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Autore: Monique Namie    18/08/2015    8 recensioni
Dylia fa parte del dipartimento di trasposizione della E-Security, un ente pubblico che si occupa della sicurezza dei cittadini residenti sui pianeti di un nuovo sistema solare colonizzato dall'umanità. Un giorno le viene affidata una missione in solitaria per scongiurare un attentato a una importante stazione spaziale, ma qualcosa non va come previsto e da allora la sua vita prende una piega del tutto inaspettata...
Una storia d'amore e d'odio, di persone guidate dalla bontà e di altre accecate dal desiderio di vedetta. Una storia disseminata di ostacoli in apparenza insormontabili e intrighi legati allo spionaggio che portano i protagonisti del racconto a fare i conti con situazioni complicate, in cui i concetti stessi di "bene" e "male" tendono a confondersi.
{Il primo capitolo ha partecipato a "Boom! Il contest che vi lascerà con il fiato sospeso!" indetto sul forum di EFP}
Genere: Avventura, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Incertezze


Cap.2 -Ingranaggi



Di ritorno alla centrale della E-Security, Dylia si fiondò nell’ufficio del capo com’era abituata a fare quando rientrava da una missione, solo che questa volta aveva affrontato in solitaria un viaggio di quattordici ore a velocità prossime a quella della luce e, per colpa dello space lag1, si sentiva stranamente euforica. Persino quell’angolo grigio e sporco del quartiere che ospitava l’edificio della base operativa le appariva più pittoresco e confortevole.
«Non c’era nessun ordigno da disinnescare alla stazione Damon. Falso allarme. Per i dettagli ho lasciato una copia della registrazione del mio rapporto in archivio.» Esordì così, e dopo poggiò una delle due valigie con la strumentazione fusa sulla scrivania immacolata del capo; solo allora lui si animò e la guardò in faccia.
«Cos’è questo schifo? Toglilo subito di qui!»
La ragazza si riprese la valigia trattenendo una risata. «Mi serviranno nuovi strumenti per la prossima missione.»
«Che ne è stato di quelli nuovi che ti sono stati affidati l’ultima volta?»
«Sono questi. Si è abbattuta una tempesta di fulmini sulla città», spiegò.
Il capo sbuffò rassegnato e girò distrattamente lo sguardo verso la finestra. Odiava dover mandare i suoi agenti nelle metropoli di scambio. Le stazioni (con tutto il loro metallo accatastato composto da navette, binari, cavi ed elevatori) spesso fungevano da vero e proprio parafulmine. Bastava che un piccolo fronte nuvoloso si accumulasse in prossimità della zona e l’aria iniziava a caricarsi d’elettricità che puntualmente finiva per riversarsi sugli impianti delle città. Le tempeste di fulmini erano all’ordine del giorno e lui non avrebbe mai immaginato che a far saltare le apparecchiature fosse stata Dylia stessa per togliersi dai guai.
«Sai che siamo a corto di fondi. Prima passa dal nostro tecnico e prova un po’ a fargli aggiustare quella roba.»
Dylia annuì e uscì dall’ufficio.
Non era cambiato niente in lei. Aveva sempre il solito innato senso di giustizia che la spingeva a rispettare ogni regola; proprio per questo ancora non riusciva a capacitarsi di quello che aveva fatto, o meglio, quello che non aveva fatto per fermare Shulik. Era consapevole della gravità delle sue azioni, ma non riusciva preoccuparsene seriamente e per qualche strano motivo le veniva da ridere. Le reali intenzioni di Shulik, quando era entrato a farle visita nella camera d’albergo, restavano un mistero. Tormentarsi per cercare una spiegazione ora non sarebbe servito a nulla.
Lasciò le due valigie con gli attrezzi da aggiustare davanti alla porta del laboratorio del tecnico. Non aveva voglia di dare spiegazioni anche a lui, tanto era sicura che avrebbe capito e, se avesse potuto, non ci avrebbe messo molto a riparare i danni. Poi si diresse verso l’ascensore con l’intenzione di andarsene di lì, chiudersi in un bar e ordinare un frappè alla menta. Era già tanto che fosse entrata nel posto di lavoro durante il suo giorno libero per consegnare il rapporto, non aveva intenzione di trattenersi un minuto in più. Mentre aspettava che le porte dell’ascensore si aprissero, un suo collega di cui non ricordava il nome, la fermò: «Ehi Dylia, che ci fai qui? Non è la tua giornata libera oggi?» E senza attendere risposta continuò: «Qualche psicopatico si sta divertendo ad hackerare i computer dei tabelloni delle partenze a Damon. Ci vorrà tutta la giornata per ripristinare l’ordine.»
