Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: Dobhran    21/06/2016    2 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Un grazie di cuore ad AnonymousA per aver recensito! Ecco il nuovo capitolo :)




Occhi alteri, lingua bugiarda, mani che versano sangue innocente; cuore che ordisce trame malvagie, piedi solleciti a correre al male…
Proverbi, 6,17-18.






7.




Il completo candore della stanza fu quasi uno shock per la vista dopo la luce rossastra del Mephisto. Ai lati della stanza c’erano le tazze nascoste da pannelli separatori bianchi, mentre qualche metro davanti alla soglia un lungo specchio da parete sormontava una fila di lavandini immacolati.
Simon mi dava la schiena, chino su di essi. Non riuscivo a vedere il suo volto, ma era chiaro che fosse piuttosto sconvolto perché anche dalla mia posizione notai il tremito del suo corpo e il respiro affannoso, come dopo una lunga corsa.
Eravamo solo noi due ed ero certa che se si fosse trattato di una toilette per signore sarebbe stato molto differente. Lo stereotipo secondo il quale le donne andavano a rinfrescarsi insieme era piuttosto attendibile perciò non osavo immaginare com’era la ressa nel bagno accanto.
«Simon…» mormorai, temendo quasi di attirare la sua attenzione, incerta a proposito della reazione che avrei potuto scatenare. Sentire il mio tono di voce tornato alla normalità fu strano, era insolito non dover più gridare per sovrastare il volume della musica. Quel luogo era un’isola di tranquillità all’interno di un locale che tutto era fuorché pace, perciò mi godetti quell’istante di silenzio. La musica era quasi inesistente, solo un rimbombo in sottofondo.
Lui parve non avermi nemmeno notato. Stringeva le mani attorno al lavandino, come se non contasse su nessun altro sostegno per non crollare a terra.
Accennai qualche passo verso di lui e come risposta a quel gesto alzò il viso e i suoi occhi nel riflesso incontrarono i miei. Era una mia impressione o erano colmi di lacrime?
«Senti, lo so che sono stata indiscreta e mi dispiace molto. Non sono affari miei, scusami per aver insistito. Di solito non sono un’impicciona, ti chiedo scusa».
Il suo sguardo era duro, sofferente, ma non sembrava davvero in collera con me. Respirava a scatti, a fatica e mi chiesi se fosse solo il nervosismo a provocargli quella reazione o se avesse anche problemi fisici.
«Sono stata maleducata» continuai, sperando che dicesse finalmente qualcosa. Si limitò a scuotere la testa, ma l’ambiguità del gesto non mi aiutò a capire che cosa intendesse davvero comunicare. Era in collera per ciò che avevo fatto o mi stava dicendo che non era colpa mia? Non potevo esserne sicura finché non gli avessi sentito pronunciare qualche parola.
La porta si aprì di colpo dietro di me e dall’uscio fece capolino il viso pallido e spruzzato di lentiggini di un ragazzo, ignaro della situazione. Ancora prima che potesse muovere qualche passo, come una furia Simon si voltò e gli puntò l’indice contro, con aria aggressiva.
«Fuori! Fuori di qui!» gridò, lo sguardo truce puntato sul malcapitato, che sbiancò ancora di più e prontamente alzò le mani in segno di resa.
«Ehi, calma! Che ti prende?»
«Ho detto fuori!» Il tono di Simon non ammetteva repliche, così diverso da qualche istante prima, quando avevamo chiacchierato del più e del meno. Avevo pensato che fosse basso e seducente, molto virile. Ora vi leggevo un sottofondo di paura come se da un momento all’altro le parole si dovessero trasformare in grida di terrore.
«Esco, stai tranquillo». Il ragazzo fece qualche passo indietro come se avesse una pistola puntata in faccia. Mentalmente lo ringraziai per non essersela presa e per non aver interpretato la reazione di Simon come un’offesa personale o un tentativo di piantare grane. D’altra parte, che avrebbe potuto fare se così fosse stato? Minuto com’era non avrebbe potuto tenere testa al fisico più sviluppato di Simon.
«Scusaci, risolviamo in un attimo, ok?» mi giustificai, cercando di infondergli fiducia con un sorriso, ma lui non diede segno di avere problemi al riguardo. Mi lanciò un’occhiata tra il rassegnato e il confuso, poi tornò in silenzio da dove era venuto.
Simon si passò il dorso della mano sugli occhi e sospirò. «Cristo, scusa, non so che mi è preso».
La sua voce era intrisa di dolore e disagio e quando abbassò il braccio i miei sospetti trovarono fondamento: stava piangendo. Con il respiro spezzato e un colpo di tosse si chinò su se stesso e posò le mani sulle ginocchia. Tentò di respirare normalmente, ma notai che il suo viso era imperlato di sudore e si portava spesso la mano al petto.
