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Autore: titania76    22/11/2017    1 recensioni
La vita di Shion Hayes, giovane uomo d'affari di successo, viene rivoluzionata da un messaggio che non può ignorare e al quale non può sottrarsi; viene così attirato a un appuntamento in un luogo fuori mano, in un freddo e lugubre pomeriggio autunnale. Qualcuno dal suo passato, che pensava di aver cancellato per sempre, torna nella sua vita e lo fa nella maniera più inaspettata e indelebile.
Anni dopo, l'infinita catena degli eventi innescata quel lontano giorno, sconvolge la quotidianità di una tranquilla e serena famiglia americana, portandola a cambiamenti radicali e allontanandola dalla propria casa e dalla propria città.
Quello stesso destino che in passato ha tolto, nel presente dona di nuovo.
La giovane Caroline Miller, da sempre sogna di tornare alla sua natia Boston; un incontro casuale e drammatico le dà la spinta decisiva per realizzare il suo desiderio. Ed è proprio a Boston, quando meno se lo aspetta, che incontra Saga.
Il colpo di fulmine è reciproco, ma fin da subito niente è facile per loro.
Ombre provenienti dal passato di entrambi sembrano spingerli in una direzione dove segreti e omissioni rischiano di spezzare per sempre il loro legame. Saranno in grado di resistere e rimanere assieme?
Genere: Romantico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Aries Shion, Capricorn Shura, Gemini Saga, Nuovo Personaggio, Sagittarius Aiolos
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Legacy'
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Eccomi qui, tornata dopo un tempo fin troppo lungo rispetto a quello che avevo programmato, per terminare la pubblicazione di Legacy! Probabilmente i più che la seguivano, recensendo con regolarità o anche solo leggendo in silenzio, se ne saranno dimenticati. Spero di incuriosire nuovi lettori con le avventure di Saga e Kanon Hayes! Troverete un po' di cambiamenti, come una maggiore maturazione stilistica e un radicale cambiamento nella narrazione. Il mio consiglio quindi è quello di riprendere la lettura da capo, per non restare spaesati con i nuovi capitoli.
In questi anni di assenza vorrei segnalare la pubblicazione in digitale, per la casa editrice Astro Edizioni, del mio primo romanzo "Ricominciare" (trovate le informazioni più dettagliate nella pagina del mio profilo), che altri non è che la versione originale della mia vecchia fanfiction "Ricominciare da capo". Chi a suo tempo l'ha letta e apprezzata, non potrà perdere l'occasione di leggere questa versione più professionale e approfondita. Ci conto, eh! XD

Che altro aggiungere...

Buona lettura!






XXVI




«Dire che siamo rimasti tutti di sasso è un eufemismo», aveva dichiarato Kanon, simulando un tono conciliante, alzandosi dalla sedia e provando a esprimere il pensiero dei presenti rimasti attoniti.
Si era avvicinato alla coppia e, accompagnando il gesto con un bel sorriso, aveva preso la mano di Cora.
«Tu sei la stessa ragazza della tavola calda, vero? Caroline… un nome bellissimo per una ragazza bellissima», le aveva sussurrato, con una galanteria forse un poco eccessiva da sfoggiare davanti al gemello e sopratutto di fronte a Saori, la propria fidanzata, guardando Caroline intensamente negli occhi e facendola arrossire. «Se non mi sbaglio è tradizione baciare la sposa.»
Si era avvicinato ancora di più e aveva posato le sue labbra sulla guancia della giovane, sotto lo sguardo sereno e rilassato di Saga. Poi si era rivolto proprio al gemello e lo aveva attirato a sé, passandogli un braccio attorno alle spalle.
«Se avessi annunciato la tua intenzione di cambiare sesso avresti avuto meno vittime sulla coscienza», gli aveva detto, ammiccando. «Guardali, tutti ammutoliti, straniti: non sanno cosa dire.» Gli aveva dato una sonora pacca sulla spalla e aveva ghignato. «E tanto per la cronaca, saresti stato un gran bel pezzo di donna!» aveva aggiunto, dandogli un’altra pacca. Poi aveva aggiunto che sarebbe stato più che volentieri a chiacchierare e a festeggiare, ma era atteso negli uffici della società e se n’era andato.
Saga aveva sorriso, sollevato per il comportamento solito del fratello, che stava a significare come avesse preso bene la sorpresa, ma non aveva invece visto lo sguardo di lui che pian piano si induriva, così come i tratti del volto stavano diventando di pietra.

