo di
debolezza di carattere.
Dohko tremava e si
tormentava le mani, fissando la lapide con occhi pieni di rimpianto.
«Come ti ho
già detto,
abitò nell'appartamento della tua ragazza per circa otto
mesi.
Si era presentato alla mia porta una notte, assieme a tua madre e a un
ragazzotto ispanico pelle e ossa che bazzicava sempre nel quartiere.
Era spaventato, pallido. I segni della sua malattia ancora non erano
evidenti. Si può dire che per le prime settimane
andò
tutto bene. Poi, i soldi che tua madre gli aveva lasciato finirono:
prendersi cura di due neonati era dispendioso, ma Anthony non si
limitava a voi due, aiutava chiunque ne avesse bisogno. Purtroppo
però, non sempre chi veniva aiutato era in grado di
ricambiare e
tuo padre si ritrovò presto in gravi difficoltà.
Raggranellava qualcosa dando ripetizioni, ma non bastava. A volte,
digiunava per giorni per riuscire a comprarvi il latte e le pappine. In
quel periodo iniziò a passare le notti in bianco, a causa
vostra
e a causa delle preoccupazioni sempre più pressanti. Era
terrorizzato all'idea che i Taylor vi trovassero. E non sbagliava: in
un paio di occasioni gli investigatori che avevano ingaggiato i Taylor
ci andarono vicini. Quella vita da latitante non faceva per lui. A
lungo andare la sua salute ne rimase compromessa, finché non
prese la decisione di affidarvi a chi avrebbe potuto prendersi cura dei
suoi figli.»
Aveva fatto una pausa
dal suo lungo
racconto. I suoi occhi erano liquidi e tremanti. Il suo respiro si era
fatto incerto, rumoroso per il raffreddore; il suo corpo gracile e
ossuto aveva ricominciato a tremare al refolo d'aria che si era
insinuato fra le lapidi fino ad investirli come una sferzata gelida.
«Quell'inverno
fu molto rigido.
La caldaia della palazzina si bloccò ben due volte. Dopo che
si
separò da voi, cambiò. Era ancora più
teso,
nervoso. Scattava al minimo rumore. Era allo stremo. Era certo che non
lo avrebbero mai lasciato in pace; e alla fine fu trovato. O forse si
lasciò trovare.»
Una volta terminato il
suo racconto,
Dohko si era portato le mani al petto, come se il cuore gli si stesse
fermando. Si era accasciato sulla tomba di Anthony e aveva iniziato a
piangere.
«Sapeva farsi
voler bene da tutti», aveva mormorato.
Aveva alzato la testa e
si era
voltato verso Saga, ma a quel punto lui se n'era già andato,
lasciandolo con il dubbio di quanto avesse ascoltato della storia del
padre.
Anne Taylor fece un sorriso di cortesia; si avvicinò
all'angolo
bar, mise del ghiaccio in due dei quattro bicchieri e
ritornò
alla scrivania, appoggiandoli vicino alla bottiglia, intanto che Saga
si toglieva il cappotto e lo posava sullo schienale della poltroncina,
prima di sedersi.
«Un brindisi, al nipote ritrovato e alla famiglia finalmente
riunita», disse Anne, «spero che presto si possa
avere
l'occasione di conoscere anche tu fratello», aggiunse, con
velata
malizia.
Saga non era affatto sorpreso che la donna lo avesse accettato senza
fare obiezioni o chiedergli nulla, così come si aspettava
che
conoscesse dell'esistenza di Kanon. Sorrise di rimando, ma i suoi occhi
esprimevano tutt'altro. Lasciò il bicchiere sulla scrivania,
senza toccare il whisky e prese dalla tasca interna della giacca una
busta bianca. Se la rigirò per qualche secondo fra le mani,
poi
se la posò in grembo.
«Nessuno di voi avrà mai alcun contatto con mio
fratello», disse in tono risoluto. «E per quanto
riguarda
me, questa sarà la prima e ultima volta che ci
vedremo.»
La donna rimase allibita dalle parole del giovane.
«Noi siamo la tua famiglia!» intervenne James jr,
scattando iroso.
«Saga, come puoi dire una cosa del genere, ora che ci siamo
ritrovati», provò a mediare la donna, facendo un
cenno
quasi impercettibile al fratello, con l'intento di imporgli maggiore
calma e diplomazia. «Perché non provi a
conoscerci, prima
di affermare una cosa così
“definitiva”», gli
disse, sedendosi sul bordo della scrivania e chinandosi un poco verso
di lui, posandogli la mano sul ginocchio.
Gli sorrideva comprensiva, ma si poteva giurare che fosse pronta a
saltargli alla gola alla minima provocazione.
Saga batté due volte la lettera sul palmo della mano, sicuro
di
sé. «Quel che avevo da conoscere di voi, lo
conosco. Altro
non mi serve sapere e non lo voglio sapere», disse, porgendo
la
busta la donna, che prese con circospezione.
Si alzò e si mise il cappotto sul braccio, pronto a lasciare
quel covo di serpi.
«Non te ne puoi andare via così, potresti
pentirtene», lo minacciò James jr.
Il giovane mostrò un sorriso supponente. «Quanto
possono
essere pericolose le minacce di un pluriomicida?» disse,
sostenendo lo sguardo dell'uomo. «O quelle di uno
stupratore», aggiunse, cambiando il suo bersaglio e fissando
Richard che neanche riusciva ad alzare la testa dal suo bicchiere,
piagnucolando in silenzio. «Le
piacciono ancora i ragazzini indifesi, avvocato Taylor?»
«Queste tue affermazioni sono gravi e diffamatorie, mr Saga
Hayes», disse Anne Taylor, cambiando tono in uno
più
intimidatorio, avvicinandosi a lui. «Potresti pentirti
amaramente
di aver aperto questa tua bella bocca», continuò,
accarezzandogli le labbra con la punta delle dita. «Hai lo
stesso
temperamento di Emma; e sei bello come Anthony. Una combinazione
letale», sussurrò.
Saga piegò le labbra in un sorriso accattivante, facendole
capire di sentirsi lusingato dalle sue parole. Ma era solo apparenza.
Mutò il suo attenggiamento e allontanò la mano
della
donna dal suo viso.
«Non ci provi con me, avvocato Taylor.» La vide
raggelarsi.
Allora, indietreggiò di qualche passo, fino alla porta di
vetro,
e squadrò i tre figli del professor Taylor. «In
quella
busta ci sono le prove che suffragano le mie affermazioni, raccolte da
Emma stessa e da Anthony Young nel corso degli anni che lui ha passato
nella vostra casa», disse. Li osservò uno ad uno,
poi
continuò e diede la stoccata finale. «Come ci si
sente ad
essere traditi da qualcuno di famiglia?» disse, appoggiando
la
mano sulla grande maniglia cromata. «Ah, sono delle copie,
naturalmente, e non avrò alcuna remora ad usarle se qualcuno
di
voi proverà di nuovo ad avvicinarsi a me, ai membri della
famiglia Hayes, o a chiunque mi sia caro.»
*****
Nel momento in cui spingeva la porta per uscire, Saga alzò
lo
sguardo e vide Caroline nella saletta d'attesa. Rimase sorpreso per
qualche istante di trovarla lì, soprattutto
perché non
era sola. Accanto a lei c'era lo stesso ragazzo del cimitero, che
faceva il buffone tentando di coinvolgerla in qualche conversazione, ma
lei era poco collaborativa, cedendo solo a brevi risate.
