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Autore: titania76    26/11/2014    2 recensioni
La vita di Shion Hayes, giovane uomo d'affari di successo, viene rivoluzionata da un messaggio che non può ignorare e al quale non può sottrarsi; viene così attirato a un appuntamento in un luogo fuori mano, in un freddo e lugubre pomeriggio autunnale. Qualcuno dal suo passato, che pensava di aver cancellato per sempre, torna nella sua vita e lo fa nella maniera più inaspettata e indelebile.
Anni dopo, l'infinita catena degli eventi innescata quel lontano giorno, sconvolge la quotidianità di una tranquilla e serena famiglia americana, portandola a cambiamenti radicali e allontanandola dalla propria casa e dalla propria città.
Quello stesso destino che in passato ha tolto, nel presente dona di nuovo.
La giovane Caroline Miller, da sempre sogna di tornare alla sua natia Boston; un incontro casuale e drammatico le dà la spinta decisiva per realizzare il suo desiderio. Ed è proprio a Boston, quando meno se lo aspetta, che incontra Saga.
Il colpo di fulmine è reciproco, ma fin da subito niente è facile per loro.
Ombre provenienti dal passato di entrambi sembrano spingerli in una direzione dove segreti e omissioni rischiano di spezzare per sempre il loro legame. Saranno in grado di resistere e rimanere assieme?
Genere: Romantico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Aries Shion, Capricorn Shura, Gemini Saga, Nuovo Personaggio, Sagittarius Aiolos
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Legacy'
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XXIII


Winchester, Boston
Quell’ultimo mese era passato quasi in un lampo. La vita alla villa, sul lago Mystic, era trascorsa di nuovo tranquilla e serena: senza un problema, senza un imprevisto o incomprensione, senza tensioni nascoste o atteggiamenti diffidenti, che non fossero almeno causati da qualche inopportuno ospite che alloggiava al Country Club. In pratica, erano stati giorni contrassegnati dalla solita noiosa quotidianità nell’opulenza magnificamente ostentata di quell’angolo di paradiso che erano i dintorni del lago, alle porte di Boston. Maggio era forse il mese migliore dell’anno da passare sulle sue rive, magari per prendere il sole, oppure fra i campi da tennis all’aperto, o per approfittare del rinnovato green a diciotto buche del golf club, o ancora per godersi la natura campestre con rilassanti passeggiate a cavallo lungo i percorsi che si snodavano fra i boschetti circostanti: proprio in quel periodo era stato inaugurato il nuovo maneggio.
La primavera nei dintorni del lago Mystic era esplosa in tutta la sua bellezza. E gli Hayes, padroni quasi assoluti di tale porzione di territorio, non potevano non approfittare delle sue innumerevoli attrattive per partecipare agli eventi organizzati e rinsaldare i rapporti con la comunità, apparendo come munifici mecenati e benefattori che tanto avevano fatto in passato e tanto stavano facendo anche nel presente. Kanon in questo si era rivelato un vero portento, sorprendendo in modo piacevole Shion, che ben volentieri aveva delegato a lui quel lavoro di rappresentanza.
Accantonati i comportamenti irriverenti e le bravate da ragazzaccio, il primogenito della famiglia Hayes era diventato più dinamico e, al tempo stesso, più responsabile in tutto ciò che faceva, anche nelle attività di ufficio. Per questo, Shion gli aveva restituito i suoi precedenti incarichi in seno alla società principale. Forse tale cambiamento poteva essere dovuto in parte anche al fatto che proprio in quell’ultimo periodo i suoi interessi e quelli di Aiolos non coincidevano più. Ed era stata una cosa assai strana, perché loro due erano cresciuti come fratelli inseparabili; anzi, Kanon considerava l’amico quasi come un terzo gemello, tanto erano sempre stati complici nel fare casini.
Ma poteva veramente essere solo quello la causa? Potevano una manciata di giorni, qualche settimana al massimo, e il distacco dall’amico fraterno, far scattare in lui quel tipo di evoluzione? Oppure dietro c’era finalmente il raggiungimento di una più matura consapevolezza del suo ruolo nella famiglia e negli affari? Qualunque cosa fosse, la conseguenza più evidente era stata quella di ritrovarsi un Kanon più pensieroso e taciturno, con lo sguardo attento, ma anche un po’ stanco e greve.
Nessuno in famiglia ci aveva fatto molto caso a quel cambiamento, o se ne era preoccupato più di tanto, reputandolo un passo ulteriore nella sua crescita di uomo, nella quale finalmente iniziava a prendere con maggiore serietà la vita. Probabilmente solo occhi estranei avrebbero potuto percepire, in quell’improvvisa maturità, quel qualcosa che stonava un poco. Lei, Saori, che sempre più spesso frequentava la casa, l’aveva infatti notato e ne era rimasta incuriosita a tal punto che, non rendendosene conto, quando era in sua compagnia lo cercava in continuazione con lo sguardo, per seguire ogni cosa facesse, ma senza farsene accorgere.
Anche Saga aveva ripreso il suo ruolo all’interno della famiglia. Dopo quel breve periodo di “ribellione”, nel quale era rimasto lontano da casa dando poche notizie di sé – con l’unica eccezione di Aiolos che, svolgendo al meglio il suo incarico ufficioso, teneva regolarmente aggiornati i familiari sulle sue condizioni, tacendo però alcune informazioni – era ritornato a essere il pacato, mite e sereno ragazzo che era sempre stato e che tutti si aspettavano fosse. Da quando era tornato, tutti nella casa erano più rilassati e bendisposti. E quando Saga stava bene, anche tutti gli altri stavano bene.
A Kanon aveva iniziato a pesare un po’ quella condizione di iperprotettività nei confronti del gemello, quel senso generale di allerta che li faceva scattare tutti quanti preoccupati, lui compreso, ogniqualvolta il principino della casa aveva il minimo problema; ma doveva ammettere però che vedere il gemello sereno rendeva sereno anche lui, che vedere Saga soddisfatto, lo tranquillizzava e gli faceva tirare un sospiro di sollievo. Provava sentimenti contrastanti, talvolta gelosia, ma alla fine prevaleva sempre l’affetto per quel fratello che aveva rischiato di perdere troppo presto e che era rimasto indietro, a quel lontano dicembre del 1998. Era così almeno che lui riteneva stessero le cose: ai suoi occhi Saga era – e sempre sarebbe stato – l’adolescente malaticcio di un tempo, incastrato nel corpo di un adulto dall’aspetto uguale al suo. A volte, soffermandosi a guardarlo sorridere e parlare con qualcuno, oppure anche solo seduto a leggere un libro, o a sorseggiare il caffè in poltrona davanti alla televisione, si domandava come sarebbe stata la vita di entrambi senza quel famoso episodio che aveva scombinato la vita di tutti; se il loro rapporto sarebbe stato lo stesso, o se invece le loro strade si sarebbero divise prima.
Quel punto di svolta era stato una benedizione per loro due, per il loro rapporto, oppure si era rivelato una catena che teneva saldo il loro legame, ma nel modo sbagliato?
In fin dei conti però, a lui non dispiaceva affatto quella situazione di dipendenza che suscitava Saga, ma percepiva anche un sempre più evidente bisogno di conoscere ogni aspetto della vita del suo gemello, soprattutto ora che lo sentiva gradualmente allontanarsi da lui. E allora si fermava a domandarsi: chi dei due era davvero dipendente dall’altro? Chi dei due aveva davvero bisogno del sostegno dell’altro? Chi stava rimanendo indietro?
Lasciò cadere la matita sulla pagina del rapporto che stava correggendo, osservandola rotolare lentamente, prima sulla superficie bianca e poi su quella di legno, per terminare il suo percorso a pochi centimetri dal bordo della scrivania. Se fosse caduta a terra sarebbe stato un interessante diversivo a quei suoi pensieri che si stavano facendo troppo malinconici per i suoi gusti. Era tutta la mattina che se ne stava appartato in biblioteca a lavorare, interrotto solo da un paio di telefonate al cellulare con il padre e qualche fugace partita a Spider al computer, giusto per spezzare il carico e non arrivare al completo esaurimento delle sue funzioni cerebrali. Nessuna però gli era riuscita e invece di ottenere un poco di svago si era solo innervosito.
Sprofondò nella poltrona in pelle, con i gomiti appoggiati ai braccioli e la punta delle dita congiunte. Se ne rendeva conto anche da solo di essere diventato un po’ ombroso in quell’ultimo periodo e questo gli dava ulteriori pensieri. Con uno sbuffo annoiato diede una spinta coi piedi per scostarsi dalla scrivania e poi si alzò dalla poltrona, stiracchiandosi la schiena e lasciandosi andare anche a uno sbadiglio svogliato. Da una delle finestre aperte della biblioteca entrava il calore del sole, accompagnato da un refolo di vento; e con esso anche il profumo dei fiori e delle piante del giardino.
Kanon si avvicinò e diede una sbirciata fuori: quel tepore che gli accarezzava il viso era piacevole. Si concesse qualche secondo di straniamento, chiudendo gli occhi per godersi quel momento. In lontananza gli parve di sentire delle voci e delle risate allegre, ma quando riaprì gli occhi, aspettandosi di scorgere qualcuno, non vide nessuno. Pensando di aver riconosciuto la voce di Saori aveva sorriso un poco; e quella lieve piega sulle labbra non si era cancellata, nonostante la constatazione di essersi ingannato. Quello che era stato un fugace pensiero sulla giovane finì per occupare la sua mente fino a mette in secondo piano tutto il resto: in quei giorni l’aveva vista perdere gradualmente la sua iniziale timidezza, così come quella rigida compostezza che la faceva sembrare sempre sulle sue, per mostrarsi più aperta e spontanea, seppur senza dare ancora troppa confidenza. Doveva riconoscerlo, nonostante la sua giovane età, Saori era una bella ragazza, educata, colta, elegante: ai tempi del vecchio Abraham Hayes sarebbe stata perfetta come moglie di un Hayes; forse... lo sarebbe stata anche adesso.

