28
Il rapido precipitare
degli eventi
«Sei veramente incredibile.»
Matt alzò lo sguardo dal videogame, per
lanciare un'occhiata al compagno comparso dalla cucina, prima di
riportarlo sullo schermo.
Lo sentì sbuffare irritato e
avvicinarsi. Non era propenso a lasciar perdere qualunque cosa lo
infastidisse. Avvertì il suo sguardo insistente, capace di
distrarlo dal livello di Call
of Duty.
«Cosa?»
«Puoi almeno mettere in pausa e
guardarmi?»
Matt si morse il labbro, pigiando il tasto del
controller con furia, sperando di non morire e dover ripetere la
missione per la terza volta. «Uhm, no.»
Kelly emise un verso irritato e gli parò
la vista, costringendolo a lasciare andare il controller con un gesto
irritato.
«Perfetto! Se non volevi che superassi il
tuo record avresti dovuto dirlo prima!»
In sottofondo sentì le esplosioni e la
voce strozzata del suo personaggio, mentre le luci incorniciavano la
figura tesa di Kelly. Lo guardò e capì che
qualunque fosse il problema, doveva essere qualcosa di serio.
«Tua madre, Matt. Mi prendi in giro?
Pensavo fosse una di quelle cose di cui una coppia parla.»
Matt era confuso. Si alzò per
fronteggiare il compagno.
«Christie mi ha chiamata» disse
Kelly, divincolandosi dalla sua presa. «Non te lo aspettavi,
eh? Ci siamo scambiati il numero in ospedale. Mi ha supplicato di farti
ragionare, perché a quanto pare non riesce a capire
perché proprio tu hai detto a vostra madre di non venire
all'inaugurazione. Sue parole: deve
prendere una diavolo di posizione.»
Matt si accigliò, non certo di voler
davvero affrontare quel discorso. Era vero: quando la madre lo aveva
chiamato per ringraziarlo dell'invito, lui era riuscito a convincerla a
non venire. Non ne andava fiero e sapeva di averla ferita, ma sapeva
anche che era per il meglio.
Non poteva nasondere di sentirsi irritato e a
disagio a parlare di questo proprio con Kelly.
Decise che alleviare la tensione fosse la cosa
migliore. Questo prima che Kelly portasse la discussione a un livello
ben diverso.
«La cosa peggiore è che io so
perché non la vuoi al Molly's» sputò
fuori il moro, guardandolo duramente. «Com'è che
mi hai detto un po' di tempo fa? Non
so mai cosa potrebbe dire o fare?»
Una seconda realizzazione colpì Matt,
facendolo sentire offeso oltre ogni previsione. «Scherzi?
Vuoi davvero ritorcermi questo contro?»
«Perché no? Non sei tu che ami
così tanto ritorcere contro gli altri le loro
parole?»
«Quando lo avrei fatto?»
Kelly aprì la bocca per parlare, e Matt
seppe che se nel suo discorso fosse uscito il nome di Darden, le cose
sarebbero degenerate velocemente. Sentiva all'idea già la
rabbia montargli. Kelly, tuttavia, non disse nulla di ciò
che Matt temeva.
Dopo un attimo di teso silenzio, Kelly scosse la
testa e mormorò sconfitto: «Credevo avessimo
superato questo, ma a quanto pare non riesci davvero ad esporti con
me.»
«Non è
così» insistette Matt. Prese un grosso respiro,
portandosi le mani al volto per cercare di lavar via la frustrazione.
Non aveva scelta, doveva dire tutto. «Senti, non è
perché ho paura che dica a tutti che stiamo
insieme.»
Odiava la propria debolezza quando c'era
di mezzo la madre, ma non riusciva davvero ad affrontare l'argomento.
