Incertezze
Cap.2
-Ingranaggi
Di
ritorno alla centrale della E-Security, Dylia si
fiondò
nell’ufficio del capo
com’era abituata a fare quando rientrava da una
missione, solo che questa
volta aveva affrontato in solitaria un viaggio di quattordici
ore a
velocità prossime a quella della luce e, per colpa dello
space
lag1, si sentiva
stranamente euforica. Persino quell’angolo grigio e sporco
del quartiere che
ospitava l’edificio della base operativa le appariva
più pittoresco e confortevole.
«Non
c’era nessun ordigno da disinnescare alla stazione Damon.
Falso allarme. Per i
dettagli ho lasciato una copia della registrazione del mio rapporto in
archivio.» Esordì così, e dopo
poggiò una delle due valigie con la
strumentazione fusa sulla scrivania immacolata del capo; solo allora
lui si animò
e la guardò in faccia.
«Cos’è questo schifo? Toglilo subito di
qui!»
La
ragazza si riprese la valigia trattenendo una risata. «Mi
serviranno nuovi
strumenti per la prossima missione.»
«Che ne è stato di quelli nuovi che ti sono stati
affidati l’ultima volta?»
«Sono
questi. Si è abbattuta una tempesta di fulmini sulla
città», spiegò.
Il
capo sbuffò rassegnato e girò distrattamente lo
sguardo verso la finestra.
Odiava dover mandare i suoi agenti nelle metropoli di scambio. Le
stazioni (con
tutto il loro metallo accatastato composto da navette, binari, cavi ed
elevatori) spesso fungevano da vero e proprio parafulmine. Bastava che
un
piccolo fronte nuvoloso si accumulasse in prossimità della
zona e l’aria
iniziava a caricarsi d’elettricità che
puntualmente finiva per riversarsi sugli
impianti delle città. Le tempeste di fulmini erano
all’ordine del giorno e lui
non avrebbe mai immaginato che a far saltare le apparecchiature fosse
stata
Dylia stessa per togliersi dai guai.
«Sai che siamo a corto di fondi. Prima passa dal nostro
tecnico e prova un po’
a fargli aggiustare quella roba.»
Dylia annuì e uscì dall’ufficio.
Non
era cambiato niente in lei. Aveva sempre
il solito innato senso di giustizia che la spingeva a
rispettare ogni
regola; proprio per questo ancora non riusciva a capacitarsi di quello
che
aveva fatto, o meglio, quello che non aveva fatto per fermare Shulik.
Era
consapevole della gravità delle sue azioni, ma non riusciva
preoccuparsene
seriamente e per qualche strano motivo le veniva da ridere. Le reali
intenzioni
di Shulik, quando era entrato a farle visita nella camera
d’albergo, restavano
un mistero. Tormentarsi per cercare una spiegazione ora non
sarebbe
servito a nulla.
Lasciò
le due valigie con gli attrezzi da aggiustare davanti alla porta del
laboratorio del tecnico. Non aveva voglia di dare spiegazioni anche a
lui,
tanto era sicura che avrebbe capito e, se avesse potuto, non ci avrebbe
messo
molto a riparare i danni. Poi si diresse verso l’ascensore
con l’intenzione di
andarsene di lì, chiudersi in un bar e ordinare un
frappè alla menta. Era già
tanto che fosse entrata nel posto di lavoro durante il suo giorno
libero per
consegnare il rapporto, non aveva intenzione di trattenersi un minuto
in più.
Mentre aspettava che le porte dell’ascensore si aprissero, un
suo collega di
cui non ricordava il nome, la fermò: «Ehi Dylia,
che ci fai qui? Non è la tua
giornata libera oggi?» E senza attendere risposta
continuò: «Qualche
psicopatico si sta divertendo ad hackerare i computer dei tabelloni
delle
partenze a Damon. Ci vorrà tutta la giornata per
ripristinare l’ordine.»
«Cosa
significa?» La sua era una domanda stupida che non richiedeva
necessariamente
una risposta. Era bastato il nome “Damon” per farle
scattare un campanello d'allarme in testa.
