Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: Dobhran    05/07/2016    2 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Grazie mille ad AnonymousA per essere passata anche questa volta per un commentino. Chissà se il ragazzo misterioso farà nuovamente un'apparizione nella vita di Amber. :) Buona lettura, e mi raccomando, se la storia vi piace, ma anche se non vi piace, lasciatemi il vostro parere. Per me è molto importante sapere cosa ne pensate e avere modo di correggere errori, imprecisioni o cattive abitudini di scrittura.












Un empio messaggero porta alla disgrazia, un messaggero fedele invece è un rimedio.
Proverbi, 13, 17.







11.


Le cose dette a papà per rincuorarlo si rivelarono per ciò che erano davvero: una menzogna, a me stessa prima che a lui. Mi svegliai tre o quattro volte durante la notte, con il cuore che batteva a mille e la sensazione che il buio potesse improvvisamente chiudersi attorno a me e inghiottirmi.
Non riuscii ad abbandonare quella brutta sensazione di disagio, paura e impotenza che mi attanagliò le viscere e mi impedii di dormire come avrei voluto. Ogni volta che mi svegliai di soprassalto e non riuscii a riprendere sonno, fu la musica a tenermi compagnia e a cullarmi finché i miei nervi non furono abbastanza rilassati per abbandonare nuovamente le difese.
Mi addormentai tardi e la mattina seguente mi svegliai molto presto. Rimasi a guardare il cielo fuori dalla finestra schiarirsi alle prime luci dell’alba, riflettendo sul paradosso che uno dei momenti migliori della giornata fosse anche il meno vissuto da gran parte della gente.
La mia immagine riflessa nello specchio del bagno fu con me terribilmente sincera, pallida e visibilmente esausta. Avevo i capelli incrostati di sangue e anche alcune zone del viso, dove la prima sommaria pulizia non era stata abbastanza efficace. Un livido si faceva strada su metà della fronte, ancora limitato ad un rosa pallido. Non trovai il coraggio di liberare dal cerotto quella porzione di pelle in cui si apriva il taglio, forse perché avrebbe richiamato alla mente ricordi che non desideravo più rivivere o rimproveri che già avevo sentito dalla bocca di mia madre e da quella della mia coscienza.
Stephanie, l’infermiera di quel turno, riuscii a tenermi la mente occupata regalandomi due chiacchiere e qualche risata. Forse era abituata ad essere gentile e disponibile con tutti, ma mi fece piacere sapere che la mia salute la interessava. La sua solarità la rendeva totalmente diversa da mia madre, che di tanto in tanto faceva capolino dalla soglia per controllare che tutto fosse in ordine.
Restava poco assieme a me, probabilmente indotta a scappare via dalla fastidiosa mancanza di solida conversazione tra noi. Non erano molte le cose da dire, da un po’ non ci esercitavamo nel rapporto madre e figlia, e dovevo confessare di sentirmi sollevata tutte le volte che usciva dalla stanza per andare a prendersi un caffè o a vagare chissà dove nell’ospedale.
Una vera boccata d’aria fresca fu Trudy, che come promesso venne a trovarmi quella mattina assieme a papà. Non c’era davvero bisogno dato che a pranzo sarei tornata a casa, ma apprezzai comunque il gesto e l’entusiasmo che riempì la stanza appena varcò la soglia.
Con quel viso giovane dalla pelle perfetta e liscia e la straordinaria energia, sembrava una bambina. Giusto per riempire i silenzi lasciati da mia madre ci dilungammo in chiacchiere senza importanza. L’argomento più serio che toccammo furono le mie scarse idee a proposito del college che avrei frequentato dopo l’estate, e il suo lavoro. Mi raccontò ridendo delle disavventure all’asilo, di come uno dei bambini si fosse infilato nel naso una piccola zebra dello zoo giocattolo. Che fossero troppo vivaci e quasi ingestibili, oppure tranquilli, per lei tutti erano un’ispirazione, un'incredibile fonte di energia e intelligenza. La ammiravo per la sua forza d’animo, e la consideravo un modello, per l’amore che metteva in ogni cosa.
