XXV
Winchester,
Boston
Un colpo secco risuonò nella fresca brezza di quel
pomeriggio di
fine maggio dal cielo terso. Era stato come uno schioppo che sanciva la
fine definitiva delle ostilità. Un lieve nugolo di polvere
rossiccia si levò da terra di qualche centimetro, proprio
fra i
piedi del ragazzo che ancora stava battagliando per non ruzzolare al
suolo, perdendo anche quella sfida.
«E con questo… è gioco, partita e
incontro!»
decretò con voce decisa Saga. Sul suo viso, un poco
arrossato e
imperlato di sudore, era stampato un sorriso smagliante che mostrava
tutta la – scontata – soddisfazione di chi aveva
predetto
il risultato dell’incontro con largo anticipo.
Con un gesto fluido si portò la racchetta sulla spalla e,
con
calma olimpica, si avvicinò alla rete, osservando il gemello
seduto a terra con i capelli scompigliati e appiccicati al viso
stravolto, che imprecava verso tutto e tutti. Sputava parole fra i
denti contro il laccio della scarpa destra che era finito sotto il suo
piede facendolo inciampare; contro la sua racchetta, a sua detta non
perfettamente bilanciata, e con l’impugnatura, rea di essere
così fradicia di sudore che era divenuta scivolosa; e anche
contro Saga, perché quell’ultima palla
gliel’aveva
tirata in un punto impossibile da ribattere.
«Non è valido! Me l’hai tirata in mezzo
ai
piedi!» sbraitò, agitandogli la racchetta contro.
Il suo
spirito di competizione ribolliva al massimo.
«Certo che è valido! Fa parte del
gioco!»
ribatté il gemello, ridendo ai goffi tentativi
dell’altro
di ripulirsi dalla terra rossa. Ma più Kanon si impegnava a
farlo, più si sporcava per via del sudore che impregnava sia
la
maglietta che il viso, le gambe e le braccia. «E comunque non
è colpa mia se non sei riuscito a respingere il mio
colpo», aggiunse, alzando le spalle a schernirlo di
più.
Eppure, quelle parole erano state pronunciate col sorriso sulle labbra,
di quelli dolci e gentili com’era solito fare quando era
davvero
sereno.
Forse lo aveva fatto con calcolata malizia, perché qualcosa
dal
gemello aveva imparato dell’arte dello sfottò, o
forse con
naturale ingenuità; ma il risultato era stato comunque
quello di
alimentare ancora di più la rabbia adrenalinica
dell’altro. Gli tese la mano da sopra la rete, per aiutarlo a
rialzarsi, ma Kanon la rifiutò con sdegno; e Saga si
lasciò andare a una risata forte e divertita.
Il giovane si incamminò lungo la rete fino ad arrivare alle
sedie a bordo campo – ai lati del seggiolone
dell’arbitro
– dove erano sistemate le borse e gli asciugamani. Dopo aver
posato la racchetta, dalla borsa prese una bottiglietta di integratore,
vuotandola in pochi sorsi.
«Imbroglione! Lo hai fatto di proposito solo per vincere di
nuovo!» continuò nelle sue lamentele Kanon,
raggiungendolo
e, con gesti ancora più nervosi, ficcando malamente la sua
racchetta nella borsa.
La sconfitta gli bruciava, eccome se gli bruciava! Soprattutto
perché era lo spareggio ed era arrivato a un soffio dalla
storica impresa di battere il gemello nel suo sport preferito. Ma
forse, quello che ora gli dava maggior fastidio era la consapevolezza
che la prima partita, quella cioè che aveva
vinto… beh,
era stata una vittoria troppo facile!
Saga gli tirò addosso l’asciugamano e si
buttò a
sedere su una delle sedie libere, sfinito, portando indietro la testa e
chiudendo gli occhi, per godersi un leggero refolo d’aria che
gli
accarezzava il viso umido di sudore. Sorrise sornione allo sbuffo
scocciato dell’altro.
L’aria portava con sé il profumo dei fiori che
crescevano
nelle curatissime e sempre perfette aiuole, disseminate fra i sentieri
ordinati che si snodavano negli spazi del Country Club, come un intrico
di vie e strade di un piccolo villaggio.
«Ti ho lasciato recuperare diversi punti che altrimenti non
avresti fatto, se non sei stato capace di approfittarne devi biasimare
solo te stesso.»
Kanon gli elargì un poco elegante gestaccio, corredato anche
da
una smorfia. Scaraventò a terra la sacca e si sedette
accanto al
gemello, coprendosi il viso con l’asciugamano.
«E questa volta cosa vuoi?» chiese, in uno sbuffo
risentito. Naturalmente si stava riferendo alla posta della scommessa
legata alla sua ennesima sconfitta.
«I biglietti per il Madison Square Garden.»
«Cosa?» disse, sgranando gli occhi e scattando in
piedi
come una molla. «Ma sei matto? Quei biglietti sono
praticamente
introvabili da settimane!»
«Usa i soliti canali, gli stessi di quando vuoi ottenere
qualcosa
per te», gli suggerì Saga, raddrizzandosi e
sorridendogli.
Si alzò dalla sedia, riordinò la propria borsa e
se la
mise in spalla, avviandosi poi fuori dal campo.
Kanon rimase basito. Non pensava certo che “quei”
suoi
metodi fossero sconosciuti al gemello, del resto lui stesso era stato
così sciocco da vantarsene in più di
un’occasione
in passato, ma che addirittura ora Saga lo spingesse a usarli, gli
sembrava una cosa fuori dal mondo.
«Ma tu lo sai cosa mi stai chiedendo di fare?» gli
disse,
ancora sconvolto, prendendo in fretta e furia le sue cose e
raggiungendolo di corsa, mentre Saga invece passeggiava con
tranquillità.
«Ti sto chiedendo di pagare il tuo debito. Sei tu che non hai
voluto sapere quale fosse la posta in palio, troppo sicuro che avresti
vinto, perché a differenza tua io non mi ero allenato negli
ultimi tempi...» gli ricordò Saga, senza il
bisogno poi di
completare la frase.
Kanon si bloccò in mezzo al vialetto che portava agli
spogliatoi
privati, come raggelato. No, era evidente che il suo amato fratellino
non si rendesse conto di quanto gli sarebbe costato, altrimenti non gli
avrebbe fatto una richiesta impossibile. Era però vero che
lui
gli aveva detto, con tono eccessivamente sicuro, che non gli importava
conoscere il premio per il vincitore; troppo convinto che si trattasse
della solita cena in uno dei ristoranti più rinomati della
Grande Mela che tanto Saga non avrebbe mai riscattato, visto che
già ne vantava altre dieci.
Lo osservò guadagnare qualche altro metro, mentre le sue
mani
inconsciamente si portavano indietro a ripararsi i glutei e un gemito
gli sgorgava mortifero dalla gola. La sola idea di doversi svendere
alle lussuriose e troppo stravaganti voglie della presidentessa
Abbigail Peterson – conosciuta a Wall Street come la regina
degli
snack dietetici –, che anche quell’anno sarebbe
stata fra
gli sponsor del match evento al Madison Square Garden, gli faceva
rimpiangere di essersi sempre compiaciuto dell’interesse che
la
donna nutriva per lui. In quel momento avvertì di nuovo, con
vivida chiarezza, le unghiate e i pizzicotti che lei gli aveva lasciato
l’ultima volta che si erano incontrati a uno dei soliti party
di
raccolta fondi per… beh, di solito a quegli eventi vi
partecipava solo per portarsi a letto qualcuna. Certo, la donna era
bella e affascinante, una conquista che avrebbe dato prestigio a molti,
ma forse sarebbe stata più adatta al padre piuttosto che a
lui,
se solo Shion avesse mostrato un qualche minimo interesse.
A rifletterci, non ricordava di aver mai visto il padre sessualmente
attratto da alcuna donna. Se un tempo, quando era piccolo, poteva
immaginare che l’uomo tenesse la sua vita privata fuori dalla
portata dei suoi figli, per “non traumatizzarli”,
ora che
erano adulti – e lui era fin troppo attivo in quel campo
–
ancora non sapevano praticamente nulla delle avventure del padre. Ma
forse, pensava, non sarebbe stato poi così strano se alla
sua
età avesse deciso di mandare in prepensionamento
“l’amichetto”.
Si massaggiò con vigore la parte
“offesa”: se
proprio doveva sacrificarsi, non sarebbe stato il solo a pagarne il
prezzo. I suoi occhi erano ancora fissi sul gemello che si stava
allontanando, inconsapevole di quanto stava per succedere, e un ghigno
diabolico si disegnò sulle sue labbra.
«Chissà…» mormorò
Saga,
sovrappensiero, «forse è arrivato il tempo di
esigere
anche gli altri, di pagamenti. Tu che ne pensi, Kanon?» si
rivolse al fratello, girandosi un poco indietro.