*****

Il lupo perde il pelo ma non il vizio, recita un vecchio adagio.
Era un’affermazione quanto mai azzeccata per Shion Hayes, soprattutto dopo quanto avvenuto quel giorno. Si era rintanato in biblioteca coi suoi pensieri, dopo una cena che definirla un mezzo disastro non rendeva affatto l’idea e che aveva concluso una giornata che avrebbe voluto dimenticare. La tensione era stata un'invitata inattesa e scomoda a quella tavola, nonostante Saga avesse organizzato affinché i convitati si sentissero a proprio agio. Eppure, tutto aveva iniziato ad andare storto quando la giovane ospite era letteralmente scappata dalla tavola a causa di un malessere, seguita da Saga stesso, che poi era rimasto lontano fin oltre il termine della cena, facendo piombare gli altri nell’imbarazzo più totale.
C’era chi, come i due giapponesi, si era sentito fuori posto e chi invece avrebbe voluto scappare il più lontano possibile, ma era rimasto – con lo sguardo pieno di disprezzo – solo per vedere come sarebbe andata a finire.
In mano stringeva il solito bicchiere di whisky, mentre sul tavolino lì accanto c'era la bottiglia, ormai quasi vuota. Il suo sguardo era fisso sul bicchiere: le piccole sfaccettature del cristallo brillavano iridescenti alla luce artificiale delle plafoniere alle pareti. Aveva il respiro pesante e i suoi occhi erano lucidi: arrossati e annebbiati dai fumi dell’alcol. Non riusciva a togliersi dalla testa quello sguardo e quel sorriso così dolci che accentuavano ancora di più i tratti gentili del viso di Saga e che per un interminabile attimo lo avevano fatto vacillare davanti a tutti.
Proprio com’era accaduto quasi trent’anni prima, ora si era ripresentata la medesima situazione, anche se gli attori erano diversi. Non c’era stato lo sguardo tagliente e pieno di rabbia di Emma che con il suo carattere forte riusciva tenergli a testa, ma al suo posto c'era una giovane donna dagli occhi intimoriti e all’apparenza molto riservata. Dietro di lei invece, a Shion era sembrato di rivedere il fantasma di Anthony, con quei capelli biondi un poco scompigliati e l’aspetto da bravo ragazzo. E gli aveva fatto male esattamente come allora.
«Te la vuoi bere tutta da solo?»
Shura si avvicinò cauto all'amico, prendendo la bottiglia ed esaminandone il contenuto ormai scarso.
«Era già mezza vuota. Qualcuno non ha pensato a rifornire il bar», rispose distrattamente Shion, con la mente ancora nella rete dei suoi ricordi.
«Aggiungerò anche questo alla lista dei miei doveri», ribatté Shura, facendo una mezza smorfia, posando la bottiglia sul piano del mobile bar e studiando con attenzione il resto della selezione di alcolici presenti. «Per terminare nel modo adeguato una cena italiana, non c’è niente di meglio di un liquore tipico italiano. Non sei d’accordo con me, Shion?» propose, prendendo una bottiglia sottile e dalla forma singolare.
«Li hai riaccompagnati all’albergo?» chiese l’uomo, con voce stanca.
«Sì. Domani hanno scuola», rispose con un mezzo sorriso Shura, prendendo due tulipe e la bottiglia di pregiata Grappa. «Un po’ mi manca il dover accompagnare i ragazzi a scuola.»
«Credo sia meglio che vengano ad abitare direttamente qui, gli altri ragazzi ora sono in California per visitare le varie Università, ma non appena terminato il tour d’orientamento se ne torneranno in Giappone. Non ha senso che quei due restino ancora al Country Club da soli», sbuffò Shion, portandosi il bicchiere alle labbra, ma se lo era visto all'improvviso portare via dalle mani e subito sostituito da un altro, dalla forma più piccola e sinuosa.
«Hai una faccia da funerale», lo schernì Shura. «Dovresti essere felice per il tuo ragazzo.»
Shion lo fulminò con lo sguardo, come se l’altro avesse appena detto una bestemmia, ma in fin dei conti sapeva che aveva ragione: per troppo tempo aveva tenuto il figlio al riparo, pensando forse inconsciamente che in quel modo gli sarebbe sempre stato vicino, come a suo tempo non aveva fatto Anthony. Ma Saga, proprio come Anthony, alla prima occasione si era “inguaiato”.
«Alla salute del nostro Saga!»
Shura fece tintinnare i due bicchierini e assaggiò quell’aromatico liquido dal colore cristallino, assaporandolo sapientemente.
«E a tutti i problemi che ci pioveranno addosso da ora in avanti!» si aggiunse al brindisi Aiolos, presentandosi trasandato e barcollante nella biblioteca.
Nonostante la voce fosse stata biascicante, si era avvertito chiaramente un tono sprezzante e molto confidenziale, come se non gli importasse verso chi si stava rivolgendo. In mano teneva una bottiglia di Champagne e nell'altra una lattina di birra.
Shura lo guardò disgustato, scrollando la testa. «Sei ubriaco», disse, con tono di rimprovero.
«Mi sono solo rinfrescato la gola», rispose il giovane, rosso in viso, gli occhi annebbiati e le labbra piegate in una smorfia.
Shion, che non era in condizioni tanto diverse dal figlioccio, si alzò dalla poltrona, voltandosi verso il ragazzo.
«Che genere di problemi?» chiese, soprassedendo alla maleducazione del giovane.
Aiolos si prese un lungo sorso di birra, lasciando che gli colasse anche da un angolo della bocca. Poi, fece qualche passo maldestro fino ad arrivare al mobile bar. Agitò la lattina, bofonchiò contrariato nel constatare che era finita e la lasciò cadere a terra. Si portò allora la bottiglia alla bocca, ma ne scesero poche gocce. «Anche questo...» sbuffò. L'appoggiò di malagrazia sul mobile bar e ne prese un'altra fra quelle presenti. «Quella... è problematica», biascicò, agitando la bottiglia in aria.
«Basta così!» disse Shura, strappandogliela di mano. «Hai bevuto a sufficienza per questa sera. Vattene a letto», gli intimò.
Nella sua mente stavano passando le immagini di quando, durante la cena, lo aveva visto bere diversi bicchieri di vino, uno dietro l’altro; ma già nel pomeriggio non gli era sembrato affatto lucido e nel pieno possesso del suo solito controllo. La mezza scenata con Saga, quell'insistenza così sospetta, ne erano state una dimostrazione.
«No, aspetta!» lo bloccò Shion Hayes che, a quelle parole, voleva saperne di più. «Sei tu che hai portato qui la ragazza. La conosci, non è vero?»
L’uomo fece un passo verso quel giovane che aveva cresciuto come uno di famiglia e sbatté la gamba contro la poltrona, senza praticamente accorgersene. Nei suoi gesti e nel suo tono impaziente si scoprì ancora più turbato di quanto lui stesso credesse di essere.
«La conosco abbastanza da sapere che non porterà a nulla di buono», rispose Aiolos, con un ghigno deformato sulle labbra. «Tu pensavi di avere un figlio perfetto, mansueto, ma ti sbagli di grosso. Te la sta facendo sotto il naso da mesi, ormai! E chissà, forse addirittura da anni. Sei stato così cieco da neanche accorgerti che lui si è allontanato da te», disse in tono arrogante, puntandogli il dito contro. Fece una pausa, barcollando in avanti. «Si è costruito una vita tutta sua e va dritto per la sua strada...» mormorò, abbassando lo sguardo. «Vuoi un consiglio, Shion Hayes? Chiama i tuoi avvocati e fai annullare quel… quel…» Dalla sua bocca sfuggì una specie di sospiro che puzzava di alcol. «E se hai bisogno di un motivo valido… beh, lo sappiamo tutti che lui non è a posto con la testa!» disse, gesticolando e toccandosi la tempia destra, ridendo in modo scomposto.
«Ora smettila, ti stai rendendo ridicolo», lo redarguì Shura, con tono minaccioso, provando a trattenerlo.
Nella breve lotta che seguì per liberarsi, Aiolos si sbilanciò all'indietro andando a sbattere contro il mobile bar, trascinando a terra con sé il vassoio d'argento con tutto quel che c'era sopra e facendo un gran baccano. Cocci di cristallo e larghe pozze di liquore di sparsero tutt'attorno.
«Paparino Shura… me la sono fatta addosso. Mi aiuti a cambiarmi?» sghignazzò, osservando una grande chiazza scura sui suoi pantaloni. Poi, dalla sua bocca uscì uno strano verso, a metà fra uno sbuffo e un rutto.
Afferrò la bottiglia vicino a lui e se la portò alla bocca per bere. L'agitò verso il basso e fece una smorfia, perché anche quella era vuota.
«Sbornia triste...» mormorò Shura, disgustato di fronte allo spettacolo offerto da Aiolos che continuava a borbottare frasi sconnesse e a singhiozzare.
Non c'era nulla che odiasse di più degli ubriachi con la sbornia triste, perché risvegliavano in lui la voglia di fare a botte. Strinse i pugni fin quasi a conficcarsi le unghie nei palmi. Dentro di sé si stava dando dell'idiota perché avrebbe dovuto capirlo subito che qualcosa non quadrava, non appena aveva visto Aiolos al Country Club; avrebbe dovuto riconoscere i segnali di quelle ultime settimane, di quel suo strano comportamento. Però, ciò che gli faceva più rabbia era scoprire che l'oggetto del desiderio di quel giovane testardo che lui amava era Saga. Non potevano più esserci dubbi ormai. Per nessun altro Aiolos si sarebbe ridotto in quello stato.
Fece un respiro pesante. Poi, si girò a guardare Shion e subito il pensiero andò a lui, a com'era stato in passato, alla disperazione che aveva provato e alla ferita del cuore che forse non si era mai risanata del tutto. Questa volta non era disposto a rivivere il passato. Non avrebbe più indossato i panni del buon samaritano, non sarebbe stato un rimpiazzo. Strinse le labbra in una linea sottile.
«Dovrei lasciarti qui», sibilò velenoso all'indirizzo di Aiolos.
Non gli stava facendo affatto pena quel ragazzo seduto malamente a terra, con i vestiti tutti in disordine e che puzzavano di alcol. Eppure, si chinò su di lui e lo aiutò a rimettersi in piedi, accompagnandolo giù, nel bagno del seminterrato. Non voleva che sua nonna lo vedesse in quelle condizioni.