Si servì due dita di Scotch con ghiaccio e tornò alla finestra, appoggiandosi con la spalla allo spigolo del muro e la mano nella tasca dei jeans. Ne prese un sorso, gustandolo lentamente per assaporarne appieno l’aroma. Un leggero senso di bruciore gli invase la gola, scendendo poi giù, fin nello stomaco. I suoi occhi si fissarono su qualcosa di invisibile, un punto lontano: forse, ciò che stava guardando, era la visione del suo prossimo futuro... e riprese a pensare.
Fino a poco tempo prima, ogniqualvolta il rampollo degli Hayes incrociava sulla sua strada quegli stranieri, o quando veniva anche solo accennato l’argomento con qualcuno, dentro di sé si rammaricava dell’avventatezza giovanile che lo aveva portato ad accettare con troppa enfasi un futuro già segnato. Ricordava che a quel tempo si era immaginato solo gli aspetti positivi della vicenda: una posizione importante a capo di una multinazionale – indipendente dall’impero del padre – condita da successo, potere e soldi.
Si bagnò appena le labbra con un altro piccolo sorso del drink, sospirando. Ricordava con nostalgia quando aveva raccontato quelle fantasie al gemello, profondendosi in monologhi entusiastici, gonfiando il petto d’orgoglio e vanità, decantando i vantaggi e le infinite possibilità di quel suo futuro, mentre l’altro era quasi un prigioniero nella sua stessa casa. Forse a quel tempo non aveva notato la delusione che Saga non era riuscito a mascherare del tutto, dietro le apparenti felicitazioni che gli aveva fatto e i sorrisi partecipi a quei discorsi, ma poco gli era importato, troppo concentrato su se stesso. Mai un solo istante si era preoccupato di spendere del tempo a considerare davvero a quali rinunce sarebbe andato incontro.
Si passò la mano sul viso, aggrottando la fronte per un momento. Quanti pensieri si stavano accavallando nella sua mente, per un semplice break che si era concesso dal lavoro.
«Che palle…» sbuffò un poco innervosito. «Se è questo che significa essere adulti, allora preferisco continuare a fare lo scemo.»
Non ci credeva nemmeno lui alle parole che gli erano appena uscite dalla bocca, in quel sussurro malinconico, sottintendendo il fastidio che gli davano quelle continue ondate di pensieri che lo stavano sfibrando ancor più che se avesse partecipato alla riunione annuale di tutti i contabili della corporation per la revisione dei bilanci.
Scrollò il capo con vigore, lasciando agitare liberi alla luce del sole i suoi fluenti capelli biondi che non avevano nulla da invidiare a quelli del gemello, provando a scacciare quei pensieri che si stavano intrufolando di nuovo nella sua testa. Ancora una volta gli parve di udire la voce di Saori, allegra e gioviale, provenire dal giardino.
Quanto gli ci era voluto per iniziare ad accettare davvero quella stramba idea? Qualche settimana? Perché negarlo era ormai impossibile: seppur tanto, troppo giovane, non sarebbe stato un grande scandalo averla come moglie, sempre che i sentimenti fossero reciproci.
Sospirò, scrollando di nuovo la testa.
Se solo avesse ragionato di più le cose sarebbero andate diversamente. Il padre una scelta gliel’aveva data. La possibilità di rifiutare quella proposta e di scegliere un’altra strada gli era stata messa lì, a portata di mano; Shion non glielo avrebbe mai rinfacciato. Anzi, forse sarebbe stato addirittura orgoglioso di lui. Ma a quindici anni era troppo stupido e arrogante; e i due piatti della bilancia che gli erano stati presentati gli erano sembrati così sproporzionati da non lasciargli effettiva scelta, considerata anche la sua indole. Se il padre glielo avesse proposto ora, da adulto, non ci avrebbe pensato due volte a dire di no, perché nel suo cuore c’era già una persona speciale, anche se non era così sicuro sarebbe stata quella giusta o meno.
Avvicinò il bicchiere alla bocca, senza però toccarlo con le labbra, ma soffermandosi un secondo di più a sentirne l’aroma. Il liquido ambrato mandò dei piccoli bagliori ai raggi del sole.
«Kanon!»
Il ragazzo, completamente perso nei suoi pensieri, sobbalzò nel sentire chiamare il suo nome con quello che gli parve un tono quasi allarmato. Si girò di scatto e vide il gemello sulla soglia della biblioteca, col viso leggermente arrossato e un lieve fiatone che gli faceva alzare e abbassare il petto in modo irregolare.
«Non credi che sia troppo presto per bere?» lo ammonì Saga.
Kanon avrebbe voluto rispondergli con una battuta del tipo “Da qualche parte nel mondo è l’ora giusta per bere”, ma si trattenne per risparmiarsi l’eventuale paternale che l’altro avrebbe potuto fargli. Invece, lo squadrò dalla testa ai piedi, osservandolo avanzare nella stanza e avvicinarsi a lui. Sembrava proprio il classico ragazzotto benestante e perditempo, con nessun pensiero o preoccupazione in testa, se non quello di divertirsi, che si vedeva nei vecchi telefilm polizieschi come Matlock, o Murder, she wrote che guardava di nascosto da adolescente.
Scarpe da ginnastica, pantaloncini corti, maglietta polo e pullover legato sulle spalle, tutto rigorosamente bianco panna, ma con qualche dettaglio in blu scuro e l’immancabile sorriso di chi è in perenne vacanza.
«Sei pronto per partecipare al torneo di Wimbledon?» gli domandò, con una mezza smorfia sulle labbra, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto assomigliare a un sorriso e invece era un qualcosa di indefinito.
Saga rispose alla sua battuta con un sorriso sereno, senza malizia, che fece sorridere più sinceramente anche lui.
«Sua maestà la regina aspetta anche te», replicò il gemello, battendo leggermente la racchetta sulla spalla.
«Allora dovrà attendere un bel po’!»
«Ma eravamo d’accordo per un doppio…» sussurrò un poco deluso Saga.
«Lo so. Mi dispiace, fratellino, ma ho troppo lavoro arretrato. Devo preparare un rapporto generale dettagliato e il nostro caro e amorevole genitore lo pretende per quando tornerà a casa questa sera.»
Il primogenito si avvicinò di nuovo alla scrivania, appoggiandovi il bicchiere e passandosi poi una mano fra i capelli, pettinandoli all’indietro e sospirando stancamente. Non ne poteva più di tutte quelle carte.
Borbottò qualcosa di incomprensibile, osservando il rapporto preliminare che era aperto sulla scrivania e che fino a una mezz’ora prima stava tentando, con poco successo, di studiare. Si appoggiò con entrambe le mani sulla scrivania, sbuffando scocciato. Il suo sguardo si spostò sugli altri rapporti, quelli accatastati in bella mostra alla sua sinistra, ancora da leggere e valutare. Il solo pensiero gli faceva venire il mal di testa.
«Io credo che un po’ di svago non possa che farti bene», disse Saga, raggiungendo il fratello e sedendosi sulla poltrona.
Kanon alzò un poco lo sguardo sul fratello. Con quell’angolazione particolare i suoi occhi sembravano quasi incolleriti per le parole che l’altro aveva appena pronunciato, nonostante lui non sentisse certo quel sentimento nei confronti del gemello; anzi, era ben felice di averlo vicino a sé. Ma era anche vero che un po’ gli aveva dato fastidio il suo atteggiamento. Era come se non si rendesse conto del momento che stava vivendo e dello stress che quella mole di lavoro gli provocava.
«Tieni!» Saga gli puntò la parte rotonda della racchetta contro il petto, spingendo un poco in modo scherzoso, senza far troppo caso allo sguardo scocciato dell'altro. «Prendi il mio posto e sfogati al Country Club. Tanto il campo cinque è prenotato per tutto il giorno; e poi ci sarà anche Aiolia! Non vorresti dargli una bella lezione come ai vecchi tempi? Per non parlare di quel Seiya. Sono sicuro che appena inizierai a prenderlo a pallate ti sentirai subito meglio!»
«Non sai quanto mi piacerebbe, ma non me lo posso permettere», rispose Kanon, scostando la racchetta.
«Certo che puoi!» ribatté Saga, infastidito perché lo vedeva così avvilito e rinunciatario. In quel momento non lo riconosceva più. Kanon non era mai stato così: era un ribelle, uno che amava divertirsi e cogliere al volo ogni occasione per fare un po’ di casino. «Ci penso io a smaltire questo lavoro e poi ti passerò un resoconto dettagliato.»
«Come quello dell’altra volta?» disse Kanon, con una punta di malizia nella voce.
«Nessun trucco od omissione, questa volta», lo rassicurò Saga, con un sorriso disteso, ma guardandolo dritto negli occhi.
Kanon rimase sbalordito davanti all’atteggiamento risoluto del fratello. Durò solo una frazione di secondo, ma in quello sguardo così deciso vide qualcosa di strano, che riuscì a turbarlo. Era come se all’improvviso si fosse reso conto che qualcuno gli aveva sottratto qualcosa di importante senza riuscire a impedirlo. Saga era diverso rispetto alle ultime settimane, ma in qualche modo era diverso anche da quegli ultimi tredici anni. C’era una luce particolare in quei suoi occhi verdi, dietro alla loro limpidezza e alla sincerità che li aveva sempre contraddistinti, c'era una nuova consapevolezza e una ritrovata gioia di vivere. Un fugace tuffo nel passato, a quando loro erano bambini e la vita era ancora solo un gioco.
Avrebbe dovuto rallegrarsi per quelle sensazioni, ma non sapeva spiegarsi il perché non ci riuscisse; non in quel momento, almeno. Da un lato gli dava fastidio vedere Saga con un atteggiamento così aperto e socievole, col sorriso sempre disegnato sulle labbra e una spensieratezza che talvolta gli sembrava fuori luogo, mentre lui si sentiva come soverchiato di preoccupazioni, di pensieri e… più vecchio di quanto non fosse in realtà. D’altro canto però, dietro un’invidia che non si faceva scrupoli di far capolino nella sua mente – e che non aveva il coraggio di confessare neanche a se stesso – si sentiva decisamente più sollevato nel vederlo di nuovo entusiasta, scherzoso e, perché no, anche un po’ infantile, ma nel senso buono.
In quell’ultimo mese erano tornati a essere più inseparabili che mai, eppure Kanon aveva avvertito che qualcosa era cambiato. Se n’era accorto già da tempo, ma ora era più evidente: il suo gemello era permeato da una serenità più piena, era più sicuro e più maturo. Ai suoi occhi, Saga mostrava un mix incredibile di emozioni colorate, più vere, che nulla avevano in comune con la monocromatica aura che lo aveva avvolto e protetto come una barriera, negli anni passati. Continuò a osservarlo, seduto alla scrivania, lasciando che il tempo scorresse libero, assaporando quella sensazione di affetto che sentiva spandersi nell’austera biblioteca. Sorrise a tutti quei pensieri, così diametralmente opposti a quelli che avevano invaso la sua testa quella mattina e gli stavano facendo uno strano effetto.
«Cosa ti ha fatto cambiare in questo modo?» mormorò, preferendo puntare il suo sguardo sul rapporto che Saga teneva in mano e che aveva appena iniziato a leggere, anziché sul gemello stesso.
«Hai detto qualcosa?» chiese Saga, alzando la testa.
«Stavo notando che c’è qualcosa di diverso in te.»
Kanon non badò alla perplessità dipinta sul viso dell'altro, si liberò un angolo della scrivania e vi si sedette, tornando a fissarlo. Ora se ne stava rendendo conto per davvero: di fronte a lui non c'era il debole Saga, quello sempre bisognoso di protezione perché incapace di reggersi sulle proprie gambe; non c'era il fragile Saga che al primo soffio di vento rischiava di dissolversi come un lieve miraggio; non c'era il cagionevole Saga che bisognava vegliare per tutta la notte per assicurarsi che lui si sarebbe svegliato il mattino seguente.
Sentì qualcosa incrinarsi dentro di sé e forse… forse finalmente comprese il significato di quell’improvviso vuoto e quel senso di solitudine che lo aveva angosciato qualche settimana prima. La spiegazione era così semplice. Non era abituato ad avere a che fare con un fratello che ora aveva la forza di affermare la propria indipendenza.
Ma ora, quale sarebbe stato il suo ruolo se il gemello avesse continuato per la propria strada senza aver più bisogno del suo sostegno? Forse lo spaventava un rapporto paritario con Saga?
«Ti senti bene?» gli chiese Saga, con voce preoccupata, trovandosi ancora sotto esame dallo sguardo ora corrucciato del gemello.
«Grazie, fratellino. Mi stai salvando la vita», disse Kanon, abbracciandolo all’improvviso, senza dargli ulteriori spiegazioni, ma lasciandolo ancor più esterrefatto e senza fiato per quel gesto.
Certo non poteva rivelargli ciò che davvero gli dava pensiero, si era quindi limitato a stringerlo forte, come se da un momento all’altro gli potesse sfuggire.
«Va bene, va bene…» ansimò Saga. «Ora però sparisci, prima che cambi idea. Ma domenica prossima mi devi una partita!»