Boom!
Saga avvertì un forte dolore alla schiena e dietro la testa
e
per qualche secondo tutto si fece buio. Si ritrovò a terra,
immobile, schiacciato da un grosso peso che gli bloccava la cassa
toracica e gli impediva quasi del tutto di respirare. Ancora
scombussolato, sentiva una strana umidità inzuppargli tutto
il
corpo. Con le mani tastò incerto vicino a sé,
mentre
riapriva gli occhi con innaturale lentezza. Sotto i suoi palmi
l’erba era umida, probabilmente annaffiata di fresco; e il
sole
emanava una luce dolce, poco fastidiosa: aveva già iniziato
il
lento percorso verso ovest.
Con un gemito girò il capo, prima a destra, poi a sinistra.
La
sua borsa era volata a un paio di metri da lì, sulla
sinistra.
Provò ad afferrarne la tracolla che protendeva verso di lui,
ma
c’erano ancora diversi centimetri di distanza da colmare per
raggiungerla. Con la mano riuscì a strappare solamente
qualche
ciuffo d’erba, nei suoi vani tentativi. Avvertì un
secondo
battito tambureggiare contro il suo petto, inseguendo e superando il
ritmo di quello che invece gli batteva dentro. Deglutì a
fatica.
Poi, un altro gemito e un ansimo strozzato. La difficoltà
nel
respirare si faceva via via più opprimente.
«Come stai?» gli chiese Kanon, con voce ovattata:
la sua
bocca premuta contro il petto del gemello, il volto a contatto con la
stoffa di cotone della polo dell'altro.
«Come vuoi che stia?» ansimò Saga,
cercando di
prendere più aria possibile. «Come uno che
è appena
stato travolto da un… un TIR», disse, ormai senza
fiato.
Kanon sogghignò. In effetti la cosa era piuttosto
verosimile,
anche se si trattava di un semplice, quanto
“innocente”,
placcaggio. Forse un po’ troppo alto, ma del tutto lecito e
regolare!
Rimasero in quella posizione per interminabili secondi, nella completa
immobilità di quella strana situazione. Tutto era diventato
silenzio attorno a loro; solo il melodico canto della natura faceva da
contraltare ai loro respiri: quello affannato e sovreccitato di Kanon e
quello quasi impercettibile di Saga, sempre che riuscisse ancora a
respirare.
«Dai… togliti di dosso…
bisonte…»
sbuffò il giovane, steso sul terreno. «Se mi hai
sporcato,
ti metto in conto anche la lavanderia…» disse con
tono
minaccioso.
Il suo sguardo e le sue labbra però non erano in accordo con
le
sue intenzioni: troppo dolci e sereni i suoi occhi verdi che
splendevano di una gioia contagiosa; e le sue labbra che non riuscivano
a nascondere il sorriso tipico di chi è innamorato.
Saga gli disse di alzarsi e lui, da bravo fratello sempre prodigo nel
prendersi cura del proprio gemello, si tirò su un poco,
puntellandosi con le mani sul soffice manto erboso, sfiorandogli i
fianchi. E Saga, in quell’esiguo spazio che l’altro
gli
stava concedendo, riuscì finalmente a riempire
d’aria i
polmoni, sbuffandola poi fuori con sollievo.
Kanon lo fissò negli occhi. Rosso in viso e sudato, sorrise
malizioso, voglioso di rivincita; e nei suoi propositi sarebbe stata
molto, ma molto, soddisfacente. Poco propenso a dargli davvero pace, si
mise a cavalcioni su di lui.
«Ma che fai?» disse in tono allarmato Saga,
sgranando gli occhi per la sorpresa.
Si ritrovava un energumeno di quasi novanta chili che gli stava pesando
sul bacino e lo teneva bloccato a terra. Vide il gemello chinarsi di
nuovo verso di lui, sempre con quel sorrisetto ambiguo che ora sembrava
addirittura pericoloso e, ancora una volta, si coricò su di
lui,
appoggiando i gomiti a terra, ai lati del suo viso. I loro nasi erano
quasi a contatto fra loro e le loro fronti si sfioravano. Saga
trattenne il respiro: in quella posizione, col cuore che gli martellava
nel petto, si stava sentendo indifeso.
«Kanon?» disse, con voce incerta.
Sul viso sentiva il respiro del gemello e un leggero solletico
provocato dallo sbatter di ciglia che l’altro, era
più che
sicuro, stava facendo apposta.
*****
«Sei sicura che stiamo andando nella direzione
giusta?»
«Quel ragazzo ha detto che era da questa parte»,
disse
Saori, ma anche lei non era poi così certa della direzione
presa: forse aveva capito male le indicazioni.
Camminava a passo svelto e al tempo stesso indeciso, scrutando con gli
occhi ogni minima cosa per individuare i punti di riferimento che le
erano stati dati, neanche la proprietà del Country Club
fosse
stata un astruso labirinto magico che, distolto un momento lo sguardo,
mutasse di forma per confondere gli ignari avventurieri.
«Ma perché stiamo andando a cercarli?»
chiese di
nuovo Seiya; la svogliatezza che mostrava contrastava e stonava con
l’ambiente circostante e con la curiosità della
ragazza.
Saori non gli diede una risposta. In effetti nessuno aveva chiesto loro
di fare una cosa del genere: aveva deciso lei stessa, di sua
iniziativa, di andare a cercare i gemelli, quando aveva sentito Shion
Hayes chiedere a uno dei valletti del club di far chiamare i suoi
figli. In quel momento, con ancora indosso la tenuta da cavallerizza,
aveva appena raggiunto l'uomo al suo tavolo, dopo la passeggiata a
cavallo che aveva fatto, accompagnata da uno degli istruttori del
maneggio. Con la scusa che desiderava andare a rinfrescarsi, si era
congedata, ma aveva preso tutt’altra direzione; e Seiya
l’aveva seguita a ruota, com’era sua abitudine fare
e come
la sua famiglia adottiva, i Kido, gli aveva ordinato di fare.
Quasi dispersa fra i vialetti curati, i mille cartelli che indicavano
altrettante direzione e tante altre distrazioni – e
più di
dieci minuti di vagabondaggio a vuoto –, si stava domandando
anche lei il perché si fosse imbarcata in quella
“missione”. Eppure, una voglia misteriosa
l’aveva
spinta a voler scoprire un diverso lato della personalità
del
suo promesso; a sbirciare anche solo un piccolo attimo di
normalità e di vera intimità di quella persona
che dei
cinici accordi economici le avevano affiancato.
Come se non fosse bastato, in quei giorni aveva sentito tanto decantare
le qualità dei gemelli Hayes, non soltanto come persone, ma
anche come eccellenti sportivi. Erano state per lo più
chiacchiere da parte del personale del Country Club, dipendenti che
ammirano il padrone, e parole frammentate captate dai discorsi degli
altri ospiti. Loro senz’altro conoscevano meglio di lei Kanon
e,
se ne parlavano così bene, allora doveva esserci del vero.
Le
più insistite asserivano che i due erano così
bravi,
naturalmente ognuno con uno sport preferito, che avrebbero potuto
competere anche con dei professionisti; non degli sportivi qualunque,
ma con dei veri campioni!
L’impresa che veniva raccontata più spesso era una
gara
nella piscina olimpionica, ovviamente del Country Club, avvenuta quasi
cinque anni prima e nella quale i due fratelli erano stati alla pari
fin quasi all’ultima bracciata dell’ultima delle
sedici
vasche degli 800mt stile libero. Ci fu chi, a suo tempo, assistendo
alla sfida – che si era svolta proprio nei giorni di gare dei
mondiali di nuoto di Montreal – disse che i due erano finiti
alla
pari e riuscirono persino a battere il record mondiale. Naturalmente,
la parola di un semplice addetto alla piscina non era poi
così
attendibile. Ma quel giovane per diverso tempo si vantò di
essere stato testimone di un’impresa eccezionale.
Lei era stata educata a tenere molto in considerazione
l’onore e
la reputazione delle persone, a guardarne i meriti reali e non quelli
presunti; da quando era in America, dove tutto era così
diverso
dal suo paese e dalla sua cultura, dove era prassi ingigantire ogni
cosa, non sapeva più cosa pensare: era difficile riuscire a
capire dove terminava la verità e dove invece iniziavano le
esagerazioni.
Le avevano detto che quel pomeriggio i gemelli si erano tenuti liberi
per un incontro di tennis ed era curiosa di vederli
all’opera. Un
piccolo esempio lo aveva avuto proprio la settimana prima; ma in
quell’occasione, la partita giocata da Kanon le era sembrata
essere più che altro una dimostrazione e non un match
guidato
dallo spirito sportivo. L’aveva visto ridere –
talvolta
irridere – e scherzare, limitandosi contro i suoi avversari.
