Ringrazio AnonymousA e
Mivi28 per i commenti al capitolo precedente! Grazie di cuore. Ancora
un po' di pazienza e scoprirete chi è il ragazzo misterioso
che ha salvato Amber!
Perché
costringermi a
vedere l’iniquità e a dover guardare
l’oppressione? Rapina e
violenza stanno davanti a me; c’è rissa e la
discordia prevale! La
legge di certo si affievolisce e scompare per sempre la giustizia.
Perché l’empio domina il giusto la giustizia si
perverte.
Abacuc, 1,
3-4.
9.
Christopher
era famoso per il suo innato ottimismo. Non importava quanto fosse
nera la situazione, lui vi avrebbe trovato almeno un insegnamento
importante. Conoscendolo avrebbe saputo vedere il lato positivo della
sua stessa morte. Avrebbe detto che quella disgrazia poteva essere
utile a riunire la nostra famiglia, ma si sarebbe sbagliato di
grosso. Fu dopo la sua morte che il nostro mondo, già
piuttosto
fragile, finì di crollare.
Avevo
accolto la notizia
della separazione dei nostri genitori come qualcosa di già
noto,
senza stupirmene più di tanto. La mancanza di comunicazione
nel loro
rapporto lo aveva reso indifeso, come una cinta muraria già
piena di
brecce e ormai perduta di fronte all’assedio. Non potevo dare
la
colpa di tutto a mio fratello, lui era solo stata la proverbiale
goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Christopher era sempre
stato l’anello saldo della nostra catena e la sua mancanza
aveva
fatto capitolare tutto.
Tra i pochi
momenti di vera
lucidità al funerale, ricordavo di aver visto i nostri
genitori
fisicamente vicini, ma emotivamente distanti. Evitavano di toccarsi o
anche solo di guardarsi, come se tutto fosse stato causato da una
colpa dell’altro o come se non avessero mai condiviso nulla
nella
loro vita, nemmeno il dolore per quel figlio ormai perduto.
Si erano
limitati ad
ascoltare le condoglianze dei presenti, ringraziando con i volti
tesi. Papà aveva continuato a piangere in silenzio, mia
madre invece
aveva mostrato il solito cipiglio freddo da donna di ghiaccio,
insensibile a tutto.
Il mio
sguardo aveva
abbracciato più volte tutto il prato e ogni punto del
cimitero, fra
le decine di persone presenti, alla ricerca dell’unica che
davvero
avrei voluto presente. Non avevo fatto altro che chiedermi
perché
tutta quella gente fosse lì con noi, perché
avessero deciso di
condividere il nostro dolore, anche se molti di loro non avevano
conosciuto Chris come lo conoscevo io. Loro non sapevano che mio
fratello borbottava nel sonno, che si lavava i denti canticchiando,
che si commuoveva guardando i documentari della BBC per la bellezza
straordinaria della musica che accompagnava ogni scena. E loro non
avrebbero dovuto vivere senza tutte quelle cose.
Perché
si ostinavano ad
avvicinarsi a me e con i loro sguardi feriti suscitare nel mio animo
una sofferenza maggiore? Che me ne facevo della loro
solidarietà,
sapendo che ognuno di loro alla fine della funzione sarebbe tornato
alla propria vita, conservando le parole del prete solo come una
bella predica e un bel ricordo di un ragazzo qualunque?
A me cosa
restava? Due
genitori che rinnegavano ciò che avevano costruito insieme,
che non
si guardavano nemmeno più in faccia e non osavano rivolgersi
la
parola. Una stanza vuota accanto alla mia, priva dei rumori della
presenza di Christopher nella mia vita, del pizzicare delle sue dita
sulle corde della chitarra, della sua voce e dei passi lungo il
corridoio tra le nostre camere.
Eppure avevo
stretto i
denti, accettato il dispiacere degli sconosciuti, grata solo degli
abbracci dei miei migliori amici.
«Siamo
tutti qui per lui…»
avevo mormorato con gli occhi fissi sulla lucida bara di legno
cosparsa di fiori. «Ma lui non
c’è».
Per tutto il
tempo della
funzione mi era sembrato di vederlo cantare assieme al resto del
coro, i suoi occhi gentili che mi fissavano e il perenne sorriso
sulle labbra. Per quanto poetica fosse quell’immagine, mi
aveva
generato un moto di nausea che mi aveva fatto desiderare di scappare
via da lì, ignorare la messa, tornare a casa e chiudere gli
occhi.
Abbandonarmi sul letto e sperare che il sonno avesse la meglio,
salvandomi da quella giornata d’inferno.
