Vento dell'Ovest - Capitolo 8
- Capitolo Ottavo -
Vento
di Dubbi
Vittoria
batteva in terra i piedi per il freddo, scrutando accigliata il treno
notte che aveva di fronte e borbottando qualcosa tra sé e
sé.
«Non
capisco cos’hai da lamentarti tanto, nemmeno dovessi partire
tu al
posto nostro» commentò Marcello, spazientito da
quel
continuo brontolio,
lanciando una rapida occhiata verso la zona commerciale, in attesa di
riuscire a scorgere il suo amico che tornava. A quell’ora di
sera, la
Stazione di Roma Termini era quasi vuota, non sarebbe stato difficile
individuarlo, anche a grande distanza.
«E tu spiegami ancora una volta perché avete
deciso di
intraprendere questo viaggio della speranza a Monaco»
ribatté lei, guardandolo bieca ed incrociando le braccia
contro al petto.
«Lo
sai che Gerardo ha paura
dell’aereo» le
rispose
il ragazzo, spiccio, sfregandosi le braccia con le mani per scaldarsi
un po’.
«Che
assurdità! Avreste fatto prima e meglio, così
domattina sarete in
condizioni pietose. Mi chiedo come farete ad affrontare Herr Berger ed
Herr Müller»
continuò la giovane, gesticolando con fare irritato.
«L’incontro
sarà solo dopodomani» precisò
Marcello, mantenendo invece un tono
calmo, «abbiamo tempo. Considerando
che la prima fermata è a Vienna, verso l’ora di
pranzo dovremmo essere a
Monaco».
Vittoria fece una smorfia dubbiosa, come se tutto quello che aveva
sentito non la convincesse nemmeno un po’.
«Comunque, dopo
aver affrontato Edward Carter, fare affari con Ludwig Berger sarà
una passeggiata» concluse il ragazzo, abbastanza sicuro di
ciò che stava dicendo. D’altra parte, bisognava
riconoscere che sarebbe stato davvero difficile trovare un altro
individuo dotato della sottile malvagità di quel britannico.
La ragazza lo guardò per un secondo, poi sospirò
rumorosamente.
«L’unica
nota positiva è che non dovreste avere particolari problemi
alla dogana».
«Sicuramente.
Se avessimo intrapreso la trattativa con Herr Kohl di Lipsia, ci
sarebbero stati dei problemi per ottenere il visto per la
Germania dell’Est» confermò il biondo,
scorgendo in quel mentre Gerardo che si avvicinava.
«Sembra che la
neve non darà problemi. A quanto mi hanno riferito i
macchinisti, pare che il passaggio del Tarvisio sia libero»
esordì, trionfante. «Il
treno partirà!»
«Questa
è un’ottima notizia»
affermò Marcello, mentre Vittoria sbuffava più
forte.
«Nient’affatto!
Piuttosto, sarebbe stata un’ottima scusa per prendere
l’aereo».
«Veramente, se c’è una bufera di
neve non fanno partire nemmeno i voli di linea»
la corresse Gerardo.
La ragazza scosse la testa ma, alla fine, dovette arrendersi
all’evidenza che i suoi amici sarebbero andati in Germania
con il treno.
I due giovani, quindi si adoperarono per portare le proprie valigie nel
vagone
letto che avevano prenotato; nel giro di poco, però, erano
già di nuovo sulla banchina, pronti per salutare Vittoria
prima della partenza.
«Ricordatevi
di portarmi un bel regalo! Sarei
venuta con voi molto volentieri, ma ho i dettagli della mostra da
definire».
«Quattro
giorni di pausa non ti avrebbero fatto male» le fece notare
Gerardo. «Magari ti
sarebbero serviti per rilassarti un po’».
Vittoria gli si
avvicinò e gli aggiustò per bene la sciarpa ed i
capelli, che si erano spettinati nel continuo salire e scendere dal
treno.
«Sentirai
la mia mancanza, Gerardo?»
«S-Sì,
ce... certo»
balbettò lui, evidentemente a disagio. Il biondo alzò
gli occhi al cielo, ormai saturo di quelle continue scenette,
domandandosi per la milionesima volta
perché il suo amico non si sbrigava a dire alla ragazza
tutto quello che provava per lei, così da risolvere tutte le
questioni aperte nel migliore dei modi: il carciofone sarebbe stato
liquidato per sempre e Gerardo e Vittoria sarebbero stati finalmente
felici.
«Anche tu
sentirai la mia mancanza, vero, Marcellino?»
gli chiese la giovane, volgendo lo sguardo verso di lui, ma senza
staccare la presa che aveva sui vestiti di Gerardo, il quale doveva
avere una tachicardia con i fiocchi.
«Come
no? La sento già» fece il ragazzo, ironico.
«Come sei
acidulo!»
lo redarguì in maniera scherzosa, facendogli la linguaccia.
In quel mentre, il capotreno passò accanto a loro,
avvisandoli: «I
passeggeri sono invitati a salire sul treno, stiamo per
partire».
«Oh.
È arrivato davvero il momento di salutarci»
mormorò la
ragazza, abbandonando le risate e diventando di colpo triste.
«Come farò senza di voi?»
«Torneremo
prima che tu te ne accorga» commentò Marcello.
«G-Già»
gli fece eco l’altro con un filo di voce.
Le persone che erano lì accanto cominciarono a salutarsi,
anche loro pronti a prendere posto nei vari vagoni. In particolar modo
una coppietta, che stava dando grande spettacolo di
effusioni
amorose, come se il giovane stesse per partire per il fronte.
Nella sua rigidità, il biondo stava per
commentare negativamente, quando Vittoria, dopo aver notato Gerardo che
osservava imbarazzato la scena, gli chiese: «Stai prendendo
l’ispirazione per salutarmi?
Sono sicura che tu potresti essere molto più
elegante».
Il ragazzo si colorì all’istante delle
più
svariate sfumature del rosso, per poi balbettare qualcosa di sconnesso e
scappare di
corsa sul vagone, lasciando l’amica non poco sbigottita.
«Ma cosa mai avrò detto per farlo reagire
così?»
domandò incredula, sbattendo le palpebre.
Marcello inarcò un sopracciglio, facendo una smorfia di
disappunto. Erano entrambi così tonti che non
meritavano
il suo aiuto ed era davvero propenso a lasciarla cuocere nel suo brodo,
quando decise che fosse meglio lasciarle una specie di compito da
portare avanti
nel corso della loro assenza: chissà, magari al loro rientro
la
situazione si sarebbe sbloccata.
«Vittoria?»
«Sì?»
rispose lei, pensierosa.
«Nei prossimi
giorni rifletti bene».
«Su cosa?»
«Sull’eventualità
di lasciare Bartolomeo prima della mostra. Sai, quando ti diverti a
stuzzicare il povero Gerardo...»
spiegò il ragazzo, con una voluta reticenza, «la
tua espressione dice come stanno veramente le cose».
In quel momento il capotreno fischiò, Marcello
salì rapidamente sul
treno e le porte si richiusero dietro di lui. Allora si
voltò
verso
la banchina e, attraverso il vetro, fu certo di riconoscere una
Vittoria dalle guance scarlatte che lo guardava attonita, poco prima
che lei e la stazione cominciassero a scivolare via dalla sua visuale.
***
Approfittando
dell’assenza di zia e cugina, Beatrice si sistemò
sul divano
tarlato del soggiorno, aprendo lo schema esecutivo della sciarpa che
avrebbe voluto confezionare per Marcello e adagiandolo davanti a lei.