Seiya, che difendeva il vessillo nipponico, nonostante la sua
volenterosa caparbietà, era stato liquidato in fretta. Aveva
fatto quel che aveva potuto, tutto considerato. Mentre Aiolia, amico
del ragazzo, aveva subito sorte ben peggiore, venendo addirittura
umiliato; e solo perché si era lasciato sfuggire una parola
di
sfida di troppo; ma dai discorsi che i due avevano fatto, non doveva
essere stata la prima volta.
Per giorni e giorni, quel magnificare ogni cosa riguardasse i gemelli,
era ronzato nella giovane testa di Saori, portandola a pensare spesso,
molto spesso, al suo promesso sposo. Doveva però confessare
a se
stessa che anche l’altro, il fratello più
tranquillo,
quello che in qualche modo la turbava con il suo carattere troppo
introverso e lo sguardo limpido, che a tratti le ricordava suo cugino
Shun, le faceva un certo effetto. Forse era per il fatto che avevano
iniziato a passare molto tempo assieme, mentre con Kanon si erano
create delle distanze dovute al lavoro di lui. Spesso infatti, in
quell’ultimo periodo, Kanon faceva il pendolare fra Boston e
New
York. Tragitto pesante se percorso ogni giorno, anche per chi aveva
mezzi superiori, come autisti e aerei privati; ma alle volte, era
capitato una o due in realtà, era stato costretto anche a
fermarsi a dormire nell’attico di Central Park.
Saga invece, che sempre di più faceva gli onori di casa
nella
villa di Mystic Lake, era disponibile per ogni cosa lei avesse bisogno.
Quella vicinanza così stretta, che derivava anche dal ruolo
di
tutor che gli era stato chiesto di svolgere per aiutarla negli studi e
prepararsi per il difficile test d’ingresso – che
le
avrebbe permesso di frequentare l’ultimo anno come una
studentessa normale –, aveva iniziato a farla dubitare di se
stessa. Era stato grazie all’intercessione del capofamiglia
Hayes
se da qualche settimana stava frequentando – solo come
osservatrice – una scuola privata di Boston, la stessa che a
suo
tempo aveva frequentato anche Kanon, per familiarizzare con i metodi
americani. Era stato così che aveva quindi iniziato a
passare
tutti i pomeriggi alla villa, a stretto contatto con Saga:
ufficialmente a ripassare le lezioni, ma in verità a
distrarsi
nell’osservare i suoi sorrisi dolci, ad ascoltare la sua voce
gentile, a sentire sulla pelle gli involontari tocchi delle sue mani
e… a odorare il suo profumo delicato e virile al tempo
stesso,
quando si chinava un poco su di lei per spiegarle un paragrafo del
libro di testo. A quei ricordi recenti sovrappose, come in un passaggio
naturale, la figura di Kanon, con quel suo carattere spontaneo e un
po’ sbruffone, e il suo cuore prese a battere più
forte.
All’improvviso, come se già quella confusione di
sentimenti che si agitavano in lei non fossero stati sufficienti,
avvertì un'improvvisa vampata sul viso.
D’istinto cercò di nascondersi a Seiya, per non
fargli
notare l’imbarazzo che stava provando nel perdersi in certe
fantasticherie. Si sentiva un poco sciocca in quel frangente.
Osservò il ragazzo di sottecchi: Seiya era sempre stato al
suo
fianco e l’accompagnava dappertutto senza mai lamentarsi,
forse
borbottando qualche volta, ma mostrandole sempre tutto il suo appoggio.
Presenziava anche lui a quelle ripetizioni, anche se di malavoglia;
benché, poverino, fosse lui quello che ne avesse
maggiormente
bisogno.
Si coprì la bocca con la mano inguantata, mentre
nell’altra ancora stringeva il frustino, per mascherare la
civettuola risata che le nacque spontanea. Saga era sempre molto
paziente con Seiya, in quelle occasioni, ma se ci fosse stato Kanon al
suo posto? Forse lo avrebbe scaraventato giù dalla finestra
dopo
la seconda volta che lui gli avesse chiesto di ripetere qualcosa. A
quel pensiero rise di nuovo.
Camminarono ancora per qualche decina di metri, passeggiando
tranquilli, serenamente, senza più fretta; poi, Saori si
fermò davanti a un piccolo e malconcio cartello di legno,
dall’aria molto country, e vide una scritta che recava
l’indicazione: “Proprietà esclusiva dei
fratelli
Hayes, dal 1995”. E, aggiunto a mano, con una scrittura
infantile
e irregolare, un “fuori dai piedi!” Più
sotto
ancora, inciso con un temperino sul palo di sostegno, c’era
anche
l’avviso “il prossimo che toglie questo cartello
è
licenziato!”.
Saori sorrise intenerita: non pensava di vedere una cosa del genere in
un posto così d’élite come quello;
sembrava una
cosa fatta da bambini delle elementari. E forse lo era davvero.
«Ma quanto è grande questo posto?»
commentò
Seiya, ormai annoiato a morte, continuando a guardarsi attorno e
pensando che gli sarebbe piaciuto provare a guidare una di quelle
piccole macchine elettriche che avevano incrociato lungo i vari
vialetti.
«Dovremmo essere arrivati», dichiarò
Saori, risvegliando l’attenzione dell’altro.
Fecero ancora qualche metro e, alla fine, poco più in
là,
sentirono delle voci. La ragazza si fermò dietro un grosso
cespuglio di bosso, non appena riconobbe le voci. Con titubanza
allungò il collo per vedere e subito si ritrasse, rossa in
viso.
«Torniamo indietro!» esclamò con troppa
decisione,
incamminandosi in tutta fretta, senza dare ulteriori spiegazioni e
lasciando l’altro attonito e spaesato a sbirciare coi propri
occhi.
*****
Saga tenne Kanon stretto in quell’abbraccio per lunghi
secondi:
petto contro petto, il viso nascosto fra i suoi capelli umidi di sudore
– che l’altro stava lasciando crescere un poco
più
del solito, forse per assomigliare di più a lui –
e il
collo; e una mano che gli accarezzava la testa bionda, scompigliata. Il
suo gemello ancora gli stava seduto sopra, bloccandogli le gambe, ma in
quel momento non sembrava più subire quel peso.
«Riconosco questa sensazione», mormorò
Saga, con voce dolce e malinconica.
L’altro fece un lieve movimento, come risvegliato da quella
sensazione di pace che stava sentendo: la stanchezza della partita a
tennis ormai riassorbita e l’umore di nuovo sereno. Era
sempre
così quando c’erano quei momenti di vicinanza con
il suo
amato fratello. «Hai detto qualcosa?» gli chiese,
tentando
di slacciarsi un poco dall'abbraccio, ma Saga non accennava a lasciarlo.
«Noi due, i battiti dei nostri cuori uniti in uno
solo…
noi che torniamo a essere una cosa sola, come se fossimo ancora nel
ventre di nostra madre, cullati nel suo amore. Noi due e
nient’altro. Una dolce nostalgia», disse in un
sussurro
Saga, stringendosi di più a lui.
Le sue parole però a Kanon sembravano strane ed enigmatiche.
Gli
suonò un campanello d'allarme quando udì
accennare alla
madre. Non che fosse un argomento tabù, ma non ne avevano
mai
sentito la necessità di ricordarla o solamente di chiedere
di
lei. E ora, d’un tratto, ecco che spuntavano fuori discorsi
su
una donna che neanche avevano mai conosciuto e della quale sapevano
solo che era morta.
«Ti senti bene?» chiese Kanon, con tono inquieto.
«Ne sono certo, lo ricordo… sempre
insieme»,
sospirò Saga. «E due braccia pietose che ci
avvolgevano e
ci tenevano al sicuro. Le braccia di un padre amorevole.»
Kanon spalancò gli occhi, colto da un’improvvisa
preoccupazione, questa volta più concreta delle altre. Si
staccò con vigore dal gemello e lo scrollò per le
spalle.
Lo sguardo di Saga era languido e gentile, le labbra incurvate in un
sorriso delicato e struggente e le gote di una leggera sfumatura rossa
che spiccava sulla sua pelle chiara.
«La memoria ti sta giocando di nuovo brutti scherzi? Il colpo
alla testa che hai appena preso ti ha rintronato del tutto, oppure sei
ancora una volta sotto l’influsso della febbre?»
gli disse,
mentre con una mano gli toglieva un filo d’erba dai capelli,
scrutandolo attentamente. Non poteva certo credere che
l’altro
stesse parlando della medesima persona che li aveva cresciuti: Shion
Hayes era un buon padre; amorevole, certo, forse propenso a qualche
smanceria… ma solo con Saga e sempre e comunque contenute.
