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Autore: titania76    02/02/2015    2 recensioni
La vita di Shion Hayes, giovane uomo d'affari di successo, viene rivoluzionata da un messaggio che non può ignorare e al quale non può sottrarsi; viene così attirato a un appuntamento in un luogo fuori mano, in un freddo e lugubre pomeriggio autunnale. Qualcuno dal suo passato, che pensava di aver cancellato per sempre, torna nella sua vita e lo fa nella maniera più inaspettata e indelebile.
Anni dopo, l'infinita catena degli eventi innescata quel lontano giorno, sconvolge la quotidianità di una tranquilla e serena famiglia americana, portandola a cambiamenti radicali e allontanandola dalla propria casa e dalla propria città.
Quello stesso destino che in passato ha tolto, nel presente dona di nuovo.
La giovane Caroline Miller, da sempre sogna di tornare alla sua natia Boston; un incontro casuale e drammatico le dà la spinta decisiva per realizzare il suo desiderio. Ed è proprio a Boston, quando meno se lo aspetta, che incontra Saga.
Il colpo di fulmine è reciproco, ma fin da subito niente è facile per loro.
Ombre provenienti dal passato di entrambi sembrano spingerli in una direzione dove segreti e omissioni rischiano di spezzare per sempre il loro legame. Saranno in grado di resistere e rimanere assieme?
Genere: Romantico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Aries Shion, Capricorn Shura, Gemini Saga, Nuovo Personaggio, Sagittarius Aiolos
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Legacy'
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XXV


Winchester, Boston
Un colpo secco risuonò nella fresca brezza di quel pomeriggio di fine maggio dal cielo terso. Era stato come uno schioppo che sanciva la fine definitiva delle ostilità. Un lieve nugolo di polvere rossiccia si levò da terra di qualche centimetro, proprio fra i piedi del ragazzo che ancora stava battagliando per non ruzzolare al suolo, perdendo anche quella sfida.
«E con questo… è gioco, partita e incontro!» decretò con voce decisa Saga. Sul suo viso, un poco arrossato e imperlato di sudore, era stampato un sorriso smagliante che mostrava tutta la – scontata – soddisfazione di chi aveva predetto il risultato dell’incontro con largo anticipo.
Con un gesto fluido si portò la racchetta sulla spalla e, con calma olimpica, si avvicinò alla rete, osservando il gemello seduto a terra con i capelli scompigliati e appiccicati al viso stravolto, che imprecava verso tutto e tutti. Sputava parole fra i denti contro il laccio della scarpa destra che era finito sotto il suo piede facendolo inciampare; contro la sua racchetta, a sua detta non perfettamente bilanciata, e con l’impugnatura, rea di essere così fradicia di sudore che era divenuta scivolosa; e anche contro Saga, perché quell’ultima palla gliel’aveva tirata in un punto impossibile da ribattere.
«Non è valido! Me l’hai tirata in mezzo ai piedi!» sbraitò, agitandogli la racchetta contro. Il suo spirito di competizione ribolliva al massimo.
«Certo che è valido! Fa parte del gioco!» ribatté il gemello, ridendo ai goffi tentativi dell’altro di ripulirsi dalla terra rossa. Ma più Kanon si impegnava a farlo, più si sporcava per via del sudore che impregnava sia la maglietta che il viso, le gambe e le braccia. «E comunque non è colpa mia se non sei riuscito a respingere il mio colpo», aggiunse, alzando le spalle a schernirlo di più. Eppure, quelle parole erano state pronunciate col sorriso sulle labbra, di quelli dolci e gentili com’era solito fare quando era davvero sereno.
Forse lo aveva fatto con calcolata malizia, perché qualcosa dal gemello aveva imparato dell’arte dello sfottò, o forse con naturale ingenuità; ma il risultato era stato comunque quello di alimentare ancora di più la rabbia adrenalinica dell’altro. Gli tese la mano da sopra la rete, per aiutarlo a rialzarsi, ma Kanon la rifiutò con sdegno; e Saga si lasciò andare a una risata forte e divertita.
Il giovane si incamminò lungo la rete fino ad arrivare alle sedie a bordo campo – ai lati del seggiolone dell’arbitro – dove erano sistemate le borse e gli asciugamani. Dopo aver posato la racchetta, dalla borsa prese una bottiglietta di integratore, vuotandola in pochi sorsi.
«Imbroglione! Lo hai fatto di proposito solo per vincere di nuovo!» continuò nelle sue lamentele Kanon, raggiungendolo e, con gesti ancora più nervosi, ficcando malamente la sua racchetta nella borsa.
La sconfitta gli bruciava, eccome se gli bruciava! Soprattutto perché era lo spareggio ed era arrivato a un soffio dalla storica impresa di battere il gemello nel suo sport preferito. Ma forse, quello che ora gli dava maggior fastidio era la consapevolezza che la prima partita, quella cioè che aveva vinto… beh, era stata una vittoria troppo facile!
Saga gli tirò addosso l’asciugamano e si buttò a sedere su una delle sedie libere, sfinito, portando indietro la testa e chiudendo gli occhi, per godersi un leggero refolo d’aria che gli accarezzava il viso umido di sudore. Sorrise sornione allo sbuffo scocciato dell’altro.
L’aria portava con sé il profumo dei fiori che crescevano nelle curatissime e sempre perfette aiuole, disseminate fra i sentieri ordinati che si snodavano negli spazi del Country Club, come un intrico di vie e strade di un piccolo villaggio.
«Ti ho lasciato recuperare diversi punti che altrimenti non avresti fatto, se non sei stato capace di approfittarne devi biasimare solo te stesso.»
Kanon gli elargì un poco elegante gestaccio, corredato anche da una smorfia. Scaraventò a terra la sacca e si sedette accanto al gemello, coprendosi il viso con l’asciugamano.
«E questa volta cosa vuoi?» chiese, in uno sbuffo risentito. Naturalmente si stava riferendo alla posta della scommessa legata alla sua ennesima sconfitta.
«I biglietti per il Madison Square Garden.»
«Cosa?» disse, sgranando gli occhi e scattando in piedi come una molla. «Ma sei matto? Quei biglietti sono praticamente introvabili da settimane!»
«Usa i soliti canali, gli stessi di quando vuoi ottenere qualcosa per te», gli suggerì Saga, raddrizzandosi e sorridendogli. Si alzò dalla sedia, riordinò la propria borsa e se la mise in spalla, avviandosi poi fuori dal campo.
Kanon rimase basito. Non pensava certo che “quei” suoi metodi fossero sconosciuti al gemello, del resto lui stesso era stato così sciocco da vantarsene in più di un’occasione in passato, ma che addirittura ora Saga lo spingesse a usarli, gli sembrava una cosa fuori dal mondo.
«Ma tu lo sai cosa mi stai chiedendo di fare?» gli disse, ancora sconvolto, prendendo in fretta e furia le sue cose e raggiungendolo di corsa, mentre Saga invece passeggiava con tranquillità.
«Ti sto chiedendo di pagare il tuo debito. Sei tu che non hai voluto sapere quale fosse la posta in palio, troppo sicuro che avresti vinto, perché a differenza tua io non mi ero allenato negli ultimi tempi...» gli ricordò Saga, senza il bisogno poi di completare la frase.
Kanon si bloccò in mezzo al vialetto che portava agli spogliatoi privati, come raggelato. No, era evidente che il suo amato fratellino non si rendesse conto di quanto gli sarebbe costato, altrimenti non gli avrebbe fatto una richiesta impossibile. Era però vero che lui gli aveva detto, con tono eccessivamente sicuro, che non gli importava conoscere il premio per il vincitore; troppo convinto che si trattasse della solita cena in uno dei ristoranti più rinomati della Grande Mela che tanto Saga non avrebbe mai riscattato, visto che già ne vantava altre dieci.
Lo osservò guadagnare qualche altro metro, mentre le sue mani inconsciamente si portavano indietro a ripararsi i glutei e un gemito gli sgorgava mortifero dalla gola. La sola idea di doversi svendere alle lussuriose e troppo stravaganti voglie della presidentessa Abbigail Peterson – conosciuta a Wall Street come la regina degli snack dietetici –, che anche quell’anno sarebbe stata fra gli sponsor del match evento al Madison Square Garden, gli faceva rimpiangere di essersi sempre compiaciuto dell’interesse che la donna nutriva per lui. In quel momento avvertì di nuovo, con vivida chiarezza, le unghiate e i pizzicotti che lei gli aveva lasciato l’ultima volta che si erano incontrati a uno dei soliti party di raccolta fondi per… beh, di solito a quegli eventi vi partecipava solo per portarsi a letto qualcuna. Certo, la donna era bella e affascinante, una conquista che avrebbe dato prestigio a molti, ma forse sarebbe stata più adatta al padre piuttosto che a lui, se solo Shion avesse mostrato un qualche minimo interesse.
A rifletterci, non ricordava di aver mai visto il padre sessualmente attratto da alcuna donna. Se un tempo, quando era piccolo, poteva immaginare che l’uomo tenesse la sua vita privata fuori dalla portata dei suoi figli, per “non traumatizzarli”, ora che erano adulti – e lui era fin troppo attivo in quel campo – ancora non sapevano praticamente nulla delle avventure del padre. Ma forse, pensava, non sarebbe stato poi così strano se alla sua età avesse deciso di mandare in prepensionamento “l’amichetto”.
Si massaggiò con vigore la parte “offesa”: se proprio doveva sacrificarsi, non sarebbe stato il solo a pagarne il prezzo. I suoi occhi erano ancora fissi sul gemello che si stava allontanando, inconsapevole di quanto stava per succedere, e un ghigno diabolico si disegnò sulle sue labbra.
«Chissà…» mormorò Saga, sovrappensiero, «forse è arrivato il tempo di esigere anche gli altri, di pagamenti. Tu che ne pensi, Kanon?» si rivolse al fratello, girandosi un poco indietro.
Boom!
Saga avvertì un forte dolore alla schiena e dietro la testa e per qualche secondo tutto si fece buio. Si ritrovò a terra, immobile, schiacciato da un grosso peso che gli bloccava la cassa toracica e gli impediva quasi del tutto di respirare. Ancora scombussolato, sentiva una strana umidità inzuppargli tutto il corpo. Con le mani tastò incerto vicino a sé, mentre riapriva gli occhi con innaturale lentezza. Sotto i suoi palmi l’erba era umida, probabilmente annaffiata di fresco; e il sole emanava una luce dolce, poco fastidiosa: aveva già iniziato il lento percorso verso ovest.
Con un gemito girò il capo, prima a destra, poi a sinistra. La sua borsa era volata a un paio di metri da lì, sulla sinistra. Provò ad afferrarne la tracolla che protendeva verso di lui, ma c’erano ancora diversi centimetri di distanza da colmare per raggiungerla. Con la mano riuscì a strappare solamente qualche ciuffo d’erba, nei suoi vani tentativi. Avvertì un secondo battito tambureggiare contro il suo petto, inseguendo e superando il ritmo di quello che invece gli batteva dentro. Deglutì a fatica. Poi, un altro gemito e un ansimo strozzato. La difficoltà nel respirare si faceva via via più opprimente.
«Come stai?» gli chiese Kanon, con voce ovattata: la sua bocca premuta contro il petto del gemello, il volto a contatto con la stoffa di cotone della polo dell'altro.
«Come vuoi che stia?» ansimò Saga, cercando di prendere più aria possibile. «Come uno che è appena stato travolto da un… un TIR», disse, ormai senza fiato.
Kanon sogghignò. In effetti la cosa era piuttosto verosimile, anche se si trattava di un semplice, quanto “innocente”, placcaggio. Forse un po’ troppo alto, ma del tutto lecito e regolare!
Rimasero in quella posizione per interminabili secondi, nella completa immobilità di quella strana situazione. Tutto era diventato silenzio attorno a loro; solo il melodico canto della natura faceva da contraltare ai loro respiri: quello affannato e sovreccitato di Kanon e quello quasi impercettibile di Saga, sempre che riuscisse ancora a respirare.
«Dai… togliti di dosso… bisonte…» sbuffò il giovane, steso sul terreno. «Se mi hai sporcato, ti metto in conto anche la lavanderia…» disse con tono minaccioso.
Il suo sguardo e le sue labbra però non erano in accordo con le sue intenzioni: troppo dolci e sereni i suoi occhi verdi che splendevano di una gioia contagiosa; e le sue labbra che non riuscivano a nascondere il sorriso tipico di chi è innamorato.
Saga gli disse di alzarsi e lui, da bravo fratello sempre prodigo nel prendersi cura del proprio gemello, si tirò su un poco, puntellandosi con le mani sul soffice manto erboso, sfiorandogli i fianchi. E Saga, in quell’esiguo spazio che l’altro gli stava concedendo, riuscì finalmente a riempire d’aria i polmoni, sbuffandola poi fuori con sollievo.
Kanon lo fissò negli occhi. Rosso in viso e sudato, sorrise malizioso, voglioso di rivincita; e nei suoi propositi sarebbe stata molto, ma molto, soddisfacente. Poco propenso a dargli davvero pace, si mise a cavalcioni su di lui.
«Ma che fai?» disse in tono allarmato Saga, sgranando gli occhi per la sorpresa.
Si ritrovava un energumeno di quasi novanta chili che gli stava pesando sul bacino e lo teneva bloccato a terra. Vide il gemello chinarsi di nuovo verso di lui, sempre con quel sorrisetto ambiguo che ora sembrava addirittura pericoloso e, ancora una volta, si coricò su di lui, appoggiando i gomiti a terra, ai lati del suo viso. I loro nasi erano quasi a contatto fra loro e le loro fronti si sfioravano. Saga trattenne il respiro: in quella posizione, col cuore che gli martellava nel petto, si stava sentendo indifeso.
«Kanon?» disse, con voce incerta.
Sul viso sentiva il respiro del gemello e un leggero solletico provocato dallo sbatter di ciglia che l’altro, era più che sicuro, stava facendo apposta.