Non appena vide sparire il fratello oltre la soglia dalla biblioteca, Saga tirò un sospiro di sollievo e si rilassò. Accantonò subito il lavoro che si era offerto di fare e per qualche secondo si dondolò sulla poltrona, pensando a come organizzarsi. Poi, da uno dei cassetti prese una piccola agendina con la copertina di pelle grigia, avvicinò a sé il telefono e compose il numero, attendendo.
«Martin!» chiamò, non appena sentì il “pronto” dall’altra parte della linea. «Smuovi il sedere e vieni alla villa, c’è del lavoro urgente da fare!» ordinò con tono deciso, ma se l’altro fosse stato nella stanza con lui, avrebbe visto un mezzo sorrisetto sulle sue labbra.
«Ma… capo, è sabato! Avevo organizzato un barbecue e una partita a poker con alcuni colleghi! Non si può rimandare a lunedì?» azzardò l’uomo, con voce un poco lamentosa. Anche se Saga non aveva un ruolo ufficiale nella società di famiglia, era sempre bene non contrariare troppo un Hayes.
«Scommetto che ci sono anche Jimmy e Stu, vero? Ottimo! Porta anche loro, più siamo e prima finiamo!»
Un analista di mercato, un contabile, un assistente legale… e poi c’era lui, il jolly del gruppo, che in sé racchiudeva le medesime competenze di tutti gli altri, ma che si era scelto il ruolo più semplice di dattilografo e di supervisore. Nel corso degli ultimi anni, Saga aveva formato quel piccolo team molto efficiente e affiatato, col quale svolgeva al meglio il lavoro che gli veniva assegnato dal padre e, all'occorrenza, prendendo in consegna anche quello di Kanon, ottenendo sempre ottimi risultati.
Attese per diversi secondi che dall’altra parte l’uomo replicasse qualcosa, ma alle sue orecchie arrivavano solo dei respiri incerti e nervosi.
«Sai, Martin, mi ritrovo fra le mani un paio di biglietti per quel match tanto atteso al Madison Square Garden. Sono posti riservati, in ottima posizione… ma non so cosa farci. Mi dispiacerebbe se andassero sprecati. Tu mi avevi detto che ti interessava quell’evento, non è vero?» gli chiese, con voce pacata, quasi melliflua.
Saga era certo che sarebbe bastato solo un piccolo incoraggiamento per ottenere ciò che voleva e la conferma gli arrivò pochi istanti dopo con un verso strozzato dell'impiegato che fece ben intendere che avrebbe ceduto a quella richiesta. Gli concesse mezz’ora per presentarsi da lui, passando naturalmente dall’accesso secondario, quello che costeggiava il lago. Terminata la telefonata chiuse gli occhi, soddisfatto e si rilassò completamente. Non gli restava che vincere la sfida con Kanon per ottenere quei famosi biglietti e tutto si sarebbe incastrato alla perfezione. Quella era la parte più facile: Kanon era un ottimo atleta, uno sportivo d’eccellenza, imbattibile a basket e a hockey, ma a tennis non aveva speranze contro di lui. Negli ultimi dieci anni Saga non era mai stato battuto e non lo sarebbe stato neppure questa volta, vista la posta in palio.
Nel silenzio della biblioteca si sentì il lieve suono della vibrazione del suo smartphone. Sul display comparve il nome di Jenny, storse la bocca in una smorfia nel leggerlo. Continuò a fissarlo fin quando non smise di vibrare e tirò un sospiro di sollievo. Non che gli desse fastidio che lei lo volesse contattare dopo tutte quei mesi di silenzio, ma sapeva bene cosa voleva da lui e ora non c'era più possibilità di rimettersi assieme.
Non riuscì a terminare quei pensieri che il cellulare si animò una seconda volta: ancora una volta era lei. Saga scelse di non rispondere e di nuovo attese. Poi fu la volta di un messaggio. A questo poteva anche dare un'occhiata. Se ne pentì subito: il tono era drammatico e teatrale come solo Jenny sapeva essere, gli comunicava che al ritorno dall'Europa Cicci e lei avrebbero passato tutto il mese di settembre al Country Club e non vedevano l'ora di stare con lui.
Si lasciò andare a una risatina, mentre cancellava il messaggio; fece un pensierino anche se cancellare in maniera definitiva dal cellulare il contatto di Jenny, ma ci ripensò. Appoggiò lo smartphone sulla scrivania e si concesse qualche altro secondo per rilassarsi.
Certo, non aveva programmato di farsi carico del lavoro di Kanon, ma almeno per qualche ora sarebbe stato in pace con i propri pensieri e soprattutto non avrebbe dovuto fingere una spensieratezza che in quell'ultimo periodo non gli apparteneva. Presto però, le cose sarebbero cambiate.

