Così
impari, idiota.
Mi
guardo attorno, è pieno di studenti impazziti, mentre un
gruppo di ragazzini suona in maniera alquanto discutibili svariati
successi rock e metal. Preferirei non dover ascoltare questo scempio,
ma Tita mi ha nuovamente trascinato fuori, dopo che entrambe siamo
uscite dal bagno.
Un
po' ci siamo confidate, il che non accade spesso, almeno non per
quanto mi riguarda; Tita dice che non è così terribile
avere un ragazzo, che lei e Gabri stanno bene e lei non si sento
assolutamente obbligata a fare qualcosa che non vuole.
Okay,
ma questo cos'ha a che fare con me? Io non voglio mettermi con
Checco, non esiste. Quello è pazzo se crede di avermi
sconvolto così, e magari pensa pure che io sia
imbarazzatissima e non abbia più il coraggio di guardarlo o di
farmi vedere all'assemblea. Forse inizialmente ho reagito male,
d'impulso, sono andata un po' nel pallone, ma ora è tutto
passato.
Io
e Tita raggiungiamo nuovamente Gabri e Giaco, i quali stanno ridendo
come scimmie mentre commentano la band che sta suonando. In realtà
non capisco chi abbia avuto il coraggio di farli esibire, sono un
vero e proprio oltraggio all'udito e alla musica. Scommetto che
Checco non lo avrebbe mai permesso, almeno in quanto a gusti musicali
non posso dire nulla di male su di lui.
Io
sono contrariata da svariate situazioni che si stanno svolgendo
intorno a me: noto che Marianna sta nuovamente civettando con
Checco, anche se si trova ad una distanza di sicurezza accettabile;
la musica non è musica, il caldo è asfissiante e sembra
che tutto intorno sia troppo luminoso.
Forse
mi stavo abituando a quel cesso dall'odore pestilenziale, ma sento
che quest'assemblea sta diventando una tortura per me, e non riesco
neanche a capire perché.
Lungi
da me dare soddisfazioni a chicchessia, non esiste proprio, non è
da Albertina Annetta Bartolini.
Intanto
il gruppo se ne va al diavolo e si preparano altri studenti che, a
quanto pare, vogliono fare un live acustico. Io ho paura, ma ormai
non mi importa più.
Lancio
continuamente occhiate di fuoco a Checco e alla sua nuova amichetta e
mi domando perché lo sto facendo.
«Albertina!»
tuona una voce alla mia sinistra.
Sobbalzo.
Sono così impegnata ad incenerire chiunque rientri nel mio
campo visivo, che non mi sono minimamente accorta della presenza di
mia madre. Non so quando sia giunta, ma mi pare sia molto interessata
alla direzione su cui era puntato il mio sguardo fino a poco fa.
«Salve,
prof!» ammicca Giaco, ridendosela. Lo odio quando fa così,
sa quanto io detesti la mia genitrice. Perché tutti cercano di
tenersela buona? Ah, già, perché è l'insegnante
di matematica e, fattore non trascurabile, perché non la
conoscono come la sottoscritta.
«Mi
è giunta voce che tu e Checco vi siete baciati, finalmente!
Aspettavo con ansia questo momento, sapevo che prima o poi avresti
capito quanto è affascinante e giusto per te quel ragazzo!»
squittisce Maria Vittoria, ignorando completamente il saluto del mio
amico e i cenni di Tita e Gabri.
In
ogni caso, impallidisco. Sento che il sangue ha improvvismente
abbandonato la mia faccia, facendomi assomigliare sicuramente ad un
fantasma. Non ci posso credere, questo è troppo!
«Senti
un po', hai capito male...»
«Ed
è proprio per questo...» mi interrompe ancora mia madre,
senza degnarmi di attenzione. Sembra che stia parlando da sola e che
io sia solo una decorazione in mezzo al cortile della scuola.
«Mamma...»
ritento.
«Insomma,
lasciami dire! È proprio per questo che ora andrò ad
invitarlo a pranzo da noi, questa domenica. Voglio che si festeggi al
meglio, Albertina, in modo che anche tuo padre possa conoscere il tuo
uomo!» blatera.
E
io mi sento sprofondare, mi sento veramente male e non ce la faccio
più, vorrei poter essere autolesionista, depressa, stupida,
sorda... vorrei essere un sacco di cose e non esserne nessuna, eppure
devo stare qui a sentire le sue cazzate, con la voglia di afferrare
Giaco – che intanto sghignazza al mio fianco, divertito dalla
scena –, baciarlo e poi lanciarlo addosso a quella donna
orribile e gridare: «Ehi, stronza, lui è il mio uomo!».