Papà era in tenuta sportiva, ma riusciva ad esprimere eleganza anche così vestito. Da qualche settimana andava a correre nel week-end e nei momenti liberi dopo che un suo collega di soli cinquantatré anni aveva avuto un infarto. Fortunatamente non era stato letale, ma l’accumulo di stress poteva essere pericoloso per uomini di quel mestiere, sempre sovraccaricati di impegni e responsabilità.
Quando lui e Trudy se ne andarono, con l’accordo che presto ci saremmo rivisti, Jeff Thompson, il disegnatore della polizia di San Francisco, un uomo alto e quasi del tutto senza capelli, prese posto accanto a me. Lo accompagnava il detective Collins che lì per lì mi parve autorevole e intimidatoria come la sera prima, ma che mi fece sentire subito a mio agio quando mi salutò calorosamente con un ampio sorriso sul volto.
Ascoltarono entrambi le mie parole con molta attenzione e Jeff tradusse ogni mia descrizione in tratti di matita, ora leggeri, ora pesanti, sul blocco da disegno che teneva sulle ginocchia.
Accolse con una smorfia divertita il mio commento iniziale su Simon (decisamente un gran pezzo di ragazzo), poi quando ebbe finito lo schizzo voltò il disegno verso di me e mi trovai spiazzata dalla precisione con cui aveva riprodotto ciò che avevo detto.
Dal candore del foglio gli occhi di Simon mi scrutavano come aveva insistentemente fatto la sera prima al Mephisto, con la stessa luce d’interesse nello sguardo. Il naso, le labbra, i capelli…tutto era perfetto e magnifico, un’opera d’arte, data la bellezza del soggetto.
Certo, era impossibile ricreare artificialmente tutto il suo fascino e il magnetismo del suo sorriso, la sola immagine era inevitabilmente incompleta senza la possibilità di poter ascoltare nuovamente il suono basso e cadenzato della sua voce. Ciò non toglieva che Jeff aveva fatto davvero un ottimo lavoro.
«Più o meno ci siamo» feci, ringraziando l’esperto e congedandomi da lui e Angela Collins. La donna prima di andar via si avvicinò a me e mi porse un piccolo cartoncino bianco, il suo biglietto da visita, facendomi promettere di chiamarla se ci fossero stati problemi o se mi fosse venuto in mente qualcosa di utile per le indagini. A sua voltami assicurò che mi avrebbe tenuta aggiornata sul caso.
Dopo di loro in camera mia fu una vero e proprio via vai di persone, tra infermiere, dottori, qualche parente e gli amici. Quando Louis e Jennifer passarono a trovarmi, mi sentii al settimo cielo.
«Tesoro, hai un aspetto orribile» commentò Louis con una risata, donandomi un abbraccio stritolante.
«Molto carino, non sono queste le parole da rivolgere ad una donzella ricoverata in ospedale».
«Beh, ma è vero». Si strinse nelle spalle con aria divertita e seguendo la direzione del suo sguardo vidi che aveva già notato il telecomando del lettino. La sera prima non lo aveva nemmeno considerato, scosso com’era dagli avvenimenti, ma un Louis tornato alla normalità poteva essere pericoloso. Scommettevo che non sarebbero passati molti minuti prima che iniziasse a giocarci.
Jennifer lo guardò in malo modo, forse per la sincerità fuori luogo o forse perché anche lei aveva notato ciò che avevo notato io. Si sedette ai bordi del letto e mi sorrise.
«Come stai, hai dormito bene?»
«Per niente, non ho quasi chiuso occhio». Il suo sguardo si posò sulla mia gola e la vidi abbassare gli occhi, a disagio. Le presi la mano e le sorrisi.
«Credo che tu debba ricevere un premio per il coraggio, sei stata la più tempestiva ieri sera. Senza di te non so cosa sarebbe successo» le dissi, per infonderle un po’ di sicurezza.
«Avevo davvero paura di sbagliare qualcosa e peggiorare la situazione» confessò. «Non sono molto brava con queste cose, strano che non sia crollata a terra svenuta».