Si alzò di slancio dalla poltrona e, dopo essersi messo in tasca il cellulare, a passo spedito, andò in cucina, dove Francine stava lavorando con dedizione, nonostante quel giorno avrebbero pranzato tutti al Country Club. Si annunciò con qualche colpetto di tosse, avvicinandosi poi piano, con accortezza, poiché la donna non reagiva molto bene alla gente che le arrivava alle spalle di soppiatto e soprattutto non le piaceva essere controllata nel suo lavoro.
«Buongiorno, Francine», la salutò, sfoderando il suo miglior sorriso e lo sguardo più dolce che fosse in grado di fare.
La donna mosse il capo in risposta, ma continuò a tritare le erbette aromatiche che aveva sul tagliere.
«Avrei da chiederti una piccola cortesia…» Un toc un poco più forte lo mise in guardia dal non osare troppo. Sospirò. «Vorrei organizzare qualcosa di speciale per la cena di domenica prossima.»
La donna ebbe un leggero tentennamento col movimento della lama. Poi, lentamente, alzò lo sguardo sul giovane padrone di casa. Non era certa di ciò che il ragazzo stava per chiederle, ma sperava di avere un po’ di libertà per il menù.
«Ci sarà un ospite particolare, molto importante per me, e…» Saga trattenne per un attimo il respiro, sotto lo sguardo torvo della cuoca. Non che la donna lo mettesse in soggezione, anche se era in qualche modo la pupilla di Nanny e lei sì che sapeva mettere in riga la gente quando serviva, ma bisognava lo stesso andarci cauti con lei. «Come te la cavi con la cucina italiana?» azzardò.
«Le ho mai preparato qualcosa che non fosse buono?» ribatté lei in risposta, lasciando il coltello sul tagliere e incrociando le braccia al petto. Quella domanda l’aveva percepita come una mancanza di fiducia nei suoi confronti e, posta in quel modo, le era parsa persino offensiva.
«La nostra Francine si è già cimentata nella cucina italiana regionale e con gran successo, dovresti saperlo bene!» disse Nanny, entrando in quel momento nella stanza e avvicinandosi alla donna. «E se tu ci fossi stato, quando abbiamo mangiato quel meraviglioso brasato, adesso non avresti bisogno di fare una domanda tanto sciocca», lo rimproverò.
Per la prima volta in vita sua, Saga stava sperimentando com’era mettersi contro due donne e sentirsi letteralmente sbattuto all’angolo: da un lato c’era la cuoca che lo guardava un poco risentita, dall’altro invece, Nanny aspettava una spiegazione e delle scuse da parte sua. Dopo tutti quei giorni, il giovane non si era ancora confessato con lei e questo stava iniziando a diventare una brutta abitudine. Soprattutto, l’anziana donna sentiva che il suo piccolo si stava allontanando dalla sua ala protettrice.
«Ehm… sarebbe quindi improprio chiedere di replicare lo stesso piatto, vero?» domandò lui, con timido imbarazzo.
Nanny voltò lo sguardo verso Francine, rivolgendole una tacita domanda e questa, sbuffando pensierosa, annuì la testa.
«Qualunque cosa vorrai venisse servita a questa cena, Francine saprà di sicuro accontentarti.»
La fiducia della governante di villa Hayes nelle capacità della cuoca era ben riposta, non solo perché la donna non aveva mai mancato di sfoggiare le sue doti culinarie che l’avevano resa un’esperta della cucina americana, ma grazie a quella sua passione era diventata una fine conoscitrice anche di quella europea. Non a caso il suo sogno nel cassetto era da sempre un tour gastronomico nelle più belle città francesi e italiane.
«Vuole qualcosa di particolarmente oppure restare nel classico? Freddo o caldo? Impegnativo oppure leggero?» domandò con tono burbero la cuoca; e sarebbe andata avanti ancora per un bel po’ con quelle domande, se non avesse notato come il giovane fosse stordito da tante opzioni.
«Credo… credo…» Saga si portò una mano alla testa, grattandosi la fronte leggermente aggrottata; stava provando a ricordare se lei gliene avesse parlato o meno. «Cucina del Nord Italia», disse, anche se non ne era certo. «Francine, ti do piena libertà nella scelta!» disse, provando in quel modo a riconquistare i favori della cuoca, semmai li avesse mai avuti.
La donna era un individuo assai indecifrabile per ognuno dei membri di quella famiglia e nessuno, a esclusione di Nanny naturalmente, sapeva come prenderla per il verso giusto. E poi, se ripensava a quante volte aveva fatto il difficile con i piatti che lei gli aveva cucinato, quando era malato… con tutta probabilità lui era quello visto meno di buon occhio dalla cuoca.
«Qualcosa di speciale, particolare… magari rustico, ma unico! Che faccia venire nostalgia di casa», concluse, con uno strano sorriso imbambolato disegnato sulle labbra.
Nanny sospirò, scrollando la testa. Vedere così il suo piccino le faceva uno strano effetto. Era infine arrivato anche per lui il tempo provare il vero amore e lei non poteva farci nulla, non poteva fermare il tempo e proteggerlo da tale sentimento. E al diavolo le altre storie che aveva avuto negli anni passati, lo sapeva bene che non avevano mai avuto alcun valore. In quell’aspetto Saga era proprio come Shion. Ma ora… ora era diverso. Lo sguardo languido del giovane era lo stesso che lei aveva visto negli occhi di suo marito durante i primi anni di matrimonio, prima che si rivelasse il buono a nulla che era; e, a malincuore, doveva ammettere che era lo stesso sguardo che aveva visto negli occhi di Georgie – e che ancora vedeva – quando aveva conosciuto quel disgraziato del suo genero.
«L’amore…» sospirò lei, con gli occhi che erano diventati un poco lucidi.
«Va bene!» acconsentì la cuoca, riprendendo in mano il coltello e ricominciando a tritare, ancor più finemente, le erbette sul tagliere, che sarebbero servite per la marinatura dei filetti di salmone che erano in programma per la cena. C’era però qualcosa di diverso da prima: i toc rimbombavano pericolosamente più secchi e nervosi di prima.
Saga rimase ancora qualche minuto in cucina, ma più passava il tempo, più si faceva largo la consapevolezza che quel luogo diventava meno sicuro per la sua salute. Se avesse provato a disturbare ancora Francine, avrebbe di sicuro rischiato la vita. Preferì salutare educatamente le due donne e svignarsela, rinunciando a soddisfare il languorino che saliva dal suo stomaco: certi odorini, che si spandevano in quell’ambiente, avrebbero risvegliato l’appetito anche di un morto.

Salì di corsa, a due a due, i gradini dello scalone principale, con il cuore che batteva forte nel petto e si rintanò nella sua camera da letto. Presto sarebbero arrivati i suoi collaboratori, ma aveva ancora alcuni minuti tutti per sé. Una volta nel suo rifugio, il sorriso che aveva continuato a mostrare a tutti quanti lasciò posto a una maschera di triste malinconia. Lì dentro poteva liberare i suoi veri sentimenti, senza correre il rischio che qualcuno lo assillasse per saperne il motivo. In quell’ultimo mese aveva sperimentato ancora di più quanto potesse essere pesante e opprimente lo sguardo di tutti su di sé e il dover misurare ogni azione per non far trasparire il disagio che provava a essere studiato così al microscopio.
Lì era libero. Fece un respiro profondo: presto non avrebbe dovuto più fingere di essere sereno e spensierato.
Come un fanciullo birichino si lasciò cadere sul letto, osservando le piccole ombre sul soffitto che animavano quella tela bianca. Respirava con lentezza, sorridendo, mentre accarezzava con la mano il copriletto chiaro. La luce del sole entrava invadente nella stanza; un refolo di vento smuoveva le tende leggere in una danza delicata e armoniosa.
Prese il cellulare dalla tasca e si girò sul fianco. Attivò lo schermo, aprì la casella dei messaggi e rilesse l'ultima chat tenuta con Cora. Il sorriso tornò a fare capolino sulle sue belle labbra. Era rimasto sdraiato, a sognare a occhi aperti, per per almeno cinque minuti buoni. Poi, con improvvisa apprensione diede guardò l’ora, tirando un sospiro di sollievo: aveva tempo.
Si alzò dal letto e si affacciò alla finestra aperta, senza però uscire sul balconcino, che Kanon, in un momento di particolare malizia, aveva ribattezzato di Romeo. Non se l’era presa per quella presa in giro, ma da quel momento in avanti si era sentito un poco in imbarazzo ad affacciarvisi. Col cellulare ancora in mano aprì la rubrica e selezionò il numero di Cora. Lasciò squillare per diverse volte, aspettando paziente.
«Ciao», la salutò con un sorriso. Dall’altra parte ci fu un leggero ansimo, poi anche lei rispose. «Come vanno le cose da te?»
«Tutto bene. Mia madre mi fa impazzire; non mi lascia sola neanche quando voglio uscire a fare spese o a fare una passeggiata! E da te?» chiese lei, trattenendo il respiro.
«Qui è sempre tutto grigio… perché non sei con me.» Dall’altra parte della linea Saga sentì una risatina divertita, nonostante Cora avesse cercato di camuffarla. «Troppo sdolcinato?» disse, per nulla in imbarazzo, né offeso.
«Sì. Però mi piace.»
«Mi manchi», disse all’improvviso Saga, con tono più serio, ma c’era anche tanta dolcezza nella sua voce e un poco di malinconia.
«Mi manchi anche tu», replicò lei, sospirando. «Mi hai chiesto di tornare dalla mia famiglia e l’ho fatto; mi hai chiesto di rimanere qui per qualche giorno e l’ho fatto. Ma quando potremo stare di nuovo assieme?»
Saga non poteva vederla ma lo sentiva che dietro l’emozione che permeava la sua voce si nascondeva tanta tristezza e forse anche un velo di risentimento.
«La casa è ormai pronta. Volendo, potresti tornare anche subito», le disse, «ma…» Fece una pausa, mordendosi il labbro; non sapeva come lei avrebbe preso una richiesta del genere. «Vorrei che tu rimanessi lì ancora un po’. Voglio che tutto sia perfetto per quando ti presenterò in famiglia.»

