Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: Dobhran    18/06/2016    1 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Essi non si addormentano se non hanno fatto il male, svanisce il loro sonno se non han fatto inciampare. Essi mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino dei violenti.
Proverbi, 4,16-17.








6.




Louis e Jennifer stanchi di aspettarmi si lanciarono in pista a ballare dopo circa un quarto d’ora. In realtà fu Louis ad insistere, dato che la mia amica non andava matta per il ballo e per nessuna attività che la esponesse troppo agli sguardi della gente. Perciò i suoi passi furono appena accennati, timidi ed esitanti come se non fosse del tutto sicura della stabilità del pavimento. Al contrario Louis si muoveva come se nella vita non avesse fatto altro, con disinvoltura e un grande senso del ritmo.
Rimasi per qualche secondo ad osservarlo muovere i fianchi e alzare di tanto in tanto le braccia, felice e perfettamente a suo ago in mezzo alla folla che si dimenava attorno a lui.
Io ero riluttante a lasciare il bancone. Parlare con Simon non mi stancava mai, non sembrava conoscere esagerazione, ponderava ogni frase e ciascuna parola dava l’impressione di essere collocata nel discorso con precisa consapevolezza. Esponeva le sue idee in modo naturale, spontaneo e rilassato. Cosa ancora più importante, nulla di ciò che disse o fece mi parve noioso.
Mi era capitato ancora di parlare con ragazzi che vomitavano parole senza uno scopo preciso, come se sentissero il dovere di riempire ogni pausa disponibile. Con Simon era diverso.
Ero arrivata quasi al punto di restare in silenzio solo per lasciare che fosse lui a rivolgermi i suoi pensieri, ma spesso insisteva per coinvolgermi nelle sue riflessioni.
Sapeva tantissime cose, parlammo di tutto e per il tempo che trascorsi accanto a lui il contatto visivo fu una componente fondamentale. Non mi lasciai sfuggire nessun particolare di lui, come se nulla del suo corpo o del suo atteggiamento meritasse di essere ignorato o sprecato. Notai i particolari del suo volto, i denti bianchi e perfetti, i lineamenti che sembravano scolpiti nel marmo e l’accenno di barba che gli donava un aspetto virile e seducente. I capelli neri erano lievemente alzati sulla fronte e quest’ultima si increspava negli istanti in cui la conversazione prendeva una piega che sembrava interessargli particolarmente. Quando accadeva mi sentivo svenire e mi consideravo una privilegiata, come se per qualche merito che non conoscevo solo a me lui volesse rivolgere quel particolare sguardo e quel sorriso perfetto.
La pelle delle braccia che spuntava dal tessuto nero della maglietta era quasi bianca, solcata da una vena che gli percorreva il bicipite fino al polso.
Ad ogni sorriso gli occhi verdi assumevano una forma che gli addolciva il viso facendolo assomigliare ad un bambino. Un bambino che giocava a fare il grande, stringendo tra le dita la sigaretta e giocandoci in continuazione.
«Insomma, fumi» mormorai ad un certo punto, vedendolo che si passava la sigaretta da un dito all’altro facendola girare sulle nocche. Una sorta di tic che trovavo seducente.
«Lo confesso, ti infastidisce?»
Forse scossi la testa troppo in fretta e con troppa foga per risultare sincera, ma lui non diede segno di averlo notato.
«Bisogna pur concedersi qualche vizio, no?» lo giustificai, conquistandomi una smorfia di apprezzamento che regalò una nuova ondata di tachicardia.
Lui si portò alla bocca la bottiglia di birra che aveva ordinato poco prima, dopo aver terminato il drink e bevve una lunga sorsata. Nonostante la mia riluttanza aveva insistito perché ne prendessi una anche io e come la prima volta era riuscito a smuovere la mia testardaggine. Sperai di smaltire in fretta gli effetti dell’alcol che già si stavano facendo sentire. Non volevo mettermi al volante con la mente non del tutto lucida, ma la presenza del ragazzo annullava il mio senso critico.