*****

L’aria frizzantina del mattino le pizzicava la pelle del viso, lasciandole un leggero formicolio che si insinuava, pian piano, sempre più in profondità, contribuendo a tenerla sveglia. Non che ne avesse bisogno: da quando aveva riaperto gli occhi, poco dopo la mezzanotte, ancora con un forte senso di stordimento addosso, non era più riuscita a prendere sonno.
Era scesa al piano terra quando ancora faceva buio e le stelle splendevano in cielo, aveva attraversato quella grande casa avvolta nel silenzio, con l’unica certezza che non sarebbe riuscita a sopportare di rimanere un solo istante in più in quella camera e condividere – almeno per quella notte – il letto con Saga. Non perché non lo amasse, tutt’altro, lo amava talmente tanto che soffriva troppo a stargli accanto. Prima di lasciarlo, gli aveva rivolto un ultimo sguardo: dormiva sereno in mezzo al letto, sdraiato sul fianco. Nella sua testa martellavano in continuazione le parole di Aiolos: “Devi dirglielo!”, “Devi dirglielo!”; e i suoi occhi severi che la giudicavano colpevole.
Da dopo quel pomeriggio in ospedale, lei aveva percepito il cambiamento di Aiolos nei suoi confronti. Era stato graduale, ma ben visibile, nonostante lui si mostrasse distaccato come sempre. E poi c’era stato un picco improvviso quando Saga l’aveva presentata come sua moglie; e lei, emozionata e sotto esame, era riuscita lo stesso a cogliere lo sguardo d’odio di Aiolos che la trafiggeva come una lama.
Aveva trattenuto a stento le lacrime, appoggiandosi alla porta chiusa della camera da letto, scalza e con il pigiama e la vestaglia che le aveva dato Saga – pescandoli dall’immenso guardaroba che divideva con il gemello – mentre cercava qualcosa da farle indossare per dormire più comodamente, visto che il suo bagaglio era rimasto chissà dove e lei aveva a disposizione solo l'abito da cocktail che indossava. Glieli aveva mostrati con un sorriso dolcissimo e al tempo stesso imbarazzato, spiegandole che li aveva usati da adolescente.
Chiuse gli occhi nel ripensare a quel momento, alla serenità di Saga. Era conscia che avrebbe dovuto parlargli di quanto era successo; sarebbe stato un segreto troppo grande da portare con sé, ma non sapeva come affrontare quell’argomento, né quando. Non le sembrava giusto rattristare il suo amore con una decisione che comunque non sarebbe dipesa da lui, né da lei stessa. Ed era proprio quello ciò che più le straziava il cuore: lei non aveva potuto opporsi.
Se ne stava lì, immersa nei suoi pensieri e nel silenzio di quelle prime ore del mattino, a osservare il lieve chiarore che lentamente sorgeva all’orizzonte. L’alba era uno spettacolo che raramente si era concessa di vedere. Quel mattino del 31 maggio invece, era lì in prima fila ad attenderla, seduta un poco rannicchiata su una delle poltrone scure del salottino da giardino, sotto il portico posteriore di quella grande villa. Per qualche momento, quel meraviglioso panorama da cartolina d’altri tempi, che incantava al primo sguardo, le fece dimenticare i dispiaceri che l’avevano tenuta sveglia. Sospirò, stringendosi nella vestaglia di flanella leggera e portandosi il piede sotto al sedere, affondando sul cuscino bianco a righe larghe color sabbia della poltrona. Vi riuscì a fatica. Da diverse ore avvertiva un dolore sordo al ventre, già rigido e tirato. Non se ne stupì di quei fastidi, considerato che era passato poco più di un giorno dall’intervento, ma non aveva voglia di prendere un altro antidolorifico: ricordava com’era stato qualche anno prima, quando i dolori post operatori tormentavano le sue giornate anche dopo che fisicamente era tornato tutto a posto. E poi, rendevano la sua mente poco lucida. O quelli erano gli antibiotici? Forse tutti e due.
Gli occhi le si velarono di lacrime, sentiva le gote calde. Forse le stava tornando la febbre. Non sarebbe stato affatto strano. Se sua madre fosse stata lì con lei le avrebbe ordinato di tornare a letto e poi le avrebbe preparato una salutare tazza di latte caldo col miele: “una cura buona per tutti i mali”, diceva. Ma Cora aveva sempre odiato il latte addolcito e in quel momento, sua madre non era lì con lei. Una lacrima le rigò la guancia, facendole un antipatico solletico.
Tornò con la mente al giorno prima. Il dr Ferretti l’aveva dimessa dall’ospedale solo dopo la promessa che sarebbe stata a riposo assoluto. Le aveva ribadito, con quel suo sguardo profondo, la voce calda e quel suo modo di fare ammiccante e convincente da dongiovanni – ma ugualmente pregna di fermezza – che doveva riguardarsi; che, nonostante tutto fosse andato nel migliore dei modi e che l’operazione non avesse avuto alcuna complicazione, se non una lieve emorragia subito arginata, doveva evitare qualsiasi sforzo, stress o affaticamento e poi avrebbe potuto riprendere con la sua vita di sempre.
Glielo aveva ripetuto anche quando, lei seduta sulla sedia a rotelle, la stava accompagnando all’uscita dell’ospedale, spingendola personalmente e salutandola con un abbraccio di incoraggiamento, chiamandola di nuovo “la sua miracolata”. Perché era vero, lei era stata miracolata: era sopravvissuta a quel colpo di rimbalzo, una pallottola calibro 38 che per altri sarebbe stata fatale. Aveva resistito e stretto i denti quando i paramedici avevano faticato a tamponare l’emorragia durante il trasporto in ambulanza, li aveva sentiti – in quelle fasi concitate – che non le davano alcuna chance; era tornata in vita dopo che il suo cuore si era fermato per due volte mentre era sotto i ferri. Aveva persino battuto l’infezione post operatoria che non era poi così rara in casi del genere.
“Prenditi un po’ di tempo solo per te stessa”, le aveva consigliato il dr Ferretti. “Da quel punto di vista tu sei sana come tutte le altre donne”, l’aveva rassicurata ancora; e glielo aveva ripetuto di nuovo, prima di lasciarla salire sul taxi assieme alla madre. “Quando ti sentirai pronta, vedrai che andrà tutto bene.”
Ma lei ancora ci pensava.
“Potrò avere dei figli?”
Glielo aveva domandato fin quasi allo sfinimento, si poteva dire; perché non ci credeva. Non riusciva a crederci.
Nascose il viso fra le mani, cercando di trattenere altre lacrime. Che fine aveva fatto la sua vita spensierata di un tempo? Quando tutto aveva iniziato ad andare a rotoli?
«Da quando sei morto tu, papà», mormorò senza rendersene conto, piangendo in silenzio, desiderando in quel momento di essere circondata dalle braccia rassicuranti del padre. Si sentiva allo stremo. Aveva dovuto affrontare troppe prove. Le era venuto automatico scrollare la testa: niente sarebbe stato come prima.

