Essi non si
addormentano
se non hanno fatto il male, svanisce il loro sonno se non han fatto
inciampare. Essi mangiano il pane dell’empietà e
bevono il vino
dei violenti.
Proverbi,
4,16-17.
6.
Louis
e Jennifer stanchi di aspettarmi si lanciarono in pista a ballare
dopo circa un quarto d’ora. In realtà fu Louis ad
insistere, dato
che la mia amica non andava matta per il ballo e per nessuna
attività
che la esponesse troppo agli sguardi della gente. Perciò i
suoi
passi furono appena accennati, timidi ed esitanti come se non fosse
del tutto sicura della stabilità del pavimento. Al contrario
Louis
si muoveva come se nella vita non avesse fatto altro, con
disinvoltura e un grande senso del ritmo.
Rimasi per
qualche secondo
ad osservarlo muovere i fianchi e alzare di tanto in tanto le
braccia, felice e perfettamente a suo ago in mezzo alla folla che si
dimenava attorno a lui.
Io ero
riluttante a
lasciare il bancone. Parlare con Simon non mi stancava mai, non
sembrava conoscere esagerazione, ponderava ogni frase e ciascuna
parola dava l’impressione di essere collocata nel discorso
con
precisa consapevolezza. Esponeva le sue idee in modo naturale,
spontaneo e rilassato. Cosa ancora più importante, nulla di
ciò che
disse o fece mi parve noioso.
Mi era
capitato ancora di
parlare con ragazzi che vomitavano parole senza uno scopo preciso,
come se sentissero il dovere di riempire ogni pausa disponibile. Con
Simon era diverso.
Ero arrivata
quasi al punto
di restare in silenzio solo per lasciare che fosse lui a rivolgermi i
suoi pensieri, ma spesso insisteva per coinvolgermi nelle sue
riflessioni.
Sapeva
tantissime cose,
parlammo di tutto e per il tempo che trascorsi accanto a lui il
contatto visivo fu una componente fondamentale. Non mi lasciai
sfuggire nessun particolare di lui, come se nulla del suo corpo o del
suo atteggiamento meritasse di essere ignorato o sprecato. Notai i
particolari del suo volto, i denti bianchi e perfetti, i lineamenti
che sembravano scolpiti nel marmo e l’accenno di barba che
gli
donava un aspetto virile e seducente. I capelli neri erano lievemente
alzati sulla fronte e quest’ultima si increspava negli
istanti in
cui la conversazione prendeva una piega che sembrava interessargli
particolarmente. Quando accadeva mi sentivo svenire e mi consideravo
una privilegiata, come se per qualche merito che non conoscevo solo a
me lui volesse rivolgere quel particolare sguardo e quel sorriso
perfetto.
La pelle
delle braccia che
spuntava dal tessuto nero della maglietta era quasi bianca, solcata
da una vena che gli percorreva il bicipite fino al polso.
Ad ogni
sorriso gli occhi
verdi assumevano una forma che gli addolciva il viso facendolo
assomigliare ad un bambino. Un bambino che giocava a fare il grande,
stringendo tra le dita la sigaretta e giocandoci in continuazione.
«Insomma,
fumi» mormorai
ad un certo punto, vedendolo che si passava la sigaretta da un dito
all’altro facendola girare sulle nocche. Una sorta di tic che
trovavo seducente.
«Lo
confesso, ti
infastidisce?»
Forse scossi
la testa
troppo in fretta e con troppa foga per risultare sincera, ma lui non
diede segno di averlo notato.
«Bisogna
pur concedersi
qualche vizio, no?» lo giustificai, conquistandomi una
smorfia di
apprezzamento che regalò una nuova ondata di tachicardia.
Lui si
portò alla bocca la
bottiglia di birra che aveva ordinato poco prima, dopo aver terminato
il drink e bevve una lunga sorsata. Nonostante la mia riluttanza
aveva insistito perché ne prendessi una anche io e come la
prima
volta era riuscito a smuovere la mia testardaggine. Sperai di
smaltire in fretta gli effetti dell’alcol che già
si stavano
facendo sentire. Non volevo mettermi al volante con la mente non del
tutto lucida, ma la presenza del ragazzo annullava il mio senso
critico.
Di tanto in
tanto mi
sfiorava la mano con le dita e il sangue mi ribolliva nelle vene ogni
volta che la sua pelle entrava in contatto con la mia, come se ogni
cellula di quel punto e ogni nervo fossero divenuta di colpo
ipersensibili. Sperai che non leggesse quel desiderio nei miei occhi,
ma morivo dalla voglia di sporgermi in avanti e baciarlo.
