GO
THE DISTANCE
CAPITOLO
5
“Fratellone,
che succede?”
Alphonse
e la sua voce preoccupata scossero Edward dai suoi pensieri: i due
ragazzi erano seduti sui loro letti d'ospedale, vestiti di tutto
punto con abiti civili e in attesa dei documenti per la
“scarcerazione”; erano stati tre giorni lunghi e
difficili,
trascorsi perlopiù addormentati per lo stress e le medicine
pompate
all'interno dei loro corpi per contrastare le infezioni ma, una volta
svegli, il dolore era tale da strappare loro gemiti continui sotto
gli occhi addolorati dei loro amici lì riuniti.
Winry
passava spesso ma i due fratelli l'avevano potuta vedere solo per
pochi minuti mentre Mustang...
I
due Elric non lo sapevano con certezza ma, data la frequenza con cui
si faceva vedere da quelle parti, sospettavano che avesse trasferito
il proprio ufficio lì: non stava mai via per più
di un paio di ore.
La
dottoressa Grunwald era ottimista sul loro recupero, ma era veramente
difficile riconoscersi allo specchio: Alphonse aveva il naso rotto e
tenuto fermo da una steccatura, il braccio e la gamba da cui avevano
estratto le pallottole erano ancora fasciati ma in via di guarigione
mentre i lividi ancora non si erano riassorbiti del tutto e come se
non bastasse era costretto a gironzolare con le stampelle.
Edward
era poi, manco a dirlo, quello conciato peggio: ancora mutilato,
incapace di muoversi senza aiuto, si era sentito profondamente
umiliato nel farsi aiutare dalla giovane infermiera - quella che
aveva visto al proprio risveglio - per vestirsi.
Certo,
Jean e gli altri non li lasciavano un attimo soli ma lui non aveva
voluto che vedessero veramente le condizioni del suo corpo.
Ogni
tanto, i flash dei ricordi saltavano fuori e si palesavano ma lui
cercava di ricacciarli fermamente dal posto da cui provenivano: non
era ancora pronto per rivivere ogni cosa.
Era
terrorizzato ma cercava di non darlo a vedere per non far preoccupare
gli altri: si sentiva come scisso in due, da una parte la gioia per
essere finalmente a casa, che era enorme, ma dall'altra...
Ansia,
paura di risvegliarsi nuovamente in quell'incubo che era il mondo
lasciatosi alle spalle, incapacità di fidarsi del tutto
delle
proprie percezioni e di chi gli stava attorno.
“Nulla.”
mentì il più anziano, cercando di mostrarsi il
più possibile
convincente: “Mi stavo solo chiedendo dove andremo, ora che
ci
hanno dimessi.”.
“Magari
ci ospiterà Winry...”
“Al,
ha da lavorare, non credo abbia tempo per farci da balia.”
fece
notare il maggiore, guardando poi distrattamente fuori dalla
finestra: c'era un bel sole e si ritrovò a desiderare di
essere già
fuori, sotto la sua luce calda.
“Siete
pronti, ragazzi?!”
Con
un gran sorriso – e spingendo una carrozzella vuota
– Jean Havoc
entrò nella stanza seguito da Vato e Kain:
“Finalmente siete
liberi!” esclamò pomposamente l'ufficiale biondo,
“Tempo di
caricare Edward qui sopra e scapperemo in grande stile da questo
postaccio!”.
“Riza-san
è qui fuori che ci aspetta con la macchina!”
continuò Fury,
sistemandosi gli occhiali: “Abbiamo ordine tassativo da parte
del
Comandante di non mollarvi un attimo.” aggiunse Falman al suo
fianco, “Pena, la Corte Marziale.”.
Alphonse
ridacchiò sommessamente mentre il fratello, sbuffando,
incrociò le
braccia al petto: “Si sta prendendo un po' troppe
libertà,
quello...” borbottò, stranamente inquieto.