*****

«Sei sicura che stiamo andando nella direzione giusta?»
«Quel ragazzo ha detto che era da questa parte», disse Saori, ma anche lei non era poi così certa della direzione presa: forse aveva capito male le indicazioni.
Camminava a passo svelto e al tempo stesso indeciso, scrutando con gli occhi ogni minima cosa per individuare i punti di riferimento che le erano stati dati, neanche la proprietà del Country Club fosse stata un astruso labirinto magico che, distolto un momento lo sguardo, mutasse di forma per confondere gli ignari avventurieri.
«Ma perché stiamo andando a cercarli?» chiese di nuovo Seiya; la svogliatezza che mostrava contrastava e stonava con l’ambiente circostante e con la curiosità della ragazza.
Saori non gli diede una risposta. In effetti nessuno aveva chiesto loro di fare una cosa del genere: aveva deciso lei stessa, di sua iniziativa, di andare a cercare i gemelli, quando aveva sentito Shion Hayes chiedere a uno dei valletti del club di far chiamare i suoi figli. In quel momento, con ancora indosso la tenuta da cavallerizza, aveva appena raggiunto l'uomo al suo tavolo, dopo la passeggiata a cavallo che aveva fatto, accompagnata da uno degli istruttori del maneggio. Con la scusa che desiderava andare a rinfrescarsi, si era congedata, ma aveva preso tutt’altra direzione; e Seiya l’aveva seguita a ruota, com’era sua abitudine fare e come la sua famiglia adottiva, i Kido, gli aveva ordinato di fare.
Quasi dispersa fra i vialetti curati, i mille cartelli che indicavano altrettante direzione e tante altre distrazioni – e più di dieci minuti di vagabondaggio a vuoto –, si stava domandando anche lei il perché si fosse imbarcata in quella “missione”. Eppure, una voglia misteriosa l’aveva spinta a voler scoprire un diverso lato della personalità del suo promesso; a sbirciare anche solo un piccolo attimo di normalità e di vera intimità di quella persona che dei cinici accordi economici le avevano affiancato.
Come se non fosse bastato, in quei giorni aveva sentito tanto decantare le qualità dei gemelli Hayes, non soltanto come persone, ma anche come eccellenti sportivi. Erano state per lo più chiacchiere da parte del personale del Country Club, dipendenti che ammirano il padrone, e parole frammentate captate dai discorsi degli altri ospiti. Loro senz’altro conoscevano meglio di lei Kanon e, se ne parlavano così bene, allora doveva esserci del vero. Le più insistite asserivano che i due erano così bravi, naturalmente ognuno con uno sport preferito, che avrebbero potuto competere anche con dei professionisti; non degli sportivi qualunque, ma con dei veri campioni!
L’impresa che veniva raccontata più spesso era una gara nella piscina olimpionica, ovviamente del Country Club, avvenuta quasi cinque anni prima e nella quale i due fratelli erano stati alla pari fin quasi all’ultima bracciata dell’ultima delle sedici vasche degli 800mt stile libero. Ci fu chi, a suo tempo, assistendo alla sfida – che si era svolta proprio nei giorni di gare dei mondiali di nuoto di Montreal – disse che i due erano finiti alla pari e riuscirono persino a battere il record mondiale. Naturalmente, la parola di un semplice addetto alla piscina non era poi così attendibile. Ma quel giovane per diverso tempo si vantò di essere stato testimone di un’impresa eccezionale.
Lei era stata educata a tenere molto in considerazione l’onore e la reputazione delle persone, a guardarne i meriti reali e non quelli presunti; da quando era in America, dove tutto era così diverso dal suo paese e dalla sua cultura, dove era prassi ingigantire ogni cosa, non sapeva più cosa pensare: era difficile riuscire a capire dove terminava la verità e dove invece iniziavano le esagerazioni.
Le avevano detto che quel pomeriggio i gemelli si erano tenuti liberi per un incontro di tennis ed era curiosa di vederli all’opera. Un piccolo esempio lo aveva avuto proprio la settimana prima; ma in quell’occasione, la partita giocata da Kanon le era sembrata essere più che altro una dimostrazione e non un match guidato dallo spirito sportivo. L’aveva visto ridere – talvolta irridere – e scherzare, limitandosi contro i suoi avversari. Seiya, che difendeva il vessillo nipponico, nonostante la sua volenterosa caparbietà, era stato liquidato in fretta. Aveva fatto quel che aveva potuto, tutto considerato. Mentre Aiolia, amico del ragazzo, aveva subito sorte ben peggiore, venendo addirittura umiliato; e solo perché si era lasciato sfuggire una parola di sfida di troppo; ma dai discorsi che i due avevano fatto, non doveva essere stata la prima volta.
Per giorni e giorni, quel magnificare ogni cosa riguardasse i gemelli, era ronzato nella giovane testa di Saori, portandola a pensare spesso, molto spesso, al suo promesso sposo. Doveva però confessare a se stessa che anche l’altro, il fratello più tranquillo, quello che in qualche modo la turbava con il suo carattere troppo introverso e lo sguardo limpido, che a tratti le ricordava suo cugino Shun, le faceva un certo effetto. Forse era per il fatto che avevano iniziato a passare molto tempo assieme, mentre con Kanon si erano create delle distanze dovute al lavoro di lui. Spesso infatti, in quell’ultimo periodo, Kanon faceva il pendolare fra Boston e New York. Tragitto pesante se percorso ogni giorno, anche per chi aveva mezzi superiori, come autisti e aerei privati; ma alle volte, era capitato una o due in realtà, era stato costretto anche a fermarsi a dormire nell’attico di Central Park.
Saga invece, che sempre di più faceva gli onori di casa nella villa di Mystic Lake, era disponibile per ogni cosa lei avesse bisogno. Quella vicinanza così stretta, che derivava anche dal ruolo di tutor che gli era stato chiesto di svolgere per aiutarla negli studi e prepararsi per il difficile test d’ingresso – che le avrebbe permesso di frequentare l’ultimo anno come una studentessa normale –, aveva iniziato a farla dubitare di se stessa. Era stato grazie all’intercessione del capofamiglia Hayes se da qualche settimana stava frequentando – solo come osservatrice – una scuola privata di Boston, la stessa che a suo tempo aveva frequentato anche Kanon, per familiarizzare con i metodi americani. Era stato così che aveva quindi iniziato a passare tutti i pomeriggi alla villa, a stretto contatto con Saga: ufficialmente a ripassare le lezioni, ma in verità a distrarsi nell’osservare i suoi sorrisi dolci, ad ascoltare la sua voce gentile, a sentire sulla pelle gli involontari tocchi delle sue mani e… a odorare il suo profumo delicato e virile al tempo stesso, quando si chinava un poco su di lei per spiegarle un paragrafo del libro di testo. A quei ricordi recenti sovrappose, come in un passaggio naturale, la figura di Kanon, con quel suo carattere spontaneo e un po’ sbruffone, e il suo cuore prese a battere più forte. All’improvviso, come se già quella confusione di sentimenti che si agitavano in lei non fossero stati sufficienti, avvertì un'improvvisa vampata sul viso.
D’istinto cercò di nascondersi a Seiya, per non fargli notare l’imbarazzo che stava provando nel perdersi in certe fantasticherie. Si sentiva un poco sciocca in quel frangente. Osservò il ragazzo di sottecchi: Seiya era sempre stato al suo fianco e l’accompagnava dappertutto senza mai lamentarsi, forse borbottando qualche volta, ma mostrandole sempre tutto il suo appoggio. Presenziava anche lui a quelle ripetizioni, anche se di malavoglia; benché, poverino, fosse lui quello che ne avesse maggiormente bisogno.
Si coprì la bocca con la mano inguantata, mentre nell’altra ancora stringeva il frustino, per mascherare la civettuola risata che le nacque spontanea. Saga era sempre molto paziente con Seiya, in quelle occasioni, ma se ci fosse stato Kanon al suo posto? Forse lo avrebbe scaraventato giù dalla finestra dopo la seconda volta che lui gli avesse chiesto di ripetere qualcosa. A quel pensiero rise di nuovo.
Camminarono ancora per qualche decina di metri, passeggiando tranquilli, serenamente, senza più fretta; poi, Saori si fermò davanti a un piccolo e malconcio cartello di legno, dall’aria molto country, e vide una scritta che recava l’indicazione: “Proprietà esclusiva dei fratelli Hayes, dal 1995”. E, aggiunto a mano, con una scrittura infantile e irregolare, un “fuori dai piedi!” Più sotto ancora, inciso con un temperino sul palo di sostegno, c’era anche l’avviso “il prossimo che toglie questo cartello è licenziato!”.
Saori sorrise intenerita: non pensava di vedere una cosa del genere in un posto così d’élite come quello; sembrava una cosa fatta da bambini delle elementari. E forse lo era davvero.
«Ma quanto è grande questo posto?» commentò Seiya, ormai annoiato a morte, continuando a guardarsi attorno e pensando che gli sarebbe piaciuto provare a guidare una di quelle piccole macchine elettriche che avevano incrociato lungo i vari vialetti.
«Dovremmo essere arrivati», dichiarò Saori, risvegliando l’attenzione dell’altro.
Fecero ancora qualche metro e, alla fine, poco più in là, sentirono delle voci. La ragazza si fermò dietro un grosso cespuglio di bosso, non appena riconobbe le voci. Con titubanza allungò il collo per vedere e subito si ritrasse, rossa in viso.
«Torniamo indietro!» esclamò con troppa decisione, incamminandosi in tutta fretta, senza dare ulteriori spiegazioni e lasciando l’altro attonito e spaesato a sbirciare coi propri occhi.