Con la mente ritornò a quando – ancora nella casa della madre – la donna le aveva sussurrato che tutto sarebbe andato per il meglio. Eppure, davanti ai suoi occhi la natura stava dando il via al suo spettacolo, iniziando a risvegliarsi e il chiarore dell’aurora si trasformava, secondo dopo secondo, in giorno.
Il suo compleanno… che giornata surreale che era stata, quella. Divisa a metà, trascorsa in due luoghi differenti, due città diverse, con due famiglie diverse. Non era certo iniziata nel migliore dei modi, con i postumi dell’operazione che l’avevano costretta a letto fino a tarda mattina, riuscendo a salvarsi dall'irruzione del fratellino, che voleva essere il primo a farle gli auguri, solo con la complicità della madre.
E poi… non era molto sicura, però immaginava che, per altri versi, quella giornata fosse finita anche peggio. Ma non era stato il compleanno peggiore che lei ricordasse; forse il più triste, ma non il peggiore. Il lato positivo era stato che almeno Mickey l’aveva trascorso serenamente, dimenticandosi di tutti i guai del giorno prima, persino della strigliata che incombeva su di lui e che avrebbe subìto più avanti dallo zio Phil, perché lui era un uomo di parola.
Sospirò, tirando su col naso. Un leggero brivido la scosse in tutto il corpo, ma era stata solo una cosa passeggera.
In casa c’era stata un po’ di tensione, perché sua madre non era stata abbastanza brava a nascondere la preoccupazione per lei e zio Phil se n’era accorto; e lei stessa non era riuscita a sorridere e divertirsi come avrebbe dovuto. Sì, si era sentita in dovere di mostrarsi felice in quel giorno, almeno per gli altri. Alla fine però, quella tensione si era finalmente sciolta quando Mickey e Chris erano usciti di casa per andare al parco, dove i ragazzi della squadra di baseball avevano organizzato una festa per lui; e lei aveva potuto lasciar cadere quella maschera e tornare a piangere in silenzio.
Tutto le era sembrato scorrere con lentezza; forse, pian piano, anche il dolore che stava provando sarebbe passato, come l’acqua placida di un ruscello. La casa materna si era di nuovo immersa nella normale tranquillità di tutti i giorni, con Teresa che si divideva fra l’essere una brava casalinga e la scrittrice famosa. L’aveva vista entrare nel suo studio e uscirne con un pacchettino, porgendoglielo con un sorriso. Al suo interno c’era il suo nuovo libro; non uno di quelli della collana per ragazzi che le avevano spalancato le porte al successo, ma un romanzo vero, con una storia vera, corposa e piena di sentimento. Non gliene aveva mai parlato, di quella nuova storia. Forse l’aveva iniziata quando lei era partita per Boston, o forse, per scaramanzia, la donna aveva preferito tenere tutto segreto. Si era rigirata quel libro fra le mani: non era la solita edizione, bensì era quella italiana. Era stato allora che negli occhi della madre aveva notato un orgoglio diverso e una certa emozione, soprattutto quando le aveva annunciato i suoi prossimi programmi, ovvero che sarebbe tornata in Italia per qualche settimana, non appena fossero iniziate le vacanze estive per Mickey, perché era stata invitata per una presentazione ufficiale. Era stata una notizia così bella che per un attimo le aveva fatto dimenticare la sua sofferenza.
E poi, tutto d’un tratto, mentre la madre era tornata a occuparsi della cucina, quelle parole erano risuonate nella tranquillità della stanza come un fulmine a ciel sereno.
Cora ricordava che erano passate da poco le tre e mezza del pomeriggio e loro due avevano tutta la casa per loro: Mickey e Chris erano fuori e zio Phil si era rintanato giù, negli uffici dell’agenzia investigativa, teso e concentrato come ogni volta che era in procinto di chiudere un caso importante. Lei era seduta su uno degli sgabelli del bancone per la colazione che sfogliava quel libro, provando a leggere qualche frase nel suo italiano quasi del tutto dimenticato, mentre Teresa finiva di pulire il piano di lavoro per passare poi il panno umido sullo sportello del microonde e sulle antine dei pensili. E all’improvviso lei le aveva detto di preparare la borsa per tornare a Boston quel giorno stesso, perché Aiolos sarebbe passato a prenderla di lì a poco. Gliel’aveva detto così, come se le avesse chiesto di aggiungere il detersivo per i piatti alla lista della spesa.
Ricordava di essere rimasta con la pagina sollevata e lo sguardo inebetito che fissava la schiena della madre. Ci aveva messo un po’ a capire cosa avesse voluto dire con quelle parole e ancora di più a capire il perché la madre avesse preso quella decisione. Ma le era bastato osservare il suo sguardo malinconico, quando poi si era girata verso di lei, per comprendere che lo faceva per il suo bene. Perché lei, anche se come madre avrebbe voluto tenerla accanto a sé e aiutarla ad affrontare quel grande dolore, come donna sapeva che la sua bambina aveva bisogno che fosse qualcun altro a starle vicina, ora più che mai. Soprattutto dopo che lei le aveva rivelato, fra le lacrime, che il ragazzo che la donna aveva visto nelle fotografie al cellulare di Aiolos era in realtà suo marito, che si erano sposati su due piedi perché… perché quel “sì, lo voglio” era stata la cosa più facile e desiderata da dire, di tutta la sua vita; e perché loro si amavano e non serviva aspettare un solo giorno di più.
E poi… poi si era ritrovata, più o meno un paio di ore dopo, a Boston, con Saga che la stringeva fra le braccia e la baciava in quella camera del Country Club, solo loro due; e l’aveva fatta sentire al sicuro.
Sorrise. Le erano mancati i suoi baci. Le erano mancati i suoi abbracci. Le era mancato lui, davvero tanto.
Saga l’aveva rassicurata, mentre la trascinava fino al tavolo dove era riunita la sua famiglia. Le aveva assicurato che l’avrebbero accolta a braccia aperte, ma non era andata proprio come lui aveva detto. L’avevano trattata con cortesia; prima con un certo stupore, naturalmente, poi… aveva sentito su di sé tutti quegli sguardi diffidenti e la tensione e l’imbarazzo che ne erano seguiti. Non poteva certo biasimarli. Che pazzia era stata quella che avevano fatto lei e Saga; e ancora più era stata una pazzia credere che gli altri avrebbero reagito bene una volta svelato quel segreto.
Fissò il suo sguardo sulla sua mano sinistra, indugiando sull’anulare che non era ancora impreziosito da alcun anello. Non c’era, ma sapeva che presto quel cerchietto d’oro, simbolo delle loro promesse, avrebbe adornato il suo dito. In tutti quei giorni era stato come se lei ne avesse sempre sentito la presenza; fin da quando aveva detto quel “lo voglio” – benché ancora le sembrasse un sogno – sotto lo sguardo solenne dell’uomo che li stava unendo in matrimonio e di quelli commossi dei due testimoni, che altri non erano che la segretaria del giudice di pace e un semplice custode.
Era stato un giovedì mattina. Sì, giovedì 29 aprile, che lei avrebbe ricordato come il giorno più bello della sua vita. Saga l’aveva trascinata fuori di casa poco dopo le dieci con la scusa di farsi accompagnare per portare gli ultimi documenti in comune per le autorizzazioni degli imminenti lavori per l’appartamento. Invece, prima l’aveva portata in una boutique del centro e le aveva fatto scegliere un abito corto, con la gonna ampia, color pastello e delle scarpe coordinate, delle splendide décolleté che l'avevano fatta sentire una principessa e poi...
Forse, già in quel momento avrebbe dovuto porsi qualche domanda, ma Saga, con quel suo sorriso dolce e rassicurante che le faceva dimenticare tutto ciò che aveva attorno, l’aveva persuasa che fossero solo un regalo.
Invece di presentarsi all’ufficio preposto per le autorizzazioni edilizie, lui l’aveva portata davanti al giudice di pace; e nella cartelletta, al posto dei documenti della casa, c’era la licenza di matrimonio. Da quel giorno si era ripromessa di non dubitare più della verosimiglianza delle commedie romantiche che si vedevano in televisione.
Si passò una mano sul viso, dopo un sospiro trasognato, e cambiò posizione sulla poltrona, girandosi un poco di lato: il fastidio al ventre si stava facendo sentire più insistente e prolungato. I suoi occhi vagavano per quella piccola porzione di giardino che vedeva di fronte a sé, sempre che si fosse potuto definire “giardino” una distesa verdeggiante che neanche si riusciva a scorgere dove finiva.
Non si sarebbe meravigliata se anche l’intero lago, non solo la sponda sulla quale si affacciava la casa, facesse parte delle vaste proprietà della famiglia. Poco più in là iniziava a comparire qualche piccolo scintillio sull’acqua che rifletteva il chiarore del giorno sempre più presente.
Di nuovo fece un sospiro; di nuovo si guardò la mano sinistra. Il suo Saga, così pieno di sorprese e di risorse… eppure si era dimenticato di quel piccolo particolare. Ma lei non se l’era presa. Come poteva? Con quel sorriso tanto dolce gli si perdonava tutto. E comunque non le era poi così indispensabile. Nonostante lui gliene avesse promesso uno da lasciarla senza fiato, si sarebbe accontentata di una vera semplice e sobria come quella di sua madre.