Liberò con cautela un gomitolo dalla propria fascetta e,
dopo
aver cercato il capo del filo, lo assicurò ai
ferri.
Una volta tanto, avrebbe tanto voluto concedersi un pomeriggio di
relax, da dedicare a qualcosa che la faceva stare bene e che le
impegnava piacevolmente la mente.
Per
un bel po’ si udì solo il ticchettio dei ferri da
lana che
sbatacchiavano tra di loro mentre il filo veniva intrecciato e la
fanciulla si perse completamente a seguire quel ritmo sempre uguale a
se stesso; quando fu troppo buio, segno che la sera era giunta, si
interruppe un attimo per accendere la luce e per ammirare il lavoro che
aveva fatto fino a quel momento: stava venendo davvero bene, a Marcello
sarebbe piaciuta sicuramente.
Un rumore improvviso dal tinello, però, la fece sobbalzare e
la mise in
allarme, giacché se si fosse trattato di Anna Laura che era
rientrata in anticipo, sarebbe stato un bel guaio se avesse visto a
cosa
stava lavorando: conoscendo la maligna curiosità della
cugina,
non se la sarebbe cavata con poco.
Quando, invece, fu Guido a fare capolino oltre la porta, la fanciulla
tirò
un enorme sospiro di sollievo.
«Ah, sei solo tu».
«Solo
io?» ripeté lui, offeso. Entrò nel
salotto e si buttò a peso morto sul divano, sedendosi
accanto alla sorella. «Che stai facendo, Cicci? È
per me quella sciarpa?»
«Affatto»
rispose la ragazza, riprendendo a lavorare.
«Per
il Navarra?» tentò nuovamente il giovane.
«L’unica cosa
che
vorrei vedere intorno al su’
collo
è un cappio»
sibilò Beatrice, senza pensarci. Subito dopo si rese conto
di
essere stata abbastanza sanguinolenta, ma non riuscì a
sentirsi
in colpa più di tanto, almeno non dopo quello che le aveva
fatto
quel depravato.
Guido si accigliò, grattandosi la nuca.
«E
allora per chi
è?»
«Una
commissione
che mi
verrà ben pagata»
spiegò la
ragazza
con grande naturalezza, sorprendendosi da sola per
l’abilità
che
aveva sviluppato nel mentire. Be’, come si dice in questi
casi, di
necessità, virtù.
«Te
l’hanno affidata alla merceria?
Meno male che,
dopo aver sposato Navarra, potrai
smettere di lavorare».
La fanciulla posò i ferri in grembo e
gettò un’occhiata di fuoco al fratello.
«Io non lo
sposerò mai, chiaro?»
Il giovane scosse nervosamente la testa, giocherellando con un pezzo
dell’imbottitura del divano, fuoriuscita da
un
buco nei cuscini.
«Non sai quello che dici. Mi lasceresti davvero
in mezzo ai guai?»
«Te
li sei meritati! Quale medico
ti ha prescritto di giocarti tutto ciò che rimaneva del
patrimonio?»
Guido si alzò in piedi con uno scatto, mettendosi le mani
nei capelli
corvini e cominciando a fare su e giù per la stanza.
«Oh,
tra l’altro nemmeno s’accontenta solo di
sposare te...
Saremo
costretti a dargli anche la villa all’Isola
d’Elba!» piagnucolò, perdendo ogni
briciolo di dignità.
A quella rivelazione, il cuore di Beatrice perse un battito.
«La
casa della
mamma?» sussurrò, sgomenta.
«Ecco,
vedi, Bea... Ho promesso a Navarra che,
dopo che
diventerai la su’ moglie,
potrà disporre di quella proprietà come megl...»
cominciò a difendersi Guido, ma Beatrice non gli diede il
tempo di finire.
«Tu
sei pazzo!» gli gridò contro, mettendo da parte la
sciarpa e alzandosi in piedi. «Non
permetterò mai, e dico
mai, che
Navarra metta le su’
zampacce
sulla casa
della mamma!»
continuò, puntando minacciosamente un dito contro il
fratello.
Come osava quell’idiota distribuire l’ultimo
ricordo che
avevano dei bei momenti passati come famiglia, quando ancora facevano
entrambi parte di una vera famiglia?
«Ma,
Beatrice,
l’è
un rudere che
porta più magagne che
vantaggi, pensaci bene» si difese debolmente il ragazzo,
guardandola piuttosto spaurito.
La fanciulla lo guardò e, all’improvviso, tutta la
collera
che provava nei suoi confronti scemò: suo fratello non era
mai
stato in grado di fare niente di buono e, probabilmente, sarebbe
rimasto così per tutto il resto della sua vita.
«Io davvero non
so come
fai ad esser così
insensibile e
privo di logica».
Prese
con sé la lana ed i ferri e corse
fuori, in giardino, sedendosi sugli scalini sotto al vecchio glicine.
In inverno sembrava un ammasso rachitico di rami, ma, in primavera,
tornava a fiorire florido e splendido, ravvivando il giardino con il
colore dei suoi fiori. Le piaceva quella pianta, le ricordava quella
che avevano proprio a Villa Paolina, la casa dell’Isola
d’Elba che sua madre le aveva lasciato, la stessa casa che
suo
fratello voleva svendere a quell’animale di Navarra.
Perché Guido era arrivato a
tanto? Perché voleva insudiciare il luogo dei ricordi della
loro
infanzia? La casa di Firenze era stata la prima ad essere
venduta e dopo di essa erano andate via, una ad una, tutte le altre
proprietà. Perfino i mobili erano stati venduti
all’asta
per pochi soldi, perdendo miseramente tutto il loro grande valore
affettivo.
Beatrice chiuse le braccia intorno alle gambe e poggiò il
mento
sulle ginocchia: ormai non aveva più lacrime per piangere la
felicità perduta.
Dopo un po’, però, si mise
in una posizione più comoda e riprese la sciarpa
lasciata a metà; forse, faceva ancora in tempo a costruirsi
una propria felicità, una che
né Guido,
né tantomeno Navarra avrebbero potuto distruggere. E
pensò a Marcello e a tutti i bei sentimenti che riusciva ad
ispirarle, così da poter allontanare la grande tristezza che
sentiva dentro di sé e, quindi, riprendere a lavorare alla
luce dei lampioni.
***
Essendo ormai prossimo il Natale, Marcello e Gerardo non si
meravigliarono di trovare il Weihnachtsmarkt1
allestito di tutto punto,
proprio sotto
l’orologio astronomico di Marienplatz: anche
a Monaco, infatti, si respirava già una bella aria natalizia
che mise
i due ragazzi di buonumore.
Per giunta, seppur durante la notte la neve fosse caduta in grossi
fiocchi, quella mattina era uscito un pallido sole a cercare di
riscaldare la fredda atmosfera.
Si erano svegliati entrambi molto presto, ancora provati dalla nottata
trascorsa in treno, così,
avendo
ancora diverso tempo prima dell’incontro con Berger e
Müller,
avevano deciso di andare a fare colazione in uno dei caffè
della
famosa piazza monacense, trovandovi dell’ottimo tè
e
una
succulenta torta bavarese al cioccolato.