La
risatina di Kain e quella di Vato aumentarono la sua inquietudine.
“Allora
preparati, Edward, ne vedrai delle belle nei prossimi
giorni!”
l'entusiasmo di Jean era contagioso ma l'Elric più anziano
non
sapeva cosa aspettarsi dal futuro.
Era
stanco, disilluso, incapace di vedere anche solo il minimo bello in
ciò che lo circondava.
Si
sentiva incredibilmente solo.
Certo,
aveva sempre Alphonse e Winry, e ovviamente gli altri, ma la notizia
della morte di zia Pinako l'aveva scosso profondamente: ora veramente
non aveva più nulla, più alcuna radice...
“Edward...
Tutto bene?”
La
voce preoccupata di Kain lo fece sobbalzare per la seconda volta nel
giro di pochi minuti; si sentì in colpa per averlo ignorato
in quel
modo e, alzata di scatto la testa, la scosse con decisione:
“S-Sì...”
borbottò, “Stavo solo pensando, ti
ascolto.”.
Rassicurato,
l'ufficiale si posizionò dietro la carrozzina e fece un
cenno:
“Jean-san, Vato-san, tocca a voi.”
Edward
si sentì sollevare – “è
così leggero” pensarono Havoc e
Falman col cuore stretto nel petto – e si ritrovò
sul duro sedile
con una coperta in grembo: “Forza! E' il momento di andarcene
da
qui!”.
Come
in un sogno, attraversarono il corridoio, po un altro e ancora un
altro fino a raggiungere l'atrio, percorso in tutta fretta fino alla
porta principale e al porticato esterno, dove ad attenderli –
oltre
a Riza Hawkeye – c'erano anche due persone d'eccezione.
“Buongiorno,
Edward-san, Alphonse-san.” salutò Maya, con la
cuffietta bianca in
testa: “Sono contenta di vedervi finalmente in piedi. Beh,
più o
meno” disse la ragazza con tono genuinamente commosso e una
risatina imbarazzata.
La
dottoressa Grunwald, invece, si limitò unicamente a
sorridere: “Ho
già dato dispozioni al Comandante e manderò
spesso la signorina
Ross a vedere come procedono le cose. Fateli riposare e non
sforzateli troppo, ho già parlato con la signorina Rockbell
e mi
sono raccomandata di effettuare l'installazione non prima di una
settimana. I nervi stanno guarendo bene, hanno bisogno solo di ancora
un po' di tempo.”.
Ed
annuì e si sforzò di ricambiare il sorriso della
donna: non voleva
sembrare ingrato, in fondo aveva salvato loro la vita.
“Grazie,
doc!” esclamò Falman, armeggiando con le ruote
della carrozzella:
“Per tutto.” aggiunse l'uomo.
“Si
figuri, luogotenente. In fondo, ho fatto solo il mio dovere.”
replicò la donna con piglio orgoglioso.
Edward
fece per levarsi la coperta di dosso per restituirla ma la mano della
dottoressa lo fermò prima, posandosi delicatamente sul
ginocchio
superstite: “Non è necessario, ora dovete solo
pensare a
riprendervi. Me la restituirete quando potrete camminare con le
vostre gambe.” disse semplicemente, girando poi sui tacchi.
Con
un rapido inchino, Maya si congedò a propria volta e la
seguì a
passo svelto, lasciando il gruppetto da solo.
“E
ora?” chiese Alphonse curioso, ritto in piedi accanto a Kain.
“Ora
vi portiamo a destinazione.” fece Jean con tono cospiratorio.
Con
uno scrollare di spalle e un vago sorriso, Riza si portò
dall'altra
parte rispetto ai colleghi e li aiutò con estrema
facilità a
sollevare la sedia a rotelle mentre lo stesso Fury assisteva Al nella
discesa degli scalini.
Nel
centro del piazzale, c'era la macchina ad attenderli.