«Significa
che qualche deficiente ha deciso che usare un dispositivo privato era
troppo
all’antica e s’è messo a spedire strani
messaggi sui tabelloni della stazione.»
Fece una pausa durante la quale sembrò ricordarsi di
qualcosa d’importante.
«Aspetta, ma tu arrivi proprio da quella stazione! Non hai
notato nulla di
anomalo?»
Dylia si sentì a disagio. Se l’artefice di quel
caos era la persona a cui stava
pensando, la colpa in parte era anche sua. Il pensiero di essere stata
la causa
di un malfunzionamento della società le diede una sensazione
di
piacevole vertigine.
«Joh
chiama Dylia dal pianeta Terratre: non hai notato nulla di strano
quando eri
lì?»
La donna si scosse distolta improvvisamente
dai pensieri. «Sì… cioè no.
Insomma che cosa c’era scritto nei tabelloni?!», lo
chiese senza riuscire a
nascondere un sottile velo d'eccitazione nella voce.
Il
collega la guardò perplesso. «Cose in apparenza
senza senso. Dovresti chiedere
a Paul: da ore sta cercando di risalire alla fonte
dell’attacco.»
Non
aveva idea di chi fosse Paul, così ringraziò il
collega evitando di porre
domande che l’avrebbero fatta sembrare una sprovveduta: era
una frana con i
nomi e quel Paul doveva essere uno nuovo. Richiamò per
l’ennesima volta
l’ascensore e le porte finalmente si aprirono.
All’aperto il sole cominciava a
farsi alto e accecante; indossò gli occhiali protettivi e
s'incamminò verso
quello che lei chiamava “il bar in cui fanno i miglior
frappè alla menta del
pianeta”; vi entrò e si sedette su uno dei
divanetti verdi. Sullo schermo
appeso a una delle pareti scorrevano le ultime notizie, tra cui quella
dei
disagi alla stazione Damon.
Dopo la scritta "solo tu e io" che era comparsa nei
tabelloni della stazione e
che era rimasta visibile per una decina di minuti, tutto era tornato a
funzionare normalmente, così Dylia aveva potuto tornare a
casa senza problemi.
Non si aspettava di certo che dopo la sua partenza quel folle avesse
continuato
ad hackerare i computer con gli orari delle navette. A quale scopo poi?
Farsi
notare da lei? Provocarla?
Nel video che stavano mandando in quel momento in tv,
registrato qualche
ora dopo la sua partenza, si notava ancora la folla agitata, qualcuno
che
gridava cose incomprensibili, intere comitive di turisti sedute a terra
nei
pressi del deposito bagagli. Ad un certo punto qualcuno se la prese
persino con
il robot-reporter che stava riprendendo la scena, la telecamera venne
danneggiata e lo schermo divenne improvvisamente nero.
«Che razza casino!», pensò a voce alta.
«Già!»,
commentò il barista. «Prendi qualcosa?»
Dylia si
alzò e uscì dal bar senza rispondere;
le era passata anche la voglia del frappè. I patti erano
chiari, non doveva più
essere coinvolto nessun cittadino innocente. Ma lui, Shulik, era un
pericoloso
criminale, aveva fatto saltare ordigni esplosivi in luoghi pubblici
pieni di
gente, come diavolo le era venuto in mente di credere alla sua parola?!
I gradi
d’onore che si era guadagnata alla E-Security non
contavano
più nulla. Avrebbe
dovuto dimettersi; gli ingranaggi difettosi della città
dovevano essere
sostituiti e lei, in quel momento, si sentiva per la prima volta
proprio come
una di quelle ruote meccaniche che s'inceppano improvvisamente
causando l’arresto di tutto il meccanismo. Eppure, sotto un
certo punto di
vista, trovava che quella situazione assurda fosse piacevole. Per la
prima
volta nella sua vita stava agendo fuori dagli schemi e questo la faceva
sentire
diversa.
La sera, dopo aver spiluccato qualcosa per cena, si stese
sul letto del
suo appartamento senza spostare le lenzuola e senza nemmeno spogliarsi.