Aggrottò la fronte.
Poi, il suo sguardo si posò sul vecchio sulla sedia a
rotelle e
serrò le mascelle, indurendo i tratti del viso.
Provò un
grande e improvviso odio. Si avvicinò a passo deciso e si
fermò di fronte all'uomo che pareva assopito; lo
fissò
finché egli non si accorse di lui e addolcì
l'espressione
sul viso.
«Saga», sussurrò Caroline, sussultando
di sorpresa.
I suoi occhi si velarono di lacrime nel vederlo. Stava bene, questo era
importante per lei. Accennò ad alzarsi, ma sentiva le gambe
molli e poco collaborative.
Il giovane le scoccò un'occhiataccia e si rivolse invece al
professore. «Buonasera. Lei è l'esimio professor
Taylor,
se non erro. Ho letto con molto interesse il suo famoso libro sulla
giurisprudenza negli scambi internazionali», disse,
tendendogli
la mano.
L'uomo alzò la testa e si prese il suo tempo prima di
rispondere, guardandolo con occhi stanchi e velati dalla cataratta.
«La conosco? L'ho vista da qualche parte?» chiese,
stringendoli la mano con insolita debolezza, quasi fosse un fantasma.
«Conosce sicuramente mio padre. È stato un suo
allievo,
tanto tempo fa; un suo pupillo. Si chiama Shion Hayes. Era nella stessa
classe di Anthony Young, si ricorda?» Nel pronunciare il nome
di
Anthony, cambiò completamente atteggiamento, l'inflessione
nella
sua voce tradiva la rabbia trattenuta durante l'incontro con i figli
dell'uomo.
Caroline sgranò gli occhi, riconoscendo quella nota stonata,
ma
non intervenne, impietrita dall'atteggiamento del marito che glielo
faceva vedere sotto una luce diversa.
«Shion Hayes», mormorò il professore,
provando a
richiamare quel lontano ricordo. «Sì,
sì, mi
ricordo, il caro Shion. Un bravo ragazzo, studioso, educato. Era sempre
assieme a un altro studente. Aspetta, come si chiamava... Erano
inseparabili, come fratelli», disse, continuando a stringere
la
mano di Saga, picchiettandone con affetto il dorso con l'altra mano.
«Ho seguito i suoi successi nel mondo degli affari con molto
orgoglio. Ho sempre saputo che avrebbe fatto grandi cose nella vita.
È da tanto che non ho più sue notizie, come
sta?»
«Sta bene», rispose Saga, trattenendo il disprezzo
per
quell'uomo che aveva cancellato dalla memoria la figura di Anthony, a
cui doveva molto.
«Te ne prego», disse il vecchio in tono accorato,
facendo
maggiore pressione sulla mano, «portagli i miei
saluti.»
«Non dubiti, non mancherò», rispose
Saga,
riacquistando la gentilezza che gli era propria, nel vedere quanto
fosse ormai innocuo. Voleva provocare dolore a quel vecchio, ripagarlo
con la stessa moneta per il dolore che aveva inflitto ad Anthony e ad
Emma, e per avergli strappato via la sua famiglia, ma gli faceva troppa
pena. La vecchiaia, il corpo decadente, la mente offuscata dalla nebbia
della demenza senile, erano una punizione sufficiente.
Quei convenevoli durarono ancora alcuni minuti; poi, dopo aver salutato
il professore, Saga si girò di tre quarti verso l'ufficio di
Anne Taylor e vide la donna che guardava nella sua direzione con odio e
timore.
Salutò con tono cordiale il professore e finalmente
guardò negli occhi Caroline. Lei tremava e aveva un'aria
affranta, mentre si alzava in piedi. La fissò per alcuni
secondi
senza rivolgerle la parola e si avviò verso gli ascensori.
«Saga! Aspettami, Saga!» lo chiamò
disperata
Caroline, raggiungendolo di corsa, appena in tempo prima che le porte
dell'ascensore si richiudessero e la separassero di nuovo da lui.
Ansimava senza fiato, con il cuore che le batte in gola. Teneva la
testa bassa, rimanendo in silenzio. Era da troppo tempo che non lo
vedeva e c'erano tante cose che voleva dirgli, ma non sapeva come
dirgliele.
Sospirò.
Anche Saga era silenzioso, le mani in tasca e lo sguardo perso nel
vuoto, come se l'aver interpretato il ruolo del duro –
durante
l'incontro con i Taylor – l'avesse prosciugato di tutte le
sue
energie psicofisiche.
L'ascensore scendeva con una lentezza esasperante verso i piani
sotterranei dei garage.
Lei si morse il labbro, nel tentativo di arrestare le lacrime che si
stavano formando agli occhi. Deglutì, stringendo il pugno
contro
la sua gamba.
«Sono felice di...» iniziò a dire; non
si aspettava
di essere interrotta da un suo bacio improvviso e le lacrime le scesero
sulle guance.
Avvertire il contatto delle labbra di Saga sulle sue era come essere
travolti da una mareggiata di emozioni e lei voleva lasciarsi andare
ancora una volta in balìa di quelle emozioni. Lui la tenne
abbracciata per dei lunghi secondi, quasi la sorresse,
perché
non si accasciasse a terra senza forze; poi, la guardò negli
occhi e le accarezzò il viso con la punta delle dita.
«Mi sei mancato tanto», disse lei tra i sighiozzi,
lasciando che altre lacrime le bagnassero il viso.
«Lui ti ha fatto questo», mormorò con
una dolcezza e
una pena tali da spezzare il cuore. Anche lui aveva gli occhi lucidi.
Riusciva a vederli i segni dell'aggressione sul viso di Caroline.
Ricordava ogni cosa di quella notte nel vicolo: il dolore alla testa,
la vista appannata, l'odore di immondizia e lei, a terra, mentre quel
tizio le stringeva le mani al collo. La strinse di nuovo al petto e la
sentì singhiozzare ancora. Una volta in più visse
la
paura di perderla.
Aveva provato rabbia quando l'aveva vista con il professore e con quel
ragazzo che lavorava per i Taylor; ma ora, solo con lei nell'ascensore,
quella rabbia era svanita. Il suo cuore batteva emozionato come la
prima volta che aveva fatto l'amore con lei. Cominciava a ritrovare il
vecchio se stesso, ma al contempo era conscio che non sarebbe
più stato come prima. Le accarezzò la testa, con
la
tentanzione di rassicurarla; invece la prese per le braccia e la
allontanò da sé. Poi si appoggiò alla
parete della
cabina, dandole le spalle.
«Saga... ricominciamo la nostra vita, torniamo a
casa.»
A quelle parole, il giovane fece un respiro profondo, si
raddrizzò e si ricompose.
«Sì, ricominciamo le nostre vite»,
ripeté
lui, mentre le porte dell'ascensore si aprivano davanti a loro. Fece un
passo e le oltrepassò, ma quando Caroline provò a
fare
altrettanto, lui la bloccò tendendo la mano davanti.
La giovane interpretò quel gesto come un invito e gliela
prese
con fiducia. In quel momento però si accorse che lui non
portava
più la fede al dito. Gli lasciò la mano e
abbassò
lo sguardo. Le si spezzò il cuore.
«Vai per la tua strada, Caroline.»