Ma la
descrizione che il gemello ne aveva appena fatto, che lui stesso aveva
inteso, era un po’ troppo lontana dalla realtà che
lui
conosceva. E Kanon… lui sì che aveva una buona
memoria!
Il tono con cui gli aveva parlato era vagamente canzonatorio
– e
il suo sesto senso era in allerta, perché sentiva che
c’era qualcosa di strano in quel comportamento – ma
il
gesto appena compiuto invece mostrava tutta la cura e
l’affetto
che provava per lui; che dedicava solo a lui. Perché era
vero,
nonostante vite separate, nonostante fossero adulti, nonostante tutto
quello che si poteva dire, la questione era semplice: erano loro due,
sempre insieme.
Saga gli sorrise ancora più dolcemente; non si aspettava
certo
che l’altro condividesse quei ricordi, neanche lui era
davvero
sicuro di ciò che aveva appena detto e provato, forse quelle
sensazioni erano solo immaginate – o costruite dal suo
subconscio
dopo quanto aveva appreso – ma un poco gli dispiaceva che
Kanon
non riuscisse ad avvertire le sue stesse emozioni. Forse
però,
in qualcosa il fratello aveva ragione: si sentiva un po' caldo. Che
quella febbriciattola, seppur passeggera, gli avesse fatto immaginare
tutto?
Si bagnò la punta del pollice e, scostandogli i capelli
ancora
umidi dalla fronte, gli pulì uno sbaffo di terra rossa
appena
sopra il sopracciglio sinistro. Poi, gli diede un bacio sulla guancia e
gli accarezzò il viso, rimandendo per diversi secondi a
rimirare
il suo bel fratello. Anche Kanon era caldo, forse addirittura
più di lui. Del resto, erano seduti sul prato bagnato, con
ancora i vestiti intrisi di sudore dopo la partita a tennis e soffiava
un lieve venticello fresco.
«Ci pensi mai a quanto è successo e a cosa
è
cambiato?» disse Saga, in un soffio leggero di malinconia,
toccandosi inconsciamente la tempia destra e quel piccolo segno rimasto
inciso sulla sua pelle. Sospirò e alzò di nuovo
lo
sguardo sul gemello che invece lo stava fissando scuro in volto.
Poi, con movimenti lenti, Kanon si scostò dal gemello,
lasciandolo finalmente libero di muoversi, sdraiandosi al suo fianco
sull'erba e sbuffando stanco.
«Scusami, non volevo contrariarti», disse Saga,
spolverandosi la polo.
«Stavo riflettendo… È da un
po’ che non
c’è più la stessa sintonia di un tempo:
come se ci
fosse qualcosa di diverso fra noi», disse Kanon, osservando
una
nuvola bianca che si muoveva lenta nel cielo.
«Non siamo più bambini, Kanon, né
adolescenti.
Siamo cresciuti, abbiamo preso strade diverse e acquisito delle
responsabilità che hanno portato inevitabilmente a dei
cambiamenti e ci hanno resi così come siamo ora»,
rispose
Saga, con un sorriso pacifico sul viso.
«No, è differente!» ribatté
in tono secco Kanon.
Qualcosa lo aveva irritato. Non era tanto l’argomento
“adolescenti”, che in quell’ultimo
periodo era
diventato un nervo scoperto ancora più sensibile, ma sentiva
che
qualcosa, un qualche fattore sconosciuto, stava cambiando il loro
rapporto.
«Voglio mostrarti una cosa!» disse Saga con enfasi,
ignorando la tensione che irrigidiva l’umore del gemello.
Trascinò la borsa vicino a sé e, frugando in una
delle
tasche laterali, prese una scatolina color turchese, legata con un
raffinato nastrino bianco perla.
Kanon alzò un sopracciglio quando il fratello gliela mise
sotto il naso. La scritta Tiffany&Co
impressa in argento sul coperchio era ben visibile.
«Oh, mio Dio! È per me?» disse Kanon,
imitando la
vocetta stridula delle ragazze, guardando negli occhi il gemello e
sbattendo ripetutamente le lunghe ciglia bionde dei suoi begli occhi
verdi. «Tesoro non dovevi!»
Saga gli diede una spallata, mormorando uno “scemo”
e rise di gusto.
Kanon si fece più serio, con lo sguardo fisso sulla
scatolina.
«È quello che penso? Un anello di
fidanzamento?»
chiese.
Il gemello abbassò lo sguardo, imbarazzato.
Sospirò,
raccogliendo le ginocchia al petto e scrollò lentamente la
testa. «È un regalo.»
«Posso vedere?»
«Solo se mi assicuri di riuscire a richiudere il pacchettino
alla perfezione.»
«Lascia che ti dia un consiglio: se vuoi fare veramente
colpo,
non presentarglielo qui dentro, perderesti tutto l'effetto
sorpresa», gli disse, passandogli un braccio sulle spalle e
stringendolo a sé.
*****
Da qualche tempo Aiolos aveva smesso di leggere quelle che considerava
le memorie di Gregory Miller. Termine sicuramente improprio, ma
quantomeno efficace per definire quel quadernetto nero che mesi prima
gli era capitato fra le mani per caso. Ora tutto quell'interesse
sembrava essere svanito di nuovo. Aveva creduto di poter trovare
"qualcosa" su Caroline e la sua famiglia e forse, se ne avesse avuti a
disposizione altri, le sue aspettative sarebbero state anche esaudite.
Invece, inaspettatamente, ciò che aveva trovato erano state
le
origini di Saga e Kanon. O così almeno poteva sembrare, a
meno
che non fosse una clamorosa coincidenza.
Diede un'occhiata alla sua compagna di viaggio che dopo numerosi viavai
alla toilette si era finalmente addormentata. Aveva tanto bisogno di
riposo, peccato che ormai mancassero solamente una quindicina di minuti
all'atterraggio. Con lo sguardo indugiò ancora un poco sul
volto
di lei: era quasi impressionante l'estremo pallore.
«Che sconsiderata…» mormorò,
scrollando la testa.
Passò le mani fra i capelli, cercando di riordinare le
ciocche
più ribelli. Poi, ingurgitò tutto d'un fiato la
vodka che
gli aveva servito Kimberly e rimase a fissare il bicchiere vuoto. Non
era solito bere super alcolici quando viaggiava, ma questa volta ne
sentiva la necessità. Quegli ultimi giorni trascorsi a
Philadelphia erano stati pesanti anche per lui.
Sul sedile accanto aveva sistemato la sua borsa ventiquattrore.
Più volte era stato tentato di prendere dalla tasca
anteriore
quel famoso quadernetto che si era portato dietro. Con la mano
sfiorò la zip della tasca anteriore, giocherellandovi un
poco,
aprendola di qualche centimetro e richiudendola subito dopo,
continuando in quel modo per diverse volte. Poi, con un gesto secco la
aprì del tutto e prese il quadernetto. Dov'era rimasto nella
lettura?
Sfogliò velocemente le pagine e una delle ultime si
staccò un poco. Solo in quel momento si accorse che dal
quadernetto mancavano delle pagine. C'era un piccolo solco vicino la
costina interna e si vedeva il taglio, nonostante fosse stato fatto
perfettamente a filo. Trovò alcune pagine bianche e le note
riprendevano poco più oltre con un'ultima che non
c’entrava nulla con quanto scritto in precedenza.
Aiolos si soffermò un momento proprio su quelle poche righe
che chiudevano quel quadernetto e che recitavano:
“Oggi per
la prima volta in vita mia ho abusato del mio ruolo di poliziotto. Me
ne vergogno molto. Ero entrato nella tavola calda solo per prendere
caffè e hamburger per il mio compagno e per me e, mentre
aspettavo, l’ho vista. Era seduta a un tavolino appartato e
si
stava guardando in giro in modo nervoso. Sembrava stesse cercando
qualcuno. Aveva un qualcosa di sospetto. Mi sono avvicinato a lei e,
mostrandomi forse un po’ troppo arrogante, nella mia divisa
blu,
ho chiesto di vedere i suoi documenti, facendo poi finta di fare dei
controlli. Alla fine era timorosa perché non conosceva la
zona e
perché le persone che stava aspettando erano in ritardo.
Per fortuna ho
una buona memoria, appena sono uscito dal locale con la mia
ordinazione, mi sono appuntato nome e indirizzo. Se non fossi stato in
servizio sarei rientrato e le avrei offerto un caffè. Quando
ho
guardato di nuovo dentro, attraverso la vetrata, era stata raggiunta da
altre quattro ragazze.
Teresa Costantini, di
Philadelphia…”
«E bravo il nostro poliziotto irreprensibile»,
mormorò, sogghignando nello scoprire il primo incontro dei
genitori di Caroline.
