Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: Dobhran    26/06/2016    2 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Ringrazio AnonymousA e Mivi28 per i commenti al capitolo precedente! Grazie di cuore. Ancora un po' di pazienza e scoprirete chi è il ragazzo misterioso che ha salvato Amber!









Perché costringermi a vedere l’iniquità e a dover guardare l’oppressione? Rapina e violenza stanno davanti a me; c’è rissa e la discordia prevale! La legge di certo si affievolisce e scompare per sempre la giustizia. Perché l’empio domina il giusto la giustizia si perverte.
Abacuc, 1, 3-4.






9.




Christopher era famoso per il suo innato ottimismo. Non importava quanto fosse nera la situazione, lui vi avrebbe trovato almeno un insegnamento importante. Conoscendolo avrebbe saputo vedere il lato positivo della sua stessa morte. Avrebbe detto che quella disgrazia poteva essere utile a riunire la nostra famiglia, ma si sarebbe sbagliato di grosso. Fu dopo la sua morte che il nostro mondo, già piuttosto fragile, finì di crollare.
Avevo accolto la notizia della separazione dei nostri genitori come qualcosa di già noto, senza stupirmene più di tanto. La mancanza di comunicazione nel loro rapporto lo aveva reso indifeso, come una cinta muraria già piena di brecce e ormai perduta di fronte all’assedio. Non potevo dare la colpa di tutto a mio fratello, lui era solo stata la proverbiale goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Christopher era sempre stato l’anello saldo della nostra catena e la sua mancanza aveva fatto capitolare tutto.
Tra i pochi momenti di vera lucidità al funerale, ricordavo di aver visto i nostri genitori fisicamente vicini, ma emotivamente distanti. Evitavano di toccarsi o anche solo di guardarsi, come se tutto fosse stato causato da una colpa dell’altro o come se non avessero mai condiviso nulla nella loro vita, nemmeno il dolore per quel figlio ormai perduto.
Si erano limitati ad ascoltare le condoglianze dei presenti, ringraziando con i volti tesi. Papà aveva continuato a piangere in silenzio, mia madre invece aveva mostrato il solito cipiglio freddo da donna di ghiaccio, insensibile a tutto.
Il mio sguardo aveva abbracciato più volte tutto il prato e ogni punto del cimitero, fra le decine di persone presenti, alla ricerca dell’unica che davvero avrei voluto presente. Non avevo fatto altro che chiedermi perché tutta quella gente fosse lì con noi, perché avessero deciso di condividere il nostro dolore, anche se molti di loro non avevano conosciuto Chris come lo conoscevo io. Loro non sapevano che mio fratello borbottava nel sonno, che si lavava i denti canticchiando, che si commuoveva guardando i documentari della BBC per la bellezza straordinaria della musica che accompagnava ogni scena. E loro non avrebbero dovuto vivere senza tutte quelle cose.
Perché si ostinavano ad avvicinarsi a me e con i loro sguardi feriti suscitare nel mio animo una sofferenza maggiore? Che me ne facevo della loro solidarietà, sapendo che ognuno di loro alla fine della funzione sarebbe tornato alla propria vita, conservando le parole del prete solo come una bella predica e un bel ricordo di un ragazzo qualunque?
A me cosa restava? Due genitori che rinnegavano ciò che avevano costruito insieme, che non si guardavano nemmeno più in faccia e non osavano rivolgersi la parola. Una stanza vuota accanto alla mia, priva dei rumori della presenza di Christopher nella mia vita, del pizzicare delle sue dita sulle corde della chitarra, della sua voce e dei passi lungo il corridoio tra le nostre camere.
Eppure avevo stretto i denti, accettato il dispiacere degli sconosciuti, grata solo degli abbracci dei miei migliori amici.
«Siamo tutti qui per lui…» avevo mormorato con gli occhi fissi sulla lucida bara di legno cosparsa di fiori. «Ma lui non c’è».
Per tutto il tempo della funzione mi era sembrato di vederlo cantare assieme al resto del coro, i suoi occhi gentili che mi fissavano e il perenne sorriso sulle labbra. Per quanto poetica fosse quell’immagine, mi aveva generato un moto di nausea che mi aveva fatto desiderare di scappare via da lì, ignorare la messa, tornare a casa e chiudere gli occhi. Abbandonarmi sul letto e sperare che il sonno avesse la meglio, salvandomi da quella giornata d’inferno.