La giovane alzò di scatto la testa, fissandolo con occhi
sgranati. «Perché?»
«Non lo immagini? Noi due siamo troppo diversi,
incompatibili.
Prima di incontrarti ero una persona semplice e innocente, ero felice;
tu mi hai portato in luoghi oscuri e pericolosi, dove regna il dolore.
Le mie mani ora sono sporche di sangue a causa tua. Tu mi hai reso una
persona diversa da quella che ero, capace di uccidere», disse.
Tirò fuori tutti i dubbi, tutti i nodi irrisolti che aveva
dentro, senza preoccuparsi dell'espressione scioccata di Caroline. Era
consapevole che con quelle parole le stava facendo del male, ma era
necessario per entrambi.
«Perché mi stai dicendo questo? Tu non hai fatto
nulla di
male. Tu mi hai salvato la vita, sei il mio eroe. Se non fosse stato
per te io sarei morta in quel vicolo. Tu non hai ucciso nessuno quella
notte. Sono io che ho sparato. Sono le mie mani a grondare
sangue», spiegò in tono sempre più
accorato, ma
sembrava che lui non stesse neanche a sentire le sue giustificazioni.
Lei non capiva perchè ora Saga si stesse comportando in quel
modo, dopo quel bacio appassionato che le aveva dato; non comprendeva
perché stesse rinnegando ciò che c'era stato fra
loro,
l'amore, i sogni e le sofferenze che avevano condiviso.
«Lo so che ti ho fatto soffrire, non lo nego, ma dammi una
seconda possibilità.»
Saga le diede le spalle, scrollando la testa.
«Ti prego, ti prego!» lo supplicò,
aggrappandosi con disperazione alla stoffa della sua giacca.
«Lasciami andare, Caroline.»
«No! No! Ti prego, torniamo a casa, torniamo nella nostra
casa», lo trattenne lei.
«Non fare così.» Saga si girò
e la prese per le spalle; il cappotto dava impiccio sul suo braccio.
Caroline alzò la testa verso di lui; sgranò gli
occhi nel vedere un'espressione di disgusto sul suo bel viso.
«Detesto le persone che supplicano.» La spinse
all'improvviso contro la parete di fondo dell'ascensore. «Nei
prossimi giorni ti farò avere le carte del
divorzio», le
disse; e pochi secondi dopo le porte si richiusero.
Dall'interno della cabina dell'ascensore arrivavano a lui, appena
percettibili, le urla disperate di Caroline, ma si allontanò
senza la minima esitazione verso l'auto. Eppure, non era rimasto
indifferente. Teneva la testa bassa, le labbra strette in una linea
sottile e provava una irrefrenabile voglia di bere. In una delle tasche
del cappotto c'era il quaderno di Gregory Miller. Avrebbe voluto
restituirglielo, ma non c'era riuscito, perché il loro
incontro
aveva assunto toni drammatici e strazianti.
«Come puoi comportanti in questo modo», lo
rimproverò Aiolos, appoggiato alla portiera dell'auto.
«Non sono affari tuoi», ribatté Saga.
«È vero, non sono affari miei, ma non posso
permetterti di
trattare in questo modo le persone. Prima Kanon, che ti adora, adesso
Caroline. Chi altri allontanerai dalla tua vita?»
Saga gli passò di fianco e posò la mano sulla
maniglia
della portiera. «Spostati», sibilò fra i
denti.
Aiolos si scostò di un passo per lasciargli libero
l'accesso, ma
gli bloccò il braccio con la mano. «Saga»
Il giovane si divincolò con uno scatto violento e lo
inchiodò con lo sguardo. «Perché
continui a starmi
dietro? Cosa diavolo vuoi da me?» ringhiò.
«Capire cosa ti sta succedendo»,
confessò l'altro.
Strinse la presa sul braccio di Saga, ma abbassò la testa,
come
se volesse nascondere i sentimenti che trasparivano dal suo volto in
quel momento. «Io... io non ce la faccio più a
continuare
così. Negli anni ti ho detestato, quando sembravi fragile e
debole, perché manipolavi gli altri con quel tuo modo di
fare; e
quando si è manifestata questa nuova versione di te,
così
forte e determinata, ne sono rimasto affascinato, ma sbagliavo. Non ti
importa nulla delle persone, le fai soffrire e continui per la tua
strada. Saga, ti voglio bene, ma ora...»
Lo strinse in un abbraccio, ben consapevole che l'altro avrebbe potuto
reagire in male; però, arrivato a quel punto, non gli
importava
più. Doveva essere sincero fino in fondo, con se stesso e
con
lui.
«Anch'io ti voglio bene», rispose Saga, con voce
incerta, ritrovando la gentilezza di un tempo.
«No, Saga, io ti amo. Sono innamorato di te da
sempre»,
confessò Aiolos, «e voglio stare con il vecchio
Saga.»
Nel parcheggio sotterraneo calò un pesante silenzio.
Aiolos lo sentì irrigidirsi. Era palpabile il fastidio che
Saga
stava provando e capì che ora sarebbe toccato a lui essere
allontanato.
«Non mi toccare, schifoso.»
Slacciò l'abbraccio ed evitò di guardarlo, per
non vedere
il sicuro disprezzo dipinto sul suo viso. Gli diede le spalle e si
incamminò mani in tasca verso l'ascensore. Pochi secondi
dopo
sentì le ruote dell'auto sgommare via.
Shura lo aveva avvertito. Glielo aveva detto che a Saga facevano schifo
i finocchi, ma doveva sbatterci la testa per capirlo. Aveva una gran
voglia di piangere, si sentiva un bambino abbandonato... ancora una
volta lo aveva escluso, ma anche se se lo aspettava, gli faceva male lo
stesso; forse di più delle altre volte, perché
poteva
significare la fine di tutto.
*****
Saga era stato di parola. Non erano passate che due settimane e un
giovane avvocato, probabilmente appena laureato, si era presentato alla
porta di Caroline con una busta gialla che conteneva i documenti del
divorzio.
Negli accordi che aveva fatto stilare erano compresi una quota generosa
di azioni della corporation della famiglia Hayes, una buona uscita di
dieci milioni di dollari e un assegno mensile di centomila dollari.
L'avvocato le spiegò per filo e per segno ogni punto e ogni
clausola; poi le indicò dove firmare, aggiungendo che poteva
far
controllare l'accordo da un avvocato di sua fiducia.
Caroline aveva ascoltato in silenzio, immobile, il respiro quasi
impercettibile. Una volta rimasta sola, si sedette di nuovo sul divano
e rimase a fissare quei fogli in disordine sul tavolino –
accanto
all'edizione del mattino del Boston Globe, sul quale campeggiava la
notizia che Saga era stato presentato ai vertici della corporation e
nominato vice presidente – fin quasi all'ora di cena.
Nonostante
il modo in cui lui l'aveva lasciata, aveva continuato a sperare in una
riconciliazione. Ora però sembrava tutto definitivamente
finito.
Kitty aveva miagolato più volte in quelle ore, richiamandola
per avere la pappa, ma lei l'aveva ignorata, ripiombata in
uno stato di trance.
Fece un lungo sospiro e si passò le mani sul viso. Ormai di
lacrime da versare non ne aveva più, ma non le servivano,
ora
riusciva a convivere con il peso dell'abbandono. Si riscosse sentendo
la pelliccia setosa di Kitty strusciare sul suo braccio.