Non riusciva ancora ad avere quel pezzo della sua vita attorno, non in
questa sua nuova vita con Kelly e la Caserma e ciò che aveva
faticosamente costruito negli anni. Vedere sua madre era ogni volta
vedere il fantasma di un passato che non avrebbe dovuto essere ancora
presente. Anzi, peggio, i
fantasmi, perché erano tanti, troppi: suo
padre, Edward, quel maledetto giorno in cui aveva scordato le chiavi
sul tavolino. Per anni si era chiesto se le avesse davvero dimenticate,
o se i discorsi deliranti di sua madre lo avessero influenzato. Se non
avesse origliato quel litigio al telefono, nel soggiorno di suo padre,
avrebbe dimenticato le chiavi? Se non avesse saputo che suo padre
teneva sempre la pistola carica a portata di mano, sarebbe stato
così negligente?
Aveva ormai capito che queste domande
erano inutili, ma acquistavano un peso enorme quando gli occhi di sua
madre lo guardavano dentro, come anni prima.
«Tu non la conosci, Kelly. Ci
sono cose che non sai...»
La testa di Kelly scattò come
colpita da una frustata.
«Questo è il dannato
punto, Matt» ringhiò, puntandogli un dito contro
in un'accusa che Matt sentiva pienamente meritata, ma non voleva
davvero sopportare. «Tu conosci mio padre e sai tutto di me,
o almeno le cose importanti. Io di te non so niente!»
«Di che diavolo parli? Tu hai sempre
saputo tutto quello che è successo.»
Kelly sbuffò una risata denigratoria,
incrociando le braccia al petto e sollevando un sopracciglio.
«Sul serio? Come della notte in cui tuo
padre morì? Nessuno sa nulla di quella notte,
perché tu non vuoi parlarne.»
«Smettila» sibilò
Matt, ora sull'orlo della rabbia.
Si voltò, deciso a chiudere
lì il discorso.
Kelly era di tutt'altro parere, e lo
palesò afferrandogli saldamente il braccio e voltandolo con
forza.
Matt poggiò un palmo sul suo petto,
spingendo per liberarsi dalla presa. «Non c'è
nessun motivo di parlarne, okay?»
«Certo, perché finora non
parlare delle cose ha funzionato così bene!»
Uno strano pulsare annebbiò la vista e
la mente di Matt. Quando riuscì a mettere a fuoco, si
ritrovò con il collo della t-shirt di Kelly stretto in un
pugno e l'altro sospeso sul suo volto. Lo sguardo del compagno non
tradiva la sorpresa e lo sgomento, ma era rigido, duro, quasi sfidante.
L'ondata di adrenalina defluì dal corpo del biondo,
drenandolo completamente quando realizzò cosa stava per
fare. Lasciò andare il compagno e scosse la testa, prima di
massaggiarsi le orbite con le dita.
«Scusa...non volevo colpirti.»
«Invece volevi farlo» disse la
voce di Kelly, nella quale non c'era rabbia, ma resa e una strana orma
di dolcezza.
Matt allontanò le mani dagli occhi e lo
guardò, riconoscendo in lui la stessa debolezza che ora lo
assaliva.
«Senti» cominciò il
moro, quindi sospirò e guardò altrove.
«Forse ho esagerato, okay? Ma...Matt, io voglio
solo-»
«Essere parte della mia vita?»
chiese il biondo, sorridendo debolmente.
Kelly lo imitò.
«Già, qualcosa del
genere.»
«Ho bisogno di tempo, Kel. Lo
sai...»
Le braccia intorno al suo busto lo
presero alla sprovvista. Sussultò, prima di sentire quel
familiare calore invaderlo. Matt strinse le proprie braccia intorno
alla vita di Kelly, poggiando la fronte nell'incavo del suo collo. Come
fossero passati dai pugni a questo non riusciva a realizzarlo. Erano
questo, un ossimoro che funziona, qualcosa che sa rompersi e
ricostruirsi. C'era qualcosa di così primitivamente
splendido in ciò che sentì di esserne sommerso. I
suoi genitori litigavano spesso e mai l'amore vinceva, ma lui era
cresciuto convinto che esso potesse esistere e trionfare. E ora eccolo,
al profumo di docciaschiuma e sigaro, con la barba tra i suoi capelli e
muscoli forti contro i propri.