«Si chiama sangue freddo, e tu hai dato prova di averne da vendere».
«Non dirlo, o stavolta sviene sul serio» scherzò Louis. «Beh, ma a me niente premio? Sono stato io a correre fuori a chiamare i soccorsi, non è che sono rimasto impalato a guardare» proseguì, facendo l’offeso.
Con uno sbuffo tirai fuori da sotto il cuscino il telecomando che avevo tentato inutilmente di nascondere con piccole spinte del gomito.
«Ecco, giocaci, ma evita di farmi volare fuori dalla finestra, d’accordo?»
Il suo sorriso enorme mi scaldò il cuore. Mentre il ragazzo mi alzava e abbassava le gambe e mi modificava in continuazione lo schienale del lettino, approfittammo del momento insieme per scambiare qualche parola. Io raccontai di come l’aveva presa mia madre, sperando che da un momento all’altro non entrasse nella stanza per rimproverare anche loro di non avermi impedito di trasgredire i suoi divini ordini. Jennifer disse che quella mattina sua sorella aveva chiamato per invitare lei e tutto il resto della famiglia a passare qualche giorno da loro a Santa Rosa e Louis mi dimostrò che aveva trovato qualcosa di positivo nella serata al Mephisto, parlando in continuazione del barista dei suoi sogni. Ci mancava poco che dagli occhi gli spuntassero fuori tanti cuoricini svolazzanti.
«Per ora sono solo riuscito a scoprire che si chiama Jude e credo che sia single perché mi ha dato il suo numero di cellulare per aggiornarlo sulla tua salute».
«Molto premuroso da parte sua». Affermai, scambiando un’occhiata di intesa con Jennifer che resisteva per non ridere o per non stuzzicare con affetto l’amico. Era palesemente cotto.
«Sì, lo credo anche io, anche se credo l’abbia fatto solo per tenersi in contatto con me».
«Ma davvero?»
«Non so esattamente per che squadra giochi, ma credo di piacergli».
«Beh di certo non gioca per la nostra, non ti toglieva gli occhi di dosso» feci, causando un lieve, adorabile, rossore sulle sue guance. «A quanto pare sono io quella che punta sempre al ragazzo sbagliato».
Simon
L’ennesima cattiva scelta. A questo punto dovevo accettare il fatto che ero io il problema: avevo una capacità di giudizio completamente fallimentare.
«Se solo gli metto le mani addosso lo riduco in poltiglia, quel tizio. Spero che poi veniate a trovarmi in carcere». Mormorò Jennifer stringendo i pugni che teneva in grembo con una forza che stonava sul suo esile corpo.
«Tesoro, con quell’aria dolce che ti ritrovi nessuno sospetterebbe di te…saresti il killer perfetto!» Louis le diede una pacca sul ginocchio. «Pensaci, avresti un futuro».
Un lieve bussare alla porta ci fece zittire. Speravo non fosse ancora mia madre, cosa probabile dato che avevo visto solo pochi istanti prima l’infermiera. Restai di stucco quando entrò l’ultima persona al mondo che mi aspettavo di vedere.
Riconobbi l’intensità dei suoi occhi appena il suo viso fece capolino dalla porta e senza saperne bene il motivo, mi sentii un po’ in imbarazzo. Forse era per il fatto che mi ero fidata completamente di lui senza nemmeno conoscerlo, accogliendo la sua voce come l’unica ancora di salvezza nella confusione totale del Mephisto.
Era diverso da come la mia mente lo rievocava, il suo viso tra i miei ricordi era impreciso e offuscato, non avrei saputo descriverlo perfettamente nemmeno sforzandomi, ma ricordavo la sensazione di pace provata quando mi aveva posato le mani sulla gola per arrestare l’emorragia, e il modo in cui aveva cercato di calmarmi.
Louis smise di giocare con il telecomando del lettino, catturato dal nuovo e inaspettato visitatore, mentre mi affrettavo a trovare qualcosa di brillante da dire senza sembrare sciocca o patetica.
«Salve, Amber. Come ti senti?» La voce era esattamente come l’avevo udita, così cristallina e rassicurante, l’unica che nel caos mi aveva riportato alla tregua che desideravo.