Quando il grande orologio batté le dieci, però,
decisero
di prendere un taxi, per recarsi nella lussuosa Maximilianstraße,
dove si trovava l’ufficio dei due imprenditori tedeschi;
avrebbero tanto voluto vedere lo spettacolo del carillon della torre,
ma, poiché il meccanismo si attivava solo alle dodici e alle
diciassette, si ripromisero di tornare nel pomeriggio.
In compenso, durante il
percorso in auto, poterono ammirare le particolarità
dell’architettura nordica dei palazzi che fiancheggiavano le
strade del centro, dal forte taglio
mitteleuropeo, e Marcello si ritrovò inconsciamente a
pensare che Beatrice avrebbe saputo certamente spiegargli quali
erano le caratteristiche salienti di quelle costruzioni.
Il tassista, probabilmente conoscendo molto bene il posto,
lasciò i due giovani proprio davanti al numero trentacinque
di Maximilianstraße,
che corrispondeva ad un alto edificio con un bel portico e tantissime
finestre. Rintracciarono subito la targa d’ottone che
indicava che Berger e Müller
lavoravano proprio lì e, dopo aver suonato, oltrepassarono
il grande portone nero,
pronti ad incontrare i due pezzi grossi dell’industria
automobilistica tedesca.
La prima cosa che notò Marcello, dopo che la biondissima
segretaria li ebbe fatti accomodare in un ordinato salotto, fu che
quell’ufficio era profondamente diverso da
quello suo e di Gerardo: il parquet chiaro, la prevalenza del bianco
nel mobilio, le alte finestre che lasciavano passare molta luce e la
varietà spropositata di piante grasse messe in bella mostra
lo rendevano molto simile ad un’area d’esposizione,
piuttosto che ad un locale ad uso lavorativo.
Si voltò allora verso il suo amico e notò che si
guardava intorno, meravigliato, come se avesse notato le
stesse cose.
Tuttavia, non ebbero modo di commentare, almeno non in quel frangente,
poiché due uomini, proprio in quell’istante, fecero il loro
ingresso nella stanza; fisicamente, erano diversissimi tra loro, tanto
è
vero che il biondo li paragonò inconsciamente a Bud Spencer
e Terence Hill.
«Guten Morgen!»
li salutò affabilmente il tipo più alto e grosso,
con capelli corti e scuri ed un’espressione
simpatica. Per
fortuna, per proseguire il suo discorso adottò
l’inglese, giacché né Marcello,
né Gerardo sapevano il tedesco. «Io
sono Ludwig Berger, è un vero piacere conoscervi di persona,
finalmente!»
Marcello gli porse la mano.
«Il
piacere è nostro, Herr Berger».
L’uomo gliela strinse con calore, il che sorprese non poco
Marcello, che credeva che i tedeschi fossero tutti freddi ed
inospitali. Mai pregiudizio si rivelò più falso.
L’imprenditore
strinse la mano anche a Gerardo, quindi si voltò e
presentò il suo socio, un uomo più giovane e
più asciutto, dai folti capelli biondi e dalla barba rada.
«Lui, invece,
è il mio socio, Matthäus
Müller».
«Piacere,
Herr Müller»
dissero entrambi i giovani, stringendo la mano anche a lui, che
ricambiò con energia.
I
ragazzi vennero, quindi, condotti in una grande stanza rettangolare con
un lungo
tavolo di legno nero e le pareti coperte da maestose librerie da design
squadrato. Sull’unico muro libero, che era quello
prospiciente la
porta d’ingresso, erano appese delle foto in bianco e nero
che
ritraevano alcuni edifici di Monaco distrutti dai bombardamenti del
1945.
«Quelle
ferite non si sono ancora rimarginate del tutto» disse
Berger,
avendo probabilmente notato che Marcello era stato incuriosito da
quelle gigantografie. «La
nostra divisione interna è la ferita più
grande».
Il
biondo aveva sentito diverse versioni sulla faccenda e voleva scoprire
come stessero sul serio le cose, avendo l’occasione di
interloquire con una fonte coinvolta in prima persona. Tuttavia,
cercò di mantenere una certa delicatezza nel porre le
domande.
«Alla
frontiera non lasciano passare proprio nessuno?»
«Ci
vogliono permessi speciali e ottenerli è molto, molto
difficile» spiegò l’industriale.
«La Deutsche
Demokratische Republik2
è molto ferrea nei controlli»
intervenne Müller. «Mio
fratello abita a Berlino Est e non
lo vedo da venticinque anni».
«Deve essere atroce...» commentò Gerardo, con tono
sommesso.
Calò un breve e triste silenzio, interrotto subito dai due
tedeschi che invitarono i due giovani a ad accomodarsi al tavolo: il
biondo ebbe il vago sospetto che non volessero alcuna compassione e
rispettò la loro fierezza.
Quando ognuno si fu sistemato, cominciarono a parlare
dell’affare
che avrebbero dovuto concludere. Marcello e Gerardo, infatti, erano
intenzionati ad
acquistare delle azioni dell’azienda di Berger e
Müller e si
erano recati sul posto proprio per definire i dettagli della
compravendita ed, eventualmente, per firmare il contratto.
La trattativa di per sé non fu particolarmente pesante;
Marcello aveva avuto la sensazione che sia lui che il suo amico fossero
risultati in qualche misura simpatici ai due imprenditori, cosa che non
era accaduta, per esempio, quando avevano fatto la conoscenza di quei
farabutti dei due petrolieri.
«Fare
affari con voi è stato molto, come si dice... ehrlich».
«Onesto»
spiegò l’altro, venendo in soccorso del suo
collega.
«Ultimamente
ce la siamo vista brutta con quel Carter. Voi lo conoscete?»
chiese l’imprenditore tedesco.
«Purtroppo
sì» ammise Gerardo
«Herr
Berger, quindi anche lei ed il suo socio siete stati contattati da Lord
Carter?» si informò Marcello.
«Ja» rispose l’uomo
nella sua
lingua, per poi riprendere in inglese, «lui
e un certo Miller volevano
coinvolgerci in un affare da diversi milioni di marchi, decisamente
poco chiaro. Non è vero,
Matthäus?»
«Infatti. Abbiamo rifiutato quando abbiamo notato
diverse incongruenze in
ciò che ci ha detto»
rispose Müller,
tamburellando le dita sul plico di fogli che aveva davanti.
A quella rivelazione, dopo aver sollevato entrambi le sopracciglia,
Marcello e Gerardo si lanciarono un’occhiata di intesa.
«Senza
contare» proseguì l’uomo, «che
voleva convincerci a cedergli delle azioni della nostra
società, dicendo che non valgono molto, quando le
statistiche lasciano presagire che, tra qualche anno, potrebbe
esserci una forte accelerazione dei tassi di crescita3».
«Inoltre
sappiamo che ha cercato anche di mettere mani sulle aziende
che operano nel bacino della Ruhr che, come saprete,
è il cuore della metallurgia europea»
aggiunse Berger, adombrandosi repentinamente.
Marcello
assottigliò lo sguardo: Lord Carter sembrava davvero avere
le mani in pasta negli affari di mezza Europa e quindi
c’era davvero da sospettare che facesse parte di qualche
complotto economico internazionale.
«Anche
noi non abbiamo avuto una buona impressione di lui»
ammise, avendo ormai capito di essere entrato con quei due uomini in un
clima abbastanza confidenziale.
«Esatto»
confermò Gerardo, dandogli manforte.
Müller
scosse nervosamente la testa: «Lui
e Miller sembrano tipi pericolosi».