Kelly liberò una mano per
afferrargli il mento e spingerlo a guardarlo.
«Il discorso non è
chiuso, okay?»
Matt avrebbe voluto protestare, ma il suono di un
cellulare lo bloccò. Scioltosi velocemente dall'abbraccio,
Kelly recuperò il dispositivo e rispose, schiarendosi prima
la voce. Quel suo modo di ricomporre l'immagine dura del Tenente
Severide, ogni qual volta qualcosa di esterno lo portava a una profonda
autoconsapevolezza, non mancava di far sorridere Matt.
«Hey-» Fece una
smorfia, allontanando leggermente il telefono dall'orecchio.
Guardò Matt, accigliandosi. «Sì,
è qui con me... cosa?... Shay, rallenta, non capisco
niente...Okay, okay. Ti aspettiamo qui.»
«Che succede?» chiese
Matt, appena il compagno ebbe riposto il cellulare con uno sguardo
pensieroso.
«Shay dice che un ragazzino
è venuto a cercarti in Caserma. Non è che hai un
figlio di cui non sai nulla?»
Matt si congelò, prima di
capire che Kelly stava scherzando. Afferrò un cuscino dal
divano e glielo lanciò contro.
«Dovresti essere tu a
preoccuparti di queste cose.»
Severide era da sempre convinto di una cosa: ci
sono memorie che possono trasportare, senza alcuna articolazione,
più emozioni che libri interi di parole. A questa
consapevolezza si univa quella che uno sguardo, soprattutto un
particolare paio d'occhi, potesse realmente scavarti dentro. Non era
semplice da descrivere, ma era una sensazione inafferrabile eppure
radicata fin nelle ossa, come gelida nebbia di una frigida mattina
d'autunno.
Aprendo la porta di casa, il sorriso
morì sulle sue labbra e sentì chiaramente di
essere sbiancato in volto. A corto di parole, si fece da parte,
sentendo sui propri tratti gli occhi curiosi di Matt.
Eppure, uniti alle parole vuote di Shay, questi
erano solo dettagli sullo sfondo: il punto focale erano due occhi neri
su un volto troppo giovane per tale silenzio. Occhi che lo avevano
fissato un secondo, prima di spostarsi altrove, come un sole che
occhieggi brevemente dalle nuvole, lasciando sulla pelle una strana
sensazione di buio.
«Hey, ciao» disse Matt con voce
calma, quella che utilizzava per i bambini.
Kelly, ripresosi dallo shock, lo guardò
con quella sorta di piacevole invidia nei suoi confronti. Matt sapeva
davvero farci con i bambini. Il pensiero era legato ad altri che non
voleva davvero affrontare, quindi si riscosse ancora e
guardò Felipe entrare in casa seguito da Shay.
Richiuse la porta, poggiandovi le spalle e sperando
di confondersi per un minuto con essa. Aveva bisogno di solo un minuto
e avrebbe raccolto i pensieri e... fatto cosa? Non aveva idea di cosa
dire o fare.
«Io sono Matt»
continuò il biondo, facendo segno al ragazzo di sedersi.
Lui ubbidì, poggiando i palmi aperti
delle mani sulle ginocchia sporgenti. Matt lo fissò
interrogativo, quindi alzò lo sguardo di domanda su Shay.
Lei fece spallucce e mormorò:
«Non ha detto una parola, mi ha solo scritto
questo.»
Matt prese il foglio e aggrottò le
sopracciglia, confuso.
«Hey, amico»
provò ancora, sedendosi sulla poltrona, ma in modo da
lasciare al ragazzo il suo spazio. «Capisci quello che dico?
Come ti chiami?»
«Felipe»
sputò fuori Kelly, staccandosi dalla porta.
