Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: Dobhran    22/07/2016    0 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Buongiorno! Mi scuso per il tremendo ritardo, è stato un periodo piuttosto particolare, l'epilogo di cinque meravigliosi, stancanti, spaventosi e "rivelatori" anni di studio che si sono conclusi, finalmente, con un diploma di laurea, che di tanto in tanto ancora guardo con diffidenza. Non riesco a credere che questo momento sia arrivato, e francamente, ci si sente un po' vuoti dopo tutto questo tempo di studio e tempo libero praticamente inesistente. Per coloro che ancora vorranno leggermi anche dopo questo ritardo, grazie per la vostra pazienza!
Come al solito, ringrazio Mivi28 e AnonymousA per avermi lasciato due paroline di incoraggiamento. Grazie mille! :)











Ecco io mando un angelo davanti a te, per vegliare su di te nel cammino e farti entrare nel luogo che ho preparato. Sii attento davanti a lui, ascolta la sua voce, non ribellarti a lui, perché non sopporterà la vostra trasgressione, poiché il mio nome è in lui. Se tu ascolti la sua voce e farai tutto quello che dirò, sarò nemico dei tuoi nemici e avversario dei tuoi avversari.
Esodo, 23, 20-22.







12.




Accettai passivamente l’idea che mia madre si era fatta del mio piccolo problema. Decise di trattarmi come se mi trovassi in una lunga e complicata convalescenza e io, già segretamente d’accordo con lei sul fatto che mi ero ficcata in quel guaio da sola, feci di tutto pur di compiacerla e non darle occasione di lamentarsi. Di rimando il giorno dopo restò costantemente in casa, non capivo se per preoccupazione o per mancanza di fiducia.
Ero abituata ad averla intorno la domenica, ma non ero mai arrivata a quei livelli di prudenza da parte sua. Fu curioso vederla affaccendarsi per evitare a me le solite mansioni casalinghe, ma quando entrambe capimmo che gli effetti della sua scarsa preparazione domestica potevano essere devastanti, riuscii a convincerla che un lieve sfregio alla gola non poteva di certo tenermi a letto tutto il giorno. Quando riprese il suo solito lavoro dietro carte e appuntamenti vari ne fui quasi sollevata, considerandolo un ritorno alla normale routine.
Quanto a me, ebbi più impegni di quello che avrei voluto. La mattina presto, per ammazzare la noia, mi misi a cucinare. Louis e Jennifer non si accontentarono della visita in ospedale e si fermarono da me un paio d’ore a fare due chiacchiere. Fu nuovamente toccato l’argomento Jude, che a quanto pareva già s’era fatto premurosamente sentire per conoscere le mie condizioni, con grande gioia del mio migliore amico.
Una telefonata di papà annotò magicamente un secondo compito sulla mia agenda invisibile, perciò, promettendo a mia madre, divenuta stranamente premurosa, che avrei fatto attenzione a tutti i serial killer che potevano esserci in giro sulle strade di San Francisco, passai parte del pomeriggio con Trudy e papà nella casa di lei. Non ci ero mai stata prima d’allora, anche se lei mi aveva spesso detto che ero la benvenuta quando preferivo, e lo trovai un appartamento molto grazioso, perfetto per una giovane donna come lei. Non troppo grande, sobrio ma molto personalizzato. La convivenza dei due piccioncini ancora non era ufficiale, ma poco ci mancava.
Seduta sul divano in salotto fui accolta dai coinquilini della ragazza, tre enormi gatti che ancor prima di conoscermi bene sfregarono i loro testoni contro le mie gambe, facendo le fusa. Fu gratificante sapere che a Spooky, Foggy e Moody stavo simpatica, anche se Spooky, con il suo inquietante sorriso senza tre denti e la non trascurabile mole mi bloccò quasi il sangue alle gambe, quando si accoccolò su di me per qualche dovuta carezza.
Mia madre non aveva mai accettato animali in casa, né gatti, né cani, né altri esseri animati che esigessero attenzioni e producessero rumori. Da piccola io e mio fratello avevamo avuto il permesso di tenere solo un pesce rosso per ciascuno, e io mi ero presa cura di lui fino al giorno della sua morte. Quando era deceduto avevo pianto così tanto che mamma si era spazientita e aveva categoricamente proibito altri ospiti non umani in casa, mentre Chris mi aveva stretto la mano durante le esequie funebri accanto alla tazza del water.
La convalescenza da Trudy ebbe i suoi vantaggi, perché non accettò un no come risposta quando mi offrì una generosa scodella di gelato al caramello e nocciola.
Quando tornai, stranamente, non trovai mia madre nello stesso posto in cui l’avevo lasciata. Solitamente restava china sulle carte per ore e ore senza degnarmi di sguardi o frasi che superassero le cinque parole, ma quella volta ad accogliere il mio rientro furono delle voci. Mamma stava chiacchierando con qualcuno in giardino. La raggiunsi dalla porta della cucina che dava direttamente su di esso, e la trovai accomodata con il suo inaspettato ospite attorno al tavolino di metallo che fungeva da salottino esterno. Quando lui alzò lo sguardo su di me, nella mia mente si rincorsero in una danza veloce stupore e disagio.