Marcello richiuse la sua stilografica con uno scatto secco del tappo.
Se anche altre persone avevano avuto la stessa impressione su quel
magnate britannico e sul suo viscido assistente, molto
probabilmente l’opinione che si erano fatti non era tanto
sbagliata.
Quando uscirono dall’ufficio di Berger e Müller, si
resero
conto che si era fatta l’ora di pranzo e, ricordandosi di un
locale
tipico che avevano già notato la sera prima, si fermarono a prendere qualcosa
nell’alberata Leopoldstraße.
All’interno, la birreria era abbastanza cupa, un
po’ per via delle
finestre opache e strette, un po’ perché,
nell’arredamento,
prevaleva ovunque il legno; tuttavia, furono accolti dal saluto di due
cameriere
brune e altissime, delle quali l’una era intenta a spillare
la
birra in grandi boccali di vetro e l’altra si stava occupando
di
eliminare l’eccesso di schiuma in superficie con l’apposita spatola.
Sopraggiunse allora una terza ragazza dai capelli rossicci, la quale
fece loro
segno di seguirli e, districandosi abilmente tra tavoli e panche
già occupati da altri commensali, li condusse al piano di
sopra, dove li fece accomodare davanti ad una finestrella e
consegnò loro il menù.
«Cosa
ne pensi dei nostri nuovi clienti tedeschi?» chiese Gerardo,
mentre sfogliava la carta, assorto.
«Mi
sembrano brave persone. Se hanno avuto il coraggio di dire no a Carter,
devono essere davvero onesti» commentò Marcello,
piacevolmente colpito dalla moralità dei due imprenditori.
«Sono
d’accordo. A proposito, hai visto? Quel delinquente ha
cercato di
espandere il suo dominio anche qui!»
«La cosa non mi
meraviglia affatto, abbiamo visto di cosa sono capaci lui
e Miller» fece il giovane, tetro, mentre l’amico,
ricordando il loro incontro con il magnate del
petrolio, non riuscì a trattenere un brivido.
«Non voglio nemmeno pensare a cosa ci sarebbe successo, se
fossimo entrati in collaborazione con lui»
commentò.
La cameriera che li aveva accolti giunse a prendere le ordinazioni,
riservando un sorriso languido a Gerardo e un’occhiata
sospettosa
a Marcello, segnando accuratamente tutto e,
nel giro di poco, i giovani si ritrovarono davanti due enormi boccali
di Löwenbräu,
una delle birre tipiche di Monaco.
Anche i loro stomaci furono grati della celerità del
servizio, infatti
non passò nemmeno un quarto d’ora che la ragazza
servì ciò che avevano ordinato, facendo l’occhiolino a
Gerardo
che, però, non sembrò farci caso.
Tuttavia, fu difficile non notare, invece, la grande differenza nella
quantità di cibo dei due piatti: quello destinato al moro
traboccava letteralmente, mentre l’altro aveva
solo un
pezzettino di Schweinshaxe
e un misero cucchiaio di Kartoffelsalat4.
«Due
sono le alternative: o ti ha visto deperito»
commentò il biondo,
sbalordito, «oppure hai
fatto colpo sulla cameriera».
«Ma no, che dici»
balbettò l’altro, rosso fino alla punta delle
orecchie,
agitandosi nervosamente sulla
sedia.
«Dico
che, secondo me, piaci alle tedesche».
«Che
sciocchezze vai dicendo... Io non piaccio a nessuna
donna».
«Non sembrerebbe»
insistette Marcello, afflitto, osservando la miseria che aveva
davanti.
«E
poi, ti ho già detto che non devi gettarti fango addosso in
questa maniera».
«Be’, lo sai che sei tu quello che le ragazze
guardano sempre, non io»
notò con semplicità l’amico. «Comunque,
per me è troppo tutto questo, passami il piatto,
così facciamo a metà».
Il ragazzo fece come gli aveva detto, ringraziandolo e l’amico gli rispose alzando
le spalle, come a dire che non stava facendo niente di che.
«A me
basterebbe piacere solo ad una» sussurrò,
diventando improvvisamente malinconico.
«Se
continui a girare intorno a Vittoria senza prendere una decisione, la
perderai» rispose il biondo.
«L’unica
cosa che non voglio perdere è la sua amicizia. E se lei non
mi
volesse? Preferisco continuare a starle vicino soffocando i sentimenti
nei suoi confronti, piuttosto che rischiare di non vederla
più».
«Ma non puoi continuare così!» esclamò il
ragazzo, sconcertato dall’ottusa ostinazione dell’amico.
«Soprattutto, non potete continuare a discutere perché
permettete sempre ad un Bartolomeo o una Maria Luisa di intereferire
con le vostre vite. Di questo passo, sarà proprio la vostra
amicizia ad essere compromessa».
Gerardo, però, sembrò sordo a tale osservazione, perseverando nel fissare il suo piatto senza dire nulla.
«Se
non vuoi rischiare, forse non la vuoi abbastanza»
commentò, a quel punto, Marcello, stizzito da
quell’atteggiamento. Tuttavia, non aveva nemmeno finito di
pronunciare l’ultima parola, che l’altro scattò su
e, incollerito, sbottò: «Tu non puoi nemmeno immaginare quanto io desideri
ardentemente
Vittoria!»
Non era da lui rispondere in
tale maniera e la sua reazione
lasciò il giovane letteralmente a bocca aperta.
Quando, però, Gerardo si rese conto di ciò che
aveva appena detto,
le guance gli si imporporarono come mai in vita sua, si
affrettò a dividere la sua porzione, spostando
l’eccesso
nel piatto dell’amico, e cominciò a mangiare
seppellendo se
stesso ed il suo imbarazzo dietro il proprio boccale.
***
Con
le festività alle porte, la merceria fu letteralmente presa d’assalto dalle signore, le
quali cercavano disperatamente idee regalo
per familiari, amici, conoscenti e vicini di casa.
Beatrice adorava dare consigli e suggerire gli accostamenti migliori di
stoffe e passamanerie, al fine di aiutare le clienti
nell’ardua
scelta della combinazione perfetta
per la realizzazione di tovaglie e tovaglioli, poi esibiti durante i
vari pranzi e cenoni del periodo natalizio; si
sentiva utile e aveva la possibilità di mettere a frutto la
sua
passione per i giochi con i filati ed i colori.
La
signora Sofia la lasciava fare, contenta di avere un’aiutante
così entusiasta e di spirito, anzi, spesso le faceva seguire
di proposito le clienti più esigenti.
Esattamente come fece quella mattina.
«Beatrice, puoi venire qui un attimo? Alla signorina serve
una mano».
«Arrivo!»
rispose lei, con voce squillante per dare un cenno di aver sentito, in
mezzo a tutta quella confusione. Spostò i vari imballaggi
della
nuova merce e, con qualche difficoltà, riuscì a
farsi
strada verso la parte opposta del bancone.
«Buongiorno,
cosa posso
fare per lei?» chiese, mettendo da parte
l’ultima scatola che le ingombrava il passaggio.
La fanciulla rimase per qualche istante a guardare la ragazza che aveva
davanti, concentrata nello scegliere una tra le tante
varietà di pizzo, avendo la forte impressione di averla
già vista da qualche parte e le bastò solo
qualche istante
di riflessione per capire chi fosse.
«Io
ti conosco... Tu
se’ la
Vittoria, l’amica
di Marcello!»
esclamò.