*****

Philadelphia
Come ogni volta che sentiva la sua voce, o riceveva un messaggio da lui, l’umore di Cora schizzava alle stelle. Quell’euforia durava qualche ora, le faceva sembrare tutto bello, le dava infinite energie per fare qualsiasi cosa e poi, come se le batterie si scaricassero all’improvviso, cadeva in un lieve stato di malinconia e inedia.
Talvolta si sentiva fuori posto, in quella che era stata la sua casa dopo che sua madre e lei – assieme al fratellino ancora in fasce – se n’erano andate da Boston; si sentiva come un’ospite non sempre gradita, come un’estranea. Lei stessa faceva poco o nulla per migliorare quello stato di cose. Tutti in casa si erano un po’ abituati a vederla così.
In quelle occasioni, Teresa provava a scuoterla, a coinvolgerla nella cucina, nella stesura dell'ultima bozza a cui stava lavorando, o in qualsiasi altra cosa le passasse per la mente per distrarla: qualche volta ci riusciva, altre volte invece preferiva non insistere troppo, per non peggiorare le cose.
Phillip non vedeva di buon occhio quella situazione, ma immaginava bene a cosa potesse essere dovuto quel suo comportamento. Sapeva che in qualche modo c’entrava il tizio col quale lei ora viveva, però non aveva mai esternato le sue preoccupazioni con la compagna per non generare altre preoccupazioni e successive discussioni. Aveva sempre confidato nel buon senso della sua figlioccia e così avrebbe continuato a fare, ma al primo sentore di problemi non avrebbe esitato a risolvere a modo suo. Su quel punto era stato fin da subito molto chiaro con Cora.
E Mike… lui era un solo ragazzino che stava entrando nella fase problematica dell'adolescenza. Si era stufato presto della situazione e aveva continuato con la sua vita come nulla fosse. Del resto, sapeva che prima o poi la sorella se ne sarebbe andata di nuovo, dimenticandosi di lui.
Era passata quasi una settimana dalla richiesta di Saga di rimanere a Philadelphia e pazientare ancora un poco. In quegli ultimi giorni il comportamento di Cora aveva iniziato a cambiare gradualmente. Aveva iniziato a sentirsi strana, più stanca e assonnata del solito e anche più volubile di quanto non fosse già di natura.
Quel giorno, nonostante fossero le undici e mezza passate di mattina, la ragazza si era ritirata in camera sua e si era stesa di nuovo sul letto, accoccolandosi per bene sotto la coperta e stringendo al petto uno suoi vecchi peluche. Nei primi tempi le era parso strano tornare a dormire nella sua vecchia stanza, ma non aveva potuto farci nulla: l'appartamento che la madre le aveva comprato e che per tanti anni aveva condiviso con Chris, era stato dato in affitto a una giovane coppia di professionisti. Non poteva certo pretendere di rompere il contratto e cacciarli da lì solo per qualche settimana che si sarebbe fermata in città. E quella non era stata l’unica novità che aveva trovato: Chris era tornato a vivere dai genitori, almeno per il tempo che rimaneva prima del suo trasferimento in California; ma non solo, l’aveva anche sostituita all’agenzia investigativa dello zio Phil! Ed essendo lui uomo, lo zio lo portava spesso in “missione” con sé.
Cora iniziò a tormentarsi le dita, sbuffando e sospirando, agitandosi e rigirandosi nervosamente sul materasso. Le sembrava di essere diventata la protagonista adolescente di un filmetto rosa, preda dei primi amori: sempre con le farfalle nello stomaco, un sorrisetto ebete stampato sul viso e negli occhi le perenni fantasie di una vita assieme alla sua anima gemella.
Quella situazione, a dire il vero, in parte l’aveva già vissuta. Non era stato certo tutto cuoricini rosa e occhioni sbrilluccicanti con Chris, ma quell’impazienza, la voglia di vivere assieme a lui, in una casa tutta loro… erano le medesime che sentiva in quel momento, con la sola differenza che – anche se non riusciva a capirne il motivo – questa volta non voleva confidarsi con nessuno su ciò che provava e per chi lo provava.
Si girò sul fianco, schiacciando quel povero gufetto di peluche che teneva stretto a sé e che aveva visto giorni migliori. Con gli occhi chiusi, affondò il viso nella morbida pelliccia sintetica, mentre ripensava di nuovo a quegli ultimi giorni trascorsi a Boston: i più felici della sua vita, a dispetto di quello che aveva detto Saga, ovvero che si sarebbe stancata di vederlo gironzolare per casa senza niente da fare. Forse, complici anche i lavori per risistemare l’appartamento e i tanti progetti che avevano discusso, non c’era stato mai un attimo di vera noia. Le era sembrata quasi una maledizione, uno strambo e innocuo stalker che la seguiva ovunque andasse ad abitare, quel continuo dover impacchettare e spacchettare le sue cose, spostare, smontare, coprire con i teli di plastica e i fogli di giornale tutto quello che doveva essere salvaguardato. Ma in fondo, un po’ la divertiva pure. Le era sempre piaciuto rivoluzionare la casa. In quell’occasione aveva visto in Saga un lato che non immaginava potesse avere; si era sorpresa di scoprire che il ragazzo che amava era un bravo architetto, nonostante non avesse mai studiato tale materia.
E poi, le notti: belle e romantiche, dolci, passate a parlare, a fare l’amore, a coccolarsi e prendersi cura di Kitty che proprio in quei giorni era stata portata di nuovo dal veterinario, ma questa volta per essere sterilizzata. Non che le volessero male, ma non sarebbe stato facile, né pratico, dover gestire la gattina in condizioni “diverse”, così come non avrebbero potuto, di conseguenza, tenere altri cuccioli. Forse era in qualche modo crudele ed egoistico, ma perché mettersi in una situazione che poi non avrebbero potuto gestire?
«Kitty…» mugugnò, un po’ in pensiero per quella gattina.
Ancora non erano diventate anime gemelle, né poteva dire di andare d’accordo con quella piccola peste, ma ormai si stava affezionando a lei; e poi, Saga l’adorava e quella palletta di pelo ricambiava fin troppo. Cora ci passava sopra, perché nonostante la sciocca gelosia che sentiva nei confronti dell’animale, era bello vedere Saga sorridere quando giocava con lei. Le era dispiaciuto non averla potuta portare con sé a Philadelphia, poiché suo fratello era allergico; e neanche Saga aveva potuto portarla alla villa. Non aveva domandato il motivo, ma aveva capito che lui si era sentito in un certo imbarazzo quando avevano discusso sul da farsi. L’unica soluzione che era sembrata praticabile era stata allora quella di lasciarla in custodia a Jade, la vicina impicciona che abitava nella palazzina oltre il cortile.
Sospirò.
Si sentiva stanca, di nuovo, come se non dormisse da giorni; eppure le ore di sonno erano aumentate visibilmente. In quegli ultimi giorni passava più tempo in camera, stesa sul letto, che in piedi con gli altri. Lentamente si stava lasciando vincere ancora una volta dalla sonnolenza, come sotto l’influsso di un anestetico o di una qualche strana malattia del sonno. Le stava capitando fin troppo spesso. “Solo qualche minuto”, ripeteva fra sé e sé, guardando l’ora sul display della sveglia. Ogni volta le sembravano solo pochi minuti, ma quando riapriva gli occhi erano passate delle ore.