Dalla casa sembrava non arrivare alcun rumore: forse era ancora troppo presto. Lei invece era sveglia da un pezzo e iniziava a sentire i primi brontolii dello stomaco. Rimpiangeva un poco di non essere riuscita a mangiare praticamente nulla a cena. Un po’ perché non stando bene il suo stomaco si era rifiutato di dare il proprio consenso; e un po’, doveva ammettere, anche per il menù che era stato elaborato per quella serata.
«Povero caro», mormorò, accennando un altro sorriso. «Era così entusiasta di come aveva organizzato quella cena.»
Ricordava bene come, mentre si stavano incamminando verso la villa, prima di essere entrambi “sequestrati” da Shion che aveva chiesto loro di salire in macchina, aveva appena fatto in tempo a dirle che aveva fatto preparare una cena speciale in suo onore, con alcuni piatti tipici della sua terra. Poi, con non poco imbarazzo, aveva rimediato alla gaffe specificando che intendeva dire della terra d’origine di sua madre, ma sperava fossero graditi anche a lei. Gli aveva sorriso, lusingata per quella dimostrazione di affetto, rassicurandolo che lei adorava la cucina italiana e che in famiglia non si era mai persa quella tradizione, anche grazie ai suoi nonni.
Peccato però che la sorpresa non si era rivelata tanto piacevole: il bollito freddo di lingua di vitello in salsa verde non era mai stato fra i suoi piatti preferiti. Quando era bambina sua madre aveva provato a farglielo assaggiare, ma ne era rimasta traumatizzata, soprattutto dopo che ne aveva visto un pezzo ancora sul tagliere. Forse, se non avesse azzardato a domandare che tipo di carne fosse – benché molto invitante e presentata in modo tanto elegante e professionale, sul piatto di portata – le cose sarebbero potute andare in maniera diversa… forse. Invece, dopo quella rivelazione, si era ripresentato il trauma dell’infanzia, bloccandola e provocandole ancora più nausea di quella che già l’aveva tormentata tutto il giorno. Alla fine, prima di alzare bandiera bianca, era riuscita a mandar giù solo un paio di bocconi di un tortino di polenta che faceva da contorno.
Per un attimo le tornò la nausea.
Nonostante il ricordo non proprio piacevole, trovò anche un aspetto divertente della faccenda. Rammentava di aver notato come Kanon e Aiolos sulle prime non avessero avuto una reazione molto positiva, ma dopo qualche attimo di titubanza e scambi vicendevoli di sguardi – che avevano alternato ai rispettivi bocconi sulle proprie forchette – avevano ripreso a mangiare addirittura con maggiore gusto, arrivando poi a chiedere una seconda porzione. Saga invece, che le era seduto accanto, le era sembrato avere – ma di sicuro la sua impressione era stata condizionata dalla nausea che poi l’aveva fatta correre via dalla tavola per rifugiarsi in uno dei bagni del pian terreno – un’espressione un po’ infantile e imbronciata, come di chi rimane deluso da ciò che aveva davanti.
Un paio di colpi di tosse le squassarono il petto, ripercuotendosi fino al ventre, acuendole i crampi. Dopo un gemito sommesso si convinse a cambiare ancora una volta posizione, cercandone una più composta.
Il suo sguardo si intristì di colpo: sapeva di non aver fatto una buona impressione durante quella cena, ma fin da subito aveva sentito su di sé il giudizio severo dei membri della famiglia Hayes. E non erano state di grande aiuto le risposte balbettate che aveva dato al capofamiglia. E dopo? Dopo cos’era successo?
Da quel momento la sua mente era un po’ confusa. Ricordava solo una pezza bagnata sulla fronte e Saga che le parlava con affetto e preoccupazione, chiedendole come stesse. E alla fine, portandola fra le braccia, l’aveva accompagnata al piano superiore, depositandola con delicatezza sul letto, rimanendo con lei finché non si era addormentata.
Quando aveva riaperto gli occhi, ancora più stanca di prima e dolorante alla gola e al petto, per quanto aveva vomitato in precedenza, la sveglia segnava poco dopo la mezzanotte. Saga aveva aperto la porta proprio in quel momento, portando un piatto con un sandwich. Con un sorriso le aveva detto che era per lei, perché non aveva mangiato nulla a cena, ma il suo viso era tirato e lo sguardo cupo.
Inconsciamente raccolse il ginocchio al petto e vi si appoggiò con la guancia. Sentì una fitta dolorosa al primo respiro; questa volta però non le importava. I suoi occhi si inumidirono di nuove lacrime. L’immagine del sorriso di Saga, il ricordare quanto impegno ci avesse messo per lei, per farla stare bene, la commuoveva e la faceva stare ancor più male, rendendole difficile prendere quella decisione. Un sussulto, un singhiozzo strozzato, le scosse il corpo. Sarebbe scomparso quel suo bel sorriso nel momento in cui lei gli avrebbe detto la verità sul suo stato di salute? L’avrebbe odiata per quanto era accaduto?
Si strinse nella vestaglia e fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi che minacciavano seriamente di liberare lacrime che lei non sarebbe stata poi in grado di arrestare.
Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic.
Dei rumori, suoni ritmici e continui, creavano un sottofondo quasi ipnotico. Cora iniziò a dondolarsi un poco.
Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic. Ti-tic.
Quel lieve rumore continuava imperterrito. Era sicura di immaginarselo, eppure aveva una sorta di effetto che la confortava. Le faceva sentire nostalgia di casa e della famiglia; le riportava alla mente ricordi lontani di quando, bambina, con i genitori aveva trascorso le vacanze estive in Italia, a casa dei nonni materni. Era stato l’unico viaggio all’estero che avesse mai fatto. In quell’occasione, a causa della sua scarsa conoscenza della lingua, restava molto tempo a casa e passava le ore a far compagnia alla nonna che, a sua volta, passava ore e ore a sferruzzare a maglia. Quello di allora però era un po’ diverso, più forte e incisivo, più veloce e allegro, pieno d’amore. Quello che invece sentiva ora era più ovattato, discreto; ma, ne era certa, ugualmente amorevole.
Alzò la testa e si guardò attorno. Dall’altro lato della veranda, su una vecchia sedia a dondolo chiara, una donna anziana stava lavorando a maglia, osservando in silenzio l’orizzonte. Poi, come se avesse sentito uno sguardo su di sé, voltò lo sguardo su di lei e le sorrise, in quel modo che solo le nonne sono capaci di fare.
«Buongiorno, cara. Sei mattiniera anche tu, vedo», la salutò, continuando a sferruzzare.
«Buongiorno, mrs Foster», ricambiò Cora, affrettandosi a passarsi la mano sul viso per asciugare una lacrima e poi a sorriderle cordialmente.
Si alzò, un poco dolorante, e si avvicinò alla donna che l’aveva invitata a sedersi vicino a lei. Per qualche minuto la osservò lavorare con velocità e precisione, senza neanche guardare la punta dei ferri.
«Sei riuscita a riposare un poco?» le chiese Nanny, lavorando e dondolandosi.
«Sì, mrs Foster», rispose rispettosamente la giovane.
«Chiamami Nanny, come fanno gli altri. Fai parte della famiglia, ora.»
«Nanny…» mormorò Cora, in un balbettio timido.
L’anziana governante di casa Hayes continuava a osservarla, a studiarla. Durante la cena non ne aveva avuto la possibilità; ma in quel momento, loro due da sole in veranda, con la casa tranquilla, poteva fare la sua conoscenza.
«Posso… posso chiederle a cosa sta lavorando?» disse Cora, seduta sul pouf di fronte alla donna.
Cora fissava, quasi ipnotizzata, le mani di Nanny che si muovevano in maniera straordinaria. Per terra, accanto ai piedi della donna, vi era un cestino pieno di gomitoli di lana e alcuni capi già terminati, ben piegati. Non riusciva a staccare lo sguardo da quel lavoro a maglia: era appena all’inizio e non si poteva ancora intuire cosa sarebbe venuto fuori; il filo era molto bello, dai colori delicati e con lievi sfumature a contrasto.
Nanny sorrise, continuando a lavorare. «Sto facendo una tutina per neonati.»
Cora arrossì un poco. «Posso?»
Con molta attenzione prese uno dei capi nel cestino e lo distese davanti a sé, meravigliandosi di quanto fosse piccolo. Era di un bel colore verde pastello, morbido al tatto e leggero.
«È per una ragazza che ha lavorato qui da noi come cameriera fino a qualche mese fa. Abita ancora con la madre in paese.»
«È veramente bella», disse Cora, con tono trasognato; gli occhi si stavano inumidendo di lacrime, eppure lei sorrideva intenerita. Poi, prese un’altra tutina, questa volta bianca con sfumature celesti. «È per un maschietto?» chiese, presupponendolo comunque dai colori utilizzati per i vari lavori.
«Sì. Dovrebbe nascere in settembre.»
«Lei è davvero molto brava», disse la giovane, ammirando sinceramente quei lavori. Erano forse semplici nella realizzazione, ma ben fatti.
«Dammi pure del “tu”, cara», concesse la donna, interrompendosi per un momento e chinandosi verso Cora, accarezzandole una guancia.