La diretta interessata alzò lo sguardo sopra di lei e
assunse, a sua volta, un’espressione di autentico stupore.
«Oh,
Beatrice, non sapevo lavorassi qui!»
«L’è
già
più di un mese che
lavoro per la signora Sofia» spiegò lei.
L’altra scosse la testa: «Ah, ecco. Quel lazzarone
non me l’ha detto, anche se lo sa, vero?»
«Be’,
sì» rispose lentamente Beatrice, certa che si
stessa riferendo proprio a lui.
Era rimasta molto colpita dall’epiteto con cui quella ragazza
lo
aveva chiamato: si percepiva che erano in grande confidenza e questa
consapevolezza le causò una fitta interna.
Sebbene avesse avuto le sue conferme, riguardo il fatto che tra
Vittoria e Marcello non c’era
nulla di più di una solida
amicizia, la fanciulla non poté impedirsi di provare una
certa
gelosia nei confronti della sua interlocutrice; d’altra
parte,
già il solo fatto che potesse vedere il ragazzo ogni volta
che
voleva, senza doversi nascondere, la metteva in una posizione di
vantaggio rispetto a lei.
«Ogni
tanto viene a salutare» aggiunse, incerta. Le risultava
particolarmente difficile non considerare Vittoria come una rivale,
poiché le sue paure inconsce stavano avendo la meglio sui
fatti:
quella ragazza era talmente bella e spigliata che qualunque uomo
l’avrebbe preferita a lei, che era solo un’insulsa
ragazzina.
Le parole che aveva detto Anna Laura, quel giorno a Campo de’
Fiori, le tornarono in mente, ferendola con lame affilate, temendo che potessero essere la triste verità.
Improvvisamente, la giovane donna
schioccò la lingua in senso di grande disapprovazione,
richiamando l’attenzione della fanciulla.
«Quando tornerà, gliela farò pagare»
affermò, battagliera.
«Dove
è andato? M’ha detto che sarebbe stato
fuori città, ma non ha aggiunto altro»
le chiese Beatrice, trovando il coraggio di fare quella domanda, spinta
dalla curiosità di sapere dove si trovasse di preciso il
giovane.
«In
Baviera, a Monaco. Doveva concludere una trattativa in questi giorni.
Sono partiti tre giorni fa».
«Partiti?»
Vittoria annuì:
«Sì,
Marcello è andato con il suo socio, Gerardo Marini. Lo
conosci?»
«No,
non ne ho ancora
avuto modo. Però mi piacerebbe,
Marcello ne
parla sempre molto bene».
«È
un ragazzo davvero adorabile» fece l’altra,
sorridendo con evidente trasporto. Si fermò per qualche
istante,
come se si fosse persa nei propri pensieri, e poi riprese: «Bene,
bene. Vorrà dire che passerò di qui per portarti
l’invito della mostra. Se dovessi darli entrambi a tua
cugina,
potresti non riceverlo».
Beatrice
stava per dire che, se fosse stato per la parente, non avrebbe mai
dovuto mettere piede fuori di casa, ma lasciò perdere,
perché odiava andarsi a lamentare della sua famiglia con
persone
che non conosceva bene. Pertanto, disse solamente: «In
effetti, l’Anna
Laura è un po’... inaffidabile».
La
ragazza sollevò le sopracciglia, forse pensando che
c’era
tanto altro da dire su quella donna così irritante, ma
nemmeno
lei si dilungò in altri commenti.
«Comunque, cosa posso fare per
te?» fece la fanciulla, cambiando argomento e preferendo dedicarsi ad altro.
Vittoria sollevò il pizzo e glielo fece vedere.
«Mi servirebbero due metri di questo e
poi avevo anche intenzione di comprare dello chiffon per rifinire il
mio vestito di Natale... Che colore mi consigli?»
***
Il pomeriggio del ventuno dicembre, Marcello uscì di casa
poco dopo le quattro, così da non arrivare tardi
all’appuntamento che aveva con Beatrice.
Le ombre si andavano affievolendo, man mano che il crepuscolo avanzava;
nella luce del sole morente, che striava di rossastro il tufo grigio e
poroso dei monumenti d’altri tempi, il giovane avanzava, in
armonia con le
sfumature sullo sfondo: era come se la storia si fosse imbevuta di luce.
In una mano, teneva il pacchetto che avrebbe consegnato alla fanciulla,
sperando che lei potesse apprezzare il suo contenuto. Infatti,
nonostante quello non fosse il primo regalo che le faceva, si
ritrovò a nutrire, in merito a ciò,
più dubbi di quanti avrebbe dovuto.
Si stava pian piano abituando alla presenza costante di quella ragazza
tra i suoi pensieri, consapevole che aveva cominciato a nutrire verso
di lei più che un semplice interesse; infatti, se dapprima
era stato incuriosito e ammaliato da quella giovane, così
profondamente diversa da tutte le altre che aveva avuto modo di
conoscere, ora Marcello era certo di essere stato più che
conquistato dalla sua indole romanticamente5
orgogliosa.
Tuttavia, parallelamente a questo sentimento positivo, nel suo cuore si
era annidato anche un germe di negatività: nonostante la
ragazza avesse dimostrato di essere molto matura per la
sua età, il giovane sapeva di essere troppo grande, troppo
adulto per lei, poiché ai suoi occhi, di fatto, lei
restava poco più che una bambina.
Cosa avrebbe potuto offrirle lui? In realtà, poco o niente,
conscio di avere un carattere molto rigido e severo,
caratteristica che lo faceva sembrare ancor più vecchio dei
suoi ventiquattro, ormai più venticinque, anni.
Mentre si angustiava con questi pensieri, si rese conto di star
già percorrendo Via
della Mercede e, poco dopo, intravide Beatrice,
cordialmente intenta a
discutere con la sua datrice di lavoro.
Sorrideva e Marcello lo interpretò come un buon segno:
evidentemente la signora Sofia doveva essere molto soddisfatta di lei.
Si
fermò, indeciso se continuare ad avvicinarsi ed interrompere
la
conversazione oppure rimanere lì, in disparte, aspettando
che
terminassero di parlare.
Una
lieve venticello arrivò a scompigliargli i capelli e ad
accarezzargli la pelle del viso, come se volesse invitarlo a non
abbandonare quella posizione privilegiata, dalla quale poteva osservare
la ragazza, seguendo i suoi gesti o provando ad immaginare cosa stesse
dicendo, semplicemente cercando di interpretare la sua espressione.
Ma il vento non aveva finito di sussurrargli tutto il suo messaggio, infatti, la cosa
più importante l’aveva lasciata per ultima.
Seguendo l’ispirazione di quel delicato refolo, infatti,
guardò
meglio Beatrice e, tutto d’un tratto, ammise a se stesso il
vero
motivo per cui aveva quei cupi e brutti pensieri in merito alla loro
differenza d’età: si era innamorato di lei.
Sebbene Marcello, in cuor suo, l’avesse già capito
da
qualche tempo, era stato restio a dichiararlo con voce ferma proprio
per tutte le riserve che nutriva nei confronti di una sua possibile
relazione con la fanciulla.
Non perché non la volesse, ovviamente, ma perché
temeva
che lei, un giorno, potesse innamorarsi di un altro, magari di un suo
coetaneo o di un ragazzo più allegro.
Da questo punto di vista, capì meglio il punto di vista di
Gerardo nel suo approccio con Vittoria, anche se continuava a non
approvare la reticenza dell’amico.