Alzò per un attimo lo sguardo sulla ragazza, per accertarsi
che
stesse ancora dormendo. Poi, tornò a concentrare la sua
attenzione su quelle pagine bianche. Era un fatto curioso. Vi
passò sopra i polpastrelli, sentendo i segni incisi sulla
carta
sottostante. Evidentemente, quando aveva scritto quelle pagine, Gregory
Miller doveva essere stato nervoso, perché fino a quel
momento
la sua scrittura era stata sempre normale. Fitta, ben tratteggiata e
leggera. Sì, la si poteva anche definire leggera, per un
uomo.
Cos'aveva scritto in quelle pagine strappate che poi aveva voluto
tenere nascoste? O forse qualcun altro le aveva tolte
affinché
nessuno venisse mai a conoscenza del contenuto...
“28 agosto 1984
Sto ancora
cercando una spiegazione per quanto ho appreso, ma ora devo sciogliere
un altro dubbio: la sua scheda, quella relativa alla sua vita da
adulto, pare immacolata: nessuna multa, niente denunce o verbali a suo
carico. Del resto, se non fosse coinvolto in questa faccenda,
sembrerebbe una persona molto mite e rispettosa della legge. Eppure ci
sono delle incongruenze. È come se avessero voluto coprire
alcune cose. Cosa c'è che deve rimanere nascosto della vita
di
quest'uomo? Non mi voglio arrendere, proverò a cercare
ancora.
Ho la sensazione che ci sia qualcosa fuori posto in tutto questo. Forse
dovrei provare a chiedere un colloquio in carcere.
... Ieri ho
incontrato il professor Taylor. A dire la verità l'ho visto
solo
di sfuggita mentre scendeva la scalinata del tribunale. Era
accompagnato dalla figlia avvocato. Stavano discutendo animatamente, ma
non sono riuscito a sentire di cosa stessero parlando. La donna aveva
un'espressione molto dura e i suoi occhi sembravano quelli di un
rapace. Deve fare davvero paura quando è in aula. Il
professore
invece, sembrava molto intimidito da lei: passivo, stanco. Che sia
ancora angosciato dalla tragedia che ha colpito la sua famiglia?
Stavo quasi per
passare il colonnato del tribunale, sommerso di fascicoli che dovevo
consegnare a uno degli assistenti del procuratore (strano che per un
semplice caso di malversazione, che neanche è di competenza
della mia sezione, occorrano così tante carte) quando mi
sono
girato un'ultima volta verso il professor Taylor. Ero curioso di vedere
che direzione avrebbe preso. È stato allora che ho visto una
donna avvicinarsi al professore con aria disperata e cercare di
parlargli. Quella donna era fin troppo agitata e stava attirando
l'attenzione di altre persone, oltre alla mia. La reazione di Anne
Taylor non si è fatta attendere e, come c'era da
aspettarselo,
ha preso la situazione in pugno. Ha tenuto la donna a distanza dal
padre, forse per impedirle di parlargli. Ha cercato di farla ragionare,
così almeno mi è sembrato di capire dalla mia
posizione.
Le sue parole devono averla convinta in qualche modo, perché
si
è subito calmata. Poi, l'avvocato Taylor ha fatto cenno a
qualcuno e l'ha fatta scortare via.
Non ho visto
bene in viso quella donna, anche se sembrava molto giovane, ma ho avuto
la netta impressione di conoscerla, o quantomeno di averla
già
incontrata e di averci parlato. Forse era qualcosa nella sua postura,
forse qualcos’altro… non
capisco…”
Senza rendersene conto, Aiolos fece una smorfia con le labbra.
«Pessima lettura?» chiese Cora, di nuovo di ritorno
per
l'ennesima volta dalla toilette; in mano teneva un bicchiere con acqua
tiepida e limone che Kimberly le aveva preparato, visti i suoi continui
attacchi di nausea.
Il ragazzo alzò la testa di scatto, sgranando gli occhi nel
vederla che si stava accomodando proprio di fronte a lui. L'aveva
lasciata che riposava, così credeva... quando si era
svegliata?
«Va meglio?» le chiese, chiudendo in fretta il
quadernetto.
Lei si limitò a posare il bicchiere ancora intonso sul
tavolino
e, con la mano che stringeva un fazzoletto, a spolverare la gonna
dell’abito da cocktail che sua madre le aveva regalato, da
alcune
macchioline d’acqua.
«Dovresti berla», le fece notare lui.
«Mi fa venire mal di stomaco.»
«Ma ti darà sollievo per il mal
d’aria»,
insistette Aiolos, anche se sapeva bene che quel suo malessere non era
dovuto al viaggio.
La osservò per alcuni secondi: non poteva dire di conoscerla
così bene da poter notare delle differenze con prima, ma gli
sembrava fin troppo taciturna e, era comprensibile, aveva lo sguardo
triste.
«Saresti dovuta restare a casa con la tua famiglia. Avrei
spiegato io a Saga la situazione», le disse, riponendo il
quadernetto nero nella tasca della sua borsa, usando tutta la
disinvoltura di cui era provvisto per non destare sospetti in lei.
«Anch’io ne ho di uguali. Erano di mio padre, li
usava quando era in polizia, così come lo zio
Phil.»
Aiolos si irrigidì.
«Immagino siano però comuni», aggiunse,
con voce via
via meno vitale, voltando lo sguardo per osservare fuori dal
finestrino, prima di chiudere ancora una volta gli occhi appesantiti
dalle medicine che aveva preso e spossata dal suo malessere.
L’hostess si avvicinò ad Aiolos e
avvertì che il
pilota si stava preparando per la fase di atterraggio e che quindi
avrebbe dovuto allacciarsi le cinture di sicurezza; poi fece la
medesima cosa con Caroline, scuotendola dolcemente e chiedendole anche
se avesse bisogno di qualcosa. Prima di prendere il suo posto, la donna
aggiunse che la limousine della società era già
arrivata
e attendeva nell’hangar.
*****
Seduto al tavolo in compagnia dei suoi ospiti, di Shura e del padre,
Saga sorrideva e partecipava con entusiasmo alle conversazioni. Lui era
di casa lì, forse molto più che alla villa, si
poteva
dire. Non perché potesse contare su una discreta quota
personale
di azioni del Country Club, benché questo gli desse un certo
peso, né perché – agendo per conto del
padre
– avesse poi acquisito col tempo la quota maggioritaria, ma
perché fin da piccolo aveva frequentato con
assiduità
quel luogo, fino a sentirlo come un luogo dove poteva essere se stesso.
E infatti era così. Nonostante il Club fosse comunque un
luogo
molto formale, frequentato dall’alta borghesia di Boston e da
personaggi di spicco della società, gli dava quelle
libertà che da nessun’altra parte riusciva a
trovare, in
veste di rampollo degli Hayes.
Nei momenti morti di quella piacevole compagnia però,
tendeva ad
abbassare lo sguardo e giocherellare col quadrante del suo orologio,
con la vana speranza forse che arrivasse presto
“quel”
momento, ma anche con il segreto timore che tutto sfumasse all'ultimo
minuto; oppure si dedicava a martoriare il contenuto del suo piatto,
senza alcuna voglia di mangiare davvero; oppure ancora a sorseggiare il
drink, senza gustarlo, intristendosi e lasciandosi andare, ogni volta,
a un sospiro penoso.
«C’è qualcosa che non va,
Saga?» gli
domandò Shura, alzando lo sguardo dal libro che stava
leggendo,
dopo l’ennesimo sospiro del ragazzo. Tutti ormai a quel
tavolo si
erano accorti che il giovane avesse qualche preoccupazione che gli
occupava la testa.
«Va tutto bene», rispose lui, muovendosi incomodo
sulla sedia metallica.
Si passò le mani sulle cosce, sulla stoffa dei pantaloni
color
panna della divisa ufficiale del Country Club – quella che
ogni
membro regolarmente iscritto doveva indossare all’interno del
perimetro della proprietà – come per togliersi con
quel
gesto la patina di tristezza che si sentiva addosso; e subito dopo
accavallò le gambe, sforzandosi in un sorriso per mostrare
agli
altri che era sereno. Si accostò un poco a Saori che sedeva
al
suo fianco e riprese a descriverle i dintorni.
Anche Shion Hayes, che in quel momento stava terminando di esaminare
dei documenti, distolse la sua attenzione per concentrarsi sul figlio.
Lo conosceva abbastanza bene da capire che quell’innocua
bugia
non era servita a molto e che, anche se sembrava comportarsi come di
consueto, aveva un carattere troppo cristallino per riuscire a
nascondergli i propri sentimenti.
«Proprio come lui…» mormorò,
sospirando sovrappensiero.
Ma forse non era proprio esatto. Anthony aveva saputo nascondergli bene
le cose più importanti che riguardavano la sua vita: i suoi
sentimenti per Emma, che chissà da quanto tempo aveva
covato; il
suo passato e… Shion si stava chiedendo cos’altro
c’era ancora che non sapeva.