«Ecco dov’eri finita! Quando mi sono svegliato e ho trovato il letto vuoto, mi sono preoccupato», disse Saga.
«Non è più buona educazione salutare?» lo riprese Nanny, con tono un poco risentito.
«Buongiorno, Nanny», rimediò il ragazzo, con un leggero imbarazzo su quel bel sorriso che esprimeva serenità e anche un pizzico di inconsapevolezza, dando un bacio sulla guancia alla donna, premiato da una carezza.
«Buongiorno anche a te, signora Hayes», si rivolse poi alla giovane moglie.
Sussurrò il suo nome sfiorandole le labbra, prima di darle un bacio leggero e dividendo con lei il pouf.
«Buongiorno, signor Hayes», rispose lei, condividendo quel sussurro, arrossendo per quell'appellativo.
«Di cosa stavate parlando?» chiese il ragazzo, con disarmante disinvoltura e genuina curiosità.
L’anziana governante lo squadrò per diversi secondi, dondolandosi due o tre volte, continuando imperterrita a far scivolare sopra e sotto le punte dei ferri circolari.
«Di bambini», rispose, con voce ancora un po’ risentita; ed era proprio quello che voleva si sentisse, per non dargliela subito vinta, com’era stato purtroppo abituato.
Saga strabuzzò gli occhi, ricambiando lo sguardo di Nanny e poi voltandosi verso Cora che, con un sorriso timido, stringeva ancora fra le mani la tutina, riferendogli ciò che la donna le aveva raccontato.
«In giro si dice che sia di Kanon, visto che ha la fama di dongiovanni», le sussurrò all'orecchio, ridacchiano.
«Fesserie!» intervenne Nanny, in tono secco; era forse avanti con l’età ma ci sentiva ancora bene!
«Naturalmente, Nanny!» si affrettò a concordare Saga, annuendo con vivacità per dare maggiore risalto alla sua esclamazione.
Cora si sorprese nel vederlo con un atteggiamento così partecipe, per delle chiacchiere fra donne. Le faceva uno strano effetto.
«Il fidanzato di Clare lavora come commesso alla farmacia; a ogni cliente che serve racconta sempre quanto sia orgoglioso del bimbo che sta aspettando», continuò Saga, sempre più pettegolo. «E poi è anche molto geloso! Una volta mi hanno detto che ha minacciato un tizio con una spranga di ferro perché, a detta dei testimoni, aveva guardato in modo inappropriato le gambe della sua fidanzata, che era andata a trovarlo sul lavoro.»
«Oh, Saga, non fare la comare. Lo sai che non è affatto così!» lo rimproverò di nuovo Nanny, facendo sorridere il ragazzo.
Sotto sotto però anche lei era un poco divertita, perché pettegolezzi di quel tipo le riportavano alla memoria gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza del suo angelo, dove l’unico passatempo, fra lo studio, il nuoto – che aveva fortemente consigliato il dottore – e il tennis al Country Club, erano quei momenti in cui lui restava a sentire le chiacchiere delle domestiche di casa Hayes. E poi… pian piano aveva iniziato a unirsi a loro e a partecipare, fino a diventare il “pettegolo” di casa. Ma solo quando non c’erano testimoni ancora più pettegoli di lui.
A dispetto delle apparenze, ovvero era alto quasi due metri e dieci centimetri e con due spalle larghe quanto un armadio, la persona di cui stavano parlando era un ragazzone impacciato, timido e generoso.
«Naturalmente sono tutte voci infondate, ma sai, assomigliando alla “Bestia”, ed essendo sempre stato preso in giro da bambino, si è montato su una reputazione da bullo, ma in verità è un pezzo di pane», disse, rassicurando Cora.
La giovane ridacchiò, nascondendo la bocca con la mano. In quel momento così “intimo” e familiare, aveva forse scoperto un altro aspetto dell’uomo che amava e che la sorprese piacevolmente. L’espressione sul volto di Saga era tanto dolce e spensierata che la stava contagiando e, al tempo stesso, le stava facendo accantonare i suoi tormenti e i suoi dolori.
«E voi due, state già pensando di averne?»
Cora sgranò gli occhi, poi abbassò lo sguardo, sperando non si notasse il senso di colpa che provava, lisciando con mani nervose la tutina che teneva appoggiata sulle gambe: a quella domanda non sapeva cosa rispondere.
«Sicuramente!» esclamò Saga, senza alcun indugio. La sua voce era stata ferma e convinta.
Passò un braccio dietro la schiena della giovane moglie e l'attirò un poco a sé.
«Vero?» le chiese conferma in un sussurro; e lei, dopo un attimo di smarrimento, rispose di sì, anche se con voce un poco incerta. «Magari fra un paio di anni e tu, Nanny, potrai realizzare queste belle tutine anche per noi», aggiunse, decidendo tutto lui, accarezzando la lana morbida e sottile della tutina.
Poi, rivolse uno sguardo innamorato alla moglie, prendendole la mano e distraendola dal fissare con occhi troppo malinconici quel piccolo capo, mostrandole un sorriso dolcissimo e trovando, nel cenno di lei, approvazione a ciò che aveva detto.
Sentì un leggero brontolio di stomaco. «Hai fame?» le chiese. «Ho visto che il piatto che ti ho portato ieri sera non l’hai neanche toccato», la rimproverò con tono preoccupato.
«Scusami. Non mi va di mangiare.»
«La colazione è il pasto più importante della giornata!» pontificarono all’unisono, Saga e Nanny, rimbrottando la giovane in tono bonario.
«Scommetto che se assaggi i pancake di Nanny lo ritroverai subito, l’appetito! Vero, Nanny, che i tuoi pancake sono i migliori?»
L’anziana donna annuì con orgoglio, sotto lo sguardo di Saga che la stava fissando in quel momento con i suoi occhioni verdi e l’espressione da eterno bambino; e che già dentro di sé stava pregustando quelle delizie.
«Hai avuto proprio una splendida idea, tesoro mio. Era giusto quello che mi andava di mangiare. Perché non vai in cucina, prendi gli ingredienti e questa volta li prepari tu?» gli propose la donna. «Di sicuro saranno più graditi a Caroline.»
«Ma…»
«Caro, sai leggere delle istruzioni, vero?» disse la donna, in tono compassionevole, ricevendo una risposta affermativa, seppur titubante, da Saga che non capiva perché la sua tata stesse dicendo quelle cose. «Allora sarai sicuramente anche in grado di seguire la ricetta sul mio quaderno. Lo trovi nel cassetto centrale della credenza», gli disse, con un sorriso sul viso affaticato dall’età.
Per diversi secondi il ragazzo la fissò allibito; poi, con un rossore che gli stava imporporando le gote abbassò gli occhi sul pavimento.
«Ti do una mano, se vuoi», si offrì Cora, ripiegando la tutina come l’aveva trovata e riponendola con molta cura nella cesta dei lavori.
Alle parole della moglie, Saga riprese immediatamente vigore e, grato per l’aiuto, le sorrise dolcemente. Si alzò dal pouf e le tese la mano per aiutarla ad alzarsi a sua volta.
«No, mia cara», la trattenne Nanny. «Fatti viziare un po’ dagli uomini, perché non passerà molto tempo che loro inizieranno a dare per scontato di essere serviti di tutto punto. E poi, mi piacerebbe parlare ancora un po’ con te.»