«Senti dolore al torace?» chiesi, in un sussurro che fu più un’affermazione che una vera domanda. Anche prima che annuisse riuscii a capire quale fosse il problema. Tossì di nuovo, poi scosse la testa.
«Non capisco cosa c'è di sbagliato in me» singhiozzò. Azzardai qualche passo nella sua direzione, ma con cautela, proprio come mi sarei comportata con un animale ferito e spaventato.
«È la prima volta che ti capita?» Scosse la testa, passandosi una mano sulla fronte per asciugarla dal sudore. Aveva l’aria di poter svenire da un momento all’altro.
«Palpitazioni, nausea, sensazione di non poter respirare?» Altro cenno affermativo, come previsto.
«Tranquillo, è solo un attacco di panico. Non cercare di controllarlo o evitarlo, è meglio che faccia il suo corso. Convinciti non solo che passerà, ma che sta già passando. Respira in modo regolare, non incamerare troppa aria o andrai in iperventilazione».
Lo osservai compiere quelle semplici operazioni, gratificata nel vedere che si fidava di me quanto bastava per darmi ascolto. Con gli occhi ancora sbarrati si massaggiò il petto dolente e iniziò lentamente a contare quando gli consigliai di farlo.
Restammo qualche lungo minuto in silenzio, in attesa che l’attacco finisse. Quando il suo respirò tornò regolare e negli occhi non si lesse più il terrore di pochi istanti prima, si scusò, con aria visibilmente mortificata.
«Non ti preoccupare, in fondo è colpa mia, no? Ho scatenato qualcosa di terribile senza saperlo» mormorai. Un’ondata di sollievo mi colpì come uno schiaffo quando lo vidi scuotere la testa. Sapevo che la questione era tutt’altro che risolta, una cosa da poco non poteva certamente scatenare un attacco di panico, ma la convinzione che non fosse arrabbiato con me mi fece sentire un po’ meglio. Tentai qualche parola per rassicurarlo.
«Non c’è niente di cui vergognarsi, sono cose che capitano. Ti capisco».
«No, non credo che tu possa davvero farlo, ma ti ringrazio».
«Vuoi parlarne?» Non volevo insistere, sapendo che proprio così avevo scatenato la sua reazione. Ma ormai era diverso da quando eravamo al bancone. Era per fuggire da quell’attacco ed evitare di mostrarmi la sua debolezza che mi aveva lasciato sola per rifugiarsi in quel bagno, ma ormai non c’era più niente da nascondere.
Sbuffò e tirò su con il naso, un gesto che non mi parve affatto grossolano. Mi ero aspettata che in lui tutto fosse perfetto, ma vederlo cedere alle sue emozioni non fece altro che dimostrarmi che era umano e fragile. Sembrava un bambino dopo ore di pianto, ancora scosso dai singulti e incapace di placarli.
«Che situazione di merda!» esclamò di punto in bianco, dando sfogo alla collera. Non fu tanto il tono rabbioso a spaventarmi quanto il gesto che seguì. Con un rapido movimento, sempre stringendo saldamente la bottiglia, la sbatté con forza sul lavello, mandandola in pezzi e facendo risuonare nella stanza un rumore di vetro infranto. Alcuni cocci caddero ai suoi piedi, altri li sentii scivolare nel lavabo, mentre la birra colava lungo la ceramica.
Nemmeno mi accorsi che al pari del ragazzo entrato poco prima anche io avevo portato le mani avanti in un gesto istintivo di auto-protezione. Lui si ripiegò ancora su se stesso, gettando a terra il collo della bottiglia, unico pezzo reduce dalla sua furia, e chinandosi sul lavandino in un pianto silenzioso. La sua schiena tremava e sobbalzava per i singhiozzi e il mio cuore fu solleticato dalla compassione. Odiavo pensare di essere stata io a causare sia l’attacco di panico che il suo dolore.
Mossi ancora qualche passo verso di lui, senza curarmi del suo sfogo e sperando che all’esterno del bagno nessuno avesse sentito rumori sospetti. Tesi l’orecchio per valutare la situazione, ma nessuno entrò e la musica continuava a pulsare in lontananza. Tutto normale.
«Scusami» biascicò lui dopo qualche istante. «Mi sto comportando come un dannato poppante.»
«Ma no, che dici?» mi lasciai sfuggire una risatina nervosa, avvicinandomi ancora un po’, indecisa se essere spaventata o solo preoccupata per il suo comportamento. I miei tacchi risuonarono sul pavimento, mentre osservavo i danni compiuti. I cocci in fin dei conti non erano tanti, qualche pezzo di vetro scuro qua e là. Il lavello non dava segni di essersi rovinato.