Aggrottò la fronte e con un movimento secco girò
la
pagina, riprendendo a leggere, prendendo poi anche un sorso del suo
whisky. La sua mente però non era più
sintonizzata sul
lavoro. Ora che il figlio aveva scoperto parte della verità,
attendeva solo il momento in cui sarebbe tornato da lui a chiedere di
conoscere il resto della storia e probabilmente gli avrebbe rivolto
domande alle quali lui stesso non aveva risposta. C’era
qualcuno
che avrebbe potuto colmare almeno una parte di quelle lacune, ma quanto
gli sarebbe costato interpellarlo?
E poi c’era anche chi conosceva l’intera storia, ma
mai e
poi mai avrebbe permesso a quelle persone di avvicinarsi e inquinare il
cuore dei suoi ragazzi.
Seiya, seduto all’altro fianco di Saori, continuava a fissare
Saga con insistenza, come un mastino. Erano ancora vivide nella sua
mente le immagini di lui e del gemello e un brivido gli corse lungo la
schiena, ripercuotendosi anche alle braccia. “Povera
Saori”
continuava a pensare, scrollando impercettibilmente quell'ammasso di
capelli disordinati che andavano tanto di moda in Giappone.
L’aveva vista fuggire via, sconvolta e mortificata.
L’aveva
dovuta rincorrere fino all’albergo, fin
nell’appartamento
che era stato loro messo a disposizione, pregando che si riprendesse
dallo choc. Infine, era stato testimone di quanto il suo orgoglio di
“principessina” Kido l’avesse aiutata a
fare buon
viso a cattiva sorte per affrontare quella giornata in compagnia degli
Hayes.
Mentre Saga invece… lui era lì che si mostrava
disinvolto, che le si avvicinava come niente fosse, senza il minimo
pudore; e lei che, nonostante l’imbarazzo e il disagio,
pendeva
ancora dalle sue labbra. Fin dalla prima volta che lo aveva visto, che
gli aveva stretto la mano, aveva avvertito qualcosa di strano in quel
Saga. Del resto, aveva convissuto a stretto contatto con Shun che la
sua omosessualità l’aveva palesata già
in
adolescenza, senza vergognarsene. Si riteneva quindi in grado di capire
e riconoscere quel tipo di persone.
“Povera Saori”, si ripeteva, pensando anche
all’altro
Hayes, “provare tutto quell’interesse per delle
persone che
non potrebbero mai ricambiare i suoi sentimenti, perché di
tutt’altra natura; e che anzi, la stanno solo prendendo in
giro!”. Anche in Kanon aveva percepito qualcosa di ambiguo.
Lo
aveva visto troppo sfacciato nei suoi atteggiamenti, come se in
realtà fossero stati solo una copertura.
«Ho sentito dire che sei un discreto calciatore, Seiya. La
scuola
che frequenterai a Boston ha una squadra di calcio. Pensi di provare a
fare le selezioni il prossimo anno?» gli chiese Saga.
Il giovane nipponico era ancora tutto concentrato sui suoi pensieri da
non accorgersi dell’espressione irritata di Saori e dei suoi
occhi che silenziosamente lo stavano rimproverando per non aver
risposto prontamente alla domanda. Fissò Saga per qualche
secondo con un'espressione inebetita: in effetti il suo inglese era ben
lontano dalla perfezione e gran parte di quello che Saga gli aveva
detto non lo aveva afferrato.
La giovane gli ripeté la domanda sussurrandogliela
all'orecchio.
«Saori, non è giusto che tu gli traduca ogni cosa,
altrimenti non imparerà mai a cavarsela da solo»,
la
riprese lui, con un dolce e luminoso sorriso sulle labbra, che faceva
sbiadire per qualche istante la tristezza ancora presente nei suoi
occhi. «Perdonami, Seiya, proverò a parlare
più
lentamente da ora in poi», fece mea culpa Saga, rivolgendosi
di
nuovo a lui e mantenendo fin da subito la parola data.
Il ragazzo arrossì per la vergogna di essere stato trattato
come
un bambino e perché era consapevole che la sua poca
conoscenza
della lingua aveva messo in difficoltà anche Saori.
Provò
a protestare, alzando lo sguardo verso Saga, ma in quello stesso
istante vide avvicinarsi Aiolos a passo svelto – urgente
–
e con un’espressione tanto seria che le parole e ogni altra
velleità svanirono.
Aiolos si avvicinò al tavolo – e a Saga
– senza
salutare nessuno, posando una mano sulla spalla dell'amico e
comunicandogli qualcosa all’orecchio, distogliendolo
così
dalla conversazione.
«C’è anche lei?» chiese Saga,
illuminandosi all’improvviso.
Si girò un poco per cercare di scrutare
all’interno del
locale, ma la posizione del tavolo dove erano loro non permetteva una
buona visuale; soprattutto poi con le tende tirate che schermavano le
grandi finestre scorrevoli della terrazza che quel pomeriggio erano
quasi tutte chiuse. La brezza di quel pomeriggio le stava facendo
ondeggiare delicatamente, mostrando piccoli e brevi scorci
dell’interno.
«Le ho detto di attenderti dentro, al bar»,
spiegò Aiolos, mantenendo la medesima discrezione di prima.
Saga si alzò di scatto dalla sedia, catalizzando di nuovo
l’attenzione dei presenti tutta su di sé. Il suo
cuore
prese a battere emozionato e lui non chiedeva altro che assecondare la
sua voglia di correre dentro da lei.
«Aspetta, prima c’è una cosa importante
di cui ti
devo parlare!» cercò di fermarlo Aiolos,
afferrandolo per
un braccio. E questa volta la sua voce assunse un tono allarmato e
preoccupato, attirando ancora di più l’attenzione
dei
presenti.
«Dopo, amico mio. Dopo», ribatté Saga,
posando la
sua mano su quella di Aiolos e sorridendogli felice più che
mai.
«No, adesso! Lo devi sapere, ora!»
ringhiò Aiolos, stringendo di più la presa.
Saga diede uno strattone e si liberò. Non reagì
oltre,
non voleva rovinare tutto con una discussione. Indugiò
qualche
altro secondo, facendo un paio di respiri profondi, come se dovesse
farsi coraggio; poi, si incamminò dentro per raggiungerla.
Quasi nello stesso momento, dalla parte opposta della terrazza dove
c’era la scalinata che portava direttamente ai giardini,
stava
arrivando Kanon. Era vestito in giacca e cravatta e sembrava parlottare
da solo. Il suo viso rifletteva la serenità che stava
vivendo.
«Aiolos! Sei tornato dalla tua missione top secret! Ci fai
l’onore di unirti a noi poveri comuni mortali?»
scherzò, dandogli una pacca sulla spalla e subito dopo
abbracciarlo forte con un braccio. Forse lo fece in modo troppo
espansivo, da guadagnarsi occhiate non proprio di assenso da parte di
qualcuno dei presenti al tavolo, ma non ci fece caso più di
tanto.
Si portò una mano all’orecchio e si tolse
l’auricolare del cellulare, sedendosi accanto alla
“fidanzata”, sulla sedia appena lasciata libera dal
gemello.
Aiolos grugnì qualcosa di incomprensibile e si
accomodò
su una delle sedie libere, visibilmente di cattivo umore. Certe volte
c’era da chiedersi quando non lo fosse. Studiò per
qualche
secondo ciò che era presente sul tavolo – diversi
aperitivi, una brocca di tè freddo al limone con alcuni
bicchieri puliti e un paio di vassoi che contenevano tartine dolci e
salate – poi avvicinò a sé il piattino
di Saga e
prese una forchettata della mini tortina di granchio.
Quel comportamento così nervoso non era passato inosservato;
soprattutto a Shura che, stizzito, aveva bevuto tutto d’un
fiato
la birra nel suo bicchiere.
«Come mai così formale?» chiese Shion,
alzando lo
sguardo sul figlio, terminando il suo whisky e facendo cenno a uno dei
camerieri di portargliene un altro.
«Mi hanno chiamato dall’ufficio, pare ci sia
qualche
intoppo nell’offerta che abbiamo presentato la scorsa
settimana e
mi hanno chiesto di passare per approvare le proposte di cambiamenti da
apportare, per poterla ripresentare domani.»
«E sei ancora qui?» mormorò Aiolos,
sempre più cupo, masticando un altro pezzo di tortina.
Kanon lo udì alla perfezione; lo arpionò al collo
e lo
avvicinò a sé, parlandogli con tono suadente
all’orecchio e mettendolo a disagio, tanto che il giovane
strabuzzò gli occhi, deglutendo rumorosamente. Con quel suo
solito ghigno sardonico, il rampollo Hayes mostrò la sua
personale soddisfazione nella reazione dell’altro. Sapeva
dannatamente bene come mettere in difficoltà Aiolos, facendo
talvolta leva su qualche suo piccolo segretuccio.
