Un grazie di cuore ad AnonymousA per aver recensito! Ecco il nuovo
capitolo :)
Occhi
alteri, lingua
bugiarda, mani che versano sangue innocente; cuore che ordisce trame
malvagie, piedi solleciti a correre al male…
Proverbi,
6,17-18.
7.
Il
completo candore della stanza fu quasi uno shock per la vista dopo la
luce rossastra del Mephisto.
Ai lati della stanza c’erano le tazze nascoste da pannelli
separatori bianchi, mentre qualche metro davanti alla soglia un lungo
specchio da parete sormontava una fila di lavandini immacolati.
Simon mi
dava la schiena,
chino su di essi. Non riuscivo a vedere il suo volto, ma era chiaro
che fosse piuttosto sconvolto perché anche dalla mia
posizione notai
il tremito del suo corpo e il respiro affannoso, come dopo una lunga
corsa.
Eravamo solo
noi due ed ero
certa che se si fosse trattato di una toilette per signore sarebbe
stato molto differente. Lo stereotipo secondo il quale le donne
andavano a rinfrescarsi insieme era piuttosto attendibile
perciò non
osavo immaginare com’era la ressa nel bagno accanto.
«Simon…»
mormorai,
temendo quasi di attirare la sua attenzione, incerta a proposito
della reazione che avrei potuto scatenare. Sentire il mio tono di
voce tornato alla normalità fu strano, era insolito non
dover più
gridare per sovrastare il volume della musica. Quel luogo era
un’isola di tranquillità all’interno di
un locale che tutto era
fuorché pace, perciò mi godetti
quell’istante di silenzio. La
musica era quasi inesistente, solo un rimbombo in sottofondo.
Lui parve
non avermi
nemmeno notato. Stringeva le mani attorno al lavandino, come se non
contasse su nessun altro sostegno per non crollare a terra.
Accennai
qualche passo
verso di lui e come risposta a quel gesto alzò il viso e i
suoi
occhi nel riflesso incontrarono i miei. Era una mia impressione o
erano colmi di lacrime?
«Senti,
lo so che sono
stata indiscreta e mi dispiace molto. Non sono affari miei, scusami
per aver insistito. Di solito non sono un’impicciona, ti
chiedo
scusa».
Il suo
sguardo era duro,
sofferente, ma non sembrava davvero in collera con me. Respirava a
scatti, a fatica e mi chiesi se fosse solo il nervosismo a
provocargli quella reazione o se avesse anche problemi fisici.
«Sono
stata maleducata»
continuai, sperando che dicesse finalmente qualcosa. Si
limitò a
scuotere la testa, ma l’ambiguità del gesto non mi
aiutò a capire
che cosa intendesse davvero comunicare. Era in collera per
ciò che
avevo fatto o mi stava dicendo che non era colpa mia? Non potevo
esserne sicura finché non gli avessi sentito pronunciare
qualche
parola.
La porta si
aprì di colpo
dietro di me e dall’uscio fece capolino il viso pallido e
spruzzato
di lentiggini di un ragazzo, ignaro della situazione. Ancora prima
che potesse muovere qualche passo, come una furia Simon si
voltò e
gli puntò l’indice contro, con aria aggressiva.
«Fuori!
Fuori di qui!»
gridò, lo sguardo truce puntato sul malcapitato, che
sbiancò ancora
di più e prontamente alzò le mani in segno di
resa.
«Ehi,
calma! Che ti
prende?»
«Ho
detto fuori!» Il tono
di Simon non ammetteva repliche, così diverso da qualche
istante
prima, quando avevamo chiacchierato del più e del meno.
Avevo
pensato che fosse basso e seducente, molto virile. Ora vi leggevo un
sottofondo di paura come se da un momento all’altro le parole
si
dovessero trasformare in grida di terrore.
«Esco,
stai tranquillo».
