Grazie mille ad
AnonymousA per essere passata anche questa volta per un commentino.
Chissà se il ragazzo misterioso farà nuovamente
un'apparizione nella vita di Amber. :) Buona lettura, e mi raccomando,
se la storia vi piace, ma anche se non vi piace, lasciatemi il vostro
parere. Per me è molto importante sapere cosa ne pensate e
avere modo di correggere errori, imprecisioni o cattive abitudini di
scrittura.
Un empio
messaggero
porta alla disgrazia, un messaggero fedele invece è un
rimedio.
Proverbi, 13, 17.
11.
Le
cose dette a papà per rincuorarlo si rivelarono per
ciò che erano
davvero: una menzogna, a me stessa prima che a lui. Mi svegliai tre o
quattro volte durante la notte, con il cuore che batteva a mille e la
sensazione che il buio potesse improvvisamente chiudersi attorno a me
e inghiottirmi.
Non riuscii
ad abbandonare
quella brutta sensazione di disagio, paura e impotenza che mi
attanagliò le viscere e mi impedii di dormire come avrei
voluto.
Ogni volta che mi svegliai di soprassalto e non riuscii a riprendere
sonno, fu la musica a tenermi compagnia e a cullarmi finché
i miei
nervi non furono abbastanza rilassati per abbandonare nuovamente le
difese.
Mi
addormentai tardi e la
mattina seguente mi svegliai molto presto. Rimasi a guardare il cielo
fuori dalla finestra schiarirsi alle prime luci dell’alba,
riflettendo sul paradosso che uno dei momenti migliori della giornata
fosse anche il meno vissuto da gran parte della gente.
La mia
immagine riflessa
nello specchio del bagno fu con me terribilmente sincera, pallida e
visibilmente esausta. Avevo i capelli incrostati di sangue e anche
alcune zone del viso, dove la prima sommaria pulizia non era stata
abbastanza efficace. Un livido si faceva strada su metà
della
fronte, ancora limitato ad un rosa pallido. Non trovai il coraggio di
liberare dal cerotto quella porzione di pelle in cui si apriva il
taglio, forse perché avrebbe richiamato alla mente ricordi
che non
desideravo più rivivere o rimproveri che già
avevo sentito dalla
bocca di mia madre e da quella della mia coscienza.
Stephanie,
l’infermiera
di quel turno, riuscii a tenermi la mente occupata regalandomi due
chiacchiere e qualche risata. Forse era abituata ad essere gentile e
disponibile con tutti, ma mi fece piacere sapere che la mia salute la
interessava. La sua solarità la rendeva totalmente diversa
da mia
madre, che di tanto in tanto faceva capolino dalla soglia per
controllare che tutto fosse in ordine.
Restava poco
assieme a me,
probabilmente indotta a scappare via dalla fastidiosa mancanza di
solida conversazione tra noi. Non erano molte le cose da dire, da un
po’ non ci esercitavamo nel rapporto madre e figlia, e dovevo
confessare di sentirmi sollevata tutte le volte che usciva dalla
stanza per andare a prendersi un caffè o a vagare
chissà dove
nell’ospedale.
Una vera
boccata d’aria
fresca fu Trudy, che come promesso venne a trovarmi quella mattina
assieme a papà. Non c’era davvero bisogno dato che
a pranzo sarei
tornata a casa, ma apprezzai comunque il gesto e l’entusiasmo
che
riempì la stanza appena varcò la soglia.
Con quel
viso giovane dalla
pelle perfetta e liscia e la straordinaria energia, sembrava una
bambina. Giusto per riempire i silenzi lasciati da mia madre ci
dilungammo in chiacchiere senza importanza. L’argomento
più serio
che toccammo furono le mie scarse idee a proposito del college che
avrei frequentato dopo l’estate, e il suo lavoro. Mi
raccontò
ridendo delle disavventure all’asilo, di come uno dei bambini
si
fosse infilato nel naso una piccola zebra dello zoo giocattolo. Che
fossero troppo vivaci e quasi ingestibili, oppure tranquilli, per lei
tutti erano un’ispirazione, un'incredibile fonte di energia e
intelligenza. La ammiravo per la sua forza d’animo, e la
consideravo un modello, per l’amore che metteva in ogni cosa.