Con
rapidità, Al e Ed vennero fatti sedere sui sedili posteriori
–
Jean e Kain si misero al loro fianco – mentre Riza e Vato
occupavano quelli anteriori: la giovane ufficiale aveva preso in mano
il volante.
“Breda-san
dov'è?” chiese curioso il minore degli Elric,
guardandosi attorno
ma non riuscendo a vedere la capigliatura rossiccia del loro amico.
“Qualcuno
doveva aspettarci a destinazione, no? E poi, non ci saremmo stati
tutti a bordo.” fece notare Havoc, accendendosi una
sigaretta: “Non
preoccupatevi, in due penso ce la faranno a mettere assieme due
letti.” ridacchiò il biondo, vedendo i loro visi
pensierosi.
“Chi
c'è con lui?” Al era curioso, certo, ma non
preoccupato: si fidava
del Mustang Team, ricordava tutto degli anni passati a viaggiare per
Amestris e ricordava l'amicizia e l'affetto che questi avevano loro
riservato, non avrebbe mai dubitato della loro buonafede.
“SE-GRE-TO.”
sillabò Kain, portandosi l'indice alla bocca: “Tra
poco saremo
arrivati, comunque. Abbiate fede.”.
Il
resto del viaggio trascorse in uno strano silenzio mentre Edward,
visibilmente stanco e provato, era crollato addormentato senza che
nessuno praticamente se ne accorgesse, almeno in apparenza.
Quando
infine la macchina si fermò dinanzi ad una villetta nel
quartiere
residenziale di Central City, a pochi metri dalla dimora della
famiglia Hughes, fu Riza a scuotere l'esausto ventenne con cautela,
svegliandolo: “Ci siamo.” annunciò lei
con un sorriso mentre
Vato e Jean si prodigavano a tirare fuori dal retro la carrozzina,
“Benvenuti alla vostra nuova dimora!”
gridò Kain, mostrando con
il braccio la villetta e il giardino.
Alphonse,
scivolato fuori con cautela, si guardò attorno con
entusiasmo:
“Niisan, hai visto che bello?! Chissà chi ci
abita!”.
“Dev'essere
qualcuno che ci conosce bene, se ha accettato di ospitare due
persone come noi...” borbottò Ed, guardando
stancamente
l'edificio dinanzi a loro.
“Forza,
soldo di cacio! Sali a bordo!” sogghignò Jean.
“Non
sono piccolo...” borbottò stancamente l'Elric
maggiore,
lasciandosi aiutare ad alzarsi.
Havoc
e Falman si scambiarono un'occhiata preoccupata: la reazione che si
aspettavano era un'altra, fuoco e fiamme come in passato, non
quell'espressione sconfitta...
“FINALMENTE!”.
La
voce possente di Heymas risuonò nel cortile deserto e il
sottotenente fece la sua comparsa dalla porta della villetta: era in
borghese e sembrava aver fatto un certo numero di lavori manuali,
date le condizioni dei suoi abiti.
“Scusate
per le condizioni, ma stavamo sistemando alcune cose. Entrate
pure!”
si sbracciò lui.
“Lui
dov'è?” chiese Riza, spingendo la carrozzina di Ed.
“Ci
attende dentro, non preoccupatevi.”.
Alphonse
ed Edward si guardarono, dubbiosi: non capivano cosa stesse
accadendo.
“Forza,
ragazzi. Non vi fa bene restare qui! Entriamo!”
annunciò Jean,
aprendo il cancelletto per far passare Riza: “Presto potrete
stare
più comodi che su due brandine.”
continuò lei.
Quando
infine entrarono nel piccolo ma accogliente ingresso dell'abitazione,
saltarono subito agli occhi i lavori fatti: una rampa metallica che
portava al piano superiore e che copriva le scale, i mobili
evidentemente spostati da poco per non creare ostacoli e due divani
ancora impacchettati nel bel mezzo del salotto.