Il ragazzo fece qualche passo indietro come se avesse una pistola
puntata in faccia. Mentalmente lo ringraziai per non essersela presa
e per non aver interpretato la reazione di Simon come
un’offesa
personale o un tentativo di piantare grane. D’altra parte,
che
avrebbe potuto fare se così fosse stato? Minuto
com’era non
avrebbe potuto tenere testa al fisico più sviluppato di
Simon.
«Scusaci,
risolviamo in un
attimo, ok?» mi giustificai, cercando di infondergli fiducia
con un
sorriso, ma lui non diede segno di avere problemi al riguardo. Mi
lanciò un’occhiata tra il rassegnato e il confuso,
poi tornò in
silenzio da dove era venuto.
Simon si
passò il dorso
della mano sugli occhi e sospirò. «Cristo, scusa,
non so che mi è
preso».
La sua voce
era intrisa di
dolore e disagio e quando abbassò il braccio i miei sospetti
trovarono fondamento: stava piangendo. Con il respiro spezzato e un
colpo di tosse si chinò su se stesso e posò le
mani sulle
ginocchia. Tentò di respirare normalmente, ma notai che il
suo viso
era imperlato di sudore e si portava spesso la mano al petto.
«Senti
dolore al torace?»
chiesi, in un sussurro che fu più un’affermazione
che una vera
domanda. Anche prima che annuisse riuscii a capire quale fosse il
problema. Tossì di nuovo, poi scosse la testa.
«Non
capisco cosa c'è di
sbagliato in me» singhiozzò. Azzardai qualche
passo nella sua
direzione, ma con cautela, proprio come mi sarei comportata con un
animale ferito e spaventato.
«È
la prima volta che ti
capita?» Scosse la testa, passandosi una mano sulla fronte
per
asciugarla dal sudore. Aveva l’aria di poter svenire da un
momento
all’altro.
«Palpitazioni,
nausea,
sensazione di non poter respirare?» Altro cenno affermativo,
come
previsto.
«Tranquillo,
è solo un
attacco di panico. Non cercare di controllarlo o evitarlo, è
meglio
che faccia il suo corso. Convinciti non solo che passerà, ma
che sta
già passando. Respira in modo regolare, non incamerare
troppa aria o
andrai in iperventilazione».
Lo osservai
compiere quelle
semplici operazioni, gratificata nel vedere che si fidava di me
quanto bastava per darmi ascolto. Con gli occhi ancora sbarrati si
massaggiò il petto dolente e iniziò lentamente a
contare quando gli
consigliai di farlo.
Restammo
qualche lungo
minuto in silenzio, in attesa che l’attacco finisse. Quando
il suo
respirò tornò regolare e negli occhi non si lesse
più il terrore
di pochi istanti prima, si scusò, con aria visibilmente
mortificata.
«Non
ti preoccupare, in
fondo è colpa mia, no? Ho scatenato qualcosa di terribile
senza
saperlo» mormorai. Un’ondata di sollievo mi
colpì come uno
schiaffo quando lo vidi scuotere la testa. Sapevo che la questione
era tutt’altro che risolta, una cosa da poco non poteva
certamente
scatenare un attacco di panico, ma la convinzione che non fosse
arrabbiato con me mi fece sentire un po’ meglio. Tentai
qualche
parola per rassicurarlo.
«Non
c’è niente di cui
vergognarsi, sono cose che capitano. Ti capisco».
«No,
non credo che tu
possa davvero farlo, ma ti ringrazio».
«Vuoi
parlarne?» Non
volevo insistere, sapendo che proprio così avevo scatenato
la sua
reazione. Ma ormai era diverso da quando eravamo al bancone. Era per
fuggire da quell’attacco ed evitare di mostrarmi la sua
debolezza
che mi aveva lasciato sola per rifugiarsi in quel bagno, ma ormai non
c’era più niente da nascondere.
Sbuffò
e tirò su con il
naso, un gesto che non mi parve affatto grossolano. Mi ero aspettata
che in lui tutto fosse perfetto, ma vederlo cedere alle sue emozioni
non fece altro che dimostrarmi che era umano e fragile. Sembrava un
bambino dopo ore di pianto, ancora scosso dai singulti e incapace di
placarli.