«Cosa significa?» La sua era una domanda stupida che non richiedeva necessariamente una risposta. Era bastato il nome “Damon” per farle scattare un campanello d'allarme in testa.
«Significa che qualche deficiente ha deciso che usare un dispositivo privato era troppo all’antica e s’è messo a spedire strani messaggi sui tabelloni della stazione.» Fece una pausa durante la quale sembrò ricordarsi di qualcosa d’importante. «Aspetta, ma tu arrivi proprio da quella stazione! Non hai notato nulla di anomalo?»
Dylia si sentì a disagio. Se l’artefice di quel caos era la persona a cui stava pensando, la colpa in parte era anche sua. Il pensiero di essere stata la causa di un malfunzionamento della società le diede una sensazione di piacevole vertigine.
«Joh chiama Dylia dal pianeta Terratre: non hai notato nulla di strano quando eri lì?»
La donna si scosse distolta improvvisamente dai pensieri. «Sì… cioè no. Insomma che cosa c’era scritto nei tabelloni?!», lo chiese senza riuscire a nascondere un sottile velo d'eccitazione nella voce.
Il collega la guardò perplesso. «Cose in apparenza senza senso. Dovresti chiedere a Paul: da ore sta cercando di risalire alla fonte dell’attacco.»
Non aveva idea di chi fosse Paul, così ringraziò il collega evitando di porre domande che l’avrebbero fatta sembrare una sprovveduta: era una frana con i nomi e quel Paul doveva essere uno nuovo. Richiamò per l’ennesima volta l’ascensore e le porte finalmente si aprirono. All’aperto il sole cominciava a farsi alto e accecante; indossò gli occhiali protettivi e s'incamminò verso quello che lei chiamava “il bar in cui fanno i miglior frappè alla menta del pianeta”; vi entrò e si sedette su uno dei divanetti verdi. Sullo schermo appeso a una delle pareti scorrevano le ultime notizie, tra cui quella dei disagi alla stazione Damon.
Dopo la scritta "solo tu e io" che era comparsa nei tabelloni della stazione e che era rimasta visibile per una decina di minuti, tutto era tornato a funzionare normalmente, così Dylia aveva potuto tornare a casa senza problemi. Non si aspettava di certo che dopo la sua partenza quel folle avesse continuato ad hackerare i computer con gli orari delle navette. A quale scopo poi? Farsi notare da lei? Provocarla?
Nel video che stavano mandando in quel momento in tv, registrato qualche ora dopo la sua partenza, si notava ancora la folla agitata, qualcuno che gridava cose incomprensibili, intere comitive di turisti sedute a terra nei pressi del deposito bagagli. Ad un certo punto qualcuno se la prese persino con il robot-reporter che stava riprendendo la scena, la telecamera venne danneggiata e lo schermo divenne improvvisamente nero.
«Che razza casino!», pensò a voce alta.
«Già!», commentò il barista. «Prendi qualcosa?»
Dylia si alzò e uscì dal bar senza rispondere; le era passata anche la voglia del frappè. I patti erano chiari, non doveva più essere coinvolto nessun cittadino innocente. Ma lui, Shulik, era un pericoloso criminale, aveva fatto saltare ordigni esplosivi in luoghi pubblici pieni di gente, come diavolo le era venuto in mente di credere alla sua parola?! I gradi d’onore che si era guadagnata alla E-Security non contavano più nulla. Avrebbe dovuto dimettersi; gli ingranaggi difettosi della città dovevano essere sostituiti e lei, in quel momento, si sentiva per la prima volta proprio come una di quelle ruote meccaniche che s'inceppano improvvisamente causando l’arresto di tutto il meccanismo. Eppure, sotto un certo punto di vista, trovava che quella situazione assurda fosse piacevole. Per la prima volta nella sua vita stava agendo fuori dagli schemi e questo la faceva sentire diversa.