Il ragazzo alzò su di lui gli occhi
cerchiati dalle lunga ciglia, e annuì.
Kelly potè vedere sul volto del compagno
il momento esatto in cui quel nome venne collegato alla
realtà. Matt saettò lo sguardo tra Kelly e il
ragazzo, il foglio di carta stretto in un pugno. Poi i suoi tratti si
rilassarono all'improvviso e lui si alzò con calma,
approcciando Shay, rimasta in piedi e confusa.
«Grazie per averlo portato qui,
Shay» disse con un sorriso affabile.
«Se mi diceste cosa succede...»
mormorò lei, squadrandoli. «So che mi nascondete
qualcosa.»
«Non essere paranoica»
sbuffò Matt, senza mai perdere il sorriso. «Felipe
è un mio piccolo vecchio amico, e non gli piace tanto la
polizia. Sai com'è...»
La bionda fissò a lungo il vigile,
quindi roteò gli occhi e si diresse alla porta.
«Dowson mi ammazzerà e io ammazzerò te,
Casey, per avermi fatto perdere tempo» disse prima di uscire,
senza curarsi di chiudere piano la porta.
Appena il paramedico fu fuori portata
d'orecchio, i suoi passi pesanti lungo il corridoio del condominio, i
lineamenti di Matt tornarono duri.
Kelly gli afferrò la manica
della maglia e lo voltò, bisbigliando: «Che hai
intenzione di fare?» Accennò con la testa al
ragazzo, ancora seduto sul divano.
Matt guardò sopra la propria spalla, poi
sospirò e si passò una mano sul volto.
«Sapere cosa vuole da me,
immagino.»
«Matt...» sibilò
Kelly. «La situazione non mi piace.»
I muscoli del braccio del biondo si irrigidirono
sotto le sue dita. «Bhe, non l'ho creata io, la situazione»
disse a denti stretti, prima di divincolarsi.
«Felipe?»
Il ragazzo alzò lo sguardo e lo
fissò con occhi calmi e allo stesso tempo vivi. Era come se
una strana quiete attendesse sul fondo di quel nero, come un cane
accucciato che aspetti la fine della tempesta e il ritorno del padrone
dal mare.
«Tu mi capisci, vero?» chiese
Matt, sedendosi questa volta al lato opposto del divano.
Con suo sollievo, Felipe non si scostò,
ma seguì con lo sguardo Kelly sedersi sul bordo della
poltrona adiacente. Annuì e tornò a guardare Matt.
«Bene. Puoi dirmi perché sei
qui?»
Lui vagò con lo sguardo nel soggiorno e
Kelly capì in un attimo. Si alzò e
aprì uno dei cassetti del mobile della TV, estraendo un
foglio di carta stropicciato e una penna.
Li poggiò sul tavolino e
guardò Felipe: «Puoi scrivere, se vuoi.»
Il ragazzo sembrò accennare un sorriso,
l'angolo delle labbra appena sollevato e una piccola fossetta sulla
guancia. Kelly pensò che Felipe dovesse avere un sorriso
sincero e caldo, ma si ritrovò a chiedersi da quanto tempo
non lo mostrasse.
Prese la penna nella mano destra e
cominciò a scrivere velocemente.
Quando finì, voltò il foglio
verso Matt.
Il biondo lesse in fretta, ma dovette
rileggere per comprendere davvero, preso com'era dall'agitazione e
dalla sensazione che, qualunque cosa contenesse, quel foglio dovesse
essere di estrema importanza.
«Cristo...»
mormorò alla fine, appena un'esalazione.
Kelly sentì ogni muscolo
irrigidirsi, come pronto ad reagire.
«Cosa? Che dice?»
Matt sollevò lo sguardo dal
foglio e lo rivolse a Kelly.
«L'indirizzo dei
Messer.»
Prima che il biondo potesse aggiungere
altro, il compagno aveva afferrato la giacca poggiata su una sedia. La
indossò di fretta e recuperò le chiavi dell'auto.