*****

Aprì lentamente la porta della camera, sbadigliando senza troppo riguardo. La casa era invasa dalla luce del sole; in una delle stanze si sentiva risuonare della musica: rumorosa e fastidiosa, pensò Cora, non del tutto lucida. Con dei vecchi calzettoni grigi e rosa ai piedi percorse il corridoio fino ad arrivare in cucina, dove proveniva un delicato aroma di agrumi.
Il suo stomaco brontolò, ma non era sicura se fosse per la fame o per il leggero senso di nausea che sentiva persistente in quegli ultimi giorni. Entrò, sbadigliando e stiracchiandosi la schiena.
«Buon pomeriggio, tesoro. Hai fame? Ti ho tenuto da parte un po’ di salmone, vuoi che te lo prepari?» le chiese la madre, intenta a mescolare nella casseruola una crema molto densa.
Cora si limitò ad annuire svogliata e si avvicinò al frigorifero per prendere qualcosa, qualsiasi cosa la ispirasse sul momento, perché proprio non aveva idea di cosa voleva.
Dal salotto arrivarono delle voci estranee. Ci mise qualche secondo per rendersi conto che si trattava della televisione: era il telegiornale. Anche se era da un po’ di tempo che non lo sentiva più, alla fine riconobbe la voce dell’anchorman, con quell’inconfondibile esse sibilante che le faceva accapponare la pelle.
«Ma... sono le news delle cinque?» chiese, voltandosi verso la madre. D’un tratto era completamente sveglia.
Teresa annuì, sorridendo. «Sei riuscita a riposare?» le chiese. La preoccupazione per la salute di quella figlia un po' distratta era sempre fra i suoi pensieri. «Allora, hai fame?»
Cora fece spallucce, mentre si avvicinava a lei per dare una sbirciatina a ciò che stava facendo la donna.
«È crema pasticcera all’arancia», disse «In frigorifero ci sono delle coppette, sono le prove che ho fatto. Prendine pure una, così mi dici se ti piace.»
La ragazza non se lo fece ripetere due volte e, bella pimpante, arraffò quella che le sembrava la più piena.
«Quest’anno ho pensato di variare un po’ la nostra solita torta di compleanno.»
«È squisita!» esclamò la giovane, con la bocca piena di quella dolcezza all’arancia. «Mmh… ma c’è anche il Pan di Spagna al cacao!» disse, dopo aver preso un secondo boccone più che generoso, affondando il cucchiaio e scoprendo sul fondo della coppetta quella base golosa, bagnata con sciroppo, sempre all’arancia.
«Non è Pan di Spagna, ma una pate génoise», rivelò Teresa. «Una pasta genovese», ripeté, ma questa volta in italiano, anche se ormai la sua pronuncia aveva assunto le tipiche storpiature degli italoamericani.
Del resto, la sua lingua madre l’aveva abbandonata molti anni prima, ovvero da quando i suoi genitori erano tornati in Italia per vivere lì gli anni della pensione. Ci aveva provato a insegnare l'italiano alla figlia, anche per mantenersi in esercizio, ma con scarsi risultati. Caroline non se n’era mai interessata veramente. Tutto il contrario di Mike che invece si stava preparando seriamente allo studio dell’italiano; e che voleva scegliere come lingua straniera quando avrebbe iniziato a frequentare le medie.
«Il risultato è simile, ma il procedimento è differente!» spiegò la donna.
Cora ridacchiò divertita, non solo per quella escursione nell’italiano che non sentiva da quando era bambina, ma anche per la posa da esperta che aveva mostrato la madre. «Vedo che conosci la materia, ti stai documentando per un libro di cucina? Stai cambiando genere?» le chiese, continuando a mangiare di gusto. Poi, all’improvviso, si chetò, sedendosi sulla sedia e sbuffando fuori l’aria, un poco spossata.
«Ti senti bene?» le chiese Teresa, intravedendo con la coda dell’occhio la figlia che si passava la mano fra i capelli in modo svogliato.
Cora annuì, sospirando e tornando a ripulire la coppetta che teneva in mano, ma non era stata molto convincente: il suo viso era pallido.
Versata la crema in una ciotola immersa in acqua ghiacciata e applicata poi della pellicola da cucina, la donna abbandonò il resto e si avvicinò alla figlia, accarezzandole la fronte e le guance. La sua temperatura non era affatto normale: al tatto sembrava gelida.
«Sei sicura di star bene? Ti sei ricordata di fare le analisi di controllo?» le chiese, con un poco di preoccupazione nella voce. E questa volta non si trattava di preoccupazioni superflue di una madre troppo apprensiva. «Hai avuto altri episodi come questo?»
Sapeva che la figlia non si era mai curata più di tanto della propria salute e spesso ignorava i consigli del medico di sottoporsi ai normali controlli, ma da dopo il suo ferimento, subìto qualche anno prima, questi erano diventati ancora più necessari; fintanto che era rimasta a Philadelphia, era stata ligia ai suoi doveri, ma lontano da tutti…
Cora scrollò la testa.
«Sto bene, è solo un po’ di stanchezza. Sarà la primavera!» scherzò lei, ma non poteva darla a bere alla madre.
«Beh, un controllo non ti farà certo male! Domani andremo alla clinica, così saremo tutti più tranquilli!» stabilì Teresa.
«Ma perché perdere tempo? Sarà solo un po’ di mancanza di ferro! Niente che non si possa sistemare con qualche integratore, proprio come abbiamo sempre fatto.»
«Hai forse qualcosa da nascondere?» insistette Teresa, questa volta un po’ contrariata. «Questo mese le hai saltate, vero? C'è qualcosa che vuoi dirmi?» le disse; non c’era alcuna traccia di accusa o parvenza di rimprovero serio nella sua voce.
Cora arrossì senza volerlo; certi argomenti, anche se li affrontava fra donne, la mettevano in forte disagio e parlare con sua madre di “quella” cosa, così come della sua vita sessuale, era ancora più imbarazzante.
Posò la coppetta sul tavolo e sospirò. Sapeva di non aver fatto nulla di cui vergognarsi, anche se in effetti qualcosa della quale non poteva parlare c'era.
«Lo sai che negli ultimi anni sono stata molto irregolare», si giustificò. «Talvolta mi capita di saltarlo proprio, o di avere perdite quasi irrilevanti. E sai bene anche cos’hanno detto i dottori…» disse, con voce malinconia.
Abbassò lo sguardo per nascondere gli occhi che stavano diventando lucidi. Era strano ciò che provava in quel momento, forse senza senso. Eppure, nonostante stesse ripensando che a causa della sua imprudenza si era condannata lei stessa a un destino tanto triste, che non le avrebbe mai fatto provare la gioia della maternità, il suo pensiero andava a Saga e a quanto sarebbe stato bello formare una famiglia con lui.
«Ricordo che dissero che non è impossibile, che anche se ora le probabilità si sono ridotte a una percentuale esigua, non è detto che la situazione in futuro non possa migliorare e che tu non possa avere figli», la rassicurò la donna, accovacciandosi di fronte alla figlia e prendendole le mani nelle sue.
Era commovente vedere come la madre ci credesse più di lei, in quel miracolo che l’aveva sempre delusa. E questo la faceva sentire ancora più in colpa per l’accaduto, perché non solo aveva negato a se stessa la possibilità di avere dei bambini in futuro, ma anche dei nipoti alla madre.
Cora sospirò ancora una volta, senza replicare nulla o insistere sul fatto che era sicura al cento per cento che mai sarebbe diventata madre.
«Lo so che c’è qualcosa che non va, sono tua madre e ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa», insistette lei, accarezzandole la guancia. «Per favore, confidati con me.»
«Non c’è niente che non va, mamma. Anzi, è tutto il contrario, sto bene e sono felice», rispose Cora. Il suo sorriso era un poco forzato, ma solo perché si sentiva stanca. «Potrei… potrei averne ancora un po’ di dolce?» chiese, ritrovandosi d’un tratto stretta in un abbraccio che toglieva il fiato.
«No!» disse la donna, lasciandola libera e alzandosi. «In questi ultimi giorni hai messo su un po’ di peso, con tutte le schifezze che rubi dal frigorifero a orari indecenti. E poi, stasera si cena presto! Ora via, lasciami finire qui, così poi la preparo.»

*****

L’indirizzo che gli aveva fornito Saga – e che ora stava rileggendo sul foglietto su cui l’aveva appuntato – corrispondeva a una tranquilla palazzina dai mattoni rossi a vista e dalla cancellata scura. Prima di presentarsi, aveva fatto qualche ricerca per conto suo e aveva scoperto che lì era anche ubicata l’agenzia investigativa di Phillip Burton, nonostante non ci fosse alcuna targa a conferma di ciò.
Fece una smorfia.
Se non gli fosse importato almeno un poco, forse avrebbe tirato dritto anche lui; ma Aiolos, seppur di mala voglia, si era preso quell’impegno, soprattutto perché Saga glielo aveva chiesto in maniera così accorata che d’istinto aveva accettato, pentendosene neanche due minuti dopo. Possibile che da quando il loro rapporto si stava facendo più disteso lui non riuscisse più a rifiutare quello che l’altro gli chiedeva? Che Saga avesse una sorta di potere ammaliatore che rimbecillisse tutti quanti gli stavano attorno? Con lui stava funzionando alla grande e questo, col senno di poi, gli scocciava.
Pagò il taxi e tornò a studiare l’ingresso di quella palazzina – neanche quel portone fosse l’entrata degli Inferi – ruminando il chewing-gum in modo nervoso. Sbuffò, maledicendo la sua imbecillità, perché in quel momento si trovava di nuovo lì, a Philadelphia, con la concreta possibilità di ricevere lo stesso trattamento dell’ultima volta. Sputò a terra il chewing-gum e spinse il cancello di ferro battuto, percorrendo a passo deciso quei pochi metri che lo separavano dal portone. Diede una rapida occhiata ai vari nomi sul citofono: si sorprese nel non vedere il nome Miller su nessuna targhetta, in compenso però compariva quello di Burton. Premette il bottone e attese.