Ovviamente
non l’avevo
fatto.
Era sempre
stato Chris a
farmi compagnia quando i nostri genitori erano assenti, rapiti alla
famiglia da un lavoro che richiedeva troppo tempo, a consolarmi
quando qualcosa andava storto, ad ascoltare i miei sfoghi e ad
assorbire nella felpa tutte le mie lacrime adolescenziali.
Sorrideva e
trovava sempre
parole di conforto quando mi dilungavo in monologhi carichi di
preoccupazione sui miei fidanzati pieni di problemi, a strapparmi
risate sincere anche quando non avevo voglia di farlo, a prendere la
chitarra e cantare, sapendo quanto amassi la sua voce, anche se gli
ripetevo in continuazione che la musica che ascoltava era da vecchi.
Avevo detto
tante cose che
non pensavo, per esempio che detestavo il suo ottimismo e la sua
devozione. Trovava gioia in ogni giornata e da vero cristiano
riteneva che ci fosse un senso anche in qualcosa di marcio.
Ma allora
perché il
furgone aveva superato il semaforo rosso proprio nell’istante
esatto in cui Chris attraversava la strada in bicicletta? Che razza
di disegno divino avrebbe mai potuto essere?
Ero atea da
molto prima che
ciò succedesse, ma quell’evento aveva rafforzato
la mia
convinzione che non ci fosse nessun Dio, nessuna forza
imperscrutabile che governava le nostre vite. Quale Dio avrebbe
lasciato che accadessero cose del genere, soprattutto ad un figlio
così fedele? Pensare che esistesse avrebbe significato
sostenere che
non ci amava, perché in un secondo la vita di Chris era
finita e la
mia famiglia era andata in sfacelo.
Una famiglia
che non
riusciva a restare unita nemmeno quando la seconda figlia aveva
rischiato di rimetterci la pelle.
Nella stanza
d’ospedale
si sentivano solo le voci astiose dei miei genitori, impegnati
nell’ennesimo battibecco. La mia sicurezza personale e
ciò che era
accaduto al Mephisto
erano il tema della discussione, ma in realtà era solo un
pretesto
per ricordarsi l’un l’altro il motivo per cui non
vivevano più
assieme.
«Non
sto facendo nessun
terzo grado. Non dire a me come devo parlare a mia figlia,
David!»
esclamò mia madre, lanciandomi uno sguardo glaciale. Io mi
sistemai
meglio sul letto, sentendomi improvvisamente piccola e impotente e
non sapendo chi ringraziare per non aver ereditato il freddo azzurro
dei suoi occhi. Probabilmente un qualche miscuglio di geni che mi
aveva regalato occhi scuri e dolci come quelli di papà.
Nemmeno per
un istante lasciai la sua mano calda e grande, felice che fosse
seduto accanto a me.
Era stato un
sollievo
vederlo varcare per primo la porta della mia stanza, poco dopo il mio
risveglio, mentre mamma era arrivata qualche ora più tardi,
con il
volto teso e uno sguardo duro come il marmo. Ero sicura che volesse
prendermi a ceffoni, furiosa per aver dovuto lasciare il lavoro e
saltare sul primo aereo. Me la immaginai mentre, dopo la chiamata
della polizia, guardava i colleghi con aria imbarazzata dicendo
scusate, le solite scocciature, mia figlia stava per morire.
Vorrei restare ma...
«Come
sarebbe a dire?
L’hai attaccata appena hai messo piede in questa stanza,
dalle un
po’ di respiro!» si difese mio padre, o meglio,
difese me. Gli fui
grata per quel tentativo, ma non feci in tempo a rivolgergli uno
sguardo riconoscente che mia madre già era partita in quarta
con la
sua obiezione.
«Perché
cerchi sempre di
difenderla?»
«Perché
non è il momento
giusto per rimproverarla. Non ora!»
«So
perfettamente cosa
stai cercando di fare!»
La tensione
all’interno
della stanza era palpabile, mi formicolò addosso come una
cappa di
elettricità. Avevo vaghi ricordi di ciò che era
successo, momenti
di buio alternati a veloci lampi blu e rossi che poi avevo intuito
essere appartenuti ai lampeggianti dell’ambulanza e della
polizia.
Nella testa mi risuonava ancora il rimbombo della musica e voci
concitate.
La mia mente
era restia a
ricostruire il tutto, ma non era stato solo un sogno e molti elementi
mi impedivano di ignorare gli eventi. La fronte mi doleva nel punto
in cui l’avevo sbattuta contro il pavimento e un tubicino
trasparente portava sangue da una sacca appesa accanto a me al mio
braccio per reintegrare ciò che avevo perso a causa
dell’emorragia.