«Sì, piccola, ora ti preparo qualcosa.»
Prese di nuovo in mano i documenti per riporli, ma si perse nel
rileggerli. Arrivata all'ultima pagina si accorse che Saga non li aveva
firmati. Le stava forse chiedendo di essere lei per prima a siglare la
fine del loro matrimonio?
No, questo non lo avrebbe mai fatto.
«Smettila di rimuginarci su», disse Aiolos, uscendo
dalla
doccia con l'asciugamano legato in vita e un altro sulla testa.
Da qualche tempo si era trasferito nella casa di colei che aveva sempre
ritenuto la sua rivale, ovvero da quando gli era diventato
insopportabile stare nella casa di famiglia – dove la madre
lo
assillava in continuazione intromettendosi nella sua vita sentimentale
e Thomas faceva ogni sforzo per diventare suo amico –,
né
poteva stare alla villa degli Hayes, a contatto con Saga,
benché
la nonna gli aveva chiesto più volte di tornare. Certo,
avrebbe
potuto trovarsi un appartamento tutto suo, ma si era licenziato dal
lavoro e non sapeva ancora cosa ne avrebbe fatto della sua vita. E poi,
nelle sue condizioni, Caroline ora aveva bisogno di qualcuno che le
stesse vicino e lui non aveva nulla di più urgente da fare.
«Viene, palletta di pelo, ci penso io a te», si
rivolse
alla gatta, che non ci pensò un attimo e lo seguì
zampettando fino in cucina.
Il ragazzo tornò in salotto pochi minuti dopo, vestito, e le
lanciò un flacone di vitamine, che lei doveva prendere tre
volte
al giorno, ma che spesso dimenticava di farlo.
Caroline sospirò un'ultima volta; poi, finalmente si decise
ad
alzarsi. Raccolse il quotidiano e i documenti e li appoggiò
sul
tavolo in cucina, dove vi erano stati raggruppati vecchi giornali e
riviste che dovevano essere portati in cantina. Si legò alla
vita il grembiule e iniziò a preparare la cena.
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Capitolo 38 *** Epilogo ***
Era
il lontano 22 dicembre 2011
quando è iniziata l'avventura pubblica di Legacy. Dalla sua
prima stesura sono cambiate diverse cose, compreso lo stile narrativo,
che si è evoluto dapprima come volume, poi tecnicamente,
andando
a correggere le leggerezze e le ingenuità di un'autrice che
all'epoca era solo una dilettante. Fra pause brevi e lunghe,
accantonamenti per scrivere storie di diverso genere, siamo infine
giunti a vederne l'epilogo.
Nel corso degli anni i lettori sono andati e
venuti, qualcuno di
molto importante non ha potuto continuare a seguire la storia a causa
di gravi problemi di saluti, altri invece hanno tradito la mia fiducia
spalleggiando persone disoneste, altri ancora si sono allontanati da
questo passatempo perché la vita è fatta anche di
cose
più serie.
Se dovessi fare un bilancio di questi anni in
cui Legacy ha
riempito la mia mente in ogni istante, persino negli anni in cui sono
rimasta lontana da questo sito, credo che le cose belle siano di
più delle cose cattive, ma tutte hanno contribuito a
rendermi
l'autrice che sono oggi. Nonostante abbia pubblicato il mio primo
romanzo (lo potete trovare qui)
con una casa editrice, essere stata affiancata da un editor
professionista e aver imparato molto da chi in questo campo lavora da
anni, ancora non mi sento a mio agio a definirmi una scrittrice.
Non so se mi impegnerò a scrivere
fanfiction nuove, di
certo terminerò ciò che ho iniziato,
perché
bisogna avere rispetto per voi lettori che mi avete seguito in questi
anni e state attendendo la loro conclusione.
Ora vi lascio alla lettura dell'epilogo, sperando vi piaccia.
Epilogo
Boston,
2015
«Ah, no! Ormai ho detto basta a traslochi e
ristrutturazioni!» ridacchiò Caroline, evitando di
ricordargli le difficili settimane in cui nelle loro chat lei si era
sfogata raccontandogli di tutti i problemi che aveva dovuto affrontare
per riconvertire in un loft l'ultimo piano del vecchio magazzino che
aveva comprato.
L'imprenditore edile le aveva garantito che i lavori sarebbero durati
al massimo sei settimane erano diventati quasi tre mesi, per colpa
delle vecchie condutture dell'acqua che erano stati costretti a
sostituire, dei vetri per i finestroni per i quali avevano sbagliato le
misure e, alla fine, anche l'impianto di riscaldamento aveva dato
forfait, gracchiando come un animale in agonia a pochi giorni dalla
presunta consegna. Dulcis in fundo, c'era stato un troppo zelante
ispettore comunale che aveva bloccato tutto perché alcuni
permessi non erano arrivati in tempo. Ma ora, guardandosi attorno,
poteva contemplare quella casa tutta sua, ampia, spaziosa, luminosa,
elegante e al tempo stesso accogliente, dall'atmosfera rasserenante,
familiare, e con una vista mozzafiato sul porto.
Aveva scelto di trasferirsi nel North End, nella Little Italy di
Boston, per sentirsi più vicina alle sue origini e non aveva
sbagliato: lì aveva trovato un ambiente stimolante e
cordiale
dove vivere, studiare e lavorare.
«Voi invece, quanti ne hai cambiati di appartamenti
nell'ultimo
anno?» si interessò. L'ultima volta che avevano
parlato
lui le aveva detto che c'era la possibilità di una cattedra
in
una scuola media a San Diego, ma si sarebbero dovuti spostare di nuovo.
«Solo due. Stiamo migliorando, non trovi?» disse
Chris con
una risata, dall'altra parte dello schermo. Spostò un poco
la
webcam per mostrarle gli ultimi scatoloni ancora da vuotare.
«Dipende dai punti di vita.»
«Almeno gli appartamenti erano già pronti e
arredati. Se
avessimo dovuto affrontare una ristrutturazione radicale come te, non
so come ce la saremmo cavata.»
«Lo sai che tutto sommato mi trovo bene fra polvere e
calcinacci.
E poi, realizzare qualcosa quasi da zero e vederla prendere forma
è magnifico.»
«Hai ragione. Ricordo quanto è stato bello
sistemare il
nostro appartamento a Philadelphia e quanto fossi felice in quel
caos.»
«Smettila!» ridacchiò di nuovo lei.
«Non si
ingelosisce Nicole a sentirti parlare in questo modo?»
«Tranquilla, è a un pranzo di lavoro e queste cose
di
solito vanno per le lunghe, quindi possiamo parlare
liberamente»,
disse lui, facendo l'occhiolino.
«Te lo concedo, questa volta è stata dura. Ormai
sono
passati tre anni, eppure ci sono giorni in cui mi sento ancora
precaria.»
Mentre gli raccontava quei suoi intimi timori, Caroline lo vide
distrarsi per un momento, allontanarsi dal computer parlottando con
qualcuno e poi tornare davanti allo schermo portando in braccio un
bimbetto di quasi tre anni e un piattino di plastica dei Minions con
della pizza fredda tagliata in pezzetti triangolari.
«Scusami, oggi tocca a me farlo mangiare», si
giustificò Chris.