Papà
era in tenuta
sportiva, ma riusciva ad esprimere eleganza anche così
vestito. Da
qualche settimana andava a correre nel week-end e nei momenti liberi
dopo che un suo collega di soli cinquantatré anni aveva
avuto un
infarto. Fortunatamente non era stato letale, ma l’accumulo
di
stress poteva essere pericoloso per uomini di quel mestiere, sempre
sovraccaricati di impegni e responsabilità.
Quando lui e
Trudy se ne
andarono, con l’accordo che presto ci saremmo rivisti, Jeff
Thompson, il disegnatore della polizia di San Francisco, un uomo alto
e quasi del tutto senza capelli, prese posto accanto a me. Lo
accompagnava il detective Collins che lì per lì
mi parve autorevole
e intimidatoria come la sera prima, ma che mi fece sentire subito a
mio agio quando mi salutò calorosamente con un ampio sorriso
sul
volto.
Ascoltarono
entrambi le mie
parole con molta attenzione e Jeff tradusse ogni mia descrizione in
tratti di matita, ora leggeri, ora pesanti, sul blocco da disegno che
teneva sulle ginocchia.
Accolse con
una smorfia
divertita il mio commento iniziale su Simon (decisamente
un gran pezzo di ragazzo),
poi quando ebbe finito lo schizzo voltò il disegno verso di
me e mi
trovai spiazzata dalla precisione con cui aveva riprodotto
ciò che
avevo detto.
Dal candore
del foglio gli
occhi di Simon mi scrutavano come aveva insistentemente fatto la sera
prima al Mephisto,
con la stessa luce d’interesse nello sguardo. Il naso, le
labbra, i
capelli…tutto era perfetto e magnifico, un’opera
d’arte, data
la bellezza del soggetto.
Certo, era
impossibile
ricreare artificialmente tutto il suo fascino e il magnetismo del suo
sorriso, la sola immagine era inevitabilmente incompleta senza la
possibilità di poter ascoltare nuovamente il suono basso e
cadenzato
della sua voce. Ciò non toglieva che Jeff aveva fatto
davvero un
ottimo lavoro.
«Più
o meno ci siamo»
feci, ringraziando l’esperto e congedandomi da lui e Angela
Collins. La donna prima di andar via si avvicinò a me e mi
porse un
piccolo cartoncino bianco, il suo biglietto da visita, facendomi
promettere di chiamarla se ci fossero stati problemi o se mi fosse
venuto in mente qualcosa di utile per le indagini. A sua voltami
assicurò che mi avrebbe tenuta aggiornata sul caso.
Dopo di loro
in camera mia
fu una vero e proprio via vai di persone, tra infermiere, dottori,
qualche parente e gli amici. Quando Louis e Jennifer passarono a
trovarmi, mi sentii al settimo cielo.
«Tesoro,
hai un aspetto
orribile» commentò Louis con una risata, donandomi
un abbraccio
stritolante.
«Molto
carino, non sono
queste le parole da rivolgere ad una donzella ricoverata in
ospedale».
«Beh,
ma è vero». Si
strinse nelle spalle con aria divertita e seguendo la direzione del
suo sguardo vidi che aveva già notato il telecomando del
lettino. La
sera prima non lo aveva nemmeno considerato, scosso com’era
dagli
avvenimenti, ma un Louis tornato alla normalità poteva
essere
pericoloso. Scommettevo che non sarebbero passati molti minuti prima
che iniziasse a giocarci.
Jennifer lo
guardò in malo
modo, forse per la sincerità fuori luogo o forse
perché anche lei
aveva notato ciò che avevo notato io. Si sedette ai bordi
del letto
e mi sorrise.
«Come
stai, hai dormito
bene?»
«Per
niente, non ho quasi
chiuso occhio». Il suo sguardo si posò sulla mia
gola e la vidi
abbassare gli occhi, a disagio. Le presi la mano e le sorrisi.
«Credo
che tu debba
ricevere un premio per il coraggio, sei stata la più
tempestiva ieri
sera. Senza di te non so cosa sarebbe successo» le dissi, per
infonderle un po’ di sicurezza.
«Avevo
davvero paura di
sbagliare qualcosa e peggiorare la situazione»
confessò. «Non sono
molto brava con queste cose, strano che non sia crollata a terra
svenuta».
«Si
chiama sangue freddo,
e tu hai dato prova di averne da vendere».