«Quando si parla di mio fratello è sempre così. Per quanto mi sforzi di non pensarci e fare finta che non sia successo niente» spiegò. «La mia reazione è sempre la stessa. Do di matto».
«A quanto pare tenerti tutto dentro non ti fa bene. Sono una perfetta sconosciuta, lo so, e non devi parlarmene se non vuoi, ma assicurati di farlo con qualcuno.»
«È morto». La secchezza dell’affermazione mi lasciò spiazzata e in silenzio e anche se non era di me che si parlava, il cuore mi parve sprofondare in un mare gelato. Fui tentata di chiedere di ripetere, ma rimasi zitta, in ascolto del rumore prodotto dal respiro di entrambi. Il mio avevo assunto un ritmo diverso ora che sapevo il motivo del turbamento del ragazzo e per quanto mi sforzassi di rimanere impassibile, o al massimo mostrarmi dispiaciuta per la sua perdita, non riuscii a sbarrare le porte al dolore.
Inevitabilmente il pensiero andò all'anno precedente, a quella notizia sussurrata dalle labbra di mia madre, al suo tono gelido e alla corsa forsennata in ospedale. La speranza, strenua fino all’ultimo, che tutto potesse andare liscio, che tornasse alla normalità, perché quello non poteva davvero accadere a noi. A qualcun altro sì, ma non a noi…non a me. E poi quella mazzata in pieno petto, il cuore che si strappava a metà, il respiro mozzato in gola e il desiderio di sprofondare, morire, annientarmi completamente per non ritornare mai più al presente.
«Mi dispiace» bisbigliai, un debole sussurro a stento scivolato fuori dalle labbra. Due parole che avevo sentito così tanto nei giorni seguenti a ciò che era accaduto, che ne conoscevo a memoria la cadenza come una ninna nanna cantata troppe volte e ormai vecchia.
Senza che lo spronassi, Simon parlo da sé. «Un incidente automobilistico sei mesi fa. Era poco più grande di me»
Avrei voluto dire ancora che mi dispiaceva, ma la voce mi si spense in gola non appena tentai di prendere parola.
«Non riesco a smettere di pensare a lui e ogni volta mi sento morire. Perciò scusami se ho reagito in malo modo, sia prima al bancone sia poco fa».
Si voltò di nuovo, il viso pallido rigato di lacrime, gli occhi che brillavano ancora di più e di un colore divenuto splendido. Il suo sguardo profondamente ferito e l’orda dei ricordi mi fecero pizzicare gli angoli degli occhi. Mi schiarii la voce.
«Ho detto che ti capisco non per pronunciare qualche parola di circostanza, ma perché posso davvero comprendere cosa provi. Ti sembrerà una coincidenza inquietante, ma...anche io ho perso mio fratello». Dirlo, pronunciarlo ad alta voce, fu come ammettere a me stessa che era successo davvero. Non ne parlavo quasi mai con nessuno, anche se tutti sapevano che l’altro figlio di David e Patricia Hale era morto. Non era mia intenzione negarlo, ma era normale evitare ciò che ci faceva soffrire.
Simon mi guardò, soppesando le mie parole, quasi dubitando della veridicità della mia affermazione, come se avessi potuto mentire su una questione così delicata. Sostenni il suo sguardo, pesante come un macigno, finché non lo sentii sbuffare.
«Perfetto, adesso sì che mi sento un imbecille. Un ragazzone come me che piange e tu che te ne stai lì, composta. Pare che io non riesca a tenere a freno le mie emozioni» si lamentò, con un mezzo sorriso, come per sdrammatizzare e piegare quella situazione spiacevole in una battuta di spirito.
«Sono le emozioni che ci ricordano che siamo vivi».
Annuì pensieroso, poi abbassò lo sguardo. «Com’è successo?»
«Investito da un furgone mentre andava in bici. Si potrebbe chiamare incidente, ma il conducente è passato col rosso. Evidentemente aveva parecchia fretta».
La freddezza con la quale le parole uscirono dalle mie labbra stupì anche me. La voce era tremante, ma presente. Evitai di menzionare l’odio che avevo provato per quell’uomo appena avevo saputo che era stato lui a causare la morte della persona più importante della mia vita. Non ne andavo fiera, ma se lo avessi incontrato per la strada, cosa impossibile perché era in carcere, l’avrei ucciso con le mie mani.
«Anche a me dispiace per tuo fratello» dichiarò Simon in un sussurro. «Mi perdoni per prima?»
«Non credo che tu abbia mai avuto nulla da farti perdonare. Come ho già detto sono io che devo chiedere scusa per essere stata poco delicata. Di solito ho molto più tatto, ma l’alcol mi ha fatto varcare qualche confine vietato, perciò facciamo così: lasciamo perdere tutto e torniamocene di là, ok?»