Solo per avere la soddisfazione di vedere quel sorrisetto compiaciuto
dalle sue labbra, fingerei di amare follemente anche quel reietto di
Mauro.
Invece
sto zitta e la fisso basita, senza neanche aprire la bocca nel
tentativo di contraddirla.
«Anzi,
figlia mia, vieni con me: annunciamo insieme la bella notizia a
Checco!» grida, che sembra in preda al demonio e io vorrei
essere un esorcista per farla tacere.
«Crede
che sia la cosa giusta, prof?» cerca di intervenire Tita. Io
amo Tita, è veramente un'amica, la migliore che si possa
desiderare. Lei sa che le sue parole sono totalmente inutili, ma
comunque prova ad aiutarmi. È formidabile.
«Ma
certo! Su, Albertina, alzati da quella sedia e vieni con me!»
mi ordina, come se fosse un generale dell'esercito.
Giuro,
non lo so, proprio non lo so perché cazzo la sto assecondando,
eppure la sto fottutamente assecondando: mi sono alzata, ora sto
camminando appresso a lei come un cane bastonato, mentre qualcosa di
simile all'umiliazione mi brucia nel petto.
Checco,
non appena vede mia madre, si apre in un largo e luminoso sorriso, le
va subito incontro e proprio in quel momento un ragazzino lagnoso
comincia a cantare una canzone accompagnato dal suono di una chitarra
acustica scordatissima.
«Caro,
carissimo Checco! Sono così felice che tu e la mia disgraziata
figlia vi siate fidanzati, sono certa che sia la cosa più
sensata per lei. Sai, è molto ribelle, ingestibile, indomabile
quasi... ma tu, tu sei la persona giusta per lei!» esordisce la
pazza, schioccando due baci sulle guance del suo ex alunno.
L'espressione
di Checco cambia leggermente, nei suoi occhi passa un lampo di
confusione per un nanosecondo – me ne accorgo solo perché
non faccio che fissarlo, maledizione! Poi tutto torna noramle, lui
sembra completamente a suo agio e annuisce amabilmente mentre Maria
Vittoria non fa che blaterare cose che neanche sto ascoltando.
Vorrei
dirgli che mi dispiace, ma non è così: improvvisamente,
dentro me si sta facendo strada una sensazione familiare e
meravigliosa, sulla lingua sento quella punta di soddisfazione che
solo la vendetta sa farmi provare. Quando vinco una sfida è la
stessa cosa: mi sento sempre molto orgogliosa di me stessa,
l'autostima sale alle stelle e un senso di onnipotenza mi avvolge,
scaldandomi l'anima.
E
adesso ho capito, ho capito che per la prima volta nella mia vita
devo essere estremamente grata a mia madre. Lei, con la sua stupida
ingenuità e con il desiderio latente di vedermi accoppiata con
un maschio, mi ha procurato una meravigliosa occasione per prendermi
la mia bella vendetta nei confronti di quello stronzo di Checco.
Lei
non lo conosce veramente, non sa che lui mi ha baciato per poi dirmi
delle cose orribili, ma ora come ora non avrebbe potuto fare di
meglio. L'idiota è talmente idiota che non ha messo in conto
il fatto che mia madre insegna nel mio liceo, che sarebbe stata
presente all'assemblea e avrebbe saputo del nostro bacio. Ma, cosa
più grave, neanche lui conosce bene Maria Vittoria: non sa –
o meglio, non sapeva finora – che lei non aspettava altro, fin
dal primo giorno in cui lui è ricomparso, presentandosi a
scuola come tecnico del suono per l'assemblea musicale di fine anno.
Non
appena l'ha visto accanto a me, nella sua mente si è formata
la scabrosa trama di un harmony di quart'ordine ed ecco che, secondo
i suoi piani, finalmente il suo sogno a luci rosse si sta
realizzando.
Stupido
Checco, ben ti sta. Vieni pure a pranzo da noi, ora sei ufficialmente
il mio partner – e, soprattutto, agli occhi di mia madre, il
mio amante – e non puoi assolutamente tirarti indietro, perché
Maria Vittoria ti stima e tu non osi deluderla.
Quanto
è bella la vita, cazzo.