Matt reagì in un istante, afferrandogli la manica e
strattonandolo perché potesse guardarlo in volto. La ferrea
determinazione che incontrò gli inviò una scarica
sinistra lungo la schiena. Per qualche strano motivo,
avvertì l'addome avere uno spasmo ed essere percorso da
tanti piccoli aghi, lì dove restava la lunga cicatrice,
persistente ricordo degli eventi che li avevano portati lì.
«Che hai intenzione di fare,
Kelly?» chiese in un tono di sfida che sorprese se stesso.
«Tu cosa credi, Matt?» rispose
a tono il moro, guardandolo duramente. «Hai idea di quello
che ho passato per ottenere quell'indirizzo? Ora dovrei sedermi sul mio
culo e fare cosa?»
«Voight-»
Kelly sbuffò una risata di
scherno.
«Non provarci, Matt.»
L'elettricità che correva tra
i loro corpi, congiunti flebilmente lì dove le dita di Matt
erano serrate intorno alla manica della giacca di Kelly, fu interrotta
bruscamente da un'ombra all'angolo del loro campo visivo. Matt
lasciò andare il compagno e guardò Felipe. Il
ragazzo tendeva il palmo della mano in alto. In un attimo
voltò la mano destra in modo da mostrare le nocche e la
abbatté sul pamo aperto di quella sinistra.
Ripeté il gesto tre volte prima che Matt capisse.
«Ci sta dicendo di smetterla»
mormorò, sentendosi stranamente in colpa.
Kelly sollevò le sopracciglia
scetticamente e Matt roteò gli occhi infastidito.
«Ricordi il corso di ASL? Qualcuno l'ha
davvero seguito, al contrario di te.»
La risposta del moro fu tagliata dal suono ripetuto
della mano di Felipe contro l'altra.
«Okay» esalò Matt,
alzando le mani in segno di resa. «Okay, ho capito.»
Felipe sollevò le labbra in un accenno
di sorriso, quindi portò la mano destra all'altezza del
volto e la mosse in fuori, chiudendo le dita.
«No, non andiamo da nessuna
parte» disse Matt risolutamente.
Il cipiglio sul volto del ragazzo lo fece
assomigliare per un attimo al ragazzino che sarebbe dovuto essere.
Puntò verso se stesso, quindi
portò gli indici in avanti.
Matt guardò Kelly, che li osservava
confuso.
«Vuole andare lui, se non andiamo
noi» spiegò con un sospiro, prima di passarsi una
mano sul volto.
Si sentiva in trappola. Sapeva che Felipe
aveva rischiato molto per avvertirli, e che era potenzialmente ancora
in pericolo. Una parte di se stesso voleva lasciarsi andare alla
tentazione di risolvere la questione come aveva desiderato dal primo
giorno: a mani nude. La coscienza e quel vago senso di giustizia che
aveva cercato di rafforzare per superare la rabbia e la sete di
vendetta, tutavia, gli impedivano di prendere lui stesso le chiavi
dell'auto e guidare il più velocemente possibile verso i
Messer.
Prese un grosso respiro, chiudendo gli
occhi. Quando li riaprì, la mano di Kelly era sulla sua
spalla. In una frazione di secondo, quella a lui necessaria per
riprendere il controllo, sembrava essersi formata una muta alleanza tra
il suo compagno e Felipe. Entrambi lo guardavano carichi di aspettativa.
Kelly gli afferrò anche l'altra spalla,
guardandolo negli occhi fino a bruciargli la mente e appesantirgli il
petto.
«Matt» disse il moro con voce
roca. «Dobbiamo farlo, e lo faremo. Fidati di me.»
Non poteva non farlo. Non gli accorse che un
secondo per ritrovarsi ad annuire, sentendo le dita serrarsi sulle sue
spalle. Quindi guardò Felipe e scosse la testa.