«Quando
hai detto No,
non posso devo guidare
ho davvero pensato che fossi una puritana ossessionata dalle regole,
tutta casa e chiesa».
L’espressione
da lui
usata mi fece ridere. La mia risata aveva un suono insolito che
attribuii all’effetto dell’alcol. Mi doleva
ammetterlo ma stavo
facendo la civetta con lui.
«Se
lo fossi non sarei
qui. Hai pensato male, soprattutto riguardo alla chiesa. Non
c’è
molto feeling tra me e la religione» confessai.
«Non
mi dire…come mai?
Se mi è lecito chiedere».
Mi strinsi
nelle spalle.
«Non so che ne pensi tu, non vorrei offenderti nel caso tu
fossi un
devoto, ma ritengo che la religione sia solo una grande
ipocrisia».
Ottenni la sua completa attenzione. Con il pollice disegnò
cerchi
sulla mia pelle, e come ogni volta che lo faceva il mio cervello
andò
in corto circuito. Ero desiderosa di confessare ogni singolo pensiero
che mi sfiorava la mente, ogni segreto.
Incrociai le
dita con le
sue e gli strinsi di più la mano, lasciandomi
involontariamente
sfuggire dalle labbra un sospiro.
«No,
non sono un devoto.
Abbiamo qualcosa in comune, perché credo di pensarla come
te. Ed
ecco svelato il motivo della tua presenza qui: hai scelto il lato
oscuro».
«La
nostra
presenza qui» precisai. «Voglio solo divertirmi,
non credo nel lato
buono né in quello cattivo della religione. Credo solo negli
uomini
e nelle loro capacità. Il resto è solo ipocrisia
da quattro soldi,
e per quanto riguarda le regole…sono qui contro il parere di
mia
madre, perciò immagino che da questo punto di vista siamo
d’accordo.
Qualche violazione di tanto in tanto è
terapeutica».
Trassi un
profondo respiro,
poi presi un sorso di birra. Non ero ubriaca, ma sentivo formicolare
l’alcol nelle membra, nelle dita e negli arti. Percepivo una
lieve
pesantezza agli occhi e lo stomaco perennemente pungolato da scariche
di emozione. Mi sentivo leggera, piacevolmente annebbiata ed euforica
e la mente di tanto in tanto insisteva a procedere da sola, senza
freni.
«Ma
basta parlare di me o
ti annoierò a morte. Fra poco crollerai sul bancone privo di
sensi.
Parlami di te».
«Oh…»
Lui si strinse
nelle spalle e scosse la testa. «Non sono d’accordo
con quanto hai
appena detto. Ti trovo molto interessante, è bello parlare
con te».
«Ti
ringrazio». Evitai di
dirgli quando io trovassi interessante lui, tanto valeva crollargli
fra le braccia. Di rado mi capitavano ragazzi così sinceri
con me,
ma che non sembrassero solamente arroganti o finti latin lover. Era
difficile concentrarsi su qualcosa che non fossero i suoi occhi,
perciò, incapace di fare altro, rimasi a fissarlo in
silenzio.
«Cosa
vuoi sapere?» si
arrese finalmente. «Hai una vasta gamma di argomenti tra cui
scegliere, ma non garantisco che tu possa trovare qualcosa di
affascinante».
Tutto
di te mi
affascina, sciocco.
Sperai di
averlo solamente
pensato. Se avessi davvero perso il controllo di me stessa fino a
quel punto era un guaio.
«Che
mi dici delle tue
passioni, che cosa ti piace?»
«La
vita, semplicemente la
vita. I piaceri che essa può dare, le uscite con gli amici,
il
divertimento, il buon cibo…»
«Davvero?
Io adoro
cucinare!»
«Una
coincidenza
interessante, qualche volta potresti cucinare qualcosa per me, ti
lascio la scelta».
L’idea
di averlo in cucina che mi ronzava intorno mentre nelle pentole
sfrigolava qualcosa per lui mi fece contrarre lo stomaco. Sorrisi e
lo scrutai attentamente.
«Ti
ci vedrei bene con un piatto a base di pesce. Ma potrei
sbagliarmi».
«Adoro
il pesce. Hai buon occhio».
«Hai
anche detto che ti piacciono i topi, ma non so se voglio cucinarteli,
quelli».