«Scusami tu. Dimenticavo che da voi in California
è circa
l'una», disse lei, dando un'occhiata furtiva all'orologio
dello
schermo del suo computer che segnava invece quasi le quattro del
pomeriggio. «Non dovresti abituarlo fin da piccolo a mangiare
quelle cose; avrà tempo da grande per rovinarsi»,
lo
rimproverò con un sorriso. Salutò il piccolo
Nicky e rise
divertita nel vederlo sporcarsi il mento con la farcitura della pizza.
Era un bel bambino e assomigliava tutto al papà.
Approfittò di un momento in cui Chris puliva il visetto del
figlioletto per dare una sbirciata al titolo in prima pagina del
giornale: anche quel giorno la notizia principale sembrava essere Saga
Hayes e la Corporation di famiglia. Piegò le labbra in un
accenno di sorriso nel considerare come negli ultimi mesi si fossero
moltiplicati gli articoli su di lui, sia che riguardassero il suo
lavoro, sia che fossero più frivoli. Da quando aveva
sostituito
il padre nel ruolo di amministratore delegato, inanellava un successo
dopo l'altro. Di riflessò però,
ripensò anche ad
altri tipi di successo che aveva ottenuto in quegli ultimi anni: gli
articoli di gossip riportavano fin troppo spesso notizie del suo
presunto fidanzamento ufficiale con un'ereditiera di New York: una
biondina svampita, sempre in compagnia di un cagnetto odioso, che non
perdeva occasione di appiccicarsi a lui in presenza dei fotografi.
Sospirò tristemente. Rimpiangeva il tempo che aveva vissuto
con
lui, quando il mondo neanche sapeva della sua esistenza e lui era una
persona semplice e pura come un bambino. Lo aveva amato tanto, anche
per quel suo aspetto. Ora invece le sembrava un'altra persona:
elegante, sofisticato, sempre impegnato in qualche evento mondano,
così a suo agio sotto i riflettori come se fosse in posa;
eppure
non aveva mai concesso un sorriso e aveva lo sguardo cupo. In nessuna
fotografia apparsa sui quotidiani lo aveva mai visto sorridere. Aveva
nostalgia di quei suoi sorrisi spontanei...
Nonostante tutta quella sovraesposizione mediatica però, non
era
trapelata alcuna informazione sulla sua vita privata; quella davvero
privata. In quello Saga non era cambiato affatto.
«Caroline, ehi, tutto bene?» chiese Chris, nel
notare
un'ombra di tristezza trasparire dal viso dell'amica. Aveva provato
più volte a richiamare la sua attenzione, ma senza successo.
Sembrava persa in qualche sogno. «Caroline, sei ancora fra
noi?
Torna con i piedi per terra!»
«Come dici?»
Chris liberò una risata divertita alla seguente espressione
stralunata sul suo viso. «Ti stavo chiedendo se sei sola in
casa.»
«Per il momento, ma dovrebbe essere qui fra pochi
minuti»,
rispose, dando piccoli colpetti all'angolo del giornale con il dito,
per rimetterlo nella stessa posizione di prima, lasciandosi catturare
ancora una volta dalla rete dei propri pensieri. Venne però
riportata alla realtà pochi secondi dopo dal suono del
citofono.
«Lupus in fabula», esclamò, ma anche da
Chris, quasi
contemporaneamente, era arrivato qualcuno, perché lo
sentì dire “bentornata, amore”.
«Devo chiudere, è tornata Nicole. Ci sentiamo fra
un paio
di giorni. Mi spiace non aver fatto in tempo a salutare il tuo
“uomo”», disse Chris; ma prima di
disattivare la
webcam aggiunse un'ultima cosa. «Ah! E salutami anche quel
simpaticone del tuo angelo custode!»
Caroline rise, promise di recapitare i saluti e prima di scollegarsi
gli augurò una buona giornata. Si alzò, corse al
citofono
e aprire il portone; poi tornò in fretta in cucina, per
spegnere
sotto la moka che come ogni giorno aveva preparato per Aiolos. Poco
più di un minuto dopo spalancò la porta
d'ingresso, era
pronta ad accogliere l'amico con la solita battutina, ma non era
preparata alla sorpresa di ritrovarsi di fronte qualcuno di
così
inaspettato e il respiro le si fermò in gola.
Vestiva in giacca e cravatta blu scuro, con un vecchio borsalino calato
in testa e gli occhiali da sole. Nonostante il bel tempo e le
temperature gradevoli, la giornata era ventosa e incoraggiava a
indossare anche l'impermeabile, ma lui lo teneva piegato al braccio.
Non ricordava di averlo mai visto con un cappello in testa, ma sempre
con la sua bella capigliatura dorata libera al vento. Ora
però i
suoi capelli erano decisamente più corti di un tempo e gli
conferivano un aspetto più serio e maturo. Il suo viso,
sempre
ben rasato e pulito, era pallido come non lo aveva mai visto, e un poco
smagrito, che trasmetteva un senso di solitudine.
Stava per domandargli il motivo per il quale si trovasse lì,
ma
si trattenne. Abbozzò invece un sorriso e lo
invitò a
entrare, richiudendo poi piano la porta e nascondendo un respiro
emozionato. Ogni giorno, per un lungo anno, aveva sperato nel suo
ritorno e proprio ora che era finalmente andata avanti con la sua vita,
lui era lì.
Saga si guardava attorno in silenzio, studiando quell'ambiente
così spazioso e luminoso, mentre lei lo accompagnava fino
all'isola in cucina, dove avrebbero potuto parlare in modo informale.
Si parlava meglio davanti a una tazza di caffé e magari
anche una fetta di torta.
«Posso dedicarti solo pochi minuti, alle cinque ho un
appuntamento di lavoro in centro e devo ancora preparare il materiale
da presentare.»
«Lo so; è con una certa Emily Dawson»,
disse,
togliendosi gli occhiali da sole con movimenti studiati e posando il
cappello sul piano in marmo grigio chiaro. Rilassò i tratti
del
viso nel vederla sgranare gli occhi, ritrovando in lei i medesimi
atteggiamenti di quando l'aveva conosciuta. «Immagino quanto
tu
sia sorpresa.»
«È vero, lo sono.»
Lui la scrutò per alcuni secondi, aggrottando la fronte nel
rendersi conto di quanto in quei cinque anni fosse cambiata. Aveva
abbandonato ogni traccia della ragazza, a tratti infantile, di cui si
era innamorato quando lui era un'altra persona, e si era fatta una
donna sicura di sé e della propria bellezza; vestiva casual
ma
con gusto, valorizzando ancora di più il suo aspetto acqua e
sapone. Ma ciò che stonava era l'eccessiva magrezza. Se ne
rese
conto quando lei gli mise davanti la tazzina, versando poi il
caffè direttamente dalla moka. E ancora, quando gli
servì
una fetta di torta, prendendola dall'alzatina in cristallo e posandola
su un piattino bianco dalla forma quadrata, chiedendogli se fosse
ancora la sua preferita. Rimase a fissarla qualche secondo, prima di
rispondere che non mangiava più dolci.
Il polso di Caroline era diventato così sottile che i
braccialetti d'oro che indossava davano l'impressione di potersi
sfilare dalla mano ad ogni movimento.
Si chiese cosa l'avesse ridotta in quello stato, se fosse stato a causa
sua e di come si erano lasciati – senza più una
parola
– o se invece fosse la conseguenza di qualche malattia.