«Che
situazione di merda!»
esclamò di punto in bianco, dando sfogo alla collera. Non fu
tanto
il tono rabbioso a spaventarmi quanto il gesto che seguì.
Con un
rapido movimento, sempre stringendo saldamente la bottiglia, la
sbatté con forza sul lavello, mandandola in pezzi e facendo
risuonare nella stanza un rumore di vetro infranto. Alcuni cocci
caddero ai suoi piedi, altri li sentii scivolare nel lavabo, mentre
la birra colava lungo la ceramica.
Nemmeno mi
accorsi che al
pari del ragazzo entrato poco prima anche io avevo portato le mani
avanti in un gesto istintivo di auto-protezione. Lui si
ripiegò
ancora su se stesso, gettando a terra il collo della bottiglia, unico
pezzo reduce dalla sua furia, e chinandosi sul lavandino in un pianto
silenzioso. La sua schiena tremava e sobbalzava per i singhiozzi e il
mio cuore fu solleticato dalla compassione. Odiavo pensare di essere
stata io a causare sia l’attacco di panico che il suo dolore.
Mossi ancora
qualche passo
verso di lui, senza curarmi del suo sfogo e sperando che
all’esterno
del bagno nessuno avesse sentito rumori sospetti. Tesi
l’orecchio
per valutare la situazione, ma nessuno entrò e la musica
continuava
a pulsare in lontananza. Tutto normale.
«Scusami»
biascicò lui
dopo qualche istante. «Mi sto comportando come un dannato
poppante.»
«Ma
no, che dici?» mi
lasciai sfuggire una risatina nervosa, avvicinandomi ancora un
po’,
indecisa se essere spaventata o solo preoccupata per il suo
comportamento. I miei tacchi risuonarono sul pavimento, mentre
osservavo i danni compiuti. I cocci in fin dei conti non erano tanti,
qualche pezzo di vetro scuro qua e là. Il lavello non dava
segni di
essersi rovinato.
«Quando
si parla di mio
fratello è sempre così. Per quanto mi sforzi di
non pensarci e fare
finta che non sia successo niente» spiegò.
«La mia reazione è
sempre la stessa. Do di matto».
«A
quanto pare tenerti
tutto dentro non ti fa bene. Sono una perfetta sconosciuta, lo so, e
non devi parlarmene se non vuoi, ma assicurati di farlo con
qualcuno.»
«È
morto». La secchezza
dell’affermazione mi lasciò spiazzata e in
silenzio e anche se non
era di me che si parlava, il cuore mi parve sprofondare in un mare
gelato. Fui tentata di chiedere di ripetere, ma rimasi zitta, in
ascolto del rumore prodotto dal respiro di entrambi. Il mio avevo
assunto un ritmo diverso ora che sapevo il motivo del turbamento del
ragazzo e per quanto mi sforzassi di rimanere impassibile, o al
massimo mostrarmi dispiaciuta per la sua perdita, non riuscii a
sbarrare le porte al dolore.
Inevitabilmente
il pensiero andò all'anno precedente, a quella notizia
sussurrata
dalle labbra di mia madre, al suo tono gelido e alla corsa forsennata
in ospedale. La speranza, strenua fino all’ultimo, che tutto
potesse andare liscio, che tornasse alla normalità,
perché quello
non poteva davvero accadere a noi. A qualcun altro sì, ma
non a
noi…non
a me.
E
poi quella mazzata in pieno petto, il cuore che si strappava a
metà,
il respiro mozzato in gola e il desiderio di sprofondare, morire,
annientarmi completamente per non ritornare mai più al
presente.
«Mi
dispiace» bisbigliai,
un debole sussurro a stento scivolato fuori dalle labbra. Due parole
che avevo sentito così tanto nei giorni seguenti a
ciò che era
accaduto, che ne conoscevo a memoria la cadenza come una ninna nanna
cantata troppe volte e ormai vecchia.