In fondo
alla gola sentivo
ancora il sapore del sangue, ne avevo sotto le unghie e tra i
capelli, probabilmente il busto non era da meno, e avevo paura a
parlare troppo forte o a tossire, come se potessero da un momento
all’altro saltare via tutti i punti e lasciarmi ancora in un
lago
di sangue.
Louis e
Jennifer erano
rimasti con me tutto il tempo, ancora prima che mi svegliassi, e mi
avevano poi raccontato ogni cosa che mi ero persa nei momenti di
incoscienza, ancora pallidi in volto e con lo sguardo spaventato. Ero
grata ad entrambi: Louis era uscito tempestivamente dal Mephisto
per chiamare il 911, mentre Jennifer aveva fatto di tutto per non
lasciarmi morire dissanguata. Conoscendo le sue paure e sapendo come
si sentiva male non appena vedeva una goccia di sangue, la
consideravo una vera eroina.
Un risvolto
positivo era
che Kurt si era vomitato sulle scarpe. Pivello.
Il resto lo
ricordavo
perfettamente, per esempio i miei tentativi di allontanarmi il
più
possibile dal mio aggressore, il bruciore ai polmoni causato
dall’impossibilità di respirare, la sensazione
sgradevole del
sangue che usciva a fiotti.
Secondo i
medici la
questione era molto diversa da come la conoscevo io. Mi avevano
ripetuto più di una volta che ero stata fortunata, che la
ferita era
stata molto superficiale e che mi sbagliavo a proposito della
velocità con cui avevo sentito il sangue uscire dal taglio,
perché
se si fosse davvero trattato di un’emorragia arteriosa
sarebbe
stato impossibile per me sopravvivere. In una decina di secondi sarei
morta certamente.
Certo, la
logica con cui mi
avevano spiegato le loro obiezioni non faceva una piega, ma
perché
allora i miei ricordi erano diversi? Mi sembrava impossibile che
fossero bastati otto punti di sutura per rimediare al problema, e
anche Louis e Jenny avevano confermato la mia versione dei fatti.
Quando
papà era arrivato,
con i capelli arruffati e una maglietta spiegazzata pescata
chissà
dove, Jennifer mi aveva abbracciato, Louis mi aveva dato un bacio
sulla fronte ed entrambi mi avevano salutato e promesso di venirmi a
trovare l’indomani. Quando poi avevo visto lo sguardo che mia
madre
aveva rivolto al marito appena aveva posato gli occhi su di lui,
avevo capito che uno scontro era inevitabile.
«Che
cosa intendi dire?
Che cosa starei cercando di fare, sentiamo?» La mano di
papà
strinse la mia con più forza, non ero sicura se lo facesse
per darmi
sicurezza o se per trarla da me.
«Reciti
la parte del padre
perfetto, del grande amico, la difendi senza esitazione».
«Sono
solo felice che sia
viva, per ora ti deve bastare».
«Lo
vedi? Fai passare me
come la cattiva della situazione!»
«Non
è quello che ho
detto…» mormorò mio padre con una
scrollata di spalle. Io evitai
di guardare entrambi troppo a lungo, soprattutto mamma.
All’inizio
avevo tentato di mantenere un certo contegno, perfino di mostrarmi
sprezzante, ma ogni sicurezza era crollata sotto le sferzate del suo
sguardo colmo di rimprovero.
Sospirò,
passandosi una
mano sulla fronte. Aveva l’aria stanca, non sapevo se
attribuirlo
al volo o al fastidio di aver perso tempo.
«Spero
almeno che tu abbia
imparato la lezione» mormorò rivolta a me, con
voce pacata ma
severa. Prima che papà potesse difendermi di nuovo, lei lo
interruppe. «Ha disobbedito ad un ordine di sua madre, ha
dato
confidenza ad un perfetto sconosciuto. Armato, per di
più!»
«Beh,
se avessi saputo che
mi avrebbe ficcato un coccio di vetro in gola non gli avrei dato
retta, non credi?» Feci, sulla difensiva. «Non
potevo saperlo».
«Invece
sì, ti avevo
avvertita che SoMa è una zona pericolosa della
città. Lo dicono
tutti, ma tu devi sempre fare di testa tua».
«Forse
perché sono
abituata ad arrangiarmi!»
«Non
cercare di rifilarmi
scuse assurde o dare la colpa a me per quant’è
successo,
signorina. Sai perfettamente cosa intendo, se ti dico di non fare una
cosa è perché so di cosa sto parlando!»