Rise
alla battuta e per me fu un sollievo. Temevo di essere stata sciocca,
invece i suoi occhi si illuminarono, chiaro segno di aveva trovato
quella stupidaggine almeno un po’ divertente.
«È
vero, l’ho detto, ma solo se sono vivi»
precisò, con un tono di
voce che mandò brividi lungo le mie braccia. Sperai che non
notasse
la mia pelle d’oca ma mio malgrado non potei nemmeno
riprendere la
giusta concentrazione, affascinata dalle sue ultime parole. Non erano
state pronunciate a caso, mi sembrava davvero che stesse giocando con
me come un gatto con il topo. Lentamente, con interesse, girando
attorno alla preda, scrutando e ponderando ogni mossa. Il suo sguardo
era attento, fisso su di me come se non aspettasse altro che il
momento propizio per sferrare un nuovo colpo, pronunciare
un’altra
frase che sommata alle altre mi avrebbe fatta crollare tra le sue
braccia. C’ero già molto vicina.
Pensai
a cos’altro avrei potuto chiedere, per lo meno per cambiare
discorso e allontanare da me quei pensieri. C’erano
un’infinità
di cose che non sapevo di lui e che volevo scoprire, ma dovevo
andarci piano con le domande, per non farlo sembrare un
interrogatorio.
«E
invece quali sono le cose che detesti?»
«I
limiti, credo» rispose prontamente, come se fosse una
risposta
fornita più di una volta o come se ne fosse talmente
convinto da non
avere il minimo bisogno di esitare in inutili riflessioni.
«Non mi
piace che qualcuno mi dica cosa devo fare e come devo vivere la mia
vita. Sono abbastanza grande per poter decidere da solo».
Mi
chiesi quanti anni avesse, non doveva superare i venticinque. Ad ogni
modo odiava i limiti…interessante. Per quanto fossi legata
alla mia
casa, anche io detestavo le imposizioni di mia madre, le sue pretese
di controllare i miei comportamenti e la mia vita. Era una donna
piena di controsensi, voleva esercitare una forma di controllo su sua
figlia, ma allo stesso tempo pretendeva che stessi per conto mio,
buona buona a gestire la casa.
«Vivi
solo?» Aggrottò la fronte e parve rifletterci su,
poi sospirò e si
strinse nelle spalle. I suoi occhi erano meno allegri, come se avessi
toccato un tasto dolente.
«Ho
abbandonato la casa dei miei qualche anno fa, quando hanno
divorziato».
«Mi
dispiace» mormorai, con un tuffo al cuore e intimidita dalla
sua
risposta. Era quasi inquietante notare la quantità di
particolari
che ci accomunavano.
«Sono
cose che capitano, in fondo era da tanto che non andavano
più
d’accordo. Ormai la situazione era degenerata a tal punto che
non
volevo restare a vivere con nessuno dei due. Ad ogni modo era giunto
il momento di gestire i miei spazi».
«Non
sai quanto ti capisco, si crede sempre che una coppia possa durare in
eterno, che l’amore guarisca ogni dissapore, ma si finisce
per
illudersi…e soffrire di più».
«Sembra
che tu parli per esperienza» fece, guardandomi di sottecchi.
«Una
storia finita male?»
Ridacchia.
«Oh, più di una, ma non stavo parlando di me.
Tecnicamente i miei
sono ancora sposati, ma non vivono più insieme da un po'. Io
sto da
mia madre, ma lavora così tanto che è come se
vivessi da sola. Per
carità, tanto meglio, è una vera serpe».
Riuscii
a strappargli un sorriso. «Abbiamo già parecchie
cose in comune».
«Probabilmente
sono solo
coincidenze. Se mi alzassi e iniziassi a chiedere ai presenti quanti
di loro hanno genitori separati, divorziati o sul piede di guerra
raccoglierei una maggioranza schiacciante».
Ero
convinta delle mie parole, ma anche d’accordo con le sue. Mi
sentivo così vicina a lui: gusti simili, situazioni
familiari
praticamente identiche. Per non parlare di quella sensazione che non
mi aveva mollato un secondo da quando ero con lui, quel formicolio
che mi percorreva la pelle, simile alla convinzione di aver
finalmente trovato ciò che cercavo da tempo.
Lui
annuì riflessivo. Il suo sguardo ferito mi strinse il cuore
in una
morsa di compassione. Gli strinsi più saldamente la mano per
fargli
sapere che ero lì e capivo ciò che provava.