*****

Saga tenne Kanon stretto in quell’abbraccio per lunghi secondi: petto contro petto, il viso nascosto fra i suoi capelli umidi di sudore – che l’altro stava lasciando crescere un poco più del solito, forse per assomigliare di più a lui – e il collo; e una mano che gli accarezzava la testa bionda, scompigliata. Il suo gemello ancora gli stava seduto sopra, bloccandogli le gambe, ma in quel momento non sembrava più subire quel peso.
«Riconosco questa sensazione», mormorò Saga, con voce dolce e malinconica.
L’altro fece un lieve movimento, come risvegliato da quella sensazione di pace che stava sentendo: la stanchezza della partita a tennis ormai riassorbita e l’umore di nuovo sereno. Era sempre così quando c’erano quei momenti di vicinanza con il suo amato fratello. «Hai detto qualcosa?» gli chiese, tentando di slacciarsi un poco dall'abbraccio, ma Saga non accennava a lasciarlo.
«Noi due, i battiti dei nostri cuori uniti in uno solo… noi che torniamo a essere una cosa sola, come se fossimo ancora nel ventre di nostra madre, cullati nel suo amore. Noi due e nient’altro. Una dolce nostalgia», disse in un sussurro Saga, stringendosi di più a lui.
Le sue parole però a Kanon sembravano strane ed enigmatiche. Gli suonò un campanello d'allarme quando udì accennare alla madre. Non che fosse un argomento tabù, ma non ne avevano mai sentito la necessità di ricordarla o solamente di chiedere di lei. E ora, d’un tratto, ecco che spuntavano fuori discorsi su una donna che neanche avevano mai conosciuto e della quale sapevano solo che era morta.
«Ti senti bene?» chiese Kanon, con tono inquieto.
«Ne sono certo, lo ricordo… sempre insieme», sospirò Saga. «E due braccia pietose che ci avvolgevano e ci tenevano al sicuro. Le braccia di un padre amorevole.»
Kanon spalancò gli occhi, colto da un’improvvisa preoccupazione, questa volta più concreta delle altre. Si staccò con vigore dal gemello e lo scrollò per le spalle. Lo sguardo di Saga era languido e gentile, le labbra incurvate in un sorriso delicato e struggente e le gote di una leggera sfumatura rossa che spiccava sulla sua pelle chiara.
«La memoria ti sta giocando di nuovo brutti scherzi? Il colpo alla testa che hai appena preso ti ha rintronato del tutto, oppure sei ancora una volta sotto l’influsso della febbre?» gli disse, mentre con una mano gli toglieva un filo d’erba dai capelli, scrutandolo attentamente. Non poteva certo credere che l’altro stesse parlando della medesima persona che li aveva cresciuti: Shion Hayes era un buon padre; amorevole, certo, forse propenso a qualche smanceria… ma solo con Saga e sempre e comunque contenute. Ma la descrizione che il gemello ne aveva appena fatto, che lui stesso aveva inteso, era un po’ troppo lontana dalla realtà che lui conosceva. E Kanon… lui sì che aveva una buona memoria!
Il tono con cui gli aveva parlato era vagamente canzonatorio – e il suo sesto senso era in allerta, perché sentiva che c’era qualcosa di strano in quel comportamento – ma il gesto appena compiuto invece mostrava tutta la cura e l’affetto che provava per lui; che dedicava solo a lui. Perché era vero, nonostante vite separate, nonostante fossero adulti, nonostante tutto quello che si poteva dire, la questione era semplice: erano loro due, sempre insieme.
Saga gli sorrise ancora più dolcemente; non si aspettava certo che l’altro condividesse quei ricordi, neanche lui era davvero sicuro di ciò che aveva appena detto e provato, forse quelle sensazioni erano solo immaginate – o costruite dal suo subconscio dopo quanto aveva appreso – ma un poco gli dispiaceva che Kanon non riuscisse ad avvertire le sue stesse emozioni. Forse però, in qualcosa il fratello aveva ragione: si sentiva un po' caldo. Che quella febbriciattola, seppur passeggera, gli avesse fatto immaginare tutto?
Si bagnò la punta del pollice e, scostandogli i capelli ancora umidi dalla fronte, gli pulì uno sbaffo di terra rossa appena sopra il sopracciglio sinistro. Poi, gli diede un bacio sulla guancia e gli accarezzò il viso, rimandendo per diversi secondi a rimirare il suo bel fratello. Anche Kanon era caldo, forse addirittura più di lui. Del resto, erano seduti sul prato bagnato, con ancora i vestiti intrisi di sudore dopo la partita a tennis e soffiava un lieve venticello fresco.
«Ci pensi mai a quanto è successo e a cosa è cambiato?» disse Saga, in un soffio leggero di malinconia, toccandosi inconsciamente la tempia destra e quel piccolo segno rimasto inciso sulla sua pelle. Sospirò e alzò di nuovo lo sguardo sul gemello che invece lo stava fissando scuro in volto.
Poi, con movimenti lenti, Kanon si scostò dal gemello, lasciandolo finalmente libero di muoversi, sdraiandosi al suo fianco sull'erba e sbuffando stanco.
«Scusami, non volevo contrariarti», disse Saga, spolverandosi la polo.
«Stavo riflettendo… È da un po’ che non c’è più la stessa sintonia di un tempo: come se ci fosse qualcosa di diverso fra noi», disse Kanon, osservando una nuvola bianca che si muoveva lenta nel cielo.
«Non siamo più bambini, Kanon, né adolescenti. Siamo cresciuti, abbiamo preso strade diverse e acquisito delle responsabilità che hanno portato inevitabilmente a dei cambiamenti e ci hanno resi così come siamo ora», rispose Saga, con un sorriso pacifico sul viso.
«No, è differente!» ribatté in tono secco Kanon.
Qualcosa lo aveva irritato. Non era tanto l’argomento “adolescenti”, che in quell’ultimo periodo era diventato un nervo scoperto ancora più sensibile, ma sentiva che qualcosa, un qualche fattore sconosciuto, stava cambiando il loro rapporto.
«Voglio mostrarti una cosa!» disse Saga con enfasi, ignorando la tensione che irrigidiva l’umore del gemello.
Trascinò la borsa vicino a sé e, frugando in una delle tasche laterali, prese una scatolina color turchese, legata con un raffinato nastrino bianco perla.
Kanon alzò un sopracciglio quando il fratello gliela mise sotto il naso. La scritta Tiffany&Co impressa in argento sul coperchio era ben visibile.
«Oh, mio Dio! È per me?» disse Kanon, imitando la vocetta stridula delle ragazze, guardando negli occhi il gemello e sbattendo ripetutamente le lunghe ciglia bionde dei suoi begli occhi verdi. «Tesoro non dovevi!»
Saga gli diede una spallata, mormorando uno “scemo” e rise di gusto.
Kanon si fece più serio, con lo sguardo fisso sulla scatolina. «È quello che penso? Un anello di fidanzamento?» chiese.
Il gemello abbassò lo sguardo, imbarazzato. Sospirò, raccogliendo le ginocchia al petto e scrollò lentamente la testa. «È un regalo.»
«Posso vedere?»
«Solo se mi assicuri di riuscire a richiudere il pacchettino alla perfezione.»
«Lascia che ti dia un consiglio: se vuoi fare veramente colpo, non presentarglielo qui dentro, perderesti tutto l'effetto sorpresa», gli disse, passandogli un braccio sulle spalle e stringendolo a sé.

*****

Da qualche tempo Aiolos aveva smesso di leggere quelle che considerava le memorie di Gregory Miller. Termine sicuramente improprio, ma quantomeno efficace per definire quel quadernetto nero che mesi prima gli era capitato fra le mani per caso. Ora tutto quell'interesse sembrava essere svanito di nuovo. Aveva creduto di poter trovare "qualcosa" su Caroline e la sua famiglia e forse, se ne avesse avuti a disposizione altri, le sue aspettative sarebbero state anche esaudite. Invece, inaspettatamente, ciò che aveva trovato erano state le origini di Saga e Kanon. O così almeno poteva sembrare, a meno che non fosse una clamorosa coincidenza.
Diede un'occhiata alla sua compagna di viaggio che dopo numerosi viavai alla toilette si era finalmente addormentata. Aveva tanto bisogno di riposo, peccato che ormai mancassero solamente una quindicina di minuti all'atterraggio. Con lo sguardo indugiò ancora un poco sul volto di lei: era quasi impressionante l'estremo pallore.
«Che sconsiderata…» mormorò, scrollando la testa.
Passò le mani fra i capelli, cercando di riordinare le ciocche più ribelli. Poi, ingurgitò tutto d'un fiato la vodka che gli aveva servito Kimberly e rimase a fissare il bicchiere vuoto. Non era solito bere super alcolici quando viaggiava, ma questa volta ne sentiva la necessità. Quegli ultimi giorni trascorsi a Philadelphia erano stati pesanti anche per lui.
Sul sedile accanto aveva sistemato la sua borsa ventiquattrore. Più volte era stato tentato di prendere dalla tasca anteriore quel famoso quadernetto che si era portato dietro. Con la mano sfiorò la zip della tasca anteriore, giocherellandovi un poco, aprendola di qualche centimetro e richiudendola subito dopo, continuando in quel modo per diverse volte. Poi, con un gesto secco la aprì del tutto e prese il quadernetto. Dov'era rimasto nella lettura?
Sfogliò velocemente le pagine e una delle ultime si staccò un poco. Solo in quel momento si accorse che dal quadernetto mancavano delle pagine. C'era un piccolo solco vicino la costina interna e si vedeva il taglio, nonostante fosse stato fatto perfettamente a filo. Trovò alcune pagine bianche e le note riprendevano poco più oltre con un'ultima che non c’entrava nulla con quanto scritto in precedenza.
Aiolos si soffermò un momento proprio su quelle poche righe che chiudevano quel quadernetto e che recitavano:

“Oggi per la prima volta in vita mia ho abusato del mio ruolo di poliziotto. Me ne vergogno molto. Ero entrato nella tavola calda solo per prendere caffè e hamburger per il mio compagno e per me e, mentre aspettavo, l’ho vista. Era seduta a un tavolino appartato e si stava guardando in giro in modo nervoso. Sembrava stesse cercando qualcuno. Aveva un qualcosa di sospetto. Mi sono avvicinato a lei e, mostrandomi forse un po’ troppo arrogante, nella mia divisa blu, ho chiesto di vedere i suoi documenti, facendo poi finta di fare dei controlli. Alla fine era timorosa perché non conosceva la zona e perché le persone che stava aspettando erano in ritardo.
Per fortuna ho una buona memoria, appena sono uscito dal locale con la mia ordinazione, mi sono appuntato nome e indirizzo. Se non fossi stato in servizio sarei rientrato e le avrei offerto un caffè. Quando ho guardato di nuovo dentro, attraverso la vetrata, era stata raggiunta da altre quattro ragazze.