Evitai di
rispondere anche
se parole taglienti mi premevano contro le labbra, desiderose di
uscire. Se davvero voleva mostrarmi preoccupata o interessata alla
mia salute doveva sforzarsi un po’ di più per
dimostrarlo. Papà
attirò la mia attenzione con un lungo sospiro e le sue
labbra
sottili si piegarono in un sorriso dolce. I suoi occhi color
cioccolato mi rincuorarono e ogni traccia di tensione e rabbia
scivolò via dal mio corpo come tracce di fango lavate via
dalla
pioggia. Con le dita mi scostò alcuni ciuffi dalla fronte.
«Ora
non ti preoccupare di
nulla, d’accordo piccola? L’importante è
che tu stia bene, senza
gravi conseguenze. Ci hai fatto prendere un bello spavento!»
L’uso
del plurale poteva far pensare che si riferisse a lui e mia madre, ma
i miei genitori non erano più un noi
da un pezzo, perciò non poteva che riferirsi a lui e Trudy.
Nella
stanza la tensione raggiunse il picco massimo, come prova del fatto
che anche a mamma l’allusione non era sfuggita.
Papà
frequentava una
ragazza più giovane di una decina d’anni. Stavano
insieme da poco
più di un mese e io la trovavo adorabile, anche se mia madre
mi
fulminava con lo sguardo ogni volta che parlavo di lei in termini
positivi. A dire il vero sembrava odiare qualsiasi cosa rendesse
felice gli altri, ma Trudy era tabù in modo particolare,
perciò
avevo smesso di nominarla in sua presenza. In quel momento non mi
importò nulla. Trudy era splendida e dimostrava molto meno
dei suoi
trentaquattro anni. Pelle delicata e chiara, viso dolce da bambina e
un sorriso contagioso. Aveva capelli rossi che spesso le invidiavo e
belle labbra carnose. Cosa più importante, aveva un gran
senso
dell’umorismo, un’allegria inguaribile e una
gentilezza che me
l’aveva fatta piacere dal primo istante in cui
l’avevo vista. Era
maestra d’asilo e anche se non l’avevo mai vista
all’opera
sapevo che grazie al suo carattere se la cavava sempre alla grande
con i bambini.
Il fatto che
papà stesse
parlando di lei a quell’ora significava che si trovavano
insieme
quando aveva ricevuto la chiamata che lo informava
dell’aggressione.
Sapevo che dopo che era andato via di casa si era trovato un piccolo
appartamento vicino al posto di lavoro, ma ero anche convinta che la
maggior parte delle notti le passasse da lei.
Non era
difficile capire
come avesse fatto Trudy ad innamorarsi di lui, l’avevo sempre
considerato bello come un principe delle fiabe e altrettanto
coraggioso e gentile.
Il suo
aspetto era
confortante per natura, sempre in ordine, ben rasato e ben vestito,
ma lontano dall’essere snob. I capelli biondi erano tagliati
non
troppo corti e pettinati all’indietro, il viso era serio
durante il
lavoro, ma si addolciva spesso grazie alle fossette che si formavano
nelle guance non appena abbozzava un sorriso. Quella sul mento gli
donava un’aria affascinante che probabilmente aveva fatto
breccia
in molti cuori.
Erano le
stesse
caratteristiche che avevano fatto sciogliere anche mia madre,
più di
vent’anni prima e mi sembrava davvero impensabile
l’idea che ogni
sentimento d’amore o d’affetto da parte di lei
fosse stato ormai
soffocato e messo definitivamente a tacere.
Papà
aveva l’abitudine
di prendere ogni sua frecciatina, critica o insulto con una
naturalezza estrema, forse abituato dal suo lavoro o magari solo
rassegnato alla cosa. Era avvocato divorzista, perciò ne
vedeva di
cotte e di crude per quanto riguardava i rapporti umani. Giorno dopo
giorno esaminava casi, ascoltava lamentele, scrutava scartoffie ed
elargiva consigli su come affrontare il problema di separazioni e
divorzi. Era un paradosso che proprio lui avesse dovuto abbandonare
la propria casa e continuare a cercare compromessi per gestire una
moglie mostruosa.
«Come
sta Trudy?» gli
chiesi, ignorando lo sguardo astioso di mia madre che pesava su di
me. Papà si illuminò non appena sentì
il nome dell’amata.
«Sta
bene, ma si è molto
preoccupata per te. Devo ancora metterla al corrente delle tue
condizioni, ma sono certo che domani verrà a farti
visita».