Vedeva
che lei si stava sforzando di essere serena di fronte a lui, eppure
sembrava raggiante. Lui stesso non era sereno, nonostante l'avesse
voluto fortemente quell'incontro. Aveva persino cancellato gli impegni
del pomeriggio e si era messo d'accordo con la interior designer
affinché programmasse un nuovo appuntamento con Caroline.
Voleva afferrarle la mano, trattenerla nella sua, sentire il calore
della sua pelle.
Abbassò lo sguardo sulla tazzina di caffé.
Caroline lo osservò con un sorriso. Dentro di sé
sentiva
riaffacciarsi la stessa felicità e l'emozione di un tempo,
nel
ritrovare quella dolce tendenza di Saga a sorprenderla. In fondo al
cuore però, era presente il germe del dubbio che in qualche
modo
lui non avesse mai smesso di avere un ruolo nascosto nella sua
esistenza. Ancora una volta il suo principe azzurro, benché
rimasto lontano per anni, le stava semplificando la vita con un
semplice schiocco di dita?
Quando Emily Dawson, una fra le più importanti interior
designer
degli Stati Uniti l'aveva contatta per la prima volta, lei che era
ancora solo una studentessa e stagista presso un mobilificio appena
fuori Boston, era stata un'emozione indescrivibile. Non solo le aveva
fatto i complimenti per il suo lavoro, ma le aveva persino proposto di
produrre il suo pezzo migliore. Era una grande opportunità
di
lavoro e il fiore all'occhiello del suo curriculum di futura designer
d'arredamento. Il coronamento di tre anni intensivi di studi, lavoro
non pagato, tanti fallimenti e notti insonni; ma si era anche domandata
perché tanta fortuna in una volta sola.
Aprì la bocca per chiedergli che ruolo avesse avuto in tutto
ciò e dare concretezza ai propri sospetti, ma ci
ripensò.
Cosa avrebbe cambiato saperlo adesso?
Fra di loro c'era un silenzio ingombrante, alimentato da più
di
quattro anni di lontananza, di segreti e di problemi lasciati in
sospeso. Eppure, era certa che sarebbero bastate poche parole per
colmare la distanza fra loro.
Nei mesi seguenti a quel loro addio, lei si era presentata quasi ogni
giorno ai cancelli della villa a Winchester, ma non era mai riuscita a
trovare il coraggio di farsi vedere. Poi, aveva iniziato a diradare
quelle visite nascoste, fino a non presentarsi più. Se solo
a
quel tempo avesse avuto ancora la forza di lottare per la sua
felicità, forse...
Sospirò, scrollando debolmente la testa, mentre Saga
indugiava
con lo sguardo sul caffè. Dal frigorifero prese un bricco di
caffé d'orzo e si riempì la sua mug.
«Ti starai chiedendo come faccio a conoscerla. È
l'arredatrice che ha assunto Jennifer per rinnovare gli uffici di
Boston», le spiegò, risparmiandole il racconto
della
giovane ereditiera che aveva fatto il diavolo a quattro pur di
assicurarsi i servizi della guru degli interior design, arrivando anche
a pestare i piedi per terra come una bambina. «L'ultimo
acquisto
di Emily Dawson è stato un tavolino componibile in cristallo
bianco e fumè, creato da una giovane e talentuosa
designer.»
Dalla tasca dell'impermeabile tirò fuori una rivista di
arredamento, sulla quale c'era un articolo di tre pagine che parlava di
Caroline e del progetto che aveva presentato l'anno prima al concorso
nazionale e che le aveva permesso di vincere il primo premio,
nonché l'invito alla mostra del mobile di New York.
Caroline mascherò il rossore sul viso sorseggiando il suo
caffè d'orzo.
«Quando ho saputo di questa tua nuova vita ne sono rimasto
sorpreso, ma forse avrei dovuto aspettarmelo. L'avevo capito fin dal
primo momento che in questo campo te la saresti cavata
egregiamente.»
«È vero. Studiare da interior designer era da
sempre il
mio sogno nel cassetto. Forse, se la mia vita non avesse avuto una
brusca deviazione, con la morte di mio padre, vi sarei approdata prima.
Ma anche tu non te la sei cavata male in questi anni»,
replicò Caroline. «Negli ultimi mesi, sui giornali
non si
fa altro che parlare di te e dei tuoi successi.»
Lei gli offrì dell'altro caffè, nonostante non ne
avesse bevuto ancora un sorso.
«Come stanno tuo padre e mrs Foster?»
Lui sospirò. Non voleva ammettere che non aveva idea di come
stessero e preferì mentire. «Stanno
bene.»
«E tuo fratello?»
«Kanon è in giro per il mondo. Ha accettato il
fidanzamento con Saori e sono partiti dopo la fine del
college.»
«Capisco. Immagino allora che la tua fidanzata allievi un
poco la
solitudine della tua famiglia per la lontananza di Kanon. Sono certa
che si stia trovando bene alla villa. Era così bello il lago
in
estate; il posto perfetto per far crescere dei bambini. State
già facendo dei progetti per il futuro?»
Saga sembrò rimanere indifferente alle sue parole, ma il suo
sguardo divenne più cupo, quasi rabbioso.
«Non dovresti credere a tutto quello che scrivono sui
giornali.
Anche se le piace crederlo, Jennifer Perkins e io non siamo fidanzati.
Non siamo niente.»
Caroline non replicò nulla, limitandosi a un sospiro
silenzioso, sempre appoggiata al bordo del lavello della cucina.
Saga alzò lo sguardo su di lei: quella sua magrezza lo
infastidiva.
«Tu invece», chiese con voce stranamente incerta.
«C'è qualcuno nella tua vita?»
Lei annuì con un sorriso.
«Ne sei innamorata?»
«È tutta la mia vita.»
Saga sentì un'improvvisa fitta al cuore.
«Capisco»
La vide prendere un altro sorso di caffè d'orzo e solo in
quel momento riconobbe la mug che stava usando.
«Quella è...»
Si sorprese nel riconoscere quella particolare mug, ovvero quella che
le aveva regalato quando lei era andata a vivere nell'appartamento
sopra il negozio. Gli faceva un certo effetto vedere che l'avesse
tenuta; gli riportava alla mente com'era stata la sua vita assieme a
lei.
«Sì. È una delle poche cose che mi sono
portata
dietro dalla vecchia casa, quando sono venuta ad abitare qui.»
«Allora... l'hai venduta?»
Lei scrollò piano la testa. Vedeva in lui il dubbio e il
bisogno
di sapere. «Ho vissuto lì per un anno circa, poi
ho
trovato questo posto. Ma la casa che tu hai ristrutturato per me, per
noi, è ancora mia.»
Rimase sbalordito nell'udire quelle parole e dentro di sé
avvertì uno strano sollievo. Poi però, si
formò
nella sua mente l'immagine di lei e di un altro uomo che abitavano
quell'elegante loft e provò rabbia, come se qualcuno gli
avesse
preso qualcosa che gli apparteneva, benché non avesse alcun
diritto su di lei. Si morse il labbro e respirò piano, per
mantenere il controllo.
Caroline prese un altro sorso dalla mug e lui notò la fede
al
dito. All'improvviso avvertì la voglia di qualcosa di molto
forte.
Controllò l'ora, si erano fatte quasi le cinque del
pomeriggio:
l'ora in cui abitualmente si concedeva un drink per spezzare la
giornata lavorativa.
«Hai del whisky?»