Allargai le braccia e sorrisi, cercando di non risultare impacciata anche nei gesti più elementari. «Sono viva».
«Forse non ti ricordi…»
«Mi ricordo eccome, grazie per essermi stato vicino, e per essere stato veloce nel soccorrermi».
Non sorrise, ma i suoi occhi mi espressero una cordialità che rispose al posto suo. Con un cenno del capo salutò anche gli altri presenti e indicò Jennifer, che si fece di colpo piccola piccola.
«Sei stata brava, nessun altro tra i presenti ha avuto il coraggio di aiutarla, sei una buona amica». Vidi la ragazza arrossire come un peperone e mormorare un dovere a bassa voce, per allontanare in fretta da sé le attenzioni…attenzioni che Louis prepotentemente richiamò su di sé.
«A quanto pare nessuno si ricorda del ragazzo che è scattato come un centometrista a chiamare aiuto» commentò fingendosi amareggiato, ma sorridendo sotto i baffi.
«Avete entrambi avuto una parte importante» lo rassicurò lo sconosciuto. Mentre i suoi occhi celesti erano puntati sul ragazzo, ne approfittai per dare una sbirciatina ai suoi morbidi lineamenti.
Non immaginavo fosse così giovane. La pelle del suo viso era perfettamente liscia e chiara, senza alcun segno di barba. Avevo creduto che fosse un uomo o un ragazzo più grande, un medico o uno studente di medicina non più alle prime armi, invece mi trovavo di fronte ad un ragazzo della mia età, più o meno.
I suoi capelli erano castani, lunghi circa quattro o cinque centimetri, alzati sulla testa, ma dall’aria ordinata. Le sopracciglia scure erano una cornice perfetta per la limpidezza dei suoi occhi. Quando il suo sguardo tornò a posarsi su di me, gli indicai la sedia libera.
«Perché non ti accomodi, mi farebbe piacere se restassi un po’ a chiacchierare» gli proposi, ma lui scosse la testa e finalmente mi rivolse un sorriso.
«Ti ringrazio, ma ho delle questioni da sbrigare ed è meglio che lo faccia presto, non posso restare. Mi scuso per la visita molto breve, dovevo solo assicurarmi di persona che stessi bene».
«I medici hanno detto che sono stata molto fortunata e che la ferita non era particolarmente grave. Ma ancora grazie per l’assistenza».
Annuì, pensieroso. Nelle sue parole avevo notato una strana affettazione, come se riflettesse bene su ogni termine prima di usarlo. Nonostante la freschezza del suo aspetto avevo la strana e inspiegabile sensazione che fosse più vecchio delle apparenze.
«Sì è vero, se la ferita fosse stata più profonda di certo saresti morta in pochi secondi. Ringraziamo il cielo per questo». Accettai la sua frase come un modo di dire qualsiasi, senza osare questionare.
«E per quanto riguarda il tuo ringraziamento, lo accetto, ma non sentirti in debito con me».
«Chissà…magari ti offro un caffè» proposi. Era in minimo che potessi fare.
«Dubito che ci vedremo ancora, Amber, ma è stato un piacere conoscerti…ed è stato bello anche incontrare voi» dichiarò, rivolto a Louis e Jennifer. Il suo tono poi di fece più serio «A questo proposito, già che tiriamo in ballo gli amici...non si tratta di un rimprovero, ma di un consiglio. Faresti bene a scegliere con più cura le persone da frequentare».
Senza attendere una risposta si avviò nuovamente verso la porta. «Addio» mormorò, e uscii in fretta, come in fretta era entrato due volte nella mia vita. Un’apparizione fugace, quasi impercettibile se solo le sue parole non avessero fatto nascere in me più d’un dubbio.
«Ehi, ma parlava di noi?» la voce di Louis infranse le mie riflessioni, ma individuò alla perfezione la natura dei miei pensieri.
«Non credo…»
«Che tipo strano» Jennifer guardava la porta come se da una secondo all’altro rispuntasse il ragazzo.
«Carino» commentò Louis, pragmatico. Io concordavo su entrambe le cose, ma la mia attenzione era tutta carpita da quella frase. Non potei fare a meno di pensare che si riferisse a Simon.