«Tu non puoi venire con
noi» disse fermamente, guadagnandosi un altro cipiglio e due
braccia esili strette al petto. «Ascolta»
continuò con calma. «Non dimenticherò
mai quello che hai fatto, ma hai bisogno di essere al sicuro. A me
serve che tu lo sia, lo capisci?»
Il ragazzo spalancò i grandi occhi neri,
che si riempirono di paura. Agitatamente, mosse le mani in aria. Matt
gli fece segno di rallentare e lui sospirò e
ripeté i gesti con più calma, ma mani ancora
tremanti.
«No, non chiamerò la
polizia» disse Matt per rassicurarlo.
Non
ora, pensò, ma non lo disse. Felipe avrebbe
capito a tempo debito che era per il suo bene.
«Possiamo portarlo da Sam»
disse Kelly. «Non lavora nei servizi sociali?»
«E credi che Shay non farà
domande?»
«Si tratta di poco tempo.»
Matt cercò di non rabrividere al
concetto insito in quella frase, di non pensare a cosa sarebbe potuto
succedere quando avrebbero raggiunto i Messer. Non poteva pensarci, se
voleva arrivare fino in fondo.
«Lo lasciamo lì con una scusa
e lo passiamo a prendere...dopo» mormorò Kelly.
Matt ci pensò su, quindi si rivolse a
Felipe. «Va bene per te? Sam è nostra amica,
starai bene.»
Felipe, chiaramente non del tutto
soddisfatto, ma abbastanza furbo da capire di non avere
scelta, annuì. Poi mosse ancora le mani, con un'espressione
difensiva sul volto e le guance lievemente imporporate.
Matt sorrise e annuì. «Certo
che tornerò a prenderti. Te lo prometto.»
Sperò non diventasse una promessa
tradita.
Voight strinse i lembi della giacca, in un vago e
istintivo gesto di protezione contro il pungente vento che si era
alzato nell'aria umida. Guardò intorno a sé,
scrutando il parcheggio del café alla ricerca di possibili
indizi fuori posto. Era una deformazione professionale e personale, una
sorta di muta paranoia che lo spingeva immancabilmente a guardarsi le
spalle. Appurato che tutto fosse in ordine -due monovolume e un furgone
di una catena di pizza a consegna- scrocchiò i muscoli del
collo e si avviò all'entrata nel locale.
Individuò Tyrone velocemente,
poiché gli unici altri avventori erano una famiglia
chiassosa e un ragazzo in una stupida divisa a strisce rosse e gialle,
chino sul bancone a chiacchierare con un'avvenente cameriera. Li
oltrepassò in silenzio e lanciò uno sguardo a
Tyrone. L'uomo sembrava nervoso e non certo nella sua giornata migliore.
Voight ne prese nota e si sedette al
tavolo, prendendosi deliberatamente tutto il tempo possibile.
Se c'era una cosa in cui era
particolarmente abile era di certo tirare fili già ben tesi.
Richiamò l'attenzione della
cameriera, libera dal suo imbarazzato flirt con il ragazzo della pizza,
per ordinare un caffé nero e un piatto di uova e pancetta,
che non sentiva davvero d'aver bisogno di mangiare, ma certo avrebbe
fatto con quanta calma possibile.
Tyrone parlò non appena la
giovane si fu allontanata, sporgendosi sul tavolo con aria minacciosa.
«Uno dei miei è
scomparso, e sono sicuro che tu c'entri qualcosa.»
Voight sbuffò una risata e si
risistemò la giacca. Puntò i gomiti sul tavolo,
imitando la postura di Tyrone finché questi, leggermente
intimidito, reclinò appena le spalle indietro.
«Cosa te lo fa
pensare?»
«Sappiamo entrambi
che i Perez hanno fatto fuori Miguel» disse Tyrone abbassando
la voce. «Diciamo che so per certo che non hanno
preso-» L'uomo si fermò, mordendosi le labbra.