«Farai in tempo per la cena?» chiese Shura, con una
punta
di fastidio nella voce. Non aveva gradito affatto ciò che
aveva
appena visto.
Kanon diede uno sguardo all'orologio e annuì convinto.
«Sì, dovrebbe essere questione di
un’oretta, forse
due al massimo.»
Si guardò un attimo attorno, vedendo gli occhi di Seiya
puntati
ferocemente su di sé e gli rispose con un sorriso malizioso.
Lì accanto, Saori, timida e riservata, si stava tormentando
le
mani appoggiate in grembo. Si ricompose e le posò una mano
sulle
sue, rassicurandola che non l’avrebbe lasciata senza
accompagnatore per la serata.
«Ma… Saga che fine ha fatto?» chiese ai
presenti,
ricordando che lo aveva intravisto alzarsi e rientrare nella sala
interna del ristorante; ora però sembrava essere assente da
troppo tempo.
Guardò di nuovo Aiolos; la tentazione di dargli
un’altra
pacca sulla spalla come segno di complicità gli faceva
prudere
le mani. Si girò indetro, verso la finestra scorrevole
aperta
dalla quale spuntavano di tanto in tanto le lievi onde candide delle
tende di fine lino. Poteva immaginare cosa stesse trattenendo il
gemello, ma chissà se sarebbe tornato da loro oppure se non
l’avrebbero più visto fino all’indomani.
Si protese verso uno dei vassoi e allungò la mano a pescare
una
tartina dolce, tornando poi ad appoggiarsi comodamente alla sedia. La
curiosità di vederla era tanta. Saga gli aveva accennato
qualcosa quando gli aveva mostrato il gioiello, ma non era entrato nei
dettagli. Conosceva la volubilità del gemello,
l’entusiasmo e la passione che metteva nelle sue storie e
come
finiva ogni volta. E ora si stava chiedendo chi fosse la fortunata che
gli aveva fatto perdere la testa in quel modo.
Allungò il collo, tentando invano di sbirciare un poco di
più, approfittando di uno svolazzo più ampio
della tenda
che aveva permesso di vedere all’interno per qualche attimo,
ma
era stato tutto inutile.
«Scommetto che glielo sta dando proprio in questo
momento»,
commentò a mezza voce, pulendosi la punta del pollice con la
lingua, inclinandosi all’indietro con la sedia e rimanendo in
equilibrio con le sole gambe posteriori.
«Di cosa stai parlando?»
Shion, ormai stanco di visionare il lavoro che si era portato, aveva
deciso finalmente di rilassarsi un poco e di godersi quella magnifica
giornata e la compagnia.
«Di uno splendido solitario, un diamante da un carato e mezzo
e
dalla purezza quasi perfetta, incastonato in oro bianco!»
rispose
Kanon, parlandone come un vero intenditore. «Un ciondolo un
po’ semplice per i miei gusti, ma molto raffinato.»
*****
Oltrepassare quelle delicate e candide tende era stato per Saga come
entrare in un’altra realtà. Aveva abbandonato
l’aria
frizzante, l’odore dell’erba umida e dei fiori che
abbellivano il terrazzo e le fontane di marmo coi giochi
d’acqua,
per uno sfarzo diverso, fatto di lampadari di cristallo, tovaglie di
raso, argenteria sempre lucida e menù da tre stelle
Michelin.
Era un’opulenza pesante, quasi barocca, che poco si addiceva
a un
ambiente campestre ma che al tempo stesso era uno dei vanti del Country
Club che lo rendeva rinomato in tutto il Massachusetts.
Provava strane sensazioni mentre passava accanto ad alcuni tavoli che i
camerieri stavano preparando per la cena. Il bar era nella sala accanto
e lui, più si avvicinava, più avvertiva un certo
nervosismo, un’emozione palpitante che gli impediva quasi di
respirare. A ogni passo che faceva, avvicinandosi alla sua meta,
prendeva coscienza che stava diventando una persona diversa, che stava
acquisendo un ruolo diverso.
Gli era bastato mettere un piede nella zona bar, affacciarsi in quel
locale caotico, pieno di gente e di odori avvolgenti, per vedere solo
lei: se ne stava lì, seduta sullo sgabello del bancone del
bar e
girata di tre quarti, lo sguardo basso e riservato, mentre con la mano
continuava a tirarsi giù l’orlo del vestito con
movimenti
timorosi. Era così bella, più adulta ed elegante
di
quando l’aveva lasciata. Questo era l’unico
pensiero di
Saga, in quel momento. Sarebbe stato a osservarla più a
lungo,
se avesse potuto, ma voleva risparmiarle l’evidente tormento
che
stava passando.
Un passo, soverchiato dal chiacchiericcio degli avventori del bar. Un
altro passo, mordendosi il labbro, come a rimuginare sul da farsi; e
intanto il suo cuore batteva più forte.
Il barman si avvicinò a Cora, una seconda volta in pochi
minuti,
chiedendole cosa potesse portarle da bere; lei scrollò la
testa
come la prima volta, declinando l’offerta.
«Dello champagne… sarebbe più che
adeguato alla situazione», disse Saga.
Non le lasciò neppure il tempo di rimanere sorpresa nel
sentire
la sua voce che le diede un bacio discreto sulle labbra dischiuse e le
sorrise.
Gli occhi di Cora, dopo il primo stupore, si velarono di lacrime,
leggere e timide, che non osavano rovinarle il trucco delicato che
Kimberly le aveva risistemato dopo l'atterraggio.
«Saga…» sussurrò lei,
commossa.
Balzò giù dallo sgabello e gli buttò
le braccia al
collo, dimenticandosi dov’era e che fino a quel momento i
suoi
unici pensieri erano stati che voleva andarsene da lì al
più presto; anzi, che non ci sarebbe proprio dovuta venire
in
quel posto.
Il ragazzo si stupì un poco di quell’abbraccio,
percependovi non solo amore, ma anche disperazione; poi, lo
ricambiò infondendovi tutto il sentimento che provava per
lei.
Le accarezzò la schiena con una mano, mentre
l’altra
affondava nei suoi capelli. La tenne così, fra le sue
braccia,
beandosi del profumo che indossava e del calore del suo corpo. Gli
sembrava un secolo che non provava quella sensazione, eppure era
passato appena un mese.
D’un tratto la sentì singhiozzare e stringersi di
più a lui.
«Cosa c’è che non va?» le
chiese, slacciandosi
da lei e scrutandola per qualche secondo in viso: nonostante tutto non
riusciva a smettere di sorriderle.
Cora scrollò la testa, piegando le labbra – di un
delicato rosa perlato – in un sorriso un po’ tirato.
«Mi sei mancato. Mi sei mancato tanto, ma ora va tutto
bene.»
Saga annuì e l'accarezzò con la punta del pollice
appena
sotto l’occhio, a fermare una piccola gocciolina che stava
scappando dalle ciglia.
«Mi sembri un po’ stanca. Il viaggio è
stato
pesante?» chiese, questa volta però con un pizzico
di
preoccupazione nella voce. Eppure pensava che con l’aereo
privato
sarebbe stata più comoda.
«Tutto bene», disse lei. «Ho solo bisogno
di rinfrescarmi un po’.»
Lui le sorrise, le prese la mano e, senza darle spiegazioni,
l'accompagnò in una delle camere dell’albergo del
Country
Club, che aveva riservato per loro due. Era bella ed elegante da
mozzare il fiato, neanche fosse stato l’Hilton. Forse era
persino
troppo per quel tipo di struttura.
«Prego», le disse, col suo solito sorriso tanto
dolce,
aprendole addirittura la porta del bagno. Poi si sedette sul letto ad
attenderla.
Iniziò a tamburellare ritmicamente sul copriletto di
broccato
color senape e rosso granato seguendo un vecchio motivetto che in quei
giorni gli era entrato in testa e che neanche sapeva come si chiamasse.
Chiuse gli occhi; quella melodia si era fatta un poco più
nitida, più facile da “eseguire”. Con un
sospiro si
appoggiò meglio al materasso, portando entrambe le mani
dietro
la linea delle spalle, spostando la testa di lato in una posizione
più rilassata.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Aggrottò la
fronte
in un'espressione di perplessità: non avvertiva alcun rumore
provenire dal bagno. Ma non appena decise di alzarsi per controllare,
ecco che sentì scorrere l’acqua del rubinetto. Per
quanto
una camera d’albergo potesse essere di gran lusso, le pareti
interne erano comunque fatte nello stesso modo di quelle di un motel,
forse solo più belle. Sorrise di nuovo rilassato, ma ormai
non
era più disposto ad attendere lì buono.