Teresa Costantini, di Philadelphia…”

«E bravo il nostro poliziotto irreprensibile», mormorò, sogghignando nello scoprire il primo incontro dei genitori di Caroline.
Alzò per un attimo lo sguardo sulla ragazza, per accertarsi che stesse ancora dormendo. Poi, tornò a concentrare la sua attenzione su quelle pagine bianche. Era un fatto curioso. Vi passò sopra i polpastrelli, sentendo i segni incisi sulla carta sottostante. Evidentemente, quando aveva scritto quelle pagine, Gregory Miller doveva essere stato nervoso, perché fino a quel momento la sua scrittura era stata sempre normale. Fitta, ben tratteggiata e leggera. Sì, la si poteva anche definire leggera, per un uomo.
Cos'aveva scritto in quelle pagine strappate che poi aveva voluto tenere nascoste? O forse qualcun altro le aveva tolte affinché nessuno venisse mai a conoscenza del contenuto...

“28 agosto 1984
Sto ancora cercando una spiegazione per quanto ho appreso, ma ora devo sciogliere un altro dubbio: la sua scheda, quella relativa alla sua vita da adulto, pare immacolata: nessuna multa, niente denunce o verbali a suo carico. Del resto, se non fosse coinvolto in questa faccenda, sembrerebbe una persona molto mite e rispettosa della legge. Eppure ci sono delle incongruenze. È come se avessero voluto coprire alcune cose. Cosa c'è che deve rimanere nascosto della vita di quest'uomo? Non mi voglio arrendere, proverò a cercare ancora. Ho la sensazione che ci sia qualcosa fuori posto in tutto questo. Forse dovrei provare a chiedere un colloquio in carcere.

... Ieri ho incontrato il professor Taylor. A dire la verità l'ho visto solo di sfuggita mentre scendeva la scalinata del tribunale. Era accompagnato dalla figlia avvocato. Stavano discutendo animatamente, ma non sono riuscito a sentire di cosa stessero parlando. La donna aveva un'espressione molto dura e i suoi occhi sembravano quelli di un rapace. Deve fare davvero paura quando è in aula. Il professore invece, sembrava molto intimidito da lei: passivo, stanco. Che sia ancora angosciato dalla tragedia che ha colpito la sua famiglia?
Stavo quasi per passare il colonnato del tribunale, sommerso di fascicoli che dovevo consegnare a uno degli assistenti del procuratore (strano che per un semplice caso di malversazione, che neanche è di competenza della mia sezione, occorrano così tante carte) quando mi sono girato un'ultima volta verso il professor Taylor. Ero curioso di vedere che direzione avrebbe preso. È stato allora che ho visto una donna avvicinarsi al professore con aria disperata e cercare di parlargli. Quella donna era fin troppo agitata e stava attirando l'attenzione di altre persone, oltre alla mia. La reazione di Anne Taylor non si è fatta attendere e, come c'era da aspettarselo, ha preso la situazione in pugno. Ha tenuto la donna a distanza dal padre, forse per impedirle di parlargli. Ha cercato di farla ragionare, così almeno mi è sembrato di capire dalla mia posizione. Le sue parole devono averla convinta in qualche modo, perché si è subito calmata. Poi, l'avvocato Taylor ha fatto cenno a qualcuno e l'ha fatta scortare via.
Non ho visto bene in viso quella donna, anche se sembrava molto giovane, ma ho avuto la netta impressione di conoscerla, o quantomeno di averla già incontrata e di averci parlato. Forse era qualcosa nella sua postura, forse qualcos’altro… non capisco…”

Senza rendersene conto, Aiolos fece una smorfia con le labbra.
«Pessima lettura?» chiese Cora, di nuovo di ritorno per l'ennesima volta dalla toilette; in mano teneva un bicchiere con acqua tiepida e limone che Kimberly le aveva preparato, visti i suoi continui attacchi di nausea.
Il ragazzo alzò la testa di scatto, sgranando gli occhi nel vederla che si stava accomodando proprio di fronte a lui. L'aveva lasciata che riposava, così credeva... quando si era svegliata?
«Va meglio?» le chiese, chiudendo in fretta il quadernetto.
Lei si limitò a posare il bicchiere ancora intonso sul tavolino e, con la mano che stringeva un fazzoletto, a spolverare la gonna dell’abito da cocktail che sua madre le aveva regalato, da alcune macchioline d’acqua.
«Dovresti berla», le fece notare lui.
«Mi fa venire mal di stomaco.»
«Ma ti darà sollievo per il mal d’aria», insistette Aiolos, anche se sapeva bene che quel suo malessere non era dovuto al viaggio.
La osservò per alcuni secondi: non poteva dire di conoscerla così bene da poter notare delle differenze con prima, ma gli sembrava fin troppo taciturna e, era comprensibile, aveva lo sguardo triste.
«Saresti dovuta restare a casa con la tua famiglia. Avrei spiegato io a Saga la situazione», le disse, riponendo il quadernetto nero nella tasca della sua borsa, usando tutta la disinvoltura di cui era provvisto per non destare sospetti in lei.
«Anch’io ne ho di uguali. Erano di mio padre, li usava quando era in polizia, così come lo zio Phil.»
Aiolos si irrigidì.
«Immagino siano però comuni», aggiunse, con voce via via meno vitale, voltando lo sguardo per osservare fuori dal finestrino, prima di chiudere ancora una volta gli occhi appesantiti dalle medicine che aveva preso e spossata dal suo malessere.
L’hostess si avvicinò ad Aiolos e avvertì che il pilota si stava preparando per la fase di atterraggio e che quindi avrebbe dovuto allacciarsi le cinture di sicurezza; poi fece la medesima cosa con Caroline, scuotendola dolcemente e chiedendole anche se avesse bisogno di qualcosa. Prima di prendere il suo posto, la donna aggiunse che la limousine della società era già arrivata e attendeva nell’hangar.