La sera, dopo aver spiluccato qualcosa per cena, si stese sul letto del suo appartamento senza spostare le lenzuola e senza nemmeno spogliarsi. Rimase per qualche minuto con lo sguardo perso nel soffitto a riflettere, le luci erano spente: l’unico bagliore proveniva dai lampioni ad energia solare sulla strada e filtrava a sprazzi dalle tapparelle creando dei bei giochi di luce sulle pareti e sul pavimento lucido.
Immersa nella penombra, cercò per l’ennesima volta una spiegazione valida per ciò che stava succedendo. Fu allora che ebbe come la vaga l'impressione che qualcuno si fosse intrufolato nella sua mente. Un altro effetto collaterale dello space lag, pensò. Si girò su un lato, afferrò il cuscino e lo strinse a sé. Da quella posizione poteva vedere il suo robot domestico, Oliwar, ricaricarsi in soggiorno. La lucina rossa sulla fronte, sotto la pelle sintetica, lampeggiava ritmicamente e indicava che la batteria era quasi carica. Qualche istante dopo la lucina rossa scomparve e, accompagnati da un bip, due occhi luminosi come quelli di un gatto si schiusero lentamente.
«Oliwar, vieni qui, per favore.» Le piaceva usare un tono educato anche con il suo robot, nonostante a lui non importasse granché di come la gente lo interpellava. Udito e registrato il comando, Oliwar si mosse adagio con passo elegante verso la camera e poi si sedette a terra a gambe incrociate sul tappeto ai piedi del letto in modo da poter sostenere lo sguardo di Dylia.
«Secondo te è possibile che un agente della E-Security lasci deliberatamente scappare un criminale?»
«È possibile», fu la risposta concisa del robot.
«E perché dovrebbe farlo?»
Il robot ci mise qualche secondo per elaborare una conclusione, poi sentenziò: «Dati insufficienti. La mente umana è troppo complessa per poter fornire una soluzione specifica.»
Dylia si girò a pancia in su, in modo da trovarsi a guardare Oliwar sottosopra. Per niente soddisfatta, decise d'insistere. «Bene, allora escludi ogni tipo di fattore corruttivo e dimmi per quale motivo un agente della E-Security dovrebbe agire così.»
«Esclusione in corso…» Alcune lucine bianche si accesero e si spensero a intermittenza sulla fronte del robot. «Le risposte restano ancora molteplici. Ecco le principali: insicurezza, pietà, coinvolgimento sentimentale di tipo primario, disturbo della personalità.»
«Grazie Oliwar.» Trasse un profondo sospiro e continuò ad osservare il suo robot domestico seduto sul tappeto. Nel silenzio della notte era piacevole avere la certezza di non essere soli. Era come stare in equilibrio su un filo teso nel vuoto con uno zaino paracadute sulle spalle.
«Sali sul letto», gli ordinò. Oliwar si alzò senza cambiare espressione e si stese adagio accanto a lei.