Rimase
per qualche minuto con lo sguardo perso nel soffitto a riflettere, le
luci
erano spente: l’unico bagliore proveniva dai lampioni ad
energia solare sulla
strada e filtrava a sprazzi dalle tapparelle creando dei bei giochi di
luce
sulle pareti e sul pavimento lucido.
Immersa nella penombra, cercò per l’ennesima
volta una spiegazione valida
per ciò che stava succedendo. Fu allora che ebbe come la
vaga l'impressione che
qualcuno si fosse intrufolato nella sua mente. Un altro effetto
collaterale
dello space lag, pensò. Si girò su un lato,
afferrò il cuscino e lo strinse a
sé. Da quella posizione poteva vedere il suo robot
domestico, Oliwar,
ricaricarsi in soggiorno. La lucina rossa sulla fronte, sotto la
pelle sintetica,
lampeggiava ritmicamente e indicava che la batteria era quasi carica.
Qualche
istante dopo la lucina rossa scomparve e, accompagnati da un bip, due
occhi
luminosi come quelli di un gatto si schiusero lentamente.
«Oliwar,
vieni qui, per favore.» Le piaceva usare un tono educato
anche con il suo
robot, nonostante a lui non importasse granché di
come la gente lo
interpellava. Udito e registrato il comando, Oliwar si mosse adagio con
passo
elegante verso la camera e poi si sedette a terra a gambe incrociate
sul
tappeto ai piedi del letto in modo da poter sostenere lo sguardo di
Dylia.
«Secondo
te è possibile che un agente della
E-Security
lasci deliberatamente scappare un criminale?»
«È possibile», fu la risposta concisa
del robot.
«E
perché dovrebbe farlo?»
Il
robot ci mise qualche secondo per elaborare una conclusione, poi
sentenziò: «Dati
insufficienti. La mente umana è troppo complessa per poter
fornire una soluzione
specifica.»
Dylia
si girò a pancia in su, in modo da trovarsi a guardare
Oliwar
sottosopra. Per niente
soddisfatta, decise d'insistere. «Bene, allora
escludi ogni tipo di fattore
corruttivo e dimmi per quale motivo un agente della E-Security dovrebbe
agire
così.»
«Esclusione
in corso…» Alcune lucine bianche si accesero e si
spensero a intermittenza sulla
fronte del robot. «Le risposte restano ancora molteplici.
Ecco le principali:
insicurezza, pietà, coinvolgimento sentimentale di tipo
primario, disturbo
della personalità.»
«Grazie
Oliwar.» Trasse un profondo sospiro e continuò ad
osservare il suo robot
domestico seduto sul tappeto. Nel silenzio della notte era piacevole
avere la
certezza di non essere soli. Era come stare in equilibrio su un filo
teso nel
vuoto con uno zaino paracadute sulle spalle.
«Sali sul letto», gli ordinò. Oliwar si
alzò senza cambiare
espressione e si stese adagio accanto a lei.
Shulik non aveva un posto dove andare in quella città piena
di sbirri. Era
arrivato fin lì seguendo Dylia. Normalmente passava le notti
nel quartiere
periferico, nel vecchio studio abbandonato di uno scienziato.
Lì si era creato
il suo angolo di paradiso e per ogni spostamento usava una vecchia
navetta
privata non registrata: il frutto del suo primo furto con hackeraggio
della
storia.
Era stato abbastanza semplice quella volta; con il tempo, i sistemi di
sicurezza erano stati migliorati e adesso un povero criminale doveva
ingegnarsi
per sopravvivere.
Attraversando
la piazza centrale della città, pensò che si
sarebbe sentito sicuramente meglio
dopo aver creato un po’ caos con un'esplosione epocale.
L’angoscia della gente per
qualche motivo gli trasmetteva sensazioni positive, lo faceva sentire
speciale.
Più i
notiziari parlavano di lui, più provava appagamento;
inoltre la
consapevolezza di aver
rovinato la vita a qualcuno alleviava le sue sofferenze.