*****

Seduto al tavolo in compagnia dei suoi ospiti, di Shura e del padre, Saga sorrideva e partecipava con entusiasmo alle conversazioni. Lui era di casa lì, forse molto più che alla villa, si poteva dire. Non perché potesse contare su una discreta quota personale di azioni del Country Club, benché questo gli desse un certo peso, né perché – agendo per conto del padre – avesse poi acquisito col tempo la quota maggioritaria, ma perché fin da piccolo aveva frequentato con assiduità quel luogo, fino a sentirlo come un luogo dove poteva essere se stesso. E infatti era così. Nonostante il Club fosse comunque un luogo molto formale, frequentato dall’alta borghesia di Boston e da personaggi di spicco della società, gli dava quelle libertà che da nessun’altra parte riusciva a trovare, in veste di rampollo degli Hayes.
Nei momenti morti di quella piacevole compagnia però, tendeva ad abbassare lo sguardo e giocherellare col quadrante del suo orologio, con la vana speranza forse che arrivasse presto “quel” momento, ma anche con il segreto timore che tutto sfumasse all'ultimo minuto; oppure si dedicava a martoriare il contenuto del suo piatto, senza alcuna voglia di mangiare davvero; oppure ancora a sorseggiare il drink, senza gustarlo, intristendosi e lasciandosi andare, ogni volta, a un sospiro penoso.
«C’è qualcosa che non va, Saga?» gli domandò Shura, alzando lo sguardo dal libro che stava leggendo, dopo l’ennesimo sospiro del ragazzo. Tutti ormai a quel tavolo si erano accorti che il giovane avesse qualche preoccupazione che gli occupava la testa.
«Va tutto bene», rispose lui, muovendosi incomodo sulla sedia metallica.
Si passò le mani sulle cosce, sulla stoffa dei pantaloni color panna della divisa ufficiale del Country Club – quella che ogni membro regolarmente iscritto doveva indossare all’interno del perimetro della proprietà – come per togliersi con quel gesto la patina di tristezza che si sentiva addosso; e subito dopo accavallò le gambe, sforzandosi in un sorriso per mostrare agli altri che era sereno. Si accostò un poco a Saori che sedeva al suo fianco e riprese a descriverle i dintorni.
Anche Shion Hayes, che in quel momento stava terminando di esaminare dei documenti, distolse la sua attenzione per concentrarsi sul figlio. Lo conosceva abbastanza bene da capire che quell’innocua bugia non era servita a molto e che, anche se sembrava comportarsi come di consueto, aveva un carattere troppo cristallino per riuscire a nascondergli i propri sentimenti.
«Proprio come lui…» mormorò, sospirando sovrappensiero.
Ma forse non era proprio esatto. Anthony aveva saputo nascondergli bene le cose più importanti che riguardavano la sua vita: i suoi sentimenti per Emma, che chissà da quanto tempo aveva covato; il suo passato e… Shion si stava chiedendo cos’altro c’era ancora che non sapeva.
Aggrottò la fronte e con un movimento secco girò la pagina, riprendendo a leggere, prendendo poi anche un sorso del suo whisky. La sua mente però non era più sintonizzata sul lavoro. Ora che il figlio aveva scoperto parte della verità, attendeva solo il momento in cui sarebbe tornato da lui a chiedere di conoscere il resto della storia e probabilmente gli avrebbe rivolto domande alle quali lui stesso non aveva risposta. C’era qualcuno che avrebbe potuto colmare almeno una parte di quelle lacune, ma quanto gli sarebbe costato interpellarlo?
E poi c’era anche chi conosceva l’intera storia, ma mai e poi mai avrebbe permesso a quelle persone di avvicinarsi e inquinare il cuore dei suoi ragazzi.
Seiya, seduto all’altro fianco di Saori, continuava a fissare Saga con insistenza, come un mastino. Erano ancora vivide nella sua mente le immagini di lui e del gemello e un brivido gli corse lungo la schiena, ripercuotendosi anche alle braccia. “Povera Saori” continuava a pensare, scrollando impercettibilmente quell'ammasso di capelli disordinati che andavano tanto di moda in Giappone. L’aveva vista fuggire via, sconvolta e mortificata. L’aveva dovuta rincorrere fino all’albergo, fin nell’appartamento che era stato loro messo a disposizione, pregando che si riprendesse dallo choc. Infine, era stato testimone di quanto il suo orgoglio di “principessina” Kido l’avesse aiutata a fare buon viso a cattiva sorte per affrontare quella giornata in compagnia degli Hayes.
Mentre Saga invece… lui era lì che si mostrava disinvolto, che le si avvicinava come niente fosse, senza il minimo pudore; e lei che, nonostante l’imbarazzo e il disagio, pendeva ancora dalle sue labbra. Fin dalla prima volta che lo aveva visto, che gli aveva stretto la mano, aveva avvertito qualcosa di strano in quel Saga. Del resto, aveva convissuto a stretto contatto con Shun che la sua omosessualità l’aveva palesata già in adolescenza, senza vergognarsene. Si riteneva quindi in grado di capire e riconoscere quel tipo di persone.
“Povera Saori”, si ripeteva, pensando anche all’altro Hayes, “provare tutto quell’interesse per delle persone che non potrebbero mai ricambiare i suoi sentimenti, perché di tutt’altra natura; e che anzi, la stanno solo prendendo in giro!”. Anche in Kanon aveva percepito qualcosa di ambiguo. Lo aveva visto troppo sfacciato nei suoi atteggiamenti, come se in realtà fossero stati solo una copertura.
«Ho sentito dire che sei un discreto calciatore, Seiya. La scuola che frequenterai a Boston ha una squadra di calcio. Pensi di provare a fare le selezioni il prossimo anno?» gli chiese Saga.
Il giovane nipponico era ancora tutto concentrato sui suoi pensieri da non accorgersi dell’espressione irritata di Saori e dei suoi occhi che silenziosamente lo stavano rimproverando per non aver risposto prontamente alla domanda. Fissò Saga per qualche secondo con un'espressione inebetita: in effetti il suo inglese era ben lontano dalla perfezione e gran parte di quello che Saga gli aveva detto non lo aveva afferrato.
La giovane gli ripeté la domanda sussurrandogliela all'orecchio.
«Saori, non è giusto che tu gli traduca ogni cosa, altrimenti non imparerà mai a cavarsela da solo», la riprese lui, con un dolce e luminoso sorriso sulle labbra, che faceva sbiadire per qualche istante la tristezza ancora presente nei suoi occhi. «Perdonami, Seiya, proverò a parlare più lentamente da ora in poi», fece mea culpa Saga, rivolgendosi di nuovo a lui e mantenendo fin da subito la parola data.
Il ragazzo arrossì per la vergogna di essere stato trattato come un bambino e perché era consapevole che la sua poca conoscenza della lingua aveva messo in difficoltà anche Saori. Provò a protestare, alzando lo sguardo verso Saga, ma in quello stesso istante vide avvicinarsi Aiolos a passo svelto – urgente – e con un’espressione tanto seria che le parole e ogni altra velleità svanirono.