La giovane rimase sorpresa da quella richiesta, ma non era impreparata.
«Non sapevo che ora ti piacesse bere», disse,
mentre apriva
l'armadietto sopra il frigorifero. Prese una bottiglia di brandy
– che tirava fuori solo quando Aiolos era giù di
corda e
aveva bisogno di sfogarsi – e attese un suo cenno, prima di
versargliene due dita nel caffè.
Gli occhi di Saga erano calamitati su quell'anello.
«Dunque, c'è un “signor”
Miller nella tua
vita» disse, con la tensione che cresceva dentro di lui.
Quando
la vide annuire di nuovo, sospirò un
“capisco”
rassegnato. «È per questo che hai preferito
trasferirti...»
Diede uno sguardo alla casa, prestandovi maggiore attenzione. Al centro
di quell'unico grande ambiente spiccava un modernissimo caminetto a gas
a forma di goccia, di un nero satinato, il cui interno era riempito di
pietre lisce e tonde, fra le quali danzavano sottili fiamme
azzurrognole; il salotto si componeva tutt'attorno con un gigantesco
divano componibile color bianco latte, dalla forma morbida a mezzaluna.
I mobili erano perlopiù a sospensione, fissati alle pareti
di
mattoni rossi a vista e quasi scomparivano.
Tutto l'arredamento era caratterizzato da linee pulite ed essenziali, e
dai toni naturali, con pochi soprammobili per non appesantirne
l'estetica.
Ma era la parete alla sua destra che attirava la sua
curiosità.
Di due metri più profonda rispetto al resto del muro,
sembrava
completamente composto da vetrate, che arrivavano fino al soffitto a
doppia altezza, come a formare una specie di serra o veranda. E,
proprio come una serra, era pieno di piante: alcune ornamentali, altre
aromatiche e persino alberi da frutto. Il parquet in quella parte era
più chiaro e c'erano qua e là delle specie di
aiuole
sassose, incorniciate da altri listelli di parquet a formare dei
quadrati.
Gli parve di udire il debole scrosciare dell'acqua, come di una
fontanella o di un muro d'acqua. In un angolo, accanto a un limone
carico di frutti, c'era lo stesso tavolino del concorso –
forse
un prototipo – ma realizzato in legno di bambù e
corredato
da quattro pouf sagomati e rivestiti di stoffe color pastello.
Poco più in là c'era un tavolo da disegno in
grande
disordine e con un progetto ancora sul piano rialzato. Era un angolo
perfetto per lavorare prendendo spunto dalla natura e al tempo stesso
rilassarsi.
«È una bella casa», dovette ammettere
lui.
«Ti ringrazio.»
Caroline si diresse verso il suo giardino interno e
accarezzò le
foglie di un ciliegio nano orientale, fermandosi proprio nella
traiettoria di un raggio di sole. Stava osservando il panorama.
Sorrise, immaginando che quello scorcio di mare fosse il lago Mystic e
lei immersa nel verde dell'immenso giardino di villa Hayes. Il rumore
dell'acqua era rilassante.
Agli occhi di Saga lei sembrava una persona che aveva trovato la
propria strada, indipendente, soddisfatta della sua vita, realizzata;
che ora guardava al futuro e non al passato.
Così non poteva dire di se stesso.
Durante la sua convalescenza aveva scoperto dentro di sé una
grande rabbia repressa che una volta risvegliata aveva faticato a
controllare; ogni cosa che lo contrariava risvegliava il desiderio di
vendetta. Persino con i Taylor, con i quali aveva creduto di aver messo
le cose in chiaro con quell'unico incontro di persona, gliel'aveva
fatta pagare. Aveva atteso che il professore spirasse e poi li aveva
rovinati, uno alla volta, senza pietà. Ci aveva messo tre
anni,
un tempo che gli era parso adeguato, e alla fine si era preso le sue
soddisfazioni.
Ritrovare il suo equilibrio interiore era stata una lotta
più
ardua; l'ira, la rabbia, erano emozioni forti che non sapeva come
gestire. Il riappropriarsi della sua vita, il dedicarla solamente al
lavoro, lo aveva aiutato, ma gli aveva lasciato un vuoto dentro che
difficilmente avrebbe colmato. Era convinto che allontanare Caroline da
sé l'avrebbe tenuta al sicuro. Seguirne poi a distanza i
successi era stato un modo per illudersi di stare ancora con lei. E
quando aveva avuto la possibilità di incontrarla, e si era
presentato alla sua porta, aveva sperato in un nuovo inizio, ma la
realtà che stava trovando, gli avrebbe chiuso ogni
possibilità. Non le aveva raccontato che da più
di due
anni viveva in un mega appartamento sopra gli uffici dirigenziali della
corporation, da solo, per non dover ammettere che la sua vita era un
fallimento. I soldi e il successo nel lavoro non potevano compensare un
una casa vuota e un letto freddo.
Bevve il suo caffè corretto in un unico sorso e
allontanò
la tazzina. Si alzò e prese l'impermeabile e il cappello,
con i
tratti del viso che sentiva mutare in una maschera d'ira. Doveva
andarsene da lì; eppure si soffermò ancora un
momento a
guardarla, mentre si avvicinava alla vetrata, dandogli sempre le spalle.
La scoperta del vero se stesso e delle sue origini aveva fatto
sì che gli scappasse via la cosa più bella che
gli era
mai capitata, con tutte le sue incongruenze e i difetti che si portava
dietro; e quella vita semplice che gli piaceva. Ora era troppo tardi.
«È meglio che vada.»
Caroline aveva lo sguardo fisso sulla strada; mormorò un
“stanno arrivando” e si girò con un gran
sorriso
disegnato sulle labbra verso la porta. Vi andò di corsa
passando
davanti a Saga come se neanche fosse presente, lasciandolo senza parole
e con una immensa tristezza e un senso di mortificazione nel cuore.
Spalancò la porta, come se attendesse qualcuno di importante
e,
quando l'uomo le si affiancò per uscire di scena, lei gli
chiese
di restare ancora un po'; e lo fece con un tono e una convinzione tali
che Saga non poté che acconsentire.
Rimasero sulla soglia di casa per due, forse tre minuti, ma a Saga
parve che il tempo si fermasse, accanto a lei. Voleva fare chiarezza
sui propri sentimenti, invece era più confuso di prima. Si
sentiva a disagio, in imbarazzo, insicuro, vicino a lei.
Deviò
lo sguardo attorno a sé e, sul piano del mobile accano alla
porta d'ingresso, notò alcune lettere ancora chiuse
indirizzate
al vecchio domicilio di Caroline. Riconobbe la calligrafia di Shura. Ne
prese in mano una: non c'era alcun timbro postale, indice che l'aveva
recapitata di persona. Si chiese quale interesse avresse mai potuto
avere Shura nei confronti di Caroline. Rinunciò a trovare un
motivo e rimise la lettera assieme alle altre, ma ricordò
che
poco prima lei aveva chiesto notizie di tutti tranne che di Shura.
Poi, spostò la sua attenzione al pacchetto che lui stesso le
aveva spedito la settimana prima del Natale del 2010. Anche quello non
era stato aperto. Se ne dispiacque, perché conteneva il
quadernetto di suo padre, Gregory Miller, che lei credeva perduto.
Forse, leggendolo, avrebbe scoperto ciò che li legava a un
destino comune ancor prima della sua nascita.