Shulik non aveva un posto dove andare in quella città piena di sbirri. Era arrivato fin lì seguendo Dylia. Normalmente passava le notti nel quartiere periferico, nel vecchio studio abbandonato di uno scienziato. Lì si era creato il suo angolo di paradiso e per ogni spostamento usava una vecchia navetta privata non registrata: il frutto del suo primo furto con hackeraggio della storia. Era stato abbastanza semplice quella volta; con il tempo, i sistemi di sicurezza erano stati migliorati e adesso un povero criminale doveva ingegnarsi per sopravvivere.
Attraversando la piazza centrale della città, pensò che si sarebbe sentito sicuramente meglio dopo aver creato un po’ caos con un'esplosione epocale. L’angoscia della gente per qualche motivo gli trasmetteva sensazioni positive, lo faceva sentire speciale. Più i notiziari parlavano di lui, più provava appagamento; inoltre la consapevolezza di aver rovinato la vita a qualcuno alleviava le sue sofferenze.
Trascinandosi lungo i marciapiedi affollati di Street Towers non tentò nemmeno di schivare il fiume di gente che veniva dalla direzione opposta: cittadini, uomini d’affari, turisti, ambasciatori, tutti sembravano avere una meta d’arrivo e uno scopo buono e giusto da portare a termine entro la mezzanotte, ma lui no. Lui non aveva uno scopo, non aveva nulla di buono da offrire se non il suo odio per l’umanità. Attraversò la strada senza guardare, costringendo alcune auto ad inchiodare bruscamente e non contento maledisse gli autisti con un gesto. Dall’altra parte della strada c’era un parco, uno dei rari parchi con piante vere mantenute in vita grazie ad una cupola di energia che di giorno impediva alle radiazioni solari dannose di bruciarne le foglie. Entrò in quel mondo primordiale e si sedette su una panchina abbandonandosi completamente sullo schienale; poi infilò una mano in tasca ed estrasse un rettangolino piatto e scuro, esercitò una leggera pressione su un bordo e tutte le facce del rettangolo furono pervase da innumerevoli scritte luminose. Quella era la sua bacchetta magica. Con quel gioiellino ottenuto nel mercato nero poteva entrare in qualsiasi sistema informatico, poteva manomettere il circuito che manteneva stabili le funzioni della cupola di energia modificando a piacere il logaritmo principale: alle prime luci dell’alba il giardino pubblico sarebbe diventato un inferno di fuoco. Era un’ottima alternativa ai classici ordigni esplosivi che doveva fabbricare con le sue mani, eppure l’idea lo entusiasmava solo fino ad un certo punto, la sua mente era ancora disturbata dal comportamento di Dylia.
Ti propongo una sfida, tu e io.
Al diavolo quel dannato sbirro! Avrebbe potuto lasciarlo legato al letto mentre chiedeva l'intervento dei suoi colleghi. Se l'avesse fatto, a quest'ora non sarebbe stato in quel parco, ma in una stanza buia in attesa di una condanna a morte già scritta. L’idea che il mondo potesse continuare indisturbato anche senza di lui, gli provocò un moto di ribellione. Si sollevò di scatto dallo schienale ringhiando qualcosa contro un passante che accelerò il passato spaventato. Si sentiva fuori dal sistema, un ingranaggio rotto che non serviva a niente. Una smorfia crudele affiorò sul quel volto che sfiorava la perfezione; il pensiero di portare il caos nella calma immacolata di quella schifosa città riapparse più vivido nella sua mente.
Senza coinvolgere più nessun innocente. Ci stai?
La verità - pensò - è che nessuno è innocente in questo mondo.
Portò il piccolo rettangolo luminoso vicino alle labbra e registrò il messaggio, così come l’aveva pensato, dopodiché digitò qualcosa e attese con lo sguardo verso il cielo, osservando il bagliore lontano delle stelle rese opache dalla cupola.



Dylia sussultò nel letto dove si era appena assopita accanto al suo robot quando avvertì l’inaspettato rumore dell’impianto audio dell’appartamento attivarsi.
Si alzò bruscamente e si guardò intorno un po’ frastornata. Ci mise qualche secondo per capire da dove provenisse quel fruscio metallico. «Oliwar! Ricevi qualche segnale anomalo in entrata?»
Il robot, che fino ad allora era rimasto sempre vigile, rispose con tono piatto restando steso nella sua posizione. «Si tratta di un segnale pirata. L’ho bloccato prima che fosse trasmesso in vivavoce dai diffusori acustici.»
«Fammelo sentire!», ordinò.
Oliwar allora si alzò e usando lo stesso tono di voce di Shulik ripeté quelle parole: «La verità è che nessuno è innocente in questo mondo.»




Note autore:

1- Space lag: jet lag che si sperimenta dopo lunghi viaggi nello spazio.

* Oliwar, il nome del robot domestico di Dylia, è ispirato al nome di R. Daneel Olivaw, robot che affianca il protagonista di Abissi d'Acciaio di I. Asimov, il mio libro di fantascienza preferito.



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"Inverse Transposition" di Monique Namie
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