Senza fare rumore aprì la porta del bagno, spazioso e
luminoso,
e le si mise dietro, abbracciandola alla vita e sorridendole attraverso
lo specchio.
«Ci sto mettendo troppo. Mi dispiace»,
mormorò lei,
con le mani umide d’acqua, prendendo la salvietta dal piccolo
cestino di vimini sul piano di marmo e tamponandosi il viso con
delicatezza, per non sciupare troppo il trucco.
Saga le diede un bacio sulla tempia. Dalla tasca dei pantaloni estrasse
la mano a pugno e, come il più classico dei colpi di scena
che
si vedono nei film passionali, così come gli aveva suggerito
Kanon, le fece dondolare davanti agli occhi il gioiello.
«Buon compleanno.»
«Io… io…» Gli occhi di Cora
si illuminarono
di meraviglia, mentre il ragazzo sganciava la chiusura della catenina e
gliela metteva al collo.
«Il primo regalo di compleanno… il primo di tanti
che
verranno», le sussurrò, con un pizzico di emozione
nella
voce. «Direttamente dallo storico negozio Tiffany della Fifth
Avenue, a New York», aggiunse, anche con un certo orgoglio.
Poi,
come se in quel preciso istante si fosse reso conto di aver sbagliato
qualcosa, sospirò avvilito, abbassando lo sguardo.
«Avrei
voluto presentarmi alla tua porta, conoscere la tua famiglia, fare le
cose per bene, come da tradizione…» Di nuovo fece
un
sospiro, accarezzando il collo della ragazza col suo respiro caldo.
Cora sfiorò con la punta delle dita quel diamante che
brillava
abbagliante alla luce delle lampadine della specchiera. Risaltava
ancora più bello sul suo petto, sul pizzo color corallo del
tubino che indossava quel giorno.
«È... meraviglioso.»
La girò verso di sé, la guardò
teneramente negli
occhi e la baciò con trasporto, come il soldato che
dà
l’ultimo saluto alla sua fidanzata prima di partire per il
fronte. Era sciocco ed esagerato paragonare le due situazioni, ma
l’intensità dei sentimenti che in quel momento
provava
Saga era senza dubbio la medesima.
*****
Tutti, a quel tavolo, sembravano essere in attesa di qualcosa di
importante. Lo si poteva sentire nell’aria, in come i
discorsi si
erano diradati e negli sguardi che si scambiavano e che esprimevano
incertezza e nervosismo.
Shion continuava a fissare il figlio maggiore che aveva
l’espressione di uno che sapeva ma non voleva rivelare; e lui
conosceva fin troppo bene quello scapestrato per evitare di cadere in
una gag grottesca nel tentativo di farlo cadere in fallo. Forse Kanon
non riusciva a reggere a lungo le balle che si inventava per coprire
“certe” cazzate sul lavoro, ma quando si trattava
della
vita privata era impossibile cavargli qualcosa. Si limitò ad
aspettare e continuare a studiare il suo comportamento. Tanto prima o
poi avrebbe saputo anche lui e, considerando che si trattava
dell’altro figlio, quello tranquillo, non avrebbe avuto
brutte
sorprese. Incrociò lo sguardo di Kanon per un attimo e gli
fece
un sorriso. Di quelli furbi però, che solitamente gli
facevano
accapponare la pelle, perché presagio di qualcosa di
catastrofico; e preferì berci su.
Shura invece sembrava essersi estraniato dalla compagnia, intento
com’era a mascherare il fastidio che provava per il
comportamento
di Aiolos, neanche fosse stato una moglie iper gelosa. Non aveva
distolto gli occhi dal ragazzo per un solo istante da quando era
arrivato; e percepire da lui quel palese nervosismo acuiva
ciò
che provava lui stesso.
«Deve essere una persona davvero speciale se è
andato
personalmente a New York per sceglierlo», commentò
Kanon,
rivolgendosi apparentemente a nessuno in particolare. Eppure, senza
volerlo, aveva attirato l’attenzione degli altri membri della
famiglia, che ben erano a conoscenza dell’allergia di Saga
per i
viaggi e le città troppo affollate.
Si sporse di nuovo verso il vassoio e questa volta scelse la tortina al
granchio, l’ultima, iniziando a mangiarla con le mani come
nulla
fosse. Poi guardò l’orologio, brontolando che se
l’altro avesse tardato ancora non sarebbe riuscito a
conoscere
l’ospite a sorpresa. Ma forse quello che intendeva era ben
altro:
ciò che gli premeva di più era vedere la reazione
degli
altri.
Una lieve corrente d’aria spostò le tende
abbastanza da
permettergli di osservare meglio all'interno dei locali, anche se solo
per una frazione di secondo. Poi, un cameriere volenteroso le
aprì completamente, favorendogli così la visuale.
Peccato
solo per quelle piante di ficus che con il loro fogliame schermavano
ancora di più.
«Ah! Belle gambe», commentò Kanon,
allungandosi un
poco di più all’indietro, intravedendo due paia di
gambe,
delle quali era sicuro un paio fossero del gemello. Sembrava che
finalmente i due si fossero decisi a raggiungerli. «E bel
sedere…» sogghignò incauto, aguzzando
di più
la vista per interpretare al meglio ciò che vedeva tra il
fitto
fogliame, facendo arrossire Saori che gli sedeva accanto.
«Sì, certo…»
sbuffò invece Aiolos,
bevendo tutto d’un sorso il cocktail che aveva davanti.
«Che ne vuoi sapere tu, che sei dell’altra
sponda!» ribatté Kanon, volutamente malevolo.
Quella rivelazione – che ormai era il segreto di Pulcinella,
in
casa Hayes – scioccò gli ospiti giapponesi che
tutto
avevano pensato tranne che Aiolos, così serio,
così
virile e così poco propenso a esternare i propri sentimenti,
potesse invece…
Seiya si grattà dietro la nuca, nervoso e imbarazzato,
parlottando poi per qualche secondo con Saori. Se avevano frainteso uno
come Aiolos, benché avessero avuto poche occasioni per
“studiarlo”, cos’altro non avevano
capito? Kanon, che
tanto aveva la fama di dongiovanni? Saga, così pacato e
sempre
ben curato?
No, ciò che i loro occhi avevano visto non lasciava alcun
dubbio.
Il primo a uscire sulla terrazza fu Saga che si stava rivolgendo a
qualcuno. Il suo sorriso dolce e disteso era meraviglioso. Stava
dicendo che non c’era da aver timore, che non mordevano e
poteva
stare tranquilla. Poi, comparve anche lei, Cora, fasciata in quel bel
tubino di pizzo color corallo, con un’acconciatura
– uno
chignon basso, morbido e spettinato – che la faceva
assomigliare
alle star del cinema. Teneva lo sguardo basso; si vedeva che era
nervosa, ma si faceva guidare dall’altro.
«Sorpreso? Deluso?» bofonchiò Aiolos,
rivolgendosi a Kanon.
Era l’unico a non essere interessato ad assistere a
quell’entrata in scena, più preoccupato in
verità
di scoprire se fosse possibile ubriacarsi con del tè freddo.
Non
si aspettava invece il fischio di approvazione da parte dell'altro e il
seguente commento su quanto lei fosse attraente.
Saga la stava conducendo per mano, infondendole fiducia. Eppure Cora si
sentiva come se stesse andando alla sbarra di un’aula di
tribunale e fosse osservata, studiata, scrutata, esaminata
dall’implacabile giuria, pronta a scrollare la testa in
dissenso
al minimo errore, o inciampo. I crampi allo stomaco si stavano facendo
sentire di nuovo. Per un attimo ebbe la tentazione di opporre
resistenza a quel flusso che la stava trascinando in avanti, di tornare
indietro, di nascondersi e rinunciare; ma lo sguardo e la voce di Saga
fecero scomparire ogni indugio e paura, anche se non quel dolore
sommesso. E ora era lì, davanti al suo giudice
più severo
che la stava guardando.
Un poco frastornata, sotto esame di tutti i presenti, sentiva nelle
orecchie le voci ovattate degli altri; persino quella di Saga le era
sembrata irreale, almeno fino a quando non sentì le sue mani
che
le stringevano un poco le spalle, risvegliandola e liberandola dal velo
nebbioso nel quale si sentiva legata, giusto in tempo per udire quelle
parole.
«Papà, Shura, Kanon», esordì
Saga, col cuore
che stava accelerando i suoi battiti, perché anche lui non
era
esente dal sentirsi nervoso, in quel momento. «Voglio
presentarvi
una persona.»
Fece una breve pausa, posando lo sguardo innamorato sulla ragazza che
aveva vicino a sé. Il suo viso assunse un lieve rossore e le
sue
labbra si piegarono in un timido sorriso.
«Lei è Caroline Miller Hayes. Mia
moglie.»
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