Un lieve
bussare interruppe
la conversazione e mi fece distogliere gli occhi da quelli di mio
padre. La porta si socchiuse, poi si aprii del tutto lasciando
intravedere il sorriso dell’infermiera di turno e i volti di
due
perfetti sconosciuti. Appena misero piede nella stanza estrassero i
distintivi e distrussero ogni mio dubbio.
Uno dei due
poliziotti era
una donna, alta e slanciata, con i capelli neri ondulati e occhi
scuri dall’aria severa. Prese parola per prima, dandomi
l’impressione che fosse sempre lei a condurre il gioco.
«Signorina
Hale, salve.
Sono il detective Angela Collins e lui è il mio collega, il
detective Andrès Sanchez».
Il suo
accompagnatore, un
ispanico dal viso giovane e più basso di lei, mi fece un
cenno di
saluto con aria cordiale. Non mi ero mai trovata di fronte a due
poliziotti prima d’allora, non ero mai stata fermata in auto
e non
avevo mai rivolto la parola a qualcuno di altrettanto autorevole,
perciò non fui certamente stupita di sentire una lieve fitta
di
nervosismo allo stomaco. Non sapevo come comportarmi, alzarmi e
salutare in modo adeguato o restarmene ferma e attendere le loro
parole?
Parvero
leggermi nel
pensiero perché si avvicinarono entrambi per regalarmi una
vigorosa
stretta di mano, senza costringermi a fare la prima mossa. Si
presentarono anche ai miei genitori, poi spiegarono il motivo della
loro presenza.
«Siamo
qui per farle
qualche domanda se non le dispiace. Abbiamo atteso che potesse
riprendersi e calmasi un po’, ora se la sente di scambiare
con noi
qualche parola?»
Annuii
timidamente,
scambiando un’occhiatina con papà.
«Vuoi
che resti?» chiese
lui preoccupato.
«Non
preoccuparti, posso
cavarmela».
«Sei
sicura? Allora
aspetterò fuori, voglio telefonare a Trudy per farle sapere
che stai
bene, poi posso rimanere».
«Cosa?
Tutta la notte?»
Mi sembrava ingiusto farlo restare lì inutilmente. Adoravo
la sua
presenza, ma aveva l’aria stanca, era giusto che andasse a
dormire.
«Tranquillo papà, non c’è
bisogno che mi fai la guardia, so già
che dormirò come un sasso».
Il suo viso
lasciò
trapelare il dubbio. «Ne sei sicura, tesoro?»
«Al
cento per cento.
Salutami Trudy e dille che ho la pellaccia dura» lo
rassicurai,
facendolo ridacchiare. Si sporse verso di me e mi posò un
bacio
leggero sui capelli, mentre io inspiravo il suo profumo di pulito.
Sebbene ci vedessimo spesso mi mancava ogni giorno di più e
tutte le
volte che ci incontravamo e incrociavo il suo sguardo colmo
d’affetto
mi rendevo conto di quando fosse triste non averlo più a
casa.
«Allora
tornerò domani.
Buona notte. Arrivederci Trish.» rivolse un breve cenno a mia
madre.
L’uso del diminutivo mi fece capire che lui non portava
rancore nei
confronti della moglie. Strinse la mano ai due detective,
ringraziandoli per il loro lavoro, e se ne andò.
«Esco
anche io, così
potete parlare tranquillamente» si intromise mia madre,
alzandosi
dalla sedia e imitando papà. «Sarò qui
fuori se hai bisogno,
d’accordo?» Disse stancamente. Mi limitai a un
cenno d’assenso,
più preoccupata di ciò che la presenza della
polizia avrebbe
provocato: il dover ricordare a me stessa tutto quello che era
successo nel bagno. Di conseguenza il pensiero andò
all’unica
persona a cui non volevo ripensare.
Simon.
Solo il suo
nome mi mise i
brividi. Perché aveva cercato di uccidermi e con quali
intenzioni?
Più ci riflettevo e più lontana mi sentivo dal
capirlo. Se solo lo
avessi provocato in qualche modo avrei giustificato uno scatto
d’ira,
ma non si era trattato di un raptus e a parte il momento di rabbia in
cui aveva rotto la bottiglia sul lavandino, non avevo colto segnali
di minaccia.
E poi mi
tormentava ciò
che aveva detto, che l’aggressione era un regalo ad un suo
amico,
ma di chi parlava? Della stessa persona che aveva detto di aver visto
quando eravamo al bancone?
Se mi aveva
ferito per
compiacerlo allora dovevo considerarmi protagonista di una macabra
scommessa?
Era assurdo
e l’idea di
essere interrogata da quei due mi metteva in soggezione. Feci un
profondo sospiro e mi stampai un sorriso in faccia.
«Chiedete
pure».
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