Senza che lo
spronassi,
Simon parlo da sé. «Un incidente automobilistico
sei mesi fa. Era
poco più grande di me»
Avrei voluto
dire ancora
che mi dispiaceva, ma la voce mi si spense in gola non appena tentai
di prendere parola.
«Non
riesco a smettere di
pensare a lui e ogni volta mi sento morire. Perciò scusami
se ho
reagito in malo modo, sia prima al bancone sia poco fa».
Si
voltò di nuovo, il viso
pallido rigato di lacrime, gli occhi che brillavano ancora di
più e
di un colore divenuto splendido. Il suo sguardo profondamente ferito
e l’orda dei ricordi mi fecero pizzicare gli angoli degli
occhi. Mi
schiarii la voce.
«Ho
detto che ti capisco
non per pronunciare qualche parola di circostanza, ma perché
posso
davvero comprendere cosa provi. Ti sembrerà una coincidenza
inquietante, ma...anche io ho perso mio fratello». Dirlo,
pronunciarlo ad alta voce, fu come ammettere a me stessa che era
successo davvero. Non ne parlavo quasi mai con nessuno, anche se
tutti sapevano che l’altro figlio di David e Patricia Hale
era
morto. Non era mia intenzione negarlo, ma era normale evitare
ciò
che ci faceva soffrire.
Simon mi
guardò,
soppesando le mie parole, quasi dubitando della veridicità
della mia
affermazione, come se avessi potuto mentire su una questione
così
delicata. Sostenni il suo sguardo, pesante come un macigno,
finché
non lo sentii sbuffare.
«Perfetto,
adesso sì che
mi sento un imbecille. Un ragazzone come me che piange e tu che te ne
stai lì, composta. Pare che io non riesca a tenere a freno
le mie
emozioni» si lamentò, con un mezzo sorriso, come
per sdrammatizzare
e piegare quella situazione spiacevole in una battuta di spirito.
«Sono
le emozioni che ci
ricordano che siamo vivi».
Annuì
pensieroso, poi
abbassò lo sguardo. «Com’è
successo?»
«Investito
da un furgone
mentre andava in bici. Si potrebbe chiamare incidente, ma il
conducente è passato col rosso. Evidentemente aveva
parecchia
fretta».
La freddezza
con la quale
le parole uscirono dalle mie labbra stupì anche me. La voce
era
tremante, ma presente. Evitai di menzionare l’odio che avevo
provato per quell’uomo appena avevo saputo che era stato lui
a
causare la morte della persona più importante della mia
vita. Non ne
andavo fiera, ma se lo avessi incontrato per la strada, cosa
impossibile perché era in carcere, l’avrei ucciso
con le mie mani.
«Anche
a me dispiace per
tuo fratello» dichiarò Simon in un sussurro.
«Mi perdoni per
prima?»
«Non
credo che tu abbia
mai avuto nulla da farti perdonare. Come ho già detto sono
io che
devo chiedere scusa per essere stata poco delicata. Di solito ho
molto più tatto, ma l’alcol mi ha fatto varcare
qualche confine
vietato, perciò facciamo così: lasciamo perdere
tutto e
torniamocene di là, ok?»
Non ero
sicura che potesse
funzionare davvero. Avevamo aperto troppi armadi e gli scheletri
erano balzati fuori a ricordarci questioni che dovevamo fronteggiare
prima o poi, ma ero intenzionata a provarci. Forse una passeggiata
all’aria aperta lo avrebbe aiutato a riprendersi dalle
conseguenze
fisiche del suo dolore.
Di nuovo un
breve cenno del
capo da parte sua. Osai qualche altro passo nella sua direzione e lui
fece lo stesso, scrutandomi con quegli occhi verdi non più
solo
seducenti e ammalianti, ma anche pieni di emozioni. Dapprima la sua
mano mi sfiorò una guancia, poi si chinò verso di
me e posò la
fronte contro la mia tempia, piegando la schiena per abbassarsi verso
di me. La sua pelle era fresca e lievemente umida, mentre contro la
guancia sentii la sua barba pungermi la pelle e il tocco bagnato
delle sue lacrime.