Ovviamente non l’avevo fatto.
Era sempre stato Chris a farmi compagnia quando i nostri genitori erano assenti, rapiti alla famiglia da un lavoro che richiedeva troppo tempo, a consolarmi quando qualcosa andava storto, ad ascoltare i miei sfoghi e ad assorbire nella felpa tutte le mie lacrime adolescenziali.
Sorrideva e trovava sempre parole di conforto quando mi dilungavo in monologhi carichi di preoccupazione sui miei fidanzati pieni di problemi, a strapparmi risate sincere anche quando non avevo voglia di farlo, a prendere la chitarra e cantare, sapendo quanto amassi la sua voce, anche se gli ripetevo in continuazione che la musica che ascoltava era da vecchi.
Avevo detto tante cose che non pensavo, per esempio che detestavo il suo ottimismo e la sua devozione. Trovava gioia in ogni giornata e da vero cristiano riteneva che ci fosse un senso anche in qualcosa di marcio.
Ma allora perché il furgone aveva superato il semaforo rosso proprio nell’istante esatto in cui Chris attraversava la strada in bicicletta? Che razza di disegno divino avrebbe mai potuto essere?
Ero atea da molto prima che ciò succedesse, ma quell’evento aveva rafforzato la mia convinzione che non ci fosse nessun Dio, nessuna forza imperscrutabile che governava le nostre vite. Quale Dio avrebbe lasciato che accadessero cose del genere, soprattutto ad un figlio così fedele? Pensare che esistesse avrebbe significato sostenere che non ci amava, perché in un secondo la vita di Chris era finita e la mia famiglia era andata in sfacelo.
Una famiglia che non riusciva a restare unita nemmeno quando la seconda figlia aveva rischiato di rimetterci la pelle.
Nella stanza d’ospedale si sentivano solo le voci astiose dei miei genitori, impegnati nell’ennesimo battibecco. La mia sicurezza personale e ciò che era accaduto al Mephisto erano il tema della discussione, ma in realtà era solo un pretesto per ricordarsi l’un l’altro il motivo per cui non vivevano più assieme.
«Non sto facendo nessun terzo grado. Non dire a me come devo parlare a mia figlia, David!» esclamò mia madre, lanciandomi uno sguardo glaciale. Io mi sistemai meglio sul letto, sentendomi improvvisamente piccola e impotente e non sapendo chi ringraziare per non aver ereditato il freddo azzurro dei suoi occhi. Probabilmente un qualche miscuglio di geni che mi aveva regalato occhi scuri e dolci come quelli di papà. Nemmeno per un istante lasciai la sua mano calda e grande, felice che fosse seduto accanto a me.
Era stato un sollievo vederlo varcare per primo la porta della mia stanza, poco dopo il mio risveglio, mentre mamma era arrivata qualche ora più tardi, con il volto teso e uno sguardo duro come il marmo. Ero sicura che volesse prendermi a ceffoni, furiosa per aver dovuto lasciare il lavoro e saltare sul primo aereo. Me la immaginai mentre, dopo la chiamata della polizia, guardava i colleghi con aria imbarazzata dicendo scusate, le solite scocciature, mia figlia stava per morire. Vorrei restare ma...
«Come sarebbe a dire? L’hai attaccata appena hai messo piede in questa stanza, dalle un po’ di respiro!» si difese mio padre, o meglio, difese me. Gli fui grata per quel tentativo, ma non feci in tempo a rivolgergli uno sguardo riconoscente che mia madre già era partita in quarta con la sua obiezione.
«Perché cerchi sempre di difenderla?»
«Perché non è il momento giusto per rimproverarla. Non ora!»
«So perfettamente cosa stai cercando di fare!»
La tensione all’interno della stanza era palpabile, mi formicolò addosso come una cappa di elettricità. Avevo vaghi ricordi di ciò che era successo, momenti di buio alternati a veloci lampi blu e rossi che poi avevo intuito essere appartenuti ai lampeggianti dell’ambulanza e della polizia. Nella testa mi risuonava ancora il rimbombo della musica e voci concitate.
La mia mente era restia a ricostruire il tutto, ma non era stato solo un sogno e molti elementi mi impedivano di ignorare gli eventi. La fronte mi doleva nel punto in cui l’avevo sbattuta contro il pavimento e un tubicino trasparente portava sangue da una sacca appesa accanto a me al mio braccio per reintegrare ciò che avevo perso a causa dell’emorragia.