In quell’istante, la sarta rientrò nella sua
merceria, lasciando la ragazza in strada.
Resosi conto di ciò, il
giovane si riscosse dalle sue meditazioni e, preso un respiro
d’incoraggiamento, si avvicinò alla ragazza.
«Buonasera
a te, Beatrice» la salutò, quando le fu
più vicino.
«Oh,
ciao Marcello!» fece lei a sua volta,
radiosa. «Come
è andato il viaggio a Monaco?»
«Molto bene...»
le rispose lentamente il giovane, domandandosi come facesse la ragazza
a sapere con tale precisione dove era andato. Era sicuro di non
averlo scritto sul biglietto che le aveva inviato, non
perché
fosse un segreto, ma perché non credeva che fosse un
dettaglio
importante.
Beatrice dovette aver catturato la sua perplessità, infatti
aggiunse: «Me
l’ha detto Vittoria, è passata in
merceria
per caso e
ci siamo incontrate».
Ora
sì che tutto quadrava.
«Sei
arrivato proprio al momento giusto,
comunque, ho appena
finito di
parlare con
la signora Sofia e ora sono ufficialmente
libera!»
continuò lei, concedendogli uno dei suoi sorrisi
più
belli e spontanei.
Marcello
pensò che
fosse molto carina, avvolta nella mantella color carta da zucchero, per
poi
sentirsi in colpa subito dopo: era come se, nel suo animo, si fosse
innescata la convinzione che non ci fosse nulla di più
amorale dell’attrazione che provava per Beatrice.
«Ah,
bene» replicò lui, abbastanza dimesso.
La fanciulla, udendo quel tono, mutò immediatamente
espressione.
«C’è
qualcosa che non va? Hai qualche altro impegno e
non possiamo andare?»
«No, no, va
tutto bene, sono in
pausa dal lavoro, per ora»
si affrettò
a risponderle lui, maledicendosi per aver dato voce ai suoi
pensieri più opprimenti proprio poco prima di incontrarla.
Per risollevare la situazione, decise di consegnare subito il pacchetto
alla fanciulla, cambiando così argomento: «Questo
è per te. So che i regali di Natale non dovrebbero essere
dati in anticipo, ma non penso che avrò un’altra
occasione di vederti, prima del venticinque».
Le iridi blu di Beatrice
si illuminarono.
«Oh, grazie!
Se’
sempre così gentile
con me...
Ti dispiace se lo apro adesso? Ah, no, aspetta un attimo, anch’io ho
qualcosa per te!»
Entrò nel negozio e ne riuscì solo qualche attimo
dopo,
portando tra la braccia un pacchettino avvolto in carta verde e bianca,
con un simpatico fiocco di organza.
«Ecco
il mio regalo per Natale e per il tuo compleanno.
È il
ventisette, vero?» disse la fanciulla, porgendoglielo, con le
guance leggermente arrossate.
Il ragazzo la
fissò, basito: «Sì, ma... Come fai a
saperlo?»
«L’ossessione
dell’Anna Laura nei
tuo’
confronti,
a volte, può tornare estremamente utile»
rispose lei, con una semplicità disarmante.
Nell’udire il nome della cugina di Beatrice, Marcello decise
che era
meglio non indagare oltre, dedicandosi invece a scartare il regalo e
trovandovi, all’interno, una elegante sciarpa grigia.
«L’ho
fatta io. Non sarà perfetta ma... spero che ti piaccia».
Il
biondo la dispiegò e ne ammirò la fattura
impeccabile,
senza fili non intrecciati oppure spanati, scoprendola molto morbida al
tocco.
«In
realtà è più che perfetta»
ammise.
La fanciulla si fece ancora più rossa, ma, stando al sorriso
che
aleggiava sulle sue labbra, doveva essere contenta che lui avesse
apprezzato così tanto il suo lavoro.
«Fammi
vedere se è della lunghezza
giusta».
Marcello l’assecondò, indossando la sciarpa e
permettendo alla
ragazza di sistemargliela per bene. Era molto calda e, avendo una trama
priva di decori o punti particolari, era in linea con il suo stile
sobrio.
Poi venne il momento in cui toccò a Beatrice scartare il suo
pacchetto e, quando si ritrovò tra le mani
l’elegantissimo
soprabito lilla, rimase letteralmente senza parole.
«Oh,
ma è bellissimo... Il lilla è uno dei miei colori
preferiti, perché
sta abbastanza bene anche
con il colore
dei miei capelli»
considerò, soffermandosi a guardare la spilla appuntata
all’occhiello. Lo piegò con cura e lo rimise nella
busta,
spiegando che l’avrebbe messo al sicuro nel retrobottega e
che avrebbe
pensato ad un modo per riportarlo a casa, senza che Anna Laura lo
vedesse e fosse colta dal malsano desiderio di appropriarsene.
Prima di entrare, però, lanciò a Marcello uno sguardo riconoscente.
«Be’,
ora che me
ne hai regalato uno, non dovrai più prestarmi il
tuo».
Una volta entrati nel comprensorio dei Musei Vaticani6,
Beatrice e
Marcello si inerpicarono su per i gradini di varie scalinate,
trovandosi a percorrere un autentico sentiero dell’arte
rinascimentale.
Il ragazzo, che non era mai stato particolarmente esperto di dipinti e
affreschi, si lasciò alle spalle le preoccupazioni che lo
avevano coinvolto poco prima, lasciandosi trasportare
dall’enfasi
con la quale la fanciulla gli stava descrivendo ogni singola opera
d’arte.
Prima di accedere alla Cappella vera e propria, ebbero modo di visitare
la Stanza della
Segnatura, appartenente a papa Giulio II e affrescata da
Raffaello in persona.
Marcello rimase seriamente colpito dall’armonia di colori e
forme che regnava nella celebre Scuola
di Atene,
laddove riconobbe Platone ed Aristotele che si confrontavano sui
principi delle loro filosofie, Il Mondo delle Idee e la Metafisica.
Beatrice gli spiegò che Raffaello, per
quell’opera, aveva
usato numerosi presta volto, scelti tra i suoi colleghi artisti, per
dipingere
i volti dei soggetti, a cominciare da Platone, che aveva preso in
prestito le sembianze del grande Leonardo da Vinci.
Ma tutto ciò non era niente in confronto a quello che
riservò loro la Sistina.
Non erano nemmeno entrati, che già erano con il
naso per aria a fissare il soffitto, poeticamente affrescato
dall’abile mano
di Michelangelo, dove La
Creazione di Adamo sembrava il centro di quel
microuniverso.
La sequela di affreschi, che correvano lungo le pareti
dell’edificio, mostravano quella che era stata la
vera essenza
dell’Umanesimo: l’elevazione
dell’abilità e
dell’ingegno dell’uomo attraverso l’arte
e
l’architettura.
D’altra
parte, non avrebbero potuto non rimanere incantati dinnanzi ad opere
come La consegna delle
chiavi del Perugino o La vocazione dei primi Apostoli
del Ghirlandaio.
Eppure,
il pezzo
forte si mostrò loro solo quando si voltarono verso
la porta da dove erano entrati, la stessa che oltrepassano i cardinali
in occasione del Conclave: infatti, si trovarono davanti il Giudizio
Universale, con le sagome che volteggiavano nella
campitura azzurra,
con Gesù Cristo impegnato a dare un ordine a quel vortice,
mentre,
al
suo fianco, la Madonna era stata dipinta avvolta su se stessa,
l’unica
avvocata7 per le
anime.