*****

In quella tarda mattinata di inizio settimana, che poteva dirsi tutto sommato incominciata in toni tranquilli, l’improvviso scampanellare alla porta d’ingresso della grande villa risuonò come delle dolorose martellate nella testa di Aiolos. Forte, rintronante e decuplicato nelle sue note acute; persino accanito, per come prepotente si stava facendo sentire.
Poi, così com’era iniziato, tutto si era fatto silenzio ed era tornata la pace.
«Finalmente…» sospirò il ragazzo che non era certo nel massimo della forma.
Si massaggiò una tempia e fece un profondo respiro, provando a riprendere la lettura del libro, sdraiandosi malamente sull'enorme e morbido divano del salotto. Di tanto in tanto la vista gli andava in confusione e perdeva il filo, dovendo ricominciare a leggere, senza comunque riuscire a capirci nulla. Aveva la testa tutta sottosopra e sentiva che la colazione gli stava tornando su, nonostante la calma che pian piano stava ritrovando; o forse, quella sgradevole sensazione la sentiva di più proprio perché tutto sembrava essere di nuovo tranquillo.
Il campanello della porta suono di nuovo, ancora, ripetutamente, con maleducata insistenza. E, ancora una volta, nella sua testa tutto si amplificò.
«Ma non va nessuno ad aprire?» sibilò fra i denti, coprendosi il volto con il libro aperto. Dov'era la cameriera quando serviva? Dov'era Shura quando serviva?
Scattò nervoso, continuando a sentire quel suono fastidioso: la sua mente stava già immaginando di andare lì e sradicare il campanello dalla parete.
Sbuffò e si alzò dal divano, affacciandosi dalla soglia del salotto: nessuno in quella casa pareva essere anche solo minimamente interessato ad andare ad aprire. Arricciò la bocca in una smorfia, scocciato. Forse, lassù qualcuno ce l’aveva con lui, quel giorno. Ancora con il libro in mano, che teneva completamente aperto con la mano, si avvicinò a passi pesanti alla porta d’ingresso. Non guardò dallo spioncino, né dal monitor della telecamera puntata proprio sul pianerottolo antistante e sui gradini, ma si limitò ad aprire quella porta con un atteggiamento scostante, con l’unico pensiero di mandar via lo scocciatore.
«Ah!» esclamò, senza molta enfasi a dire il vero, nel momento in cui vide chi era. «L’amabile zio Phil, direttamente dall’accogliente città di Philadelphia! Come mai non sono sorpreso di vederti qui?»
Il sarcasmo e la sprezzante arroganza nella sua voce fece serrare le mascelle all’uomo che aveva di fronte. L’eleganza e la pacatezza che aveva dimostrato solo un paio di giorni prima sembravano non essergli mai appartenute e anzi, Aiolos non si preoccupò affatto della reazione dell’altro, forte di essere nel suo territorio, questa volta. Con disinvoltura – e un mezzo ghigno sul viso – dimenticandosi del tutto dei postumi della sbornia che ancora lo stavano condizionando, allungò un poco il collo e diede uno sguardo alle spalle dell’investigatore: vicino all'auto ferma in mezzo al vialetto ghiaioso c’erano altri due uomini dall’aspetto cospiratorio che stavano fumando.
«Ti sei portato i rinforzi?»
«Ehi, ma è solo il maggiordomo di casa», disse con un mezzo sorriso Phillip Burton, ai suoi compagni, indicando Aiolos con un gesto del pollice.
I due in disparte sogghignarono; poi, quello con la giacca scura buttò a terra la cicca di sigaretta schiacciandola con il piede.
«Cos’è, il potente Shion Hayes è caduto tanto in miseria che non può permettersi di pagarti abbastanza per la divisa più decorosa?» rincarò la dose di dileggio, squadrandolo da capo a piedi. Il ragazzo infatti si era presentato davanti a lui con delle semplici infradito, jeans scoloriti e strappati e una polo che aveva visto giorni migliori.
«Se avessi saputo che erano attesi ospiti così di “riguardo” sarei andato a ritirare quella buona in lavanderia», rispose Aiolos, con un sorrisetto. Subito dopo però fu costretto a una smorfia di dolore per una fitta alla testa. «Allora, che vuoi?» chiese di nuovo, mutando repentinamente il tono della voce e l’espressione sul viso.
«Aiolos!» chiamò Kanon, scendendo di corsa le scale per dirigersi in biblioteca. «Chi è alla porta?» chiese, vedendo che l’altro si stava intrattenendo con qualcuno.
«È il suocero di tuo fratello!» rispose Aiolos, senza distogliere lo sguardo dall’ex poliziotto, osservando la lieve contrazione delle mascelle dell’uomo. «O forse il sostituto suocero», mormorò maligno. «Per te cosa sarebbe, Kanon?» domandò all’amico, con aria sempre più strafottente, mettendosi una mano in tasca e assumendo una posa fin troppo rilassata.
«Cos’è, un quiz a premi?» ribatté Kanon, per nulla in vena di scherzare o fare conversazione, non dopo la serata passata a discutere con il padre e con il gemello. «Piuttosto, chiama al garage e chiedi se la Lamborghini è a posto! Dopo la riunione in città devo andare a New York», ordinò, prima di scomparire in biblioteca.
Aiolos sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Quel giorno ci mancava anche Kanon che si metteva a impartire ordini come un dittatore.
Anche Phillip Burton, che fino a quel momento era rimasto comunque rispettosamente sulla soglia, iniziava a dare evidenti segni di impazienza.
«Allora?» ripeté ancora una volta Aiolos, assottigliando lo sguardo.
«Devo vedere mr Hayes», disse Phillip, lapidario e con voce ferma.
I due si guardarono negli occhi per diversi secondi, senza cedere dalle rispettive posizioni, neanche fossero due pistoleri del Far West.
«Non è disponibile», fu la risposta, altrettanto lapidaria, di Aiolos.
Di nuovo si fissarono a lungo, come due cani da guardia che mostrano i denti e ringhiano sommessi, prima di azzannarsi a vicenda.