In fondo alla gola sentivo ancora il sapore del sangue, ne avevo sotto le unghie e tra i capelli, probabilmente il busto non era da meno, e avevo paura a parlare troppo forte o a tossire, come se potessero da un momento all’altro saltare via tutti i punti e lasciarmi ancora in un lago di sangue.
Louis e Jennifer erano rimasti con me tutto il tempo, ancora prima che mi svegliassi, e mi avevano poi raccontato ogni cosa che mi ero persa nei momenti di incoscienza, ancora pallidi in volto e con lo sguardo spaventato. Ero grata ad entrambi: Louis era uscito tempestivamente dal Mephisto per chiamare il 911, mentre Jennifer aveva fatto di tutto per non lasciarmi morire dissanguata. Conoscendo le sue paure e sapendo come si sentiva male non appena vedeva una goccia di sangue, la consideravo una vera eroina.
Un risvolto positivo era che Kurt si era vomitato sulle scarpe. Pivello.
Il resto lo ricordavo perfettamente, per esempio i miei tentativi di allontanarmi il più possibile dal mio aggressore, il bruciore ai polmoni causato dall’impossibilità di respirare, la sensazione sgradevole del sangue che usciva a fiotti.
Secondo i medici la questione era molto diversa da come la conoscevo io. Mi avevano ripetuto più di una volta che ero stata fortunata, che la ferita era stata molto superficiale e che mi sbagliavo a proposito della velocità con cui avevo sentito il sangue uscire dal taglio, perché se si fosse davvero trattato di un’emorragia arteriosa sarebbe stato impossibile per me sopravvivere. In una decina di secondi sarei morta certamente.
Certo, la logica con cui mi avevano spiegato le loro obiezioni non faceva una piega, ma perché allora i miei ricordi erano diversi? Mi sembrava impossibile che fossero bastati otto punti di sutura per rimediare al problema, e anche Louis e Jenny avevano confermato la mia versione dei fatti.
Quando papà era arrivato, con i capelli arruffati e una maglietta spiegazzata pescata chissà dove, Jennifer mi aveva abbracciato, Louis mi aveva dato un bacio sulla fronte ed entrambi mi avevano salutato e promesso di venirmi a trovare l’indomani. Quando poi avevo visto lo sguardo che mia madre aveva rivolto al marito appena aveva posato gli occhi su di lui, avevo capito che uno scontro era inevitabile.
«Che cosa intendi dire? Che cosa starei cercando di fare, sentiamo?» La mano di papà strinse la mia con più forza, non ero sicura se lo facesse per darmi sicurezza o se per trarla da me.
«Reciti la parte del padre perfetto, del grande amico, la difendi senza esitazione».
«Sono solo felice che sia viva, per ora ti deve bastare».
«Lo vedi? Fai passare me come la cattiva della situazione!»
«Non è quello che ho detto…» mormorò mio padre con una scrollata di spalle. Io evitai di guardare entrambi troppo a lungo, soprattutto mamma. All’inizio avevo tentato di mantenere un certo contegno, perfino di mostrarmi sprezzante, ma ogni sicurezza era crollata sotto le sferzate del suo sguardo colmo di rimprovero.
Sospirò, passandosi una mano sulla fronte. Aveva l’aria stanca, non sapevo se attribuirlo al volo o al fastidio di aver perso tempo.
«Spero almeno che tu abbia imparato la lezione» mormorò rivolta a me, con voce pacata ma severa. Prima che papà potesse difendermi di nuovo, lei lo interruppe. «Ha disobbedito ad un ordine di sua madre, ha dato confidenza ad un perfetto sconosciuto. Armato, per di più!»
«Beh, se avessi saputo che mi avrebbe ficcato un coccio di vetro in gola non gli avrei dato retta, non credi?» Feci, sulla difensiva. «Non potevo saperlo».
«Invece sì, ti avevo avvertita che SoMa è una zona pericolosa della città. Lo dicono tutti, ma tu devi sempre fare di testa tua».
«Forse perché sono abituata ad arrangiarmi!»
«Non cercare di rifilarmi scuse assurde o dare la colpa a me per quant’è successo, signorina. Sai perfettamente cosa intendo, se ti dico di non fare una cosa è perché so di cosa sto parlando!»