Voight sollevò le
sopracciglia, invitandolo a continuare. In quel momento la cameriera
tornò con un timido sorriso e le ordinazioni, svanendo
velocemente quando Tyrone le rivolse uno sguardo duro.
«Sai» disse il
detective, ritagliando pezzi di bacon. «Se non parli chiaro,
non ti puoi aspettare che lo faccia io. Fammi una domanda se vuoi una
risposta.»
Tyrone sembrò soppesare le sue
alternative. Voight fermò il coltello nel mezzo di una fetta
di bacon, colto da un'intuizione. Scrutò Tyrone in cerca di
indizi che la confermassero.
Non aveva visto mai il colombiano così
afflitto.
Ritornò al piatto e chiese
tranquillamente. «Da quanto è scomparso il
ragazzino?»
Tyrone sussultò visibilmente e
coprì la sua sorpresa abbattendo il palmo della mano sul
tavolo. A pochi tavoli di distanza, la mamma dei due bambini
esclamò un gridolino di sorpresa, poi bisbigliò
qualcosa al marito, facendo voltare i figli curiosi.
«Cosa diavolo sai di questa
storia?»
«So che tieni al ragazzo. Non
ti importa dei tuoi uomini, ma di questo sì. Altrimenti non
saresti mai venuto da me.» Voight ghignò,
nascondendo il tumulto nella sua mente all'idea che al ragazzo fosse
accaduto qualcosa. «Vuoi dirmi che hai un cuore
tenero?»
«Assurdità» sbuffò Tyrone.
«Nel mio paese non si butta via un regalo.»
Voight si irrigidì e
alzò lentamente lo sguardo. Vide negli occhi di Tyrone una
sorta di terrore, quello che giunge nell'accorgersi di aver lasciato
andare un dettaglio importante.
Come aveva potuto essere così ingenuo?
Proprio lui, Hank Voight, aveva creduto alla storiella di Tyrone che
trovava un ragazzino per strada. Tutti i suoi uomini, quelli che era
riuscito a far parlare, avevano giurato che Felipe fosse stato trovato
nei sobborghi di Chicago. Perché Tyrone avesse mentito ai
suoi stessi uomini non gli importava, non ora, non realmente. Tutto
ciò che riusciva a focalizzare era il desiderio di sbattere
la testa di Tyrone contro il tavolo.
«Okay»
esalò Voight, congiungendo le mani davanti a sé.
Lo indicò con un dito, dicendo a denti stretti:
«So esattamente di cosa stai parlando, e ora so che conosci
chi c'è dietro questa storia.»
«Di che diavolo
parli?»
«Container
47» disse Voight, osservando la reazione che si aspettava:
Tyrone si inumidì le labbra improvvisamente secche.
«I ragazzi scomparsi. Tu sai chi c'è dietro.
»
Tyrone guardò altrove, quindi
fece spallucce. «Può darsi.»
Questa volta fu Voight a battere entrambe
le mani sul tavolo. Al rumore di pelle contro legno e delle porcellane
tintinnanti, la famigliola si alzò e si sbrigò a
lasciare il locale.
«Se rivuoi Felipe, devi darmi i
nomi, i luoghi, tutto quello che sai. O giuro su mio figlio che questo
sarà l'ultimo pasto della tua vita.»
Dopo un lungo, teso silenzio, Tyrone
annuì.
↓
Note: Ciao ragazzi! Scusate
il ritardo, sono così piena di imprevisti e impegni da
riuscire a ritagliare davvero poco tempo per lavorare sulla storia.
Eppure non la abbandono, mai.
Piccola nota: ASL, ovvero
American Sign Language, è la lingua dei segni usata in
America. Poiché ogni Paese ha la sua lingua dei segni, la
ASL è diversa dalla LIS (Lingua Italiana dei
Segni).
Il prossimo aggiornamento
non giungerà prima di una settimana. Scusate per il disagio!
A presto,
Ax.
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