Impossibile che lo conoscesse, di tutte le persone che nel locale potevano soccorrermi, era improbabile che io trovassi proprio quella che conosceva bene il mio aggressore, ma era invece possibile che si riferisse a lui in modo generico. Come dargli torto? Davvero avrei dovuto evitare di attaccare bottone con il primo ragazzo carino che mi attraeva.
Ad ogni modo, mi resi conto che al mio misterioso salvatore non avevo nemmeno chiesto il nome.
Durante il resto della giornata evitai di rimuginare sull’incontro bizzarro della mattina. All’ora di pranzo ero già fuori dall’ospedale, dopo aver salutato e ringraziato Stephanie e aver raccattato le mie cose.
Allontanandomi dal General Hospital abbracciai con lo sguardo la massiccia struttura e salii sulla Mercedes di mia madre. Per la maggior parte del tragitto verso casa lei fu silenziosa, a parte qualche frase di circostanza gettata lì senza particolare convinzione giusto per tentare di avviare un discorso che però non ebbe luogo.
L’unica frase in cui mise particolare enfasi fu quella a proposito della gentilezza di Catherine, che era andata a recuperare la mia macchina a SoMa, e per quanto non volessi ammetterlo, riuscì a farmi sentire un po’ in colpa.
La giornata era splendida, il cielo ospitava un azzurro intenso che suscitava allegria e un senso di immediata pace. Nessuna nuvola disturbava la continuità di quella meravigliosa distesa di colore.
Gli alberi mi sembrarono più verdi e l’aria che mi sfiorava dolcemente la guancia attraverso il finestrino, scompigliandomi i capelli e frusciandomi nell’orecchio, era più fresca e piacevole del solito. A ogni semaforo il brusio di San Francisco, la sua vitalità e varietà, e il suono dei Cable Car mi allietarono come non mai.
Fu stranamente bello rivedere la via dove abitavo e la porta verde chiaro di casa mia, come se fossi appena tornata da un viaggio durato anni e la visione del luogo in cui ero cresciuta suscitasse in me nostalgia. Notai ogni particolare, che solo il pomeriggio del giorno prima avevo ritenuto superfluo: gli scalini che introducevano all’uscio, ornati di gerani, il corrimano bianco, i cespugli agli angoli della casa e la piccola lampadina che pendeva all’entrata intrappolata in una lanterna. Non mi ero mai sentita tanto a casa.
Papà mi chiamò più tardi per sapere com’era stato il rientro e parlammo per una mezz’ora del più e del meno, mentre mamma era sul tavolo del salotto a controllare delle scartoffie di cui non conoscevo la natura. Sentii Trudy che gridava per salutarmi da chissà quale stanza.
Il confronto con ciò che rimandavo da ore giunse quella sera. Dentro la doccia mi godetti il getto dell’acqua calda sulla pelle, osservando ai miei piedi l’acqua lievemente tinta di rosa a causa del sangue che scivolava via dai capelli.
Poi, avvolta in un accappatoio, mi posizionai davanti allo specchio e per cambiare la benda alla ferita i miei occhi non poterono evitare di controllare i segni che il vetro tagliente avevano lasciato su di me.
A partire da qualche centimetro sotto il mento, fino alla porzione di pelle accanto all’orecchio si apriva uno squarcio di circa una decina di centimetri, tenuto insieme da una cucitura di filo scuro che mi ricordò orribilmente il modo con cui si attaccavano insieme due miseri lembi di cuoio, e sebbene sapessi in cuor mio che in fondo non era così male, che i medici avevano fatto un lavoro più accurato possibile e che presto sarebbe rimasto solo un segno leggero, non potevo impedire alla mia mente di evocare macabre similitudini. Mi sentivo una bambola di pezza o un personaggio di un film dell’orrore, con la bocca tenuta chiusa dal fil di ferro.
Ripensandoci in quel momento le parole del ragazzo sconosciuto che mi aveva salvata avevano maggiore senso. Quella sarebbe stata la cicatrice indelebile della mia ingenuità.
  
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