Di tanto in tanto mi sfiorava la mano con le dita e il sangue mi ribolliva nelle vene ogni volta che la sua pelle entrava in contatto con la mia, come se ogni cellula di quel punto e ogni nervo fossero divenuta di colpo ipersensibili. Sperai che non leggesse quel desiderio nei miei occhi, ma morivo dalla voglia di sporgermi in avanti e baciarlo.
«Quando hai detto No, non posso devo guidare ho davvero pensato che fossi una puritana ossessionata dalle regole, tutta casa e chiesa».
L’espressione da lui usata mi fece ridere. La mia risata aveva un suono insolito che attribuii all’effetto dell’alcol. Mi doleva ammetterlo ma stavo facendo la civetta con lui.
«Se lo fossi non sarei qui. Hai pensato male, soprattutto riguardo alla chiesa. Non c’è molto feeling tra me e la religione» confessai.
«Non mi dire…come mai? Se mi è lecito chiedere».
Mi strinsi nelle spalle. «Non so che ne pensi tu, non vorrei offenderti nel caso tu fossi un devoto, ma ritengo che la religione sia solo una grande ipocrisia». Ottenni la sua completa attenzione. Con il pollice disegnò cerchi sulla mia pelle, e come ogni volta che lo faceva il mio cervello andò in corto circuito. Ero desiderosa di confessare ogni singolo pensiero che mi sfiorava la mente, ogni segreto.
Incrociai le dita con le sue e gli strinsi di più la mano, lasciandomi involontariamente sfuggire dalle labbra un sospiro.
«No, non sono un devoto. Abbiamo qualcosa in comune, perché credo di pensarla come te. Ed ecco svelato il motivo della tua presenza qui: hai scelto il lato oscuro».
«La nostra presenza qui» precisai. «Voglio solo divertirmi, non credo nel lato buono né in quello cattivo della religione. Credo solo negli uomini e nelle loro capacità. Il resto è solo ipocrisia da quattro soldi, e per quanto riguarda le regole…sono qui contro il parere di mia madre, perciò immagino che da questo punto di vista siamo d’accordo. Qualche violazione di tanto in tanto è terapeutica».
Trassi un profondo respiro, poi presi un sorso di birra. Non ero ubriaca, ma sentivo formicolare l’alcol nelle membra, nelle dita e negli arti. Percepivo una lieve pesantezza agli occhi e lo stomaco perennemente pungolato da scariche di emozione. Mi sentivo leggera, piacevolmente annebbiata ed euforica e la mente di tanto in tanto insisteva a procedere da sola, senza freni.
«Ma basta parlare di me o ti annoierò a morte. Fra poco crollerai sul bancone privo di sensi. Parlami di te».
«Oh…» Lui si strinse nelle spalle e scosse la testa. «Non sono d’accordo con quanto hai appena detto. Ti trovo molto interessante, è bello parlare con te».
«Ti ringrazio». Evitai di dirgli quando io trovassi interessante lui, tanto valeva crollargli fra le braccia. Di rado mi capitavano ragazzi così sinceri con me, ma che non sembrassero solamente arroganti o finti latin lover. Era difficile concentrarsi su qualcosa che non fossero i suoi occhi, perciò, incapace di fare altro, rimasi a fissarlo in silenzio.
«Cosa vuoi sapere?» si arrese finalmente. «Hai una vasta gamma di argomenti tra cui scegliere, ma non garantisco che tu possa trovare qualcosa di affascinante».
Tutto di te mi affascina, sciocco.
Sperai di averlo solamente pensato. Se avessi davvero perso il controllo di me stessa fino a quel punto era un guaio.
«Che mi dici delle tue passioni, che cosa ti piace?»
«La vita, semplicemente la vita. I piaceri che essa può dare, le uscite con gli amici, il divertimento, il buon cibo…»
«Davvero? Io adoro cucinare!»
«Una coincidenza interessante, qualche volta potresti cucinare qualcosa per me, ti lascio la scelta».
L’idea di averlo in cucina che mi ronzava intorno mentre nelle pentole sfrigolava qualcosa per lui mi fece contrarre lo stomaco. Sorrisi e lo scrutai attentamente.
«Ti ci vedrei bene con un piatto a base di pesce. Ma potrei sbagliarmi».
«Adoro il pesce. Hai buon occhio».
«Hai anche detto che ti piacciono i topi, ma non so se voglio cucinarteli, quelli».