*****

«Tu, ragazzino!» lo apostrofò la madre, con tono di rimprovero. «Dove credi di andare?»
«Al campo di baseball!» non si fece attendere la risposta del figlio, pronunciata con voce rabbiosa.
Poco dopo, si sentì in modo distinto lo sbattere di una porta e una camminata pesante percorrere il corridoio fino a interrompersi bruscamente appena prima di passare davanti al salotto.
Senza attendere il permesso da parte della madre, Mike si mise a tracolla la borsa sportiva e si calò in testa il berretto dei Philadelphia Phillies, la sua squadra del cuore. Dal ripostiglio prese la mazza da baseball e il guantone.
«I miei compagni mi stanno aspettando per l’allenamento!» le gridò ancora incollerito, borbottando poi qualcosa fra sé e sé. Era solo poco più che una squadretta da oratorio, ma lui ne era orgoglioso come se fossero dei campioni della National League.
Fece qualche passo, poi si bloccò di nuovo, borbottando una seconda volta: forse imprecando. Quindi tornò di corsa nella sua stanza, dove Teresa stava terminando di piegare e ritirare la biancheria del figlio, per prendere il pacchetto di chewing-gum e i nastri di liquerizia che aveva dimenticato sulla scrivania.
«Non voglio che tu ci vada!» gli disse la donna, con tono secco. «Non oggi, almeno! Per favore…» concluse con maggiore indulgenza, vedendo che indugiava lì, scartando una di quelle sue gomme per poi mettendosela in bocca.
Cora scrollò la testa. Non ricordava una sola occasione in cui il suo fratellino si fosse mai rivolto in quel modo così maleducato alla madre, né aveva mai sentito lei essere tanto brusca con lui, eppure in quei giorni sembrava una triste consuetudine. Alzò la testa dal cuscino del divano e si tirò un poco su, fino a sbucare da sopra lo schienale, rivolgendo lo sguardo alla soglia del salotto. Ancora sentiva le voci alterate dei due che si rispondevano a vicenda, anche se non riusciva ad afferrare bene ciò che si stavano dicendo, ma non era sicura di volersi immischiare troppo. Si lasciò cadere di nuovo sul divano, sbuffando e portandosi un braccio a coprire gli occhi.
«Che c’è?» le chiese Chris, seduto sulla poltrona che di solito occupava Phillip, intento a smanettare con il tablet.
«Mi sembra che in questi giorni il mondo stia girando alla rovescia…» mugugnò Cora. «A te non sembra?» disse, girandosi sul fianco e tirandosi di nuovo su, puntellandosi con il gomito.
Chris abbozzò un sorriso, senza staccare gli occhi dal display.
«Ma cosa gli prende?» disse, basita per il comportamento del fratellino.
«Ti ha sentito che parlavi con Phillip: crede che tu voglia tornare a Boston con il volo di questa sera e che non ti importi di festeggiare il vostro compleanno tutti assieme», le rispose in tono tranquillo Chris, sempre concentrato sul tablet, picchiettando con l’unghia dell’indice sul bordo.
«Ma non è vero!» protestò lei.
«Non puoi negare però che con la testa tu ci sei già da parecchio. Anzi, credo che tu non te ne sia mai andata da lì.»
Cora sbuffò. Sapeva che in un certo senso era la verità. «Cosa stai guardando di tanto interessante?» Si girò verso l'ex con aria perplessa per l'indifferenza del ragazzo riguardo a ciò che stava accadendo in casa e intanto tendeva l'orecchio per sentire cosa stessero dicendo, anche se in quel momento tutto taceva, o quasi.
«Sto controllando gli annunci immobiliari. È vero che inizierò con mio nuovo incarico solo il prossimo semestre, ma vorrei evitare di dover alloggiare in qualche motel o pensioncina sgangherata, magari gestita da un vecchina sdentata e impicciona. Ecco! Guarda questo per esempio: trilocale composto da due camere da letto, cucina openspace e due bagni.»
«Interessante! E quanto ti costerebbe? O forse pagano i tuoi?» chiese lei, ironica.
Si mise seduta più composta e si appoggiò con la schiena ai cuscini del divano. Lasciò vagare il suo sguardo per la stanza, cercando di osservarne ogni minimo dettaglio. Solo in quel momento si stava rendendo conto che c’era qualcosa di diverso dall’ultima volta che vi aveva messo piede, prima della sua partenza per Boston, ma non riusciva a capire di cosa si trattava.
«Anche stasera scroccherai la cena?» chiese, spezzando il silenzio teso che in quel momento aleggiava per tutta la casa.
«Ti dà fastidio?»
«No», rispose lei, facendo spallucce. «Era tanto per chiedere.» In realtà le piaceva che lui frequentasse la casa, era un po' come tornare ai vecchi tempi.
«Ti aspetto alla macchina!» disse Mike, passando come un fulmine davanti al salotto e uscendo subito dopo da casa, sbattendo la porta.
I due giovani si guardarono per qualche secondo negli occhi, sbattendo le palpebre quasi all’unisono, davanti a quella scena assurda.
Cora sospirò e si alzò dal divano, passandosi le mani a massaggiare le cosce, fasciate in un paio di leggings sportivi grigio melange che sentiva un poco indolenzite. La spossatezza di quegli ultimi tempi quel giorno in particolare si faceva sentire più insistito. Poi, si risistemò un poco il bordo della maglietta sbracciata, forse un po’ troppo corta, che lasciava intravedere l’ombelico.
Chris si affrettò a riportare la sua attenzione al tablet, per non farsi accorgere che la stava osservando, ma gli era impossibile continuare a concentrarsi sulla sua ricerca, sapendo che la sua ex – che in quel momento si era messa a rassettare il divano – era lì vicino a lui e faceva dei movimenti così sensuali, anche se inconsapevolmente. Si sentiva strano. Era come se la vedesse per la prima volta e provasse una nuova e fortissima attrazione fisica nei suoi confronti.
Dov’era finita la ragazza semplice e vitale che aveva amato e con la quale aveva condiviso l’appartamento fino a pochi mese prima? Dov’era nascosta quella donna che ora stava osservando in modo non proprio casto?
Eppure era sempre lei, Caroline, la ragazza di cui si era innamorato alle superiori e con la quale aveva perso la verginità, colei che nei loro progetti sarebbe diventata un giorno sua moglie. Alzò di nuovo lo sguardo su di lei, sul suo corpo che ora gli sembrava più generoso e di una morbidezza più sensuale e matura. Era sempre lei, eppure era diversa. Ma forse i suoi occhi lo stavano ingannando. Senza rendersene conto si ritrovò vicino a lei, ancora impegnata a piegare il plaid e a risistemarlo sullo schienale del divano, e l'abbracciò, facendola sussultare.
Non rispose alle timide proteste di lei e affondò il viso nei suoi capelli castani che profumavano di shampoo alla vaniglia, respirando profondamente. La tenne nel suo abbraccio per diversi secondi, sentiva la voce di Caroline che si lamentava, ma non gliene importava. La girò verso di sé e la guardò con languore. Il suo viso era così bello, i suoi lineamenti erano più dolci, il calore del suo corpo, conturbante. Chissà se quelle labbra, un poco più carnose di come ricordava, baciavano ancora allo stesso modo.
La sua risposta la trovò in un bacio intenso, intimo, passionale, che stava risvegliando in lui un sentimento travolgente, ora più maturo; e anche il rimpianto di aver accettato con troppa facilità la loro separazione e lasciato che lei prendesse un'altra strada.
Cora lo fissò con occhi sgranati. Era scioccata. Certo, era stata poco collaborativa in quel bacio, ma al tempo stesso non aveva avuto la forza di opporsi e allontanarlo. «Non dovevi permetterti. Le cose sono cambiate, io ora...» ansimò, con gli occhi lucidi e le gote imporporate.
«Non mi importa se ora c’è un altro nella tua vita», ribatté lui, in tono secco; nella sua voce si poteva avvertire un fondo di gelosia. «A tua madre piaccio. A Phillip piaccio; e lo stesso a Mickey. Stavamo bene insieme, molto bene. Potrei rinunciare alla California per te, Caroline.»
Chris avvicinò ancora una volta le sue labbra a quelle di lei, in una sorta di inseguimento, provando a baciarla di nuovo, senza demordere nonostante i tentativi di lei di scostarlo.
«E quanto ci vorrà prima che si affievolisca di nuovo il sentimento e tornare a essere solo amici? E se la prossima volta ci dovessimo lasciare male?» sussurrò lei, evitando in tutti i modi il contatto con i suoi occhi.
«Non lo sapremo se non ci proviamo.»
«Io... non posso.»
«Chris, mi devi accompagnare.» Mickey si affacciò nel salotto tutto mogio e a testa bassa. Quando però alzò lo sguardo e li vide così vicini, abbracciati l'uno all'altra, per un attimo i suoi occhi si riempirono di speranza.