«Non
dirlo, o stavolta
sviene sul serio» scherzò Louis. «Beh,
ma a me niente premio? Sono
stato io a correre fuori a chiamare i soccorsi, non è che
sono
rimasto impalato a guardare» proseguì, facendo
l’offeso.
Con uno
sbuffo tirai fuori
da sotto il cuscino il telecomando che avevo tentato inutilmente di
nascondere con piccole spinte del gomito.
«Ecco,
giocaci, ma evita
di farmi volare fuori dalla finestra, d’accordo?»
Il suo
sorriso enorme mi
scaldò il cuore. Mentre il ragazzo mi alzava e abbassava le
gambe e
mi modificava in continuazione lo schienale del lettino,
approfittammo del momento insieme per scambiare qualche parola. Io
raccontai di come l’aveva presa mia madre, sperando che da un
momento all’altro non entrasse nella stanza per rimproverare
anche
loro di non avermi impedito di trasgredire i suoi divini ordini.
Jennifer disse che quella mattina sua sorella aveva chiamato per
invitare lei e tutto il resto della famiglia a passare qualche giorno
da loro a Santa Rosa e Louis mi dimostrò che aveva trovato
qualcosa
di positivo nella serata al Mephisto,
parlando in continuazione del barista dei suoi sogni. Ci mancava poco
che dagli occhi gli spuntassero fuori tanti cuoricini svolazzanti.
«Per
ora sono solo
riuscito a scoprire che si chiama Jude e credo che sia single
perché
mi ha dato il suo numero di cellulare per aggiornarlo sulla tua
salute».
«Molto
premuroso da parte
sua». Affermai, scambiando un’occhiata di intesa
con Jennifer che
resisteva per non ridere o per non stuzzicare con affetto
l’amico.
Era palesemente cotto.
«Sì,
lo credo anche io,
anche se credo l’abbia fatto solo per tenersi in contatto con
me».
«Ma
davvero?»
«Non
so esattamente per
che squadra giochi, ma credo di piacergli».
«Beh
di certo non gioca
per la nostra, non ti toglieva gli occhi di dosso» feci,
causando un
lieve, adorabile, rossore sulle sue guance. «A quanto pare
sono io
quella che punta sempre al ragazzo sbagliato».
Simon…
L’ennesima
cattiva
scelta. A questo punto dovevo accettare il fatto che ero io il
problema: avevo una capacità di giudizio completamente
fallimentare.
«Se
solo gli metto le mani
addosso lo riduco in poltiglia, quel tizio. Spero che poi veniate a
trovarmi in carcere». Mormorò Jennifer stringendo
i pugni che
teneva in grembo con una forza che stonava sul suo esile corpo.
«Tesoro,
con quell’aria
dolce che ti ritrovi nessuno sospetterebbe di te…saresti il
killer
perfetto!» Louis le diede una pacca sul ginocchio.
«Pensaci,
avresti un futuro».
Un lieve
bussare alla porta
ci fece zittire. Speravo non fosse ancora mia madre, cosa probabile
dato che avevo visto solo pochi istanti prima l’infermiera.
Restai
di stucco quando entrò l’ultima persona al mondo
che mi aspettavo
di vedere.
Riconobbi
l’intensità
dei suoi occhi appena il suo viso fece capolino dalla porta e senza
saperne bene il motivo, mi sentii un po’ in imbarazzo. Forse
era
per il fatto che mi ero fidata completamente di lui senza nemmeno
conoscerlo, accogliendo la sua voce come l’unica ancora di
salvezza
nella confusione totale del Mephisto.
Era diverso
da come la mia
mente lo rievocava, il suo viso tra i miei ricordi era impreciso e
offuscato, non avrei saputo descriverlo perfettamente nemmeno
sforzandomi, ma ricordavo la sensazione di pace provata quando mi
aveva posato le mani sulla gola per arrestare l’emorragia, e
il
modo in cui aveva cercato di calmarmi.
Louis smise
di giocare con
il telecomando del lettino, catturato dal nuovo e inaspettato
visitatore, mentre mi affrettavo a trovare qualcosa di brillante da
dire senza sembrare sciocca o patetica.
«Salve,
Amber. Come ti
senti?» La voce era esattamente come l’avevo udita,
così
cristallina e rassicurante, l’unica che nel caos mi aveva
riportato
alla tregua che desideravo.