Rise alla battuta e per me fu un sollievo. Temevo di essere stata sciocca, invece i suoi occhi si illuminarono, chiaro segno di aveva trovato quella stupidaggine almeno un po’ divertente.
«È vero, l’ho detto, ma solo se sono vivi» precisò, con un tono di voce che mandò brividi lungo le mie braccia. Sperai che non notasse la mia pelle d’oca ma mio malgrado non potei nemmeno riprendere la giusta concentrazione, affascinata dalle sue ultime parole. Non erano state pronunciate a caso, mi sembrava davvero che stesse giocando con me come un gatto con il topo. Lentamente, con interesse, girando attorno alla preda, scrutando e ponderando ogni mossa. Il suo sguardo era attento, fisso su di me come se non aspettasse altro che il momento propizio per sferrare un nuovo colpo, pronunciare un’altra frase che sommata alle altre mi avrebbe fatta crollare tra le sue braccia. C’ero già molto vicina.
Pensai a cos’altro avrei potuto chiedere, per lo meno per cambiare discorso e allontanare da me quei pensieri. C’erano un’infinità di cose che non sapevo di lui e che volevo scoprire, ma dovevo andarci piano con le domande, per non farlo sembrare un interrogatorio.
«E invece quali sono le cose che detesti?»
«I limiti, credo» rispose prontamente, come se fosse una risposta fornita più di una volta o come se ne fosse talmente convinto da non avere il minimo bisogno di esitare in inutili riflessioni. «Non mi piace che qualcuno mi dica cosa devo fare e come devo vivere la mia vita. Sono abbastanza grande per poter decidere da solo».
Mi chiesi quanti anni avesse, non doveva superare i venticinque. Ad ogni modo odiava i limiti…interessante. Per quanto fossi legata alla mia casa, anche io detestavo le imposizioni di mia madre, le sue pretese di controllare i miei comportamenti e la mia vita. Era una donna piena di controsensi, voleva esercitare una forma di controllo su sua figlia, ma allo stesso tempo pretendeva che stessi per conto mio, buona buona a gestire la casa.
«Vivi solo?» Aggrottò la fronte e parve rifletterci su, poi sospirò e si strinse nelle spalle. I suoi occhi erano meno allegri, come se avessi toccato un tasto dolente.
«Ho abbandonato la casa dei miei qualche anno fa, quando hanno divorziato».
«Mi dispiace» mormorai, con un tuffo al cuore e intimidita dalla sua risposta. Era quasi inquietante notare la quantità di particolari che ci accomunavano.
«Sono cose che capitano, in fondo era da tanto che non andavano più d’accordo. Ormai la situazione era degenerata a tal punto che non volevo restare a vivere con nessuno dei due. Ad ogni modo era giunto il momento di gestire i miei spazi».
«Non sai quanto ti capisco, si crede sempre che una coppia possa durare in eterno, che l’amore guarisca ogni dissapore, ma si finisce per illudersi…e soffrire di più».
«Sembra che tu parli per esperienza» fece, guardandomi di sottecchi. «Una storia finita male?»
Ridacchia. «Oh, più di una, ma non stavo parlando di me. Tecnicamente i miei sono ancora sposati, ma non vivono più insieme da un po'. Io sto da mia madre, ma lavora così tanto che è come se vivessi da sola. Per carità, tanto meglio, è una vera serpe».
Riuscii a strappargli un sorriso. «Abbiamo già parecchie cose in comune».
«Probabilmente sono solo coincidenze. Se mi alzassi e iniziassi a chiedere ai presenti quanti di loro hanno genitori separati, divorziati o sul piede di guerra raccoglierei una maggioranza schiacciante».
Ero convinta delle mie parole, ma anche d’accordo con le sue. Mi sentivo così vicina a lui: gusti simili, situazioni familiari praticamente identiche. Per non parlare di quella sensazione che non mi aveva mollato un secondo da quando ero con lui, quel formicolio che mi percorreva la pelle, simile alla convinzione di aver finalmente trovato ciò che cercavo da tempo.
Lui annuì riflessivo. Il suo sguardo ferito mi strinse il cuore in una morsa di compassione. Gli strinsi più saldamente la mano per fargli sapere che ero lì e capivo ciò che provava. Tentai un altro approccio.