Entrambi i giovani restarono senza parole, ammaliati nel profondo da
tanta espressività.
Quei dipinti narravano un qualcosa che andava oltre il significato
religioso che avevano, aprendo un portale di comunicazione tra passato,
presente e futuro; erano un messaggio iconografico, narrante la
straordinaria capacità dell’essere umano di
apprendere e
comprendere, di andare oltre i propri confini.
Marcello si voltò verso Beatrice per chiederle se fosse
soddisfatta, tuttavia, osservando il sorriso che esprimeva tutto il
misto di emozioni che stava provando, decise di tacere, non
volendo rovinare quel momento di contemplazione.
Anche
perché, a farlo, ci pensò qualcun altro: un
signore
che, correndo mentre cercava di riacciuffare il figlioletto che
scappava qua e là, urtò malamente la fanciulla,
facendola
quasi cadere.
«Mi scusi!»
le gridò, senza nemmeno guardarla in faccia,
agguantando il bambino e trascinandolo via.
Il giovane stava quasi per commentare sulla scarsa educazione che aveva
esibito il tizio, quando notò che la fanciulla aveva chiuso
gli
occhi e si era irrigidita, assumendo una posa come di difesa.
Trovandolo
esagerato, nonostante l’entità
dell’impatto,
Marcello le chiese: «Cosa c’è, Beatrice?»
Lentamente, la ragazza
ispirò a fondo e tornò più
rilassata, anche
se non del tutto: «Nulla, mi dà solo fastidio
quando mi
toccano gli estranei».
«Ti ha fatto
male?»
Lei
negò con il capo: «Non
è solo quello. Sai, dopo quello che...».
E si interruppe, come se temesse di aver detto troppo, chinò
rapidamente la testa e tornò contratta come prima.
Insospettito da quello
strano atteggiamento, il biondo insistette: «Dopo
quello,
cosa?»
Beatrice ci mise qualche secondo per rispondere. Dal canto suo,
Marcello attese paziente, non sollecitandola ulteriormente ed ottenendo
così l’effetto contrario, giacché aveva
tutta
l’intenzione di scoprire il perché la ragazza si
stesse
comportando in maniera così strana.
«Ecco» iniziò lei,
tentennante, «poco
più d’una settimana fa, è venuto a
trovarmi
Navarra
e... mi ha... messo le mani addosso».
Le ultime parole sortirono su Marcello un effetto istantaneo:
avvertì montare una collera così forte
che, se
in quel momento avesse avuto davanti quel troglodita,
l’avrebbe macellato
all’istante
come il
maiale che era. Anzi, paragonarlo ad un maiale era un offesa, per
l’animale, ovviamente.
«Che lurido bastardo!»
ringhiò, avvertendo i visceri che si contraevano per la
rabbia.
La sola idea, che quello schifoso avesse allungato le sue zampacce
sulla giovane, doveva avergli fatto schizzare la pressione alle stelle.
«Come
diavolo si è permesso!»
Solitamente, era un ragazzo che cedeva molto di rado alle passioni
dell’animo, privilegiando il raziocinio ai sentimenti,
eppure,
già quando aveva sentito i tormenti di Vittoria, aveva
sentito
di odiare profondamente quegli uomini che trattavano le donne come se
fossero giocattoli; apprendere quale orrore era toccato alla sua Beatrice non
fece altro che amplificare la sua collera.
«Navarra non ha
un codice d’onore, lo sai»
gli disse la ragazza, guardandolo tristemente.
«Scommetto
che quel coglione
di tuo fratello non ti ha protetta» affermò lui,
con rabbia, sicuro di ciò che aveva appena formulato.
«No...».
«Immaginavo».
Colto da un’improvvisa inquietudine, fece qualche passo in
avanti,
tornò indietro e ricominciò un’altra
volta, per poi
tornare nuovamente al punto di partenza.
«Ma
un essere così inetto, come ha fatto durante il servizio di
leva?»
Beatrice assunse un’espressione meravigliata: «Infatti
non
l’ha fatto... È riuscito ad evitarlo,
adducendo la
motivazione
che
’l babbo era in punto di morte e che il capofamiglia era
lui».
Quella
risposta non fece altro che peggiorare la bassa opinione che il giovane
aveva di
Guido Tolomei; se avesse potuto, Marcello l’avrebbe
volentieri
mandato a scavare in miniera, lontano dalla luce del sole e
dall’aria pura.
Forse era giunto il momento di andare a parlare davvero con
quell’inetto: non poteva continuare a costringere la sorella
a
frequentare quel rifiuto umano di Navarra.
Già, gli avrebbe parlato, ma che cosa gli avrebbe detto di
preciso?
Prima di offrirsi lui come probabilme marito, prima avrebbe dovuto chiedere a Beatrice se fosse d’accordo.
Bastarono quei pochi pensieri per far ripiombare di nuovo Marcello
nella sua spirale di dubbi e timori.
A quel punto, la fanciulla, che doveva
aver notato l’ombra che era passata sul suo viso, gli
sussurrò, mortificata: «Scusa,
non volevo deprimerti».
Tuttavia, Marcello scosse la testa,
sospirando.
«No, non è per te, assolutamente. Stavo solo
pensando
che, prima o poi, tuo fratello dovrà pagarla cara per tutto
quello che ti sta facendo».
«Sì,
ma non pensiamoci ora. Ti prego, non roviniamoci la serata»
lo supplicò lei.
Il ragazzo la assecondò e la seguì, ultimando il
tour
degli affreschi, anche se, ormai, nella sua testa e nel suo animo,
infuriava la peggiore delle burrasche.
Usciti
dai Musei Vaticani, Beatrice espresse il desiderio di poter fare
una passeggiata per il centro, dato che, da quando era a Roma, nessuno
aveva avuto il buon cuore di farglielo vedere;
data l’ora e il periodo dell’anno nel quale si
trovavano,
Marcello pensò che sarebbe stato molto suggestivo portarla a
vedere la Fontana di Trevi, circondata dalle luci
colorate degli esercizi commerciali circostanti.
Il monumento di marmo si presentò ai loro occhi maestoso e
con
un’aura quasi titanica, accentuata dai drammatici giochi di
chiaroscuro delle statue, rese enfatiche dalla plasticità
dei
dettagli scolpiti.
Non c’era moltissima gente, a discapito del fatto che fosse
quasi
Natale, pertanto Beatrice riuscì ad avvicinarsi al complesso
senza troppe difficoltà, rimanendo a guardare incantata i
curiosi riflessi che l’acqua creava sulla pietra.
Temendo che ci potesse essere nei paraggi qualcuno con le stesse brutte
intenzioni di Navarra, il biondo la seguì, per non perderla
di
vista nemmeno un attimo, sedendosi sul bordo della vasca.
Se già verso di lei aveva sempre provato una sorta di
istinto di
protezione, alla luce delle nuove dichiarazioni esso si era decisamente
esasperato.
Incurante di tali pensieri, la giovane si sporse per guardare meglio il
tutto ma, evidentemente, non doveva aver calibrato bene la spinta e fu
sul punto di finire dritta in acqua.
Rapido, Marcello la riacciuffò per un soffio, tirandola
verso di sé.
«Attenta! Hai voglia di farti una nuotata serale, per caso?»
la rimproverò.