Così,
spinta dalla mia nuova convinzione, comincio ad appoggiare pienamente
le parole di mia madre, così quel cafone impara. Lui è
un altro che non sa con chi ha a che fare, alla fin fine Albertina
Annetta Bartolini vince sempre.
«Ma
sì, vieni a pranzo da noi Checco! A papà farà
piacere conoscerti» concordo con la pazza, sorridendogli con
rinnovata convinzione.
Così
impari, idiota.
«Ehm... sì,
perché no? Non c'è problema, mi farebbe piacere...»
farfuglia lui, messo alle strette.
Lo so, si sente
veramente braccato, specialmente da mia madre che è un
predatore nato, sa il fatto suo e in questo caso non potrei stimarla
più di così.
«Allora è
deciso! Ti aspettiamo domenica per mezzogiorno, ci conto!»
pigola la scellerata, baciandolo nuovamente su entrambe le guance.
Poi accampa una scusa – scommetterei entrambi i polmoni che lo
sta facendo per lasciarci soli – e torna verso l'edificio
scolastico, tutta impettita come al solito.
A quel punto è
il mio momento, lo sento: sento che prima di uscire di scena, devo
infierire, infliggergli il colpo di grazie e poi lasciarlo lì,
come il decerebrato che è.
Allora lo guardo,
sbatto le ciglia in pieno stile Marianna, poi mormoro: «Anche
io ci conto, dolcezza, non mancare».
E me ne torno dai
miei amici, con un senso di soddisfazione che non si può
spiegare, non si può descrivere a parole.
Sono queste le
occasioni in cui sento di amarmi.
Domenica arriva
presto. La scuola è finita, sono veramente contenta, al
settimo cielo. Non c'è niente di meglio del dolce far nulla,
nessuno può capirmi.
La più scarsa
comprensione la ricevo da Maria Vittoria, che dalle sette di questa
mattina non fa altro che sfaccendare per casa, coinvolgendo anche la
sottoscritta nelle sue follie esistenziali. Mi ha buttato giù
dal letto con un grido animalesco e ora mi sento tanto Cenerentola in
attesa del suo Principe, ma solo per il fatto che sto strofinando
pavimenti da tempo incalcolabile.
Se pochi giorni fa
ho amato Maria Vittoria, ora me ne pento con tutta me stessa: non
avevo pensato alla sua mania per l'ordine e la pulizia, specialmente
nel momento in cui è certa che stia per arrivare un ospite. Se
l'ospite è da lei ritenuto importante, sembra di vivere una
vera e propria rivoluzione industriale. Santa pazienza.
Quando Checco
arriva, lei e mio padre gli vanno incontro, mentre io finisco per
seguirli controvoglia. Devo capire che sto vivendo una vendetta, quel
cretino si merita tutto questo, è stato lui a dare inizio alla
messinscena che ancora stiamo vivendo.
Il pranzo è
uno scempio, almeno per lui: i miei gli fanno un sacco di domande –
mio padre perché non lo conosce, mia madre perché è
semplicemente se stessa e non sa stare zitta – e io me la godo,
mi va proprio di lusso perché non devo far altro che ammiccare
ogni tanto e lasciargli qualche carezza sul braccio, facendo credere
a tutti che io non voglia assolutamente che i miei lo mettano in
imbarazzo.
Quando arriviamo al
caffè, noto che Checco è sfinito, ma scommetto che i
miei genitori non se ne accorgono affatto.
«Allora,
Albertina, vuoi mostrare a Checco la tua stanza? Vi lasciamo andare,
così potete stare un po' da soli» dice mia madre,
strizzandomi l'occhio. Non può farlo, ma sono pronta a giurare
che si sfregherebbe le mani colma di soddisfazione, se solo Checco
non fosse presente.
A questo punto
vorrei evitare di darle retta, ma ormai sono con le mani in pasta e
quindi... impasto.
«Ma certo,
grazie mamma! Dai, Checco, andiamo» lo esorto, ridacchiando
come fanno tutte le ragazzine stupidamente innamorate. Sono
un'attrice nata, dovrei fare un pensierino ad un'eventuale carriera
in campo teatrale/cinematografico.
Ci alziamo dal
divano e io, per rendere ancor più credibile il teatrino, lo
prendo per mano e lo conduco verso camera mia.
Una volta fuori dal
salotto, lo lascio andare immediatamente, non ho nessuna intenzione
di dimostrargli qualcosa che non esiste.
Giunti in cima alle
scale, gli indico la porta della mia stanza e lo osservo con un
sorrisetto.
E ora?
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