Aiolos si avvicinò al tavolo – e a Saga – senza salutare nessuno, posando una mano sulla spalla dell'amico e comunicandogli qualcosa all’orecchio, distogliendolo così dalla conversazione.
«C’è anche lei?» chiese Saga, illuminandosi all’improvviso.
Si girò un poco per cercare di scrutare all’interno del locale, ma la posizione del tavolo dove erano loro non permetteva una buona visuale; soprattutto poi con le tende tirate che schermavano le grandi finestre scorrevoli della terrazza che quel pomeriggio erano quasi tutte chiuse. La brezza di quel pomeriggio le stava facendo ondeggiare delicatamente, mostrando piccoli e brevi scorci dell’interno.
«Le ho detto di attenderti dentro, al bar», spiegò Aiolos, mantenendo la medesima discrezione di prima.
Saga si alzò di scatto dalla sedia, catalizzando di nuovo l’attenzione dei presenti tutta su di sé. Il suo cuore prese a battere emozionato e lui non chiedeva altro che assecondare la sua voglia di correre dentro da lei.
«Aspetta, prima c’è una cosa importante di cui ti devo parlare!» cercò di fermarlo Aiolos, afferrandolo per un braccio. E questa volta la sua voce assunse un tono allarmato e preoccupato, attirando ancora di più l’attenzione dei presenti.
«Dopo, amico mio. Dopo», ribatté Saga, posando la sua mano su quella di Aiolos e sorridendogli felice più che mai.
«No, adesso! Lo devi sapere, ora!» ringhiò Aiolos, stringendo di più la presa.
Saga diede uno strattone e si liberò. Non reagì oltre, non voleva rovinare tutto con una discussione. Indugiò qualche altro secondo, facendo un paio di respiri profondi, come se dovesse farsi coraggio; poi, si incamminò dentro per raggiungerla.
Quasi nello stesso momento, dalla parte opposta della terrazza dove c’era la scalinata che portava direttamente ai giardini, stava arrivando Kanon. Era vestito in giacca e cravatta e sembrava parlottare da solo. Il suo viso rifletteva la serenità che stava vivendo.
«Aiolos! Sei tornato dalla tua missione top secret! Ci fai l’onore di unirti a noi poveri comuni mortali?» scherzò, dandogli una pacca sulla spalla e subito dopo abbracciarlo forte con un braccio. Forse lo fece in modo troppo espansivo, da guadagnarsi occhiate non proprio di assenso da parte di qualcuno dei presenti al tavolo, ma non ci fece caso più di tanto.
Si portò una mano all’orecchio e si tolse l’auricolare del cellulare, sedendosi accanto alla “fidanzata”, sulla sedia appena lasciata libera dal gemello.
Aiolos grugnì qualcosa di incomprensibile e si accomodò su una delle sedie libere, visibilmente di cattivo umore. Certe volte c’era da chiedersi quando non lo fosse. Studiò per qualche secondo ciò che era presente sul tavolo – diversi aperitivi, una brocca di tè freddo al limone con alcuni bicchieri puliti e un paio di vassoi che contenevano tartine dolci e salate – poi avvicinò a sé il piattino di Saga e prese una forchettata della mini tortina di granchio.
Quel comportamento così nervoso non era passato inosservato; soprattutto a Shura che, stizzito, aveva bevuto tutto d’un fiato la birra nel suo bicchiere.
«Come mai così formale?» chiese Shion, alzando lo sguardo sul figlio, terminando il suo whisky e facendo cenno a uno dei camerieri di portargliene un altro.
«Mi hanno chiamato dall’ufficio, pare ci sia qualche intoppo nell’offerta che abbiamo presentato la scorsa settimana e mi hanno chiesto di passare per approvare le proposte di cambiamenti da apportare, per poterla ripresentare domani.»
«E sei ancora qui?» mormorò Aiolos, sempre più cupo, masticando un altro pezzo di tortina.
Kanon lo udì alla perfezione; lo arpionò al collo e lo avvicinò a sé, parlandogli con tono suadente all’orecchio e mettendolo a disagio, tanto che il giovane strabuzzò gli occhi, deglutendo rumorosamente. Con quel suo solito ghigno sardonico, il rampollo Hayes mostrò la sua personale soddisfazione nella reazione dell’altro. Sapeva dannatamente bene come mettere in difficoltà Aiolos, facendo talvolta leva su qualche suo piccolo segretuccio.
«Farai in tempo per la cena?» chiese Shura, con una punta di fastidio nella voce. Non aveva gradito affatto ciò che aveva appena visto.
Kanon diede uno sguardo all'orologio e annuì convinto. «Sì, dovrebbe essere questione di un’oretta, forse due al massimo.»
Si guardò un attimo attorno, vedendo gli occhi di Seiya puntati ferocemente su di sé e gli rispose con un sorriso malizioso. Lì accanto, Saori, timida e riservata, si stava tormentando le mani appoggiate in grembo. Si ricompose e le posò una mano sulle sue, rassicurandola che non l’avrebbe lasciata senza accompagnatore per la serata.
«Ma… Saga che fine ha fatto?» chiese ai presenti, ricordando che lo aveva intravisto alzarsi e rientrare nella sala interna del ristorante; ora però sembrava essere assente da troppo tempo.
Guardò di nuovo Aiolos; la tentazione di dargli un’altra pacca sulla spalla come segno di complicità gli faceva prudere le mani. Si girò indetro, verso la finestra scorrevole aperta dalla quale spuntavano di tanto in tanto le lievi onde candide delle tende di fine lino. Poteva immaginare cosa stesse trattenendo il gemello, ma chissà se sarebbe tornato da loro oppure se non l’avrebbero più visto fino all’indomani.
Si protese verso uno dei vassoi e allungò la mano a pescare una tartina dolce, tornando poi ad appoggiarsi comodamente alla sedia. La curiosità di vederla era tanta. Saga gli aveva accennato qualcosa quando gli aveva mostrato il gioiello, ma non era entrato nei dettagli. Conosceva la volubilità del gemello, l’entusiasmo e la passione che metteva nelle sue storie e come finiva ogni volta. E ora si stava chiedendo chi fosse la fortunata che gli aveva fatto perdere la testa in quel modo.
Allungò il collo, tentando invano di sbirciare un poco di più, approfittando di uno svolazzo più ampio della tenda che aveva permesso di vedere all’interno per qualche attimo, ma era stato tutto inutile.
«Scommetto che glielo sta dando proprio in questo momento», commentò a mezza voce, pulendosi la punta del pollice con la lingua, inclinandosi all’indietro con la sedia e rimanendo in equilibrio con le sole gambe posteriori.
«Di cosa stai parlando?»
Shion, ormai stanco di visionare il lavoro che si era portato, aveva deciso finalmente di rilassarsi un poco e di godersi quella magnifica giornata e la compagnia.
«Di uno splendido solitario, un diamante da un carato e mezzo e dalla purezza quasi perfetta, incastonato in oro bianco!» rispose Kanon, parlandone come un vero intenditore. «Un ciondolo un po’ semplice per i miei gusti, ma molto raffinato.»