«Non ho tempo di giocare con te, ragazzo», disse Phil, mettendosi una mano nella tasca dei pantaloni, spostando con quel movimento la giacca leggera e mostrando la pistola nella fondina che questa volta portava alla cintura.
«Io invece ho tutto il tempo che voglio; e questa volta gioco in casa», gli rispose per le rime e con inaspettata freddezza l’altro.
«Ragazzo…» si fece avanti minaccioso uno dei due uomini che attendevano poco più in là, affiancandosi a Phillip Burton. «Io invece gioco sempre in casa», affermò con sicurezza, scostando la giacca e mostrando il distintivo del dipartimento di Polizia di Boston, Squadra Omicidi, agganciato alla cintura. «Ora facci entrare e vai a chiamare il padrone di casa.»
Aiolos non si scompose più di tanto per quella dimostrazione da duro. «Avete un mandato, agente?»
«Detective Moore», lo corresse l’uomo. «Non ho bisogno di un mandato per una semplice chiacchierata informale, né di un invito scritto. Restatene al tuo posto, ragazzo e facci entrare.»
«Amico…» lo apostrofò Aiolos, con tono sprezzante, «non siamo a Chester’s Mill, sotto la cupola. Qui i diritti costituzionali sono ancora in vigore e la polizia non può fare i propri comodi», rispose a tono, chiudendo il libro che teneva in mano, l’ultimo che aveva comprato di Stephen King, puntandolo al petto del poliziotto, che non sembrava poi così tanto più vecchio di lui, a giudicare dall’apparenza.
Il detective scacciò quel libro con un gesto brusco, portando in seguito la mano sulla fondina della pistola, frenato però dall’ex capitano.
«Ehi, big Phil, c’è qualche problema?»
Anche il terzo uomo raggiunse infine i suoi compagni, ancora fuori dalla porta d’ingresso della villa.
«Tutto sotto controllo, Ed. Non è vero, signor Foster?»
Edward Price annuì con la testa, ma rimase in allerta, come la sua esperienza di tanti anni sulle strade gli aveva insegnato, con gli occhi fissi sul giovane che sbarrava loro la strada.
«Ehi, ma che succede qui, Aiolos?» chiese Kanon, affiancandosi all’amico, ora di umore migliore, appoggiandosi con il braccio alla sua spalla.
Tutti erano stati così intenti a osservarsi che non si erano accorti di quella nuova aggiunta, rimanendo sorpresi.
«Salve! Sono Kanon Hayes, cosa desiderate?» chiese, stringendo la mano di Phillip Burton che, subito a prima vista, aveva reputato come “il capo” di quel gruppetto.
Nonostante Burtun avesse già visto una sua fotografia, qualche giorno prima, rimase allibito nel ritrovarselo di fronte.
«Lui è il patrigno di Caroline», disse Aiolos a voce molto bassa, indicando con un cenno del capo l’uomo a cui Kanon aveva appena stretto la mano. «È venuto a parlare con tuo padre. L’altro è un poliziotto e il terzo non lo so, ma dall’aspetto sarà un altro sbirro.»
«Ah, allora questa volta Saga si è cacciato in guai davvero grossi?» commentò Kanon, squadrandoli da capo a piede, facendo poi un mezzo sorriso. «Beh, Aiolos, accompagnali in biblioteca e poi chiama il grande capo. Così finalmente risolveremo questa storia», gli ordinò. «Non andateci troppo pesante, voi… è pur sempre mio fratello», disse, con tono sfacciato, rivolgendosi ai tre ancora fuori dalla porta.
Poi, prima di uscire di casa, informò l’amico che agli impegni in ufficio si era aggiunto anche un meeting dell’ultimo minuto e di portargli la Lamborghini direttamente nei parcheggi sotterranei del grattacielo della compagnia, perché il suo programma di tornare a New York era ancora valido; ed era propenso questa volta a rimanerci per diverso tempo.
Aiolos annuì svogliatamente, ma non eseguì subito. Prima voleva capire il vero motivo per il quale quell’uomo era venuto da Philadelphia e si era presentato alla porta di casa Hayes. Di certo non poteva essere solo per ciò che tutti ritenevano la sciocchezza più grossa che Saga avesse mai fatto in vita sua. Dietro doveva esserci dell’altro, ma gli mancavano ancora diversi tasselli per ricostruire il quadro.
«Ma di che stava parlando, quello?» chiese il detective al suo ex superiore Price. Solo in quel momento, Moore si rese conto della reazione allibita dell’uomo quando era comparso davanti a loro Kanon.
Anche dopo che il rampollo degli Hayes si era allontanato, Edward Price era rimasto con le mascelle serrate, lo sguardo fisso e il respiro trattenuto, prima di scambiare uno sguardo eloquente con Burton e, di nuovo, stringere le mascelle per la tensione.
Burton fece un passo in avanti per entrare in casa, ma fu respinto dalla mano di Aiolos.
«Lascia, ci penso io!» intervenne Shura, sbucando da chissà dove e arrivando di corsa: sembrava essere inseguito dal demonio in persona. «Vai in cucina e trattienili», sussurrò all’orecchio di Aiolos, mettendogli una mano sulla spalla.
Il ragazzo non fece una piega, ma nemmeno si mostrò contrariato per quella che, in altre circostanze, avrebbe interpretato come una punizione.
«Morales.»
«Capitano Burton», ricambiò il saluto Shura, facendoli finalmente accomodare nell’elegante atrio della villa, fissando però l’uomo con sospetto.
La tensione di quei minuti, nonostante il cambio degli attori, non era diminuita affatto; anzi, se possibile era persino aumentata, perché da quel momento in poi sarebbero potuti riemergere eventi del passato che dovevano invece rimanere nascosti.



note:
Tulipe: com'è intuibile, deriva dal francese e significa Tulipano; è un bicchiere dalla forma affusolata che ricorda appunto il suddetto fiore e si usa per la degustazione di vini bianchi e di alcuni alcolici come la grappa.
Chester's Mill: è la cittadina, inventata, del Maine nella quale si svolge la storia di "The Dome", romanzo di Stephen King, pubblicato negli Stati Uniti nel 2009.



   
 
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