«Mi
sono lasciata
prendere dalla bellezza del posto» si difese lei, abbozzando
un sorriso imbarazzato. «E
poi, finirti
addosso sta diventando un vizio».
Solo allora il giovane si
rese conto che aveva la ragazza praticamente in braccio.
«Già»
rispose, avvertendo un piacevole stretta allo stomaco e, subito dopo,
un tremendo senso di colpa.
Beatrice, invece, sembrava
perfettamente a suo agio e diede un altro sguardo alla statua di Oceano.
«Se fossi caduta nella
fontana, avrei potuto provare anch’io
l’emozione di recitare Marcello, come here!»
esclamò, ridendo.
«Cosa?»
chiese il giovane che, assorto nello sbrogliamento dei suoi conflitti
interiori, non stava affatto seguendo il filo del discorso.
«Ma
sì! Come
dice l’Anita
Ekberg a Mastroianni ne La
Dolce Vita».
«Ah,
sì, è vero» replicò lui,
distrattamente.
La fanciulla lo guardò accigliata.
«Come sei serio,
la
battuta era carina,
dai. Mi è venuta spontanea, qui
davanti» fece, sorridendogli mentre gli sistemava il bavero
del cappotto.
Era
così vicina a lui che poteva percepire i suoi capelli fargli
il solletico sul viso.
Deglutì a vuoto: quella fu la prima volta in cui comprese
cosa
significasse provare l’ardente desiderio di baciare una
ragazza
e, per un secondo di follia, stava quasi per cadere nella tentazione di
farlo.
Si alzò bruscamente, rischiando di farla cadere per davvero.
«Marcello, ma... mi
dici cos’hai?»
domandò Beatrice, sbigottita e irritata.
«Niente,
è tutto a posto» le rispose il giovane,
distanziandosi di qualche passo e dandole le spalle.
«Non
è vero. Ho capito
subito che
oggi eri turbato!»
«Sto bene»
ribadì lui, secco.
Ne
seguì un attimo di pausa, al termine del quale,
udì la
voce di lei, querula e più lontana di quanto pensasse, che
diceva: «Avresti
potuto dirlo subito, che non ti allettava l’idea di uscire
con me...»
«Non
è vero! Cosa stai...» iniziò il
ragazzo, voltandosi
verso la fanciulla e accorgendosi che non era più accanto a
lui. La
individuò un secondo più tardi, riconoscendola
nella
giovane che, mesta, si stava avviando in Via del Lavatore.
«Beatrice,
aspetta!»
esclamò Marcello, senza ottenere risposta.
Si
sentì
davvero un idiota ad averla allontanata per le sue paranoie, a tal
punto che si sarebbe picchiato da solo. Si rizzò in tutta la
sua
imponente altezza e, con passo fermo, le andò dietro,
raggiungendola nel giro di pochi istanti. Si stava preparando a
chiamarla una seconda volta, quando un monito interiore gli
suggerì che
non era più il momento di parlare, bensì era
arrivato quello di
passare ai
fatti.
Senza strattonarla, le prese una mano
e la fece voltare verso di sé, come se volesse farle
eseguire
un’elegante piroetta danzante, ritrovandosi molto
più
vicino a lei di quanto avrebbe creduto.
Si concesse di ammirarla solo per un attimo, prima di cedere
all’impulso,
catturando le labbra di lei con le proprie. Per una volta, Marcello
decise
di assecondare le sue sensazioni: voleva sentirla più vicina
e,
per questo, le mise entrambe le mani sui fianchi, attirandola ancora di
più verso di sé, mentre assaporava maggiormente
quel
dolce contatto.
Beatrice, dal canto suo, superati i primi attimi di stupore, gli
buttò le braccia al collo,
ricambiando il bacio con intensità e trasporto, mentre
l’acqua continuava a scorrere nella fontana e i passanti
proseguivano nel loro passeggio: il tempo sembrava essersi fermato
solo per loro due.
Si discostarono
leggermente poco dopo, entrambi restii a lasciarsi
andare.
«Non pensavo
fossi così...
focoso»
gli disse piano la fanciulla, piacevolmente sorpresa, dispiegando
lentamente le labbra in un sorriso.
«Scusami,
io...» rispose lui, lievemente imbarazzato: era il primo
bacio
che dava ad una ragazza, forse avrebbe dovuto essere meno impetuoso e
più delicato?
Ma ciò che aggiunse dopo Beatrice gli fece capire che a lei,
in realtà, quell’approccio
non era dispiaciuto affatto.
«Ti prego, non
dire niente»
gli sussurrò
dolcemente, accarezzandogli la guancia perfettamente sbarbata.
«Ho
aspettato fin troppo questo momento».
Marcello sorrise appena, chinandosi nuovamente su di lei: almeno per
quel momento, aveva deciso di mettere a tacere tutti i suoi dubbi.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per aver letto tutto questo in anteprima.
***
[N.d.A]
1.
Weihnachtsmarkt:
il tradizionale mercatino di Natale di Marienplatz.
2. Deutsche
Demokratische Republik: Repubblica Democratica Tedesca,
come veniva identificato lo stato della Germania Est, in
contrapposizione alla Bundesrepublik Deutschland, ossia la Repubblica
Federale Tedesca (o Germania Ovest).
3. accelerazione dei
tassi di crescita: effettivamente, tra il 1988 ed il 1993,
l’economia della Germania ha attraversato un ottimo periodo.
4. Schweinshaxe...
Kartoffelsalat: stinco di maiale e insalata di
patate, piatti tipici della cucina bavarese.
5. romanticamente:
il termine deve essere preso nell’accezione
affine al movimento filosofico-letterario del Romanticismo, in quanto
sottointende che Beatrice è paragonabile ad un’eroina romantica
perché vuole rivendicare la sua posizione, innanzi tutto, di
persona con dei diritti inalienabili.
6. Musei Vaticani:
Marcello e Beatrice sono riusciti ad accedere ai musei nel tardissimo
pomeriggio, poiché hanno usufruito dell’apertura
serale, che cade una volta alla settimana.
7. avvocata:
termine volutamente scelto per ricalcare i versi del Salve, Regina!:
“orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli
occhi tuoi misericordiosi”.
***
Buon anno nuovo a tutti!
Il
caso ha voluto che oggi dovessi aggiornare, proprio in occasione del
mio quinto anniversario di permanenza su questo sito. Ovviamente questo
non interessa a nessuno, quindi vado oltre.
Vorrei aprire una piccola parentesi sul perché ho scelto di
ambientare la trasferta a Monaco di Baviera: punto primo, ci sono stata
in vacanza quest’estate,
pertanto ero abbastanza sicura di poterla descrivere in maniera
veritiera
e concreta; punto secondo, come sapete, la Germania è stata
la nazione che meglio ha impersonato e risentito della Guerra Fredda,
essendo stata divisa a lungo. Siccome ci tengo a dare la
parvenza di anni ’80, mi è sembrato che fosse
emblematico,
ecco.
Ringrazio chi legge,
chi ha messo questa
storia nelle preferite,
ricordate e/o seguite, chi ha commentato lo scorso capitolo.
A questo punto, lascio il
link al mio blog
e alla pagina
facebook, dove (nei prossimi giorni) troverete
uno spoiler del capitolo nono e altre cose.
Saluti e alla prossima, per chi avrà la bontà di
continuare a seguirmi.
Halley
S. C.
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