Trascinandosi
lungo i
marciapiedi affollati di Street Towers non tentò nemmeno di
schivare il fiume
di gente che veniva dalla direzione opposta: cittadini, uomini
d’affari,
turisti, ambasciatori, tutti sembravano avere una meta
d’arrivo e uno scopo
buono e giusto da portare a termine entro la mezzanotte, ma lui no. Lui
non
aveva uno scopo, non aveva nulla di buono da offrire se non il suo odio
per
l’umanità. Attraversò la strada senza
guardare, costringendo alcune auto ad
inchiodare bruscamente e non contento maledisse gli autisti con un
gesto.
Dall’altra parte della strada c’era un parco, uno
dei rari parchi con piante
vere mantenute in vita grazie ad una cupola di energia che di giorno
impediva
alle radiazioni solari dannose di bruciarne le foglie. Entrò
in quel mondo
primordiale e si sedette su una panchina abbandonandosi completamente
sullo
schienale; poi infilò una mano in tasca ed estrasse un
rettangolino piatto e
scuro, esercitò una leggera pressione su un bordo e tutte le
facce del
rettangolo furono pervase da innumerevoli scritte luminose. Quella era
la sua
bacchetta magica. Con quel gioiellino ottenuto nel mercato nero poteva
entrare
in qualsiasi sistema informatico, poteva manomettere il circuito che
manteneva
stabili le funzioni della cupola di energia modificando a piacere il
logaritmo
principale: alle prime luci dell’alba il giardino pubblico
sarebbe diventato un
inferno di fuoco. Era un’ottima alternativa ai classici
ordigni esplosivi che
doveva fabbricare con le sue mani, eppure l’idea lo
entusiasmava solo fino
ad un certo punto, la sua mente era ancora disturbata dal comportamento
di
Dylia.
Ti propongo una sfida,
tu e io.
Al diavolo quel
dannato sbirro! Avrebbe potuto
lasciarlo legato al letto mentre chiedeva l'intervento dei suoi
colleghi. Se
l'avesse fatto, a quest'ora non sarebbe stato in quel parco, ma in una
stanza
buia in attesa di una condanna a morte già scritta.
L’idea che il mondo potesse
continuare indisturbato anche senza di lui, gli
provocò un moto di
ribellione. Si sollevò di scatto dallo schienale ringhiando
qualcosa contro un
passante che accelerò il passato spaventato. Si sentiva
fuori dal sistema, un
ingranaggio rotto che non serviva a niente. Una smorfia crudele
affiorò sul
quel volto che sfiorava la perfezione; il pensiero di portare il caos
nella calma immacolata
di quella schifosa città riapparse più vivido
nella sua mente.
Senza coinvolgere
più nessun innocente. Ci
stai?
La
verità - pensò - è che nessuno
è innocente in questo mondo.
Portò il piccolo
rettangolo luminoso vicino alle labbra e registrò il
messaggio, così come
l’aveva pensato, dopodiché digitò
qualcosa e attese con lo sguardo verso il
cielo, osservando il bagliore lontano delle stelle rese opache dalla
cupola.
Dylia sussultò nel letto dove si era appena assopita accanto
al suo robot
quando avvertì l’inaspettato rumore
dell’impianto audio dell’appartamento
attivarsi.
Si
alzò bruscamente e si guardò intorno un
po’ frastornata. Ci mise qualche
secondo per capire da dove provenisse quel fruscio metallico.
«Oliwar! Ricevi
qualche segnale anomalo in entrata?»
Il robot, che fino ad allora era rimasto sempre vigile, rispose con
tono piatto
restando steso nella sua posizione. «Si tratta di un segnale
pirata. L’ho
bloccato prima che fosse trasmesso in vivavoce dai diffusori
acustici.»
«Fammelo sentire!», ordinò.
Oliwar
allora si alzò e usando lo stesso tono di voce di Shulik
ripeté quelle parole:
«La verità è che nessuno è
innocente in questo mondo.»
1-
Space
lag: jet lag che si sperimenta dopo lunghi viaggi nello
spazio.
* Oliwar, il nome del robot domestico di Dylia,
è ispirato al nome di R. Daneel
Olivaw, robot che affianca il protagonista di Abissi d'Acciaio
di I. Asimov, il
mio libro di fantascienza preferito.
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