«Non ha mai scoperto la verità»,
mormorò.
Il montacarichi arrivò al piano e si fermò con un
fastidioso cigolio e un sobbalzo finale, ridestandolo dai suoi pensieri.
Si sentì un urletto divertito e la voce di Aiolos che
rimproverava qualcuno. Poi, il cancello di sicurezza venne alzato e un
bimbetto di quasi quattro anni, coi riccioli biondo scuro e lo sguardo
vispo, schizzò fuori di corsa, verso Caroline che lo
attendeva e
lo incoraggiava a raggiungerla. Di slancio lo prese in braccio.
«Ehi, birbantello! Come mai così in ritardo? Mi
avete fatto preoccupare, dove siete stati finora?»
«Lo zio Aiolos ha litigato con il suo nuovo
fidanzato»,
disse il bimbo. «Era tanto giù e per consolarlo
gli ho
offerto un gelato.»
«E come mai hai la faccia sporca di cioccolato?»
chiese
lei, con tono di finta disapprovazione, passandogli il pollice
sull'angolo della bocca.
«Non potevo lasciarlo mangiare da solo», si
giustificò lui, con un'espressione seria seria.
«E io che ti avevo preparato la Boston cream pie al
limone.»
Nel sentir nominare la sua torta preferita gli occhi verdi del bambino
si illuminaro e la sua boccuccia si spalancò in
un'espressione di sorpresa, pronto a protestare nel caso gliela volesse
negare.
Caroline gli chiuse la bocca con le dita a mo' di paperotto e gli diede
un bacio sul nasino. «Ora fai il bravo, entra e vai a lavarti
le
mani e la faccia.» Lo fece scendere e lo guardò
correre
dentro casa con la commozione negli occhi, come ogni volta che lo
vedeva ritornare dall'asilo. Era il suo miracolo. Poi, alzò
lo
sguardo verso Saga e non poté non sorridere alla sorpresa
dipinta sul suo volto. Immaginava cosa stesse pensando.
Aiolos sopraggiunse in quel momento, misurando i passi sgranocchiando
la punta del cono; in spalla portava lo zainetto del bambino. Quando
arrivò di fronte alla giovane, intravide Saga che se ne
stava
immobile poco dietro di lei e lo fissava con durezza.
Ricambiò
con altrettanto sentimento, ma il suo cuore – più
sincero
– prese a battere veloce.
«E così avete discusso ancora, eh?»
disse Caroline, distraendolo e salvandolo da quella sfida di sguardi.
Aiolos alzò le spalle senza risponderle. Ammettere
apertamente
che non riusciva a far funzionare una relazione per più di
un
mese era umiliante. Le passò lo zainetto e fece per
andarsene,
ma Caroline lo trattenne con un sorriso, dicendogli che la vita era
troppo breve e preziosa per sprecarla a tenere il muso con gli altri.
Poi, lo incoraggiò a entrare in casa riferendogli che erano
arrivati dei contratti e delle fatture che doveva controllare. Dovette
vincere le sue ritrosie per convincerlo e sospirò divertita
nel
sentirlo mugugnare che si divertiva troppo a sfruttarlo.
Due anni prima, Aiolos aveva passato a pieni voti l'esame di
abilitazione, diventando a tutti gli effetti un avvocato iscritto
all'albo del Massachusetts e di fatto l'avvocato di famiglia di
Caroline.
Il giovane osservò di sottecchi Saga, nel passargli davanti.
Quei due non si parlavano da anni, ma l'imbarazzo che provava Aiolos
era palpabile. Raggiunse in silenzio il divano e ci si
lasciò
cadere, accavallando le gambe e incrociando le braccia al petto come un
bambino messo in castigo.
Il bimbo tornò di corsa verso la porta d'ingresso, chiamando
“Mamma! Mamma!” e si aggrappò alle gambe
di
Caroline, mostrandole le mani e faccia pulite. Lei gli passò
una
mano fra i riccioli biondi scompigliati e si complimentò per
essere stato tanto bravo; poi lo invitò ad andare a giocare,
ma
lui scrollò la testa e si girò verso lo
sconosciuto:
dalla sua prospettiva era così alto che doveva piegare la
testa
all'indietro per guardarlo in faccia.
Diede un paio di strattoni ai pantaloni della madre e questa si
accovacciò. «Chi è?» chiese
in un bisbiglio.
Caroline trattenne a stento una risatina. Alzò lo sguardo
verso
Saga e sorrise, nel vederlo immobile e con gli occhi nervosi, che si
muovevano frenetici passando da lei al bambino.
«Questo signore è il tuo
papà»,
bisbigliò lei in risposta. Quelle parole però
erano state
udite anche da Saga.
«Papà...» ripeté. Fece un
passo indietro,
trattenendo il respiro. I suoi occhi erano pieni di
incredulità.
«Un figlio... mio figlio... Perché non me lo hai
detto?»
Non aveva bisogno di dubitare dell'affermazione di Caroline; la
somiglianza con il bambino era sconcertante.
Un tempo, la giovane avrebbe abbassato lo sguardo colmo di lacrime,
schiacciata dal senso di colpa, ma ora era diverso, lei era una persona
diversa. «Tu mi hai mandata via, Saga. Mi hai scacciata dalla
tua
vita senza una spiegazione, senza una possibilità, senza
niente.
Avresti cambiato la tua decisione se ti avessi detto che aspettavo un
bambino?»
«Ti ho lasciato la casa. Ti ho dato abbastanza per vivere una
vita agiata, senza bisogno di lavorare.»
«Non ho mai preso un solo centesimo di quello che avevi
predisposto per me. Non ne avevo bisogno. Era di te che avevo
bisogno», disse.
Nella sua voce, mentre pronunciava quelle parole così
risolute,
non c'era ombra di rimprovero o astio. Invece, le sue labbra erano
piegate in un sorriso delicato e i suoi occhi erano colmi di
serenità e amore.
Fece un respiro profondo e si raddrizzò un poco, posando la
mano sulla schiena del figlio.
«Lui è Anthony Saga Miller. Il mio signor
Miller.»
«Anthony», mormorò Saga, incredulo.
«Perché proprio questo nome?»
Caroline gli tese la mano, ma lui si scansò, fissandola con
occhi sgranati. Ritrovò la stessa espressione spaventata che
vide in lui al loro primo incontro e, proprio come allora, il suo cuore
palpitò di rinnovata emozione.
«Perché era il nome di tuo padre. Il tuo vero
padre.» Lo vide ancora più sconvolto, mentre in
lei non
c'era alcun segno di incertezza, né di risentimento, per
quel
passato comune che univa le loro famiglie. «Aiolos mi ha
raccontato tutto quanto. Sai, quando si ubriaca si lascia andare alle
confidenze; anche a quelle piuttosto intime, come confessare di amare
qualcuno pur sapendo di non essere ricambiato», disse,
accarezzando ancora una volta la testa bionda del figlio, che si
nascondeva dietro di lei.
Saga corrugò la fronte, sentendo un'ondata di gelosia
tentare di
prendere il sopravvento. «Perché è
rimasto con
te?»
«Perché amare qualcuno, qualche volta vuol dire
prendersi cura di chi lui ama.»
Lei gli tese di nuovo la mano.
«Non deve andare come l'ultima volta, Saga. Vieni. Vieni a
conoscere tuo figlio e a farti conoscere da lui.»
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