Allargai le
braccia e
sorrisi, cercando di non risultare impacciata anche nei gesti
più
elementari. «Sono viva».
«Forse
non ti ricordi…»
«Mi
ricordo eccome, grazie
per essermi stato vicino, e per essere stato veloce nel
soccorrermi».
Non sorrise,
ma i suoi
occhi mi espressero una cordialità che rispose al posto suo.
Con un
cenno del capo salutò anche gli altri presenti e
indicò Jennifer,
che si fece di colpo piccola piccola.
«Sei
stata brava, nessun
altro tra i presenti ha avuto il coraggio di aiutarla, sei una buona
amica». Vidi la ragazza arrossire come un peperone e
mormorare un
dovere
a bassa voce, per allontanare in fretta da sé le
attenzioni…attenzioni che Louis prepotentemente
richiamò su di sé.
«A
quanto pare nessuno si
ricorda del ragazzo che è scattato come un centometrista a
chiamare
aiuto» commentò fingendosi amareggiato, ma
sorridendo sotto i
baffi.
«Avete
entrambi avuto una
parte importante» lo rassicurò lo sconosciuto.
Mentre i suoi occhi
celesti erano puntati sul ragazzo, ne approfittai per dare una
sbirciatina ai suoi morbidi lineamenti.
Non
immaginavo fosse così
giovane. La pelle del suo viso era perfettamente liscia e chiara,
senza alcun segno di barba. Avevo creduto che fosse un uomo o un
ragazzo più grande, un medico o uno studente di medicina non
più
alle prime armi, invece mi trovavo di fronte ad un ragazzo della mia
età, più o meno.
I suoi
capelli erano
castani, lunghi circa quattro o cinque centimetri, alzati sulla
testa, ma dall’aria ordinata. Le sopracciglia scure erano una
cornice perfetta per la limpidezza dei suoi occhi. Quando il suo
sguardo tornò a posarsi su di me, gli indicai la sedia
libera.
«Perché
non ti accomodi,
mi farebbe piacere se restassi un po’ a
chiacchierare» gli
proposi, ma lui scosse la testa e finalmente mi rivolse un sorriso.
«Ti
ringrazio, ma ho delle
questioni da sbrigare ed è meglio che lo faccia presto, non
posso
restare. Mi scuso per la visita molto breve, dovevo solo assicurarmi
di persona che stessi bene».
«I
medici hanno detto che
sono stata molto fortunata e che la ferita non era particolarmente
grave. Ma ancora grazie per l’assistenza».
Annuì,
pensieroso. Nelle
sue parole avevo notato una strana affettazione, come se riflettesse
bene su ogni termine prima di usarlo. Nonostante la freschezza del
suo aspetto avevo la strana e inspiegabile sensazione che fosse
più
vecchio delle apparenze.
«Sì
è vero, se la ferita
fosse stata più profonda di certo saresti morta in pochi
secondi.
Ringraziamo il cielo per questo». Accettai la sua frase come
un modo
di dire qualsiasi, senza osare questionare.
«E
per quanto riguarda il
tuo ringraziamento, lo accetto, ma non sentirti in debito con
me».
«Chissà…magari
ti offro
un caffè» proposi. Era in minimo che potessi fare.
«Dubito
che ci vedremo
ancora, Amber, ma è stato un piacere
conoscerti…ed è stato bello
anche incontrare voi» dichiarò, rivolto a Louis e
Jennifer. Il suo
tono poi di fece più serio «A questo proposito,
già che tiriamo in
ballo gli amici...non si tratta di un rimprovero, ma di un consiglio.
Faresti bene a scegliere con più cura le persone da
frequentare».
Senza
attendere una
risposta si avviò nuovamente verso la porta.
«Addio» mormorò, e
uscii in fretta, come in fretta era entrato due volte nella mia vita.
Un’apparizione fugace, quasi impercettibile se solo le sue
parole
non avessero fatto nascere in me più d’un dubbio.
«Ehi,
ma parlava di noi?»
la voce di Louis infranse le mie riflessioni, ma individuò
alla
perfezione la natura dei miei pensieri.
«Non
credo…»
«Che
tipo strano»
Jennifer guardava la porta come se da una secondo all’altro
rispuntasse il ragazzo.
«Carino»
commentò Louis,
pragmatico. Io concordavo su entrambe le cose, ma la mia attenzione
era tutta carpita da quella frase. Non potei fare a meno di pensare
che si riferisse a Simon.