«Non
ti sembra
incredibile? Abbiamo tante cose in comune, quelle belle e quelle
dolorose» mormorò. Il suo respiro mi
solleticò il mento,
causandomi una stretta allo stomaco per la vicinanza di quel ragazzo
che ritenevo magnifico. Le parole mi rimasero incastrate in gola,
perciò mi limitai ad annuire.
«Sembra
quasi qualcosa di
soprannaturale».
«Se
ci credessi direi che
è destino» riuscii finalmente ad affermare, con un
sorriso. Feci
per aggiungere altro, per chiarire che non c’era nulla di
strano in
quelle coincidenze, semmai erano una piacevole sorpresa, ma
interruppe ogni tentativo posando le labbra sulle mie. Ci misi
qualche secondo a realizzare che mi stava baciando e che non era solo
un sogno ad occhi aperti generato dal contatto. Mi posò una
mano
alla base della schiena, in un tocco sicuro che mi fece sentire
sorretta, come se potesse leggere nei miei pensieri e vedervi il
timore di essere sopraffatta dalle emozioni e crollare a terra.
Aspettai a mettergli le braccia attorno al collo, seguendo invece i
suoi movimenti e lasciandolo fare. La sua bocca sapeva ancora di
birra, le sue labbra erano morbide in piacevole contrasto con
l’accenno di barba che sfregava contro la mia pelle. La
sensazione
provata poco prima al bancone, quando mi aveva sfiorato più
volte la
mano, mi invase il corpo centuplicata in un palpito indescrivibile.
Ogni cellula del mio corpo sembrava soggiogata.
Quando
decise di
interrompere il contatto cambiò posizione, abbracciandomi da
dietro
e affondando il viso contro la mia spalla. Posò un bacio
leggero
sulla mia gola, come per ascoltare il pulsare del mio sangue sotto la
pelle. Il contatto mi fece rabbrividire dalla punta dei piedi a
quella dei capelli. Tutte le sue difese parvero infine crollare come
un fragile castello di carte e ricominciò a singhiozzare
stretto a
me, un braccio avvolto attorno alle mie spalle.
«Ehi,
è tutto ok» mi
trovai a sussurrare, posandogli la mano sul braccio che mi avvolgeva,
accarezzandogli la pelle e tentando di consolarlo come meglio potevo.
Deglutii e mi sforzai di non piangere, di non lasciarmi sopraffare.
Conoscere il motivo per cui stava così male rievocava in me
tristi
ricordi a cui non volevo pensare. Già in macchina con i miei
amici
avevo rischiato il crollo solo per un’allusione innocente di
Louis,
non potevo cedere di nuovo.
Ma
lì, assieme a lui,
sembrava più facile abbandonarmi alle mie vere emozioni.
Eravamo
soli ed eravamo insieme, uniti dallo stesso lutto anche se per due
persone diverse.
Alzò
il viso e percepii le
sue labbra a pochi centimetri dal mio orecchio. «Davvero non
ti
sembra strano che due persone come me e te abbiano così
tante cose
in comune?»
Scossi la
testa, senza
capire perché quella questione lo incuriosisse
così tanto.
«Gli
esseri umani sono
così…prevedibili» disse ancora.
Aggrottai la fronte, pronta a
chiedergli di che stesse parlando, ma fu allora che provai una
sensazione strana, come una consapevolezza improvvisa, un segnale di
pericolo.
«Perdonami,
davvero…»
disse tra quelli che fino a qualche istante prima mi erano parsi
singhiozzi addolorati. Ora capii che stava ridendo. «Niente
di
personale, credimi, è solo un piccolo regalo per il mio
amico».
Per la prima
volta da
quando si era avvicinato azzardai osai alzare lo sguardo e fissare la
nostra immagine riflessa. Ciò che lessi nei suoi occhi mi
fece
rabbrividire, ma fu lo scintillio del coccio di vetro che reggeva in
mano a farmi gelare il sangue nelle vene.
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