“Ce
l'avete fatta da soli?” s'informò Jean,
depositando la giacca
sull'appendiabiti più vicino:
“Certamente!” ribattè Breda,
“I
traslocatori sono stati veloci, hanno portato tutte le scatole qui in
tempi brevissimi e siamo anche riusciti a posizionare i divani senza
fare troppi danni al parquet.”.
“Avete
fatto un lavoro coi fiocchi, davvero.” constatò
Falman, imitando
il collega biondo: “Abbiamo fatto solo la nostra
parte.” scrollò
le spalle Breda con noncuranza, “Dopotutto, la parte
più tosta è
toccata a voi. La dottoressa Grunwald che dice?”.
“Ha
promesso di mandare spesso la sua assistente a verificare come
procedono le cose. Sarà da dirlo ai soldati di guardia
fuori.”.
“Glielo
comunicheremo appena possibile.”
I
fratelli Elric restarono in silenzio, benchè per motivi
diversi:
mentre Alphonse, pur se curioso, non domandava nulla per rispetto e
timidezza, Edward invece non stava a sentire nessuno dei discorsi.
Stanco,
con la testa che scoppiava per il dolore, desiderava soltanto
stendersi mentre tutti i muscoli della schiena urlavano a gran voce.
Perfino
il divano ancora impacchettato gli pareva un paradiso, al confronto
con la scomoda carrozzina.
“Ragazzi,
Acciaio sembra sul punto di vomitarmi sulla moquette. Che ne dite di
farlo sdraiare prima che accada l'irreparabile?”.
Comparso
all'improvviso sulla soglia del salotto, Roy Mustang indossava degli
abiti vecchi e logori del tutto simili a quelli del suo sottoposto,
sporchi di calcinacci e con un asciugamano attorno al collo: sul viso
imperlato di sudore svettava la benda nera; con passo sostenuto,
avvicinò Havoc e lo aiutò a sollevare il maggiore
dei due fratelli,
che venne subito adagiato con la testa sul bracciolo mentre Falman
prendeva un paio di coperte da un cesto lì vicino.
“Alphonse,
hai bisogno di aiuto?” chiese Riza con tono gentile,
rivolgendosi
con il viso verso il più giovane; ma il ragazzino scosse la
testa,
portandosi una mano al cuore che aveva preso inspiegabilmente a
fargli male: “Niisan...” mormorò con gli
occhi lucidi.
L'ufficiale
gli poggiò una mano sulla spalla con fare materno:
“Non devi
preoccuparti per lui, è in buone mani. E naturalmente anche
tu lo
sei.” sorrise lei.
Mustang
si chinò su Acciaio, esaminandolo con attenzione: ne
osservò le
labbra semiaperte, la pelle pallida e leggermente sudata sulla quale
risaltavano i graffi e le escoriazioni dei giorni precedenti, poi
passò ad esaminarne il fisico sottile e fin troppo asciutto
rispetto
a quel che ricordava. E infine sentì una fitta al petto nel
vedere
uno spazio vuoto dove un tempo si trovavano i suoi Automail.
Il
ragazzo era abbandonato contro i morbidi cuscini, semi-svenuto,
l'ombra di quello che era.
“C-Comandante...
D-dove siamo?” pigolò Alphonse all'improvviso,
tormentandosi le
mani.
“A
casa mia.” replicò questi con estrema naturalezza
mentre si
rialzava dal capezzale di Edward: “Ho pensato che forse
sarebbe
stato meglio per voi alloggiare con qualcuno in grado di prendersi
cura di voi. E siccome siete ancora in pericolo, per quanto ne
sappiamo, questa è l'unica idea che ci sia venuta in mente e
l'unica
possibilità praticabile.”.