Evitai di rispondere anche se parole taglienti mi premevano contro le labbra, desiderose di uscire. Se davvero voleva mostrarmi preoccupata o interessata alla mia salute doveva sforzarsi un po’ di più per dimostrarlo. Papà attirò la mia attenzione con un lungo sospiro e le sue labbra sottili si piegarono in un sorriso dolce. I suoi occhi color cioccolato mi rincuorarono e ogni traccia di tensione e rabbia scivolò via dal mio corpo come tracce di fango lavate via dalla pioggia. Con le dita mi scostò alcuni ciuffi dalla fronte.
«Ora non ti preoccupare di nulla, d’accordo piccola? L’importante è che tu stia bene, senza gravi conseguenze. Ci hai fatto prendere un bello spavento!» L’uso del plurale poteva far pensare che si riferisse a lui e mia madre, ma i miei genitori non erano più un noi da un pezzo, perciò non poteva che riferirsi a lui e Trudy. Nella stanza la tensione raggiunse il picco massimo, come prova del fatto che anche a mamma l’allusione non era sfuggita.
Papà frequentava una ragazza più giovane di una decina d’anni. Stavano insieme da poco più di un mese e io la trovavo adorabile, anche se mia madre mi fulminava con lo sguardo ogni volta che parlavo di lei in termini positivi. A dire il vero sembrava odiare qualsiasi cosa rendesse felice gli altri, ma Trudy era tabù in modo particolare, perciò avevo smesso di nominarla in sua presenza. In quel momento non mi importò nulla. Trudy era splendida e dimostrava molto meno dei suoi trentaquattro anni. Pelle delicata e chiara, viso dolce da bambina e un sorriso contagioso. Aveva capelli rossi che spesso le invidiavo e belle labbra carnose. Cosa più importante, aveva un gran senso dell’umorismo, un’allegria inguaribile e una gentilezza che me l’aveva fatta piacere dal primo istante in cui l’avevo vista. Era maestra d’asilo e anche se non l’avevo mai vista all’opera sapevo che grazie al suo carattere se la cavava sempre alla grande con i bambini.
Il fatto che papà stesse parlando di lei a quell’ora significava che si trovavano insieme quando aveva ricevuto la chiamata che lo informava dell’aggressione. Sapevo che dopo che era andato via di casa si era trovato un piccolo appartamento vicino al posto di lavoro, ma ero anche convinta che la maggior parte delle notti le passasse da lei.
Non era difficile capire come avesse fatto Trudy ad innamorarsi di lui, l’avevo sempre considerato bello come un principe delle fiabe e altrettanto coraggioso e gentile.
Il suo aspetto era confortante per natura, sempre in ordine, ben rasato e ben vestito, ma lontano dall’essere snob. I capelli biondi erano tagliati non troppo corti e pettinati all’indietro, il viso era serio durante il lavoro, ma si addolciva spesso grazie alle fossette che si formavano nelle guance non appena abbozzava un sorriso. Quella sul mento gli donava un’aria affascinante che probabilmente aveva fatto breccia in molti cuori.
Erano le stesse caratteristiche che avevano fatto sciogliere anche mia madre, più di vent’anni prima e mi sembrava davvero impensabile l’idea che ogni sentimento d’amore o d’affetto da parte di lei fosse stato ormai soffocato e messo definitivamente a tacere.
Papà aveva l’abitudine di prendere ogni sua frecciatina, critica o insulto con una naturalezza estrema, forse abituato dal suo lavoro o magari solo rassegnato alla cosa. Era avvocato divorzista, perciò ne vedeva di cotte e di crude per quanto riguardava i rapporti umani. Giorno dopo giorno esaminava casi, ascoltava lamentele, scrutava scartoffie ed elargiva consigli su come affrontare il problema di separazioni e divorzi. Era un paradosso che proprio lui avesse dovuto abbandonare la propria casa e continuare a cercare compromessi per gestire una moglie mostruosa.
«Come sta Trudy?» gli chiesi, ignorando lo sguardo astioso di mia madre che pesava su di me. Papà si illuminò non appena sentì il nome dell’amata.
«Sta bene, ma si è molto preoccupata per te. Devo ancora metterla al corrente delle tue condizioni, ma sono certo che domani verrà a farti visita».