Tentai un altro
approccio.
«Hai
fratelli o sorelle? È una situazione più facile
da affrontare se
non si è figli unici».
Avevo
creduto di deviare un po’ il discorso, ma lo sentii
irrigidirsi.
«Lascia
perdere. È complicato anche questo» rispose a
denti stretti.
«Mi
dispiace, hai litigato anche con loro? Puoi parlarmene se
vuoi…»
Scosse
la testa come se volesse scacciare a forza un brutto pensiero. Il suo
linguaggio fisico fu molto più eloquente delle parole che
non volle
pronunciare. Vidi la sua mano stringersi attorno alla bottiglia con
forza, mentre lentamente sfilò l’altra dalla mia
presa, posandola
sulla coscia e stringendola a pugno con tanta forza che le nocche
divennero bianche.
«Che
cos’hai? Ho detto qualcosa di sbagliato?» Avevo
l’impressione di
aver commesso un errore terribile. Il suo sguardo si fece sempre
più
elusivo e serio, ogni briciolo di ilarità era svanita nel
nulla,
nascosta nel verde acqua dei suoi occhi e celata sotto
un’espressione
ferita che mi strinse il cuore in una morsa di rammarico. La sua
mascella si contrasse, deglutì più volte poi
scosse la testa.
«No,
non hai detto nulla di male. Solo…non ne voglio parlare.
Scusami un
secondo…»
Lo
vidi scivolare giù dalla sedia senza che potessi fare nulla
per
evitarlo, darmi la schiena e allontanarsi a lunghi passi. Rimasi
lì,
al bancone, sola e in silenzio e con la mente in subbuglio, mentre
Simon veniva inghiottito dalla folla in pista, reggendo la birra per
il collo della bottiglia.
Mi
passai le mani sul volto dandomi mentalmente della stupida. Che
motivo c’era per insistere? Perché diavolo avevo
voluto
immischiarmi nelle sue questioni familiari? Forse il rapporto con il
fratello o la sorella erano tanto conflittuali che non ne voleva
discutere, tanto meno con una sconosciuta come me. Era stato
così
bello chiacchierare in maniera spensierata, perché volersi
infilare
in una via complicata come quella della famiglia? Io per prima avrei
dovuto capire che era qualcosa di troppo delicato per parlarne in un
locale come il Mephisto
durante il primo incontro.
Quando
rialzai il viso, frugando con gli occhi tra la calca impegnata nelle
danze, incontrai lo sguardo di Louis che mi fece sprofondare ancora
di più nell’umiliazione.
Il
mio amico ballava sul posto, ma la sua espressione era fin troppo
chiara. Mormorò qualcosa nella mia direzione con
un’aria
interrogativa che mi aiutò a capire al volo: che cavolo
è successo?
Risposi
con una scrollata di spalle e scossi la testa. Sebbene avessi intuito
che era tutta colpa mia, avrei preferito almeno sapere se Simon stava
bene e soprattutto scusarmi.
Sarebbe
tornato? Mi sentivo sciocca ad aspettarlo lì, e se avesse
deciso che
ne aveva avuto abbastanza di me?
Jennifer
mi osservava senza dire nulla, incamerando informazioni solo grazie
alla situazione. Era visibilmente a disagio mentre approfittava della
situazione per smettere di ballare.
Louis
assunse un cipiglio di rimprovero e io non potei negare che avesse
ragione. Quanto ero stata con Simon, un quarto d’ora? Venti
minuti
al massimo? Eppure anche in così poco tempo ero riuscita a
fare più
danni che nelle mie altre relazioni finite male.
Però
potevo rimediare. Presi coraggio e mi calai dallo sgabello con
prudenza per non crollare a causa della letale combinazione di tacchi
alti e alcol nel sangue.
Non
potevo essere sicura di dove si fosse cacciato il ragazzo, ma decisi
di fare un tentativo. Mi lisciai il vestito, più un gesto
nervoso
che una necessità, raggiunsi i miei amici per chiarire la
situazione
e poi mi gettai anche io in mezzo alla folla, scendendo la scaletta
con passo malfermo. Faticando per uscire indenne dai corpi in
movimento, dalla loro disattenzione per il mio passaggio e dalla foga
della gente che mi urtava senza alcun riguardo, la mia attenzione fu
carpita da una scritta gialla che segnalava la toilette.
Feci
un profondo respiro, poi aprii la porta del bagno ed entrai.
|