Il
brusio di risate sommesse alle spalle del ragazzo da parte degli
altri ufficiali lo fece sorridere: “La ringrazio,
Comandante.”
disse soltanto, cercando di dissimulare, aveva capito fin troppo bene
cosa stessero architettando ed era loro grato per tutto quello che
stavano facendo.
“Forse
è meglio se noi andiamo, Fuhrer.” disse
improvvisamente Riza: “I
ragazzi avranno bisogno di riposo.”.
“Già.
Abbiamo fatto abbastanza confusione per oggi.”
notò Falman,
indossando il pastrano sopra la divisa: “Domani mattina di
buon ora
verremo a portarvi scartoffie e provviste.”
dichiarò l'argenteo
prima di uscire dalla porta.
“Le
scartoffie non sono necessarie...” cercò di
opporsi Mustang ma si
ritrovò a doversi rimangiare ogni parola a causa
dell'occhiata di
fuoco da parte di Hawkeye: “Comandante, la gestione del Paese
è
una faccenda di fondamentale importanza. Non può pensare di
affidarla a terze persone. Sia ragionevole e non faccia il
bambino.”
replicò la donna con tono serio.
Il
resto degli ufficiali precedette la collega all'esterno e infine
scoppiò a ridere così forte da farsi sentire
anche all'interno,
strappandole un sospiro: “Ora vado, prima che attirino troppo
l'attenzione.” concluse, incamminandosi verso la porta.
Una
volta fuori, Alphonse e Mustang sentirono distintamente una gragnola
di colpi di pistola contro il legno dello steccato.
“Spero
non li strapazzi troppo...” disse il Comandante con tono
rassegnato: “Io vado a farmi una doccia, Alphonse. Se hai
bisogno
di qualcosa...”.
“Non
si preoccupi. Anzi, grazie di tutto.”.
L'uomo
si lasciò sfuggire un sorriso appena accennato:
“Ci vediamo più
tardi.”.
§§§
Quando
Edward riprese infine i sensi, la prima cosa che notò fu che
non si
trovava più nel salotto di quella casa sconosciuta ma in una
stanza
da letto: era disteso sotto le coperte di un letto estremamente
comodo e, illuminata dalla luce del tramonto che entrava dalla
finestra, vedeva al proprio fianco la carrozzina.
Chi
lo aveva portato fin lì?
Forse
erano stati Havoc e compagni...
Una
fitta improvvisa al capo interruppe il filo dei suoi pensieri,
strappandogli un lamento; non si accorse neppure dell'aprirsi della
porta e notò l'ingresso di una persona solo nel momento in
cui
questa gli rivolse la parola: “Lascia che la tua mente
riposi,
figliolo. Non è il momento di lambiccarsi in pensieri
inutili.”.
Alzata
la testa di scatto, Edward incrociò lo sguardo con una
donna:
anziana, di corporatura snella e dagli occhi vispi celati dietro
spessi occhiali da vista, sembrava ammantata di una luce tenue e
familiare.
Tra
le mani reggeva un vassoio con una teiera e una tazza: “Spero
tu
abbia dormito bene. Abbiamo cercato di fare il più piano
possibile
per non disturbarti.”.
Confuso,
Acciaio si mise seduto a fatica, coprendosi il corpo con parte delle
lenzuola: “D-Dove sono? E Alphonse?!” chiese,
ricordandosi
improvvisamente del fratellino.
“Il
piccolo Al è di sotto, abbiamo fatto i biscotti. Voleva
portartene
un po' ma non riusciva a camminare bene. Quindi l'ho lasciato
tranquillo e sono salita io.” sorrise la nonnina.
Il
viso di Edward si rasserenò un poco: “Grazie...
Lei chi è?”.
“Non
mi sono ancora presentata, è vero.”
notò lei mentre poggiava il
tutto sul comodino: “Il mio nome è Marlene Richter
e sono qui per
aiutarvi.” sorrise, tendendogli la tazza tiepida,
“Bevi, prima
che si raffreddi.”.
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