Un lieve bussare interruppe la conversazione e mi fece distogliere gli occhi da quelli di mio padre. La porta si socchiuse, poi si aprii del tutto lasciando intravedere il sorriso dell’infermiera di turno e i volti di due perfetti sconosciuti. Appena misero piede nella stanza estrassero i distintivi e distrussero ogni mio dubbio.
Uno dei due poliziotti era una donna, alta e slanciata, con i capelli neri ondulati e occhi scuri dall’aria severa. Prese parola per prima, dandomi l’impressione che fosse sempre lei a condurre il gioco.
«Signorina Hale, salve. Sono il detective Angela Collins e lui è il mio collega, il detective Andrès Sanchez».
Il suo accompagnatore, un ispanico dal viso giovane e più basso di lei, mi fece un cenno di saluto con aria cordiale. Non mi ero mai trovata di fronte a due poliziotti prima d’allora, non ero mai stata fermata in auto e non avevo mai rivolto la parola a qualcuno di altrettanto autorevole, perciò non fui certamente stupita di sentire una lieve fitta di nervosismo allo stomaco. Non sapevo come comportarmi, alzarmi e salutare in modo adeguato o restarmene ferma e attendere le loro parole?
Parvero leggermi nel pensiero perché si avvicinarono entrambi per regalarmi una vigorosa stretta di mano, senza costringermi a fare la prima mossa. Si presentarono anche ai miei genitori, poi spiegarono il motivo della loro presenza.
«Siamo qui per farle qualche domanda se non le dispiace. Abbiamo atteso che potesse riprendersi e calmasi un po’, ora se la sente di scambiare con noi qualche parola?»
Annuii timidamente, scambiando un’occhiatina con papà.
«Vuoi che resti?» chiese lui preoccupato.
«Non preoccuparti, posso cavarmela».
«Sei sicura? Allora aspetterò fuori, voglio telefonare a Trudy per farle sapere che stai bene, poi posso rimanere».
«Cosa? Tutta la notte?» Mi sembrava ingiusto farlo restare lì inutilmente. Adoravo la sua presenza, ma aveva l’aria stanca, era giusto che andasse a dormire. «Tranquillo papà, non c’è bisogno che mi fai la guardia, so già che dormirò come un sasso».
Il suo viso lasciò trapelare il dubbio. «Ne sei sicura, tesoro?»
«Al cento per cento. Salutami Trudy e dille che ho la pellaccia dura» lo rassicurai, facendolo ridacchiare. Si sporse verso di me e mi posò un bacio leggero sui capelli, mentre io inspiravo il suo profumo di pulito. Sebbene ci vedessimo spesso mi mancava ogni giorno di più e tutte le volte che ci incontravamo e incrociavo il suo sguardo colmo d’affetto mi rendevo conto di quando fosse triste non averlo più a casa.
«Allora tornerò domani. Buona notte. Arrivederci Trish.» rivolse un breve cenno a mia madre. L’uso del diminutivo mi fece capire che lui non portava rancore nei confronti della moglie. Strinse la mano ai due detective, ringraziandoli per il loro lavoro, e se ne andò.
«Esco anche io, così potete parlare tranquillamente» si intromise mia madre, alzandosi dalla sedia e imitando papà. «Sarò qui fuori se hai bisogno, d’accordo?» Disse stancamente. Mi limitai a un cenno d’assenso, più preoccupata di ciò che la presenza della polizia avrebbe provocato: il dover ricordare a me stessa tutto quello che era successo nel bagno. Di conseguenza il pensiero andò all’unica persona a cui non volevo ripensare.
Simon.
Solo il suo nome mi mise i brividi. Perché aveva cercato di uccidermi e con quali intenzioni? Più ci riflettevo e più lontana mi sentivo dal capirlo. Se solo lo avessi provocato in qualche modo avrei giustificato uno scatto d’ira, ma non si era trattato di un raptus e a parte il momento di rabbia in cui aveva rotto la bottiglia sul lavandino, non avevo colto segnali di minaccia.
E poi mi tormentava ciò che aveva detto, che l’aggressione era un regalo ad un suo amico, ma di chi parlava? Della stessa persona che aveva detto di aver visto quando eravamo al bancone?
Se mi aveva ferito per compiacerlo allora dovevo considerarmi protagonista di una macabra scommessa?
Era assurdo e l’idea di essere interrogata da quei due mi metteva in soggezione. Feci un profondo sospiro e mi stampai un sorriso in faccia.
«Chiedete pure».
  
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