Chris si staccò da Cora, in evidente imbarazzo per essere stato sorpreso in un atteggiamento intimo con la sua ex. Provò a dissimulare ripredendo in mano il tablet. L’atmosfera che si era creata prima, con l’arrivo del terzo incomodo era svanita in un attimo e lui si sentì di nuovo declassato ad “amico di famiglia”.
«Sì, d'accordo, saluta tua sorella e andiamo», disse, schiarendosi la voce, intanto che spegneva il tablet e lo posava sul tavolino.
A quella richiesta il bambino mutò espressione e scappò via.
«Mickey!» chiamò la madre, ferma in corridoio con la cesta vuota della biancheria fra le mani.
«Non preoccuparti, Teresa», disse Chris, con una confidenza che gli era permessa dai tanti anni di conoscenza e frequentazione della famiglia, non appena la vide. «Ci penso io a lui. Non lo perderò di vista per tutto il tempo e lo riaccompagnerò a casa a un orario decente. Del resto, sono il vice allenatore della squadra!» aggiunse, per rassicurarla, facendo l'occhiolino.
«Sostituto vice allenatore!» urlò Mike, dalla porta d'ingresso, con un’espressione di nuovo torva sul viso.
«Sì, sì, sostituto. Ora prendi la giacca e andiamo, prima che decida di metterti in punizione per il ritardo con il quale arriverai all’allenamento!» lo rimproverò scherzosamente il ragazzo.
Infastidito da quei discorsi, Mike spalancò la porta d'ingresso e uscì senza guardare, andando a sbattere contro uno sconosciuto che in quel momento
«Pardon», disse l’uomo, con voce indulgente.
Il ragazzino rimase indifferente dopo quello scontro, pensando solo a risistemarsi il berretto e la tracolla della borsa; poi, quando alzò lo sguardo sull’uomo, rimase impietrito. Per un breve istante lo guardò con odio, stringendo con la mano l’impugnatura della mazza da baseball.
«Vai via! Vai via, bastardo! Non ti avvicinare a noi!» gridò a squarciagola, alzando la mazza e minacciando l’uomo.
Il suo giovane viso imberbe divenne paonazzo, gli occhi erano spalancati e colmi di furia e terrore; alzò la mazza oltre la spalla, le braccia tremavano di collera.
«Vattene!» gridò ancora il bambino, gettandosi sullo sconosciuto, colpendolo e facendolo cadere a terra.
Aiolos fece appena in tempo a rendersi conto delle intenzioni dell’altro e a girarsi un poco, proteggendosi come poteva con l’avambraccio, piegato per coprire il viso e la testa, ma fu costretto a offrirgli la spalla sinistra. Per diversi secondi rimase a terra, dopo un secondo attacco, con le orecchie che ronzavano per il rimbombo delle urla dell’aggressore e il braccio intorpidito. Lo sentiva ansimare ma non accennare a colpire di nuovo. Alzò la testa. Lo vide su di sé, con la mazza da baseball sopra la testa, impugnata a due mani.
Le grida del bambino erano risuonate anche in casa, mettendo in allarme gli altri, che subito erano accorsi.
«Mickey! Mickey! Fermati!» urlò Cora, cercando di trattenere il fratellino.
«Lasciami! Lo devo fermare, così non potrà più farci del male!» disse lui, dibattendosi per liberarsi dalla presa della sorella.
Anche Chris si precipitò fuori sul pianerottolo. Lo riconobbe subito e gli si fiondò addosso, strattonandolo e schiacciandolo a terra, pronto a sferrargli un pugno se necessario.
Teresa rimase sulla soglia di casa e lanciò un grido strozzato. «Deline…» balbetto a stento. «Non è possibile, non può essere lui…» I suoi occhi si riempirono di terrore nel vedere le fattezze della persona che in quel momento era bloccata a terra; poi spostò la sua attenzione sui suoi figli, senza trovare la forza per intervenire.
«No, Chris, non fargli del male! Non è lui, non è Deline. Lo conosco, è un amico!» lo scongiurò Cora, che faceva fatica a trattenere il fratello. Aveva solo undici anni, ma era forte e in quei giorni e in quella circostanza si stava dibattendo come un leone inferocito.
«Lasciami andare, Caroline!» urlò il ragazzino, pronunciando il suo nome con astio.
Sembrava che i due stessero lottando per il possesso di quella mazza; poi, con un movimento violento delle braccia, nel girarsi verso la sorella, Mickey la colpì involontariamente con troppa forza, facendola gemere di dolore e andare a sbattere contro il muro. Per pochi secondi ebbe su di sé i suoi occhi sbarrati per lo choc. La vide strisciare con la schiena contro la parete e accasciarsi a terra.
«È colpa tua!» le gridò contro, sovrastandola e agitandole addosso la mazza da baseball. «Tutto questo è colpa tua!» ripeté con foga, incalzandola con le lacrime agli occhi e le labbra tremanti di quella rabbia che per tanto tempo aveva tenuto dentro di sé. «Perché ti sei immischiata in quelle cose? Perché hai voluto mettere in mezzo anche noi e rovinarci la vita? Ed ora te ne vuoi tornare a Boston e lasciarci di nuovo! Perché non vuoi rimetterti insieme a Chris? Perché continui a fare di testa tua, a pensare solo a te stessa, a essere così egoista? La mamma ha pianto per due settimane, ogni notte, quando te ne sei andata! Chris e papà hanno pensato solo a te in tutto questo tempo! Ora vuoi farlo di nuovo, vuoi lasciarci soli! E allora vattene! Vattene via subito! Non ti voglio qui a rovinare di nuovo la nostra vita!»
Continuò a muovere quella mazza in modo minaccioso, sempre più vicino a lei, sordo alla disperazione della madre che singhiozzava lì vicino e ai richiami di Christopher. Fece un passo verso la sorella che, a terra e con le braccia strette allo stomaco, lo guardava senza dire niente.
Il ragazzino dolce e ubbidiente che Cora aveva lasciato a febbraio, si era trasformato in una bomba di violenza che non aspettava altro che deflagrare e liberare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione.
«Basta così, Mickey!» Chris lo bloccò da dietro e gli tolse la mazza da baseball dalle mani, spingendolo da parte.
«Anche tu stai dalla sua parte dopo quello che ti ha fatto?» lo accusò il ragazzino. Urlò un “vi odio tutti!” e scappò giù per le scale.
In tutto quel trambusto, Aiolos li osservò come se fosse di fronte a dei pazzi. Preferì rimanere a terra e non fare mosse sospette per non diventare di nuovo oggetto di attenzioni sgradevoli e dalle conseguenze piuttosto dolorose.
«Stai bene?» domandò Chris a Caroline.
Lei annuì e si rimise in piedi, anche col suo aiuto. «E tu, Aiolos?» chiese a sua volta lei, vedendo l’altro ancora a terra che si teneva il braccio.
«Scusa, amico. Niente di rotto, vero?» gli chiese Chris, aiutando anche lui ad alzarsi.
«Ho appena visto scendere di corsa Mickey e stava piangendo. Cos'è successo?» disse Phillip, salendo gli ultimi gradini. Vide i presenti con espressioni tese e sconvolte sul volto. Poi, puntò la sua attenzione su Aiolos, indurendo lo sguardo. Pensava di essere stato chiaro con il ragazzo, quando si era presentato nel suo ufficio per spiegare il motivo di quella sua visita, che se avesse creato problemi avrebbe passato dei guai; si rese subito conto però che ad avere la peggio era stato proprio lui.
«Vado a parlarci. Si sarà sicuramente rifugiato nell’ufficio», disse Chris che sapeva come prendere il piccolo ribelle.
«Se permettete, vorrei provarci io», si propose Aiolos, lasciando senza parole i presenti.
Era stanco di essere preso di mira dai membri di quella famiglia, che fossero bastonate, o la canna di una semiautomatica puntata alla testa, o ancora essere accusato di essere un molestatore. Voleva chiarire di persona e chiudere con quell’equivoco una volta per tutte.




note del capitolo:
Murder, she wrote: (ma che ve lo dico a fare...) è il titolo originale de "La signora in giallo". Alzi la mano chi non conosce questa serie poliziesca, che si prende una tirata d'orecchie coi fiocchi! :P

Lo so, lo so, a qualcuno sarà venuto un ictus a leggere di Saga come secondogenito (o Kanon primogenito). Mi piace talvolta scombinare i piani. A parte gli scherzi, non è facile stabilire chi sia il primo e chi il secondo. E non parlo tanto nella storia canonica (con i gemelli è sempre un po' un casino: si deve tener conto dell'ordine di nascita oppure dell'ordine di concepimento?), ma in questa mia storia. Se ricordate, Shion aveva fatto preparare dei nuovi certificati di nascita per i gemelli; è quindi possibile che fosse stato stabilito a priori che Kanon sarebbe stato primogenito e Saga invece il più giovane? A me piace pensare di sì! E comunque, in tutta la storia pare che Saga sia trattato un po' da cocchino della casa, ruolo che di solito è affibbiato ai fratelli più giovani.

   
 
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