Impossibile
che lo
conoscesse, di tutte le persone che nel locale potevano soccorrermi,
era improbabile che io trovassi proprio quella che conosceva bene il
mio aggressore, ma era invece possibile che si riferisse a lui in
modo generico. Come dargli torto? Davvero avrei dovuto evitare di
attaccare bottone con il primo ragazzo carino che mi attraeva.
Ad ogni
modo, mi resi conto
che al mio misterioso salvatore non avevo nemmeno chiesto il nome.
Durante il
resto della
giornata evitai di rimuginare sull’incontro bizzarro della
mattina.
All’ora di pranzo ero già fuori
dall’ospedale, dopo aver
salutato e ringraziato Stephanie e aver raccattato le mie cose.
Allontanandomi
dal General
Hospital abbracciai con lo sguardo la massiccia struttura e salii
sulla Mercedes di mia madre. Per la maggior parte del tragitto verso
casa lei fu silenziosa, a parte qualche frase di circostanza gettata
lì senza particolare convinzione giusto per tentare di
avviare un
discorso che però non ebbe luogo.
L’unica
frase in cui mise
particolare enfasi fu quella a proposito della gentilezza di
Catherine, che era andata a recuperare la mia macchina a SoMa, e per
quanto non volessi ammetterlo, riuscì a farmi sentire un
po’ in
colpa.
La giornata
era splendida,
il cielo ospitava un azzurro intenso che suscitava allegria e un
senso di immediata pace. Nessuna nuvola disturbava la
continuità di
quella meravigliosa distesa di colore.
Gli alberi
mi sembrarono
più verdi e l’aria che mi sfiorava dolcemente la
guancia
attraverso il finestrino, scompigliandomi i capelli e frusciandomi
nell’orecchio, era più fresca e piacevole del
solito. A ogni
semaforo il brusio di San Francisco, la sua vitalità e
varietà, e
il suono dei Cable Car mi allietarono come non mai.
Fu
stranamente bello
rivedere la via dove abitavo e la porta verde chiaro di casa mia,
come se fossi appena tornata da un viaggio durato anni e la visione
del luogo in cui ero cresciuta suscitasse in me nostalgia. Notai ogni
particolare, che solo il pomeriggio del giorno prima avevo ritenuto
superfluo: gli scalini che introducevano all’uscio, ornati di
gerani, il corrimano bianco, i cespugli agli angoli della casa e la
piccola lampadina che pendeva all’entrata intrappolata in una
lanterna. Non mi ero mai sentita tanto a casa.
Papà
mi chiamò più tardi
per sapere com’era stato il rientro e parlammo per una
mezz’ora
del più e del meno, mentre mamma era sul tavolo del salotto
a
controllare delle scartoffie di cui non conoscevo la natura. Sentii
Trudy che gridava per salutarmi da chissà quale stanza.
Il confronto
con ciò che
rimandavo da ore giunse quella sera. Dentro la doccia mi godetti il
getto dell’acqua calda sulla pelle, osservando ai miei piedi
l’acqua lievemente tinta di rosa a causa del sangue che
scivolava
via dai capelli.
Poi, avvolta
in un
accappatoio, mi posizionai davanti allo specchio e per cambiare la
benda alla ferita i miei occhi non poterono evitare di controllare i
segni che il vetro tagliente avevano lasciato su di me.
A partire da
qualche
centimetro sotto il mento, fino alla porzione di pelle accanto
all’orecchio si apriva uno squarcio di circa una decina di
centimetri, tenuto insieme da una cucitura di filo scuro che mi
ricordò orribilmente il modo con cui si attaccavano insieme
due
miseri lembi di cuoio, e sebbene sapessi in cuor mio che in fondo non
era così male, che i medici avevano fatto un lavoro
più accurato
possibile e che presto sarebbe rimasto solo un segno leggero, non
potevo impedire alla mia mente di evocare macabre similitudini. Mi
sentivo una bambola di pezza o un personaggio di un film
dell’orrore,
con la bocca tenuta chiusa dal fil di ferro.
Ripensandoci
in quel
momento le parole del ragazzo sconosciuto che mi aveva salvata
avevano maggiore senso. Quella sarebbe stata la cicatrice indelebile
della mia ingenuità.
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