Non ero sicura che potesse funzionare davvero. Avevamo aperto troppi armadi e gli scheletri erano balzati fuori a ricordarci questioni che dovevamo fronteggiare prima o poi, ma ero intenzionata a provarci. Forse una passeggiata all’aria aperta lo avrebbe aiutato a riprendersi dalle conseguenze fisiche del suo dolore.
Di nuovo un breve cenno del capo da parte sua. Osai qualche altro passo nella sua direzione e lui fece lo stesso, scrutandomi con quegli occhi verdi non più solo seducenti e ammalianti, ma anche pieni di emozioni. Dapprima la sua mano mi sfiorò una guancia, poi si chinò verso di me e posò la fronte contro la mia tempia, piegando la schiena per abbassarsi verso di me. La sua pelle era fresca e lievemente umida, mentre contro la guancia sentii la sua barba pungermi la pelle e il tocco bagnato delle sue lacrime.
«Non ti sembra incredibile? Abbiamo tante cose in comune, quelle belle e quelle dolorose» mormorò. Il suo respiro mi solleticò il mento, causandomi una stretta allo stomaco per la vicinanza di quel ragazzo che ritenevo magnifico. Le parole mi rimasero incastrate in gola, perciò mi limitai ad annuire.
«Sembra quasi qualcosa di soprannaturale».
«Se ci credessi direi che è destino» riuscii finalmente ad affermare, con un sorriso. Feci per aggiungere altro, per chiarire che non c’era nulla di strano in quelle coincidenze, semmai erano una piacevole sorpresa, ma interruppe ogni tentativo posando le labbra sulle mie. Ci misi qualche secondo a realizzare che mi stava baciando e che non era solo un sogno ad occhi aperti generato dal contatto. Mi posò una mano alla base della schiena, in un tocco sicuro che mi fece sentire sorretta, come se potesse leggere nei miei pensieri e vedervi il timore di essere sopraffatta dalle emozioni e crollare a terra. Aspettai a mettergli le braccia attorno al collo, seguendo invece i suoi movimenti e lasciandolo fare. La sua bocca sapeva ancora di birra, le sue labbra erano morbide in piacevole contrasto con l’accenno di barba che sfregava contro la mia pelle. La sensazione provata poco prima al bancone, quando mi aveva sfiorato più volte la mano, mi invase il corpo centuplicata in un palpito indescrivibile. Ogni cellula del mio corpo sembrava soggiogata.
Quando decise di interrompere il contatto cambiò posizione, abbracciandomi da dietro e affondando il viso contro la mia spalla. Posò un bacio leggero sulla mia gola, come per ascoltare il pulsare del mio sangue sotto la pelle. Il contatto mi fece rabbrividire dalla punta dei piedi a quella dei capelli. Tutte le sue difese parvero infine crollare come un fragile castello di carte e ricominciò a singhiozzare stretto a me, un braccio avvolto attorno alle mie spalle.
«Ehi, è tutto ok» mi trovai a sussurrare, posandogli la mano sul braccio che mi avvolgeva, accarezzandogli la pelle e tentando di consolarlo come meglio potevo. Deglutii e mi sforzai di non piangere, di non lasciarmi sopraffare. Conoscere il motivo per cui stava così male rievocava in me tristi ricordi a cui non volevo pensare. Già in macchina con i miei amici avevo rischiato il crollo solo per un’allusione innocente di Louis, non potevo cedere di nuovo.
Ma lì, assieme a lui, sembrava più facile abbandonarmi alle mie vere emozioni. Eravamo soli ed eravamo insieme, uniti dallo stesso lutto anche se per due persone diverse.
Alzò il viso e percepii le sue labbra a pochi centimetri dal mio orecchio. «Davvero non ti sembra strano che due persone come me e te abbiano così tante cose in comune?»
Scossi la testa, senza capire perché quella questione lo incuriosisse così tanto.
«Gli esseri umani sono così…prevedibili» disse ancora. Aggrottai la fronte, pronta a chiedergli di che stesse parlando, ma fu allora che provai una sensazione strana, come una consapevolezza improvvisa, un segnale di pericolo.
«Perdonami, davvero…» disse tra quelli che fino a qualche istante prima mi erano parsi singhiozzi addolorati. Ora capii che stava ridendo. «Niente di personale, credimi, è solo un piccolo regalo per il mio amico».
Per la prima volta da quando si era avvicinato azzardai osai alzare lo sguardo e fissare la nostra immagine riflessa. Ciò che lessi nei suoi occhi mi fece rabbrividire, ma fu lo scintillio del coccio di vetro che reggeva in mano a farmi gelare il sangue nelle vene.
  
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