«Hai fratelli o sorelle? È una situazione più facile da affrontare se non si è figli unici».
Avevo creduto di deviare un po’ il discorso, ma lo sentii irrigidirsi.
«Lascia perdere. È complicato anche questo» rispose a denti stretti.
«Mi dispiace, hai litigato anche con loro? Puoi parlarmene se vuoi…»
Scosse la testa come se volesse scacciare a forza un brutto pensiero. Il suo linguaggio fisico fu molto più eloquente delle parole che non volle pronunciare. Vidi la sua mano stringersi attorno alla bottiglia con forza, mentre lentamente sfilò l’altra dalla mia presa, posandola sulla coscia e stringendola a pugno con tanta forza che le nocche divennero bianche.
«Che cos’hai? Ho detto qualcosa di sbagliato?» Avevo l’impressione di aver commesso un errore terribile. Il suo sguardo si fece sempre più elusivo e serio, ogni briciolo di ilarità era svanita nel nulla, nascosta nel verde acqua dei suoi occhi e celata sotto un’espressione ferita che mi strinse il cuore in una morsa di rammarico. La sua mascella si contrasse, deglutì più volte poi scosse la testa.
«No, non hai detto nulla di male. Solo…non ne voglio parlare. Scusami un secondo…»
Lo vidi scivolare giù dalla sedia senza che potessi fare nulla per evitarlo, darmi la schiena e allontanarsi a lunghi passi. Rimasi lì, al bancone, sola e in silenzio e con la mente in subbuglio, mentre Simon veniva inghiottito dalla folla in pista, reggendo la birra per il collo della bottiglia.
Mi passai le mani sul volto dandomi mentalmente della stupida. Che motivo c’era per insistere? Perché diavolo avevo voluto immischiarmi nelle sue questioni familiari? Forse il rapporto con il fratello o la sorella erano tanto conflittuali che non ne voleva discutere, tanto meno con una sconosciuta come me. Era stato così bello chiacchierare in maniera spensierata, perché volersi infilare in una via complicata come quella della famiglia? Io per prima avrei dovuto capire che era qualcosa di troppo delicato per parlarne in un locale come il Mephisto durante il primo incontro.
Quando rialzai il viso, frugando con gli occhi tra la calca impegnata nelle danze, incontrai lo sguardo di Louis che mi fece sprofondare ancora di più nell’umiliazione.
Il mio amico ballava sul posto, ma la sua espressione era fin troppo chiara. Mormorò qualcosa nella mia direzione con un’aria interrogativa che mi aiutò a capire al volo: che cavolo è successo?
Risposi con una scrollata di spalle e scossi la testa. Sebbene avessi intuito che era tutta colpa mia, avrei preferito almeno sapere se Simon stava bene e soprattutto scusarmi.
Sarebbe tornato? Mi sentivo sciocca ad aspettarlo lì, e se avesse deciso che ne aveva avuto abbastanza di me?
Jennifer mi osservava senza dire nulla, incamerando informazioni solo grazie alla situazione. Era visibilmente a disagio mentre approfittava della situazione per smettere di ballare.
Louis assunse un cipiglio di rimprovero e io non potei negare che avesse ragione. Quanto ero stata con Simon, un quarto d’ora? Venti minuti al massimo? Eppure anche in così poco tempo ero riuscita a fare più danni che nelle mie altre relazioni finite male.
Però potevo rimediare. Presi coraggio e mi calai dallo sgabello con prudenza per non crollare a causa della letale combinazione di tacchi alti e alcol nel sangue.
Non potevo essere sicura di dove si fosse cacciato il ragazzo, ma decisi di fare un tentativo. Mi lisciai il vestito, più un gesto nervoso che una necessità, raggiunsi i miei amici per chiarire la situazione e poi mi gettai anche io in mezzo alla folla, scendendo la scaletta con passo malfermo. Faticando per uscire indenne dai corpi in movimento, dalla loro disattenzione per il mio passaggio e dalla foga della gente che mi urtava senza alcun riguardo, la mia attenzione fu carpita da una scritta gialla che segnalava la toilette.
Feci un profondo respiro, poi aprii la porta del bagno ed entrai.
  
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