*****

Oltrepassare quelle delicate e candide tende era stato per Saga come entrare in un’altra realtà. Aveva abbandonato l’aria frizzante, l’odore dell’erba umida e dei fiori che abbellivano il terrazzo e le fontane di marmo coi giochi d’acqua, per uno sfarzo diverso, fatto di lampadari di cristallo, tovaglie di raso, argenteria sempre lucida e menù da tre stelle Michelin. Era un’opulenza pesante, quasi barocca, che poco si addiceva a un ambiente campestre ma che al tempo stesso era uno dei vanti del Country Club che lo rendeva rinomato in tutto il Massachusetts.
Provava strane sensazioni mentre passava accanto ad alcuni tavoli che i camerieri stavano preparando per la cena. Il bar era nella sala accanto e lui, più si avvicinava, più avvertiva un certo nervosismo, un’emozione palpitante che gli impediva quasi di respirare. A ogni passo che faceva, avvicinandosi alla sua meta, prendeva coscienza che stava diventando una persona diversa, che stava acquisendo un ruolo diverso.
Gli era bastato mettere un piede nella zona bar, affacciarsi in quel locale caotico, pieno di gente e di odori avvolgenti, per vedere solo lei: se ne stava lì, seduta sullo sgabello del bancone del bar e girata di tre quarti, lo sguardo basso e riservato, mentre con la mano continuava a tirarsi giù l’orlo del vestito con movimenti timorosi. Era così bella, più adulta ed elegante di quando l’aveva lasciata. Questo era l’unico pensiero di Saga, in quel momento. Sarebbe stato a osservarla più a lungo, se avesse potuto, ma voleva risparmiarle l’evidente tormento che stava passando.
Un passo, soverchiato dal chiacchiericcio degli avventori del bar. Un altro passo, mordendosi il labbro, come a rimuginare sul da farsi; e intanto il suo cuore batteva più forte.
Il barman si avvicinò a Cora, una seconda volta in pochi minuti, chiedendole cosa potesse portarle da bere; lei scrollò la testa come la prima volta, declinando l’offerta.
«Dello champagne… sarebbe più che adeguato alla situazione», disse Saga.
Non le lasciò neppure il tempo di rimanere sorpresa nel sentire la sua voce che le diede un bacio discreto sulle labbra dischiuse e le sorrise.
Gli occhi di Cora, dopo il primo stupore, si velarono di lacrime, leggere e timide, che non osavano rovinarle il trucco delicato che Kimberly le aveva risistemato dopo l'atterraggio.
«Saga…» sussurrò lei, commossa.
Balzò giù dallo sgabello e gli buttò le braccia al collo, dimenticandosi dov’era e che fino a quel momento i suoi unici pensieri erano stati che voleva andarsene da lì al più presto; anzi, che non ci sarebbe proprio dovuta venire in quel posto.
Il ragazzo si stupì un poco di quell’abbraccio, percependovi non solo amore, ma anche disperazione; poi, lo ricambiò infondendovi tutto il sentimento che provava per lei. Le accarezzò la schiena con una mano, mentre l’altra affondava nei suoi capelli. La tenne così, fra le sue braccia, beandosi del profumo che indossava e del calore del suo corpo. Gli sembrava un secolo che non provava quella sensazione, eppure era passato appena un mese.
D’un tratto la sentì singhiozzare e stringersi di più a lui.
«Cosa c’è che non va?» le chiese, slacciandosi da lei e scrutandola per qualche secondo in viso: nonostante tutto non riusciva a smettere di sorriderle.
Cora scrollò la testa, piegando le labbra – di un delicato rosa perlato – in un sorriso un po’ tirato.
«Mi sei mancato. Mi sei mancato tanto, ma ora va tutto bene.»
Saga annuì e l'accarezzò con la punta del pollice appena sotto l’occhio, a fermare una piccola gocciolina che stava scappando dalle ciglia.
«Mi sembri un po’ stanca. Il viaggio è stato pesante?» chiese, questa volta però con un pizzico di preoccupazione nella voce. Eppure pensava che con l’aereo privato sarebbe stata più comoda.
«Tutto bene», disse lei. «Ho solo bisogno di rinfrescarmi un po’.»
Lui le sorrise, le prese la mano e, senza darle spiegazioni, l'accompagnò in una delle camere dell’albergo del Country Club, che aveva riservato per loro due. Era bella ed elegante da mozzare il fiato, neanche fosse stato l’Hilton. Forse era persino troppo per quel tipo di struttura.
«Prego», le disse, col suo solito sorriso tanto dolce, aprendole addirittura la porta del bagno. Poi si sedette sul letto ad attenderla.
Iniziò a tamburellare ritmicamente sul copriletto di broccato color senape e rosso granato seguendo un vecchio motivetto che in quei giorni gli era entrato in testa e che neanche sapeva come si chiamasse. Chiuse gli occhi; quella melodia si era fatta un poco più nitida, più facile da “eseguire”. Con un sospiro si appoggiò meglio al materasso, portando entrambe le mani dietro la linea delle spalle, spostando la testa di lato in una posizione più rilassata.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Aggrottò la fronte in un'espressione di perplessità: non avvertiva alcun rumore provenire dal bagno. Ma non appena decise di alzarsi per controllare, ecco che sentì scorrere l’acqua del rubinetto. Per quanto una camera d’albergo potesse essere di gran lusso, le pareti interne erano comunque fatte nello stesso modo di quelle di un motel, forse solo più belle. Sorrise di nuovo rilassato, ma ormai non era più disposto ad attendere lì buono.
Senza fare rumore aprì la porta del bagno, spazioso e luminoso, e le si mise dietro, abbracciandola alla vita e sorridendole attraverso lo specchio.
«Ci sto mettendo troppo. Mi dispiace», mormorò lei, con le mani umide d’acqua, prendendo la salvietta dal piccolo cestino di vimini sul piano di marmo e tamponandosi il viso con delicatezza, per non sciupare troppo il trucco.
Saga le diede un bacio sulla tempia. Dalla tasca dei pantaloni estrasse la mano a pugno e, come il più classico dei colpi di scena che si vedono nei film passionali, così come gli aveva suggerito Kanon, le fece dondolare davanti agli occhi il gioiello.
«Buon compleanno.»
«Io… io…» Gli occhi di Cora si illuminarono di meraviglia, mentre il ragazzo sganciava la chiusura della catenina e gliela metteva al collo.
«Il primo regalo di compleanno… il primo di tanti che verranno», le sussurrò, con un pizzico di emozione nella voce. «Direttamente dallo storico negozio Tiffany della Fifth Avenue, a New York», aggiunse, anche con un certo orgoglio. Poi, come se in quel preciso istante si fosse reso conto di aver sbagliato qualcosa, sospirò avvilito, abbassando lo sguardo. «Avrei voluto presentarmi alla tua porta, conoscere la tua famiglia, fare le cose per bene, come da tradizione…» Di nuovo fece un sospiro, accarezzando il collo della ragazza col suo respiro caldo.
Cora sfiorò con la punta delle dita quel diamante che brillava abbagliante alla luce delle lampadine della specchiera. Risaltava ancora più bello sul suo petto, sul pizzo color corallo del tubino che indossava quel giorno.
«È... meraviglioso.»
La girò verso di sé, la guardò teneramente negli occhi e la baciò con trasporto, come il soldato che dà l’ultimo saluto alla sua fidanzata prima di partire per il fronte. Era sciocco ed esagerato paragonare le due situazioni, ma l’intensità dei sentimenti che in quel momento provava Saga era senza dubbio la medesima.

*****

Tutti, a quel tavolo, sembravano essere in attesa di qualcosa di importante. Lo si poteva sentire nell’aria, in come i discorsi si erano diradati e negli sguardi che si scambiavano e che esprimevano incertezza e nervosismo.
Shion continuava a fissare il figlio maggiore che aveva l’espressione di uno che sapeva ma non voleva rivelare; e lui conosceva fin troppo bene quello scapestrato per evitare di cadere in una gag grottesca nel tentativo di farlo cadere in fallo. Forse Kanon non riusciva a reggere a lungo le balle che si inventava per coprire “certe” cazzate sul lavoro, ma quando si trattava della vita privata era impossibile cavargli qualcosa. Si limitò ad aspettare e continuare a studiare il suo comportamento. Tanto prima o poi avrebbe saputo anche lui e, considerando che si trattava dell’altro figlio, quello tranquillo, non avrebbe avuto brutte sorprese. Incrociò lo sguardo di Kanon per un attimo e gli fece un sorriso. Di quelli furbi però, che solitamente gli facevano accapponare la pelle, perché presagio di qualcosa di catastrofico; e preferì berci su.
Shura invece sembrava essersi estraniato dalla compagnia, intento com’era a mascherare il fastidio che provava per il comportamento di Aiolos, neanche fosse stato una moglie iper gelosa. Non aveva distolto gli occhi dal ragazzo per un solo istante da quando era arrivato; e percepire da lui quel palese nervosismo acuiva ciò che provava lui stesso.
«Deve essere una persona davvero speciale se è andato personalmente a New York per sceglierlo», commentò Kanon, rivolgendosi apparentemente a nessuno in particolare. Eppure, senza volerlo, aveva attirato l’attenzione degli altri membri della famiglia, che ben erano a conoscenza dell’allergia di Saga per i viaggi e le città troppo affollate.
Si sporse di nuovo verso il vassoio e questa volta scelse la tortina al granchio, l’ultima, iniziando a mangiarla con le mani come nulla fosse. Poi guardò l’orologio, brontolando che se l’altro avesse tardato ancora non sarebbe riuscito a conoscere l’ospite a sorpresa. Ma forse quello che intendeva era ben altro: ciò che gli premeva di più era vedere la reazione degli altri.
Una lieve corrente d’aria spostò le tende abbastanza da permettergli di osservare meglio all'interno dei locali, anche se solo per una frazione di secondo. Poi, un cameriere volenteroso le aprì completamente, favorendogli così la visuale. Peccato solo per quelle piante di ficus che con il loro fogliame schermavano ancora di più.
«Ah! Belle gambe», commentò Kanon, allungandosi un poco di più all’indietro, intravedendo due paia di gambe, delle quali era sicuro un paio fossero del gemello. Sembrava che finalmente i due si fossero decisi a raggiungerli. «E bel sedere…» sogghignò incauto, aguzzando di più la vista per interpretare al meglio ciò che vedeva tra il fitto fogliame, facendo arrossire Saori che gli sedeva accanto.
«Sì, certo…» sbuffò invece Aiolos, bevendo tutto d’un sorso il cocktail che aveva davanti.
«Che ne vuoi sapere tu, che sei dell’altra sponda!» ribatté Kanon, volutamente malevolo.
Quella rivelazione – che ormai era il segreto di Pulcinella, in casa Hayes – scioccò gli ospiti giapponesi che tutto avevano pensato tranne che Aiolos, così serio, così virile e così poco propenso a esternare i propri sentimenti, potesse invece…
Seiya si grattà dietro la nuca, nervoso e imbarazzato, parlottando poi per qualche secondo con Saori. Se avevano frainteso uno come Aiolos, benché avessero avuto poche occasioni per “studiarlo”, cos’altro non avevano capito? Kanon, che tanto aveva la fama di dongiovanni? Saga, così pacato e sempre ben curato?
No, ciò che i loro occhi avevano visto non lasciava alcun dubbio.
Il primo a uscire sulla terrazza fu Saga che si stava rivolgendo a qualcuno. Il suo sorriso dolce e disteso era meraviglioso. Stava dicendo che non c’era da aver timore, che non mordevano e poteva stare tranquilla. Poi, comparve anche lei, Cora, fasciata in quel bel tubino di pizzo color corallo, con un’acconciatura – uno chignon basso, morbido e spettinato – che la faceva assomigliare alle star del cinema. Teneva lo sguardo basso; si vedeva che era nervosa, ma si faceva guidare dall’altro.
«Sorpreso? Deluso?» bofonchiò Aiolos, rivolgendosi a Kanon.
Era l’unico a non essere interessato ad assistere a quell’entrata in scena, più preoccupato in verità di scoprire se fosse possibile ubriacarsi con del tè freddo. Non si aspettava invece il fischio di approvazione da parte dell'altro e il seguente commento su quanto lei fosse attraente.

Saga la stava conducendo per mano, infondendole fiducia. Eppure Cora si sentiva come se stesse andando alla sbarra di un’aula di tribunale e fosse osservata, studiata, scrutata, esaminata dall’implacabile giuria, pronta a scrollare la testa in dissenso al minimo errore, o inciampo. I crampi allo stomaco si stavano facendo sentire di nuovo. Per un attimo ebbe la tentazione di opporre resistenza a quel flusso che la stava trascinando in avanti, di tornare indietro, di nascondersi e rinunciare; ma lo sguardo e la voce di Saga fecero scomparire ogni indugio e paura, anche se non quel dolore sommesso. E ora era lì, davanti al suo giudice più severo che la stava guardando.
Un poco frastornata, sotto esame di tutti i presenti, sentiva nelle orecchie le voci ovattate degli altri; persino quella di Saga le era sembrata irreale, almeno fino a quando non sentì le sue mani che le stringevano un poco le spalle, risvegliandola e liberandola dal velo nebbioso nel quale si sentiva legata, giusto in tempo per udire quelle parole.
«Papà, Shura, Kanon», esordì Saga, col cuore che stava accelerando i suoi battiti, perché anche lui non era esente dal sentirsi nervoso, in quel momento. «Voglio presentarvi una persona.»
Fece una breve pausa, posando lo sguardo innamorato sulla ragazza che aveva vicino a sé. Il suo viso assunse un lieve rossore e le sue labbra si piegarono in un timido sorriso.
«Lei è Caroline Miller Hayes. Mia moglie.»





   
 
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