«Sei tornata, ciao. Questo ragazzo ha chiesto di te, ha detto di conoscerti, così l’ho fatto entrare» spiegò mamma senza che le chiedessi nulla. Il mio giovane soccorritore si alzò in piedi e chinò la testa in un segno di saluto che mi parve quasi eccessivo.
«Buongiorno, Amber, vedo che stai meglio» mormorò. «Ne sono lieto».
Anche nella scelta delle parole mi parve insolito, ricercato e affettato. Prima di poter rispondere, l’immagine di lui che si inchinava in uno dei salotti inglesi tipici dei romanzi della Austen mi comparve nella mente e mi fece sorridere.
«Grazie, sei gentile» mormorai. Mamma lo fissava in silenzio e io faticai per interpretare il suo sguardo. Non capii se lo stava squadrando per carpirne le intenzioni o se semplicemente stesse ammirando il suo bel viso.
«Mi ha raccontato di come vi siete incontrati la prima volta, non me ne avevi parlato» disse ad un certo punto.
Notai un sottofondo di rimprovero nella sua voce, ma evitai una risposta tagliente. Non gliene avevo accennato perché non volevo più nominare la serata al Mephisto in sua presenza.
«Me ne sarò scordata» mi giustificai, con un’alzata di spalle. Lei si diede uno schiaffetto sulla gamba come per decretare la fine della conversazione, e si alzò.
«Ad ogni modo, vi lascio da soli. È stato un piacere conoscerti, Samuel».
Samuel. Quel nome danzò sulle labbra di mia madre e suscitò in me una strana vergogna, come se mi pentissi di non averlo chiesto prima al suo proprietario. Un nome innocente che si accordava al suo viso e alla purezza degli occhi.
Il silenzio calò su di noi non appena fummo da soli. La giornata era un incanto e rendeva giustizia al giardino, al verde della sua erba tenera e al tocco di colore donato dai cespugli fioriti.
«Insomma…» mormorai ad un certo punto, frugando nella mente alla ricerca di qualcosa di sensato da dire, di un argomento di conversazione brillante o di domande intelligenti da rivolgere al ragazzo.
«Che cosa ti porta qui?» Temendo di suonare troppo scortese aggiunsi dell’altro per correggermi. «Hai detto che non ci saremmo più rivisti».
Sorrise e annuì. «Ho detto quella frase perché lo pensavo davvero, ma alcune cose sono cambiate, perciò eccomi qui».
Mi sembrava da ficcanaso chiedergli spiegazioni, forse doveva partire e alcuni recenti avvenimenti lo avevano trattenuto a San Francisco. In ogni caso non erano affari miei.
«Beh, mi fa piacere rivederti, forse è buffo ma ti vedo come un supereroe che mi ha soccorsa in un momento critico. Ti va un tè? O dell’acqua?»
«Sei molto gentile a chiedermelo, ma niente, ti ringrazio. Non bevo».
Ridacchiai, pensando che fosse una battuta, ma la sua serietà mi spiazzò. «Non era mia intenzione offrirti del Rum, o della Vodka…»
«Non bevo…liquidi in generale» precisò, con viso sereno, tanto sereno da farmi accettare quella risposta come qualcosa di normale, sebbene pensassi che fosse davvero bizzarro come tipo.
«Senti, Amber, vorrei essere più delicato e arrivare a toccare certi argomenti con calma, ma la situazione mi spinge a dover essere sincero con te fin dal principio». La gravità della sua voce e lo sguardo pesante che mi rivolse non mi piacquero molto.
«Ti devo delle spiegazioni». Improvvisamente ricordai la frase da lui detta all’ospedale, quando aveva fatto riferimento alle persone che frequentavo. Qual era il motivo di quelle parole, e soprattutto, era giusto che ci vedessi un’allusione a Simon?
«Che intendi dire?» chiesi in un sussurro. Credevo di fare conversazione con lui, ma l’atmosfera tra noi cambiò, divenendo di colpo più tesa.
«Vorrei essere sicuro che questo resti un dialogo privato tra me e te» lo sguardo indicò la porta della cucina, aperta a rivelare uno scorcio della stanza. Bramosa di saperne di più in fretta, corsi ad accostarla, poi mi accomodai accanto a lui. Ci volle un po’ perché cominciasse a parlare. Le sue frasi furono palesemente controllate e pensate, come se cercasse il modo migliore per comunicarmi qualcosa di difficile.
«Io non ero in quel locale per caso. Conosco il ragazzo che ti ha aggredita» la sua voce rimase sospesa nel silenzio, ma la mia reazione fu diversa da come la immaginai. In realtà già sospettavo che mi avrebbe fatto una confessione del genere.
«Siete amici?» Calcai sul termine volontariamente, ricordando ciò che Simon aveva detto…era lui la persona che voleva compiacere facendomi del male?
«Non esattamente, i rapporti tra noi non sono mai stati amichevoli. So che tipo è, per essere sintetici non sarei mai andato al Mephisto se lui non fosse stato lì».
«Perché?»
«Solamente per tenerlo d’occhio. Non sai di cosa potrebbe essere capace».
Indicai la fasciatura che mi copriva la gola. «Invece credo di sì».
«Sa fare di peggio. Credimi, io non sono come lui, non associarmi alla sua persona. Sono qui per scusarmi, perché in parte quello che ti è successo è colpa mia. Non ti saresti dovuta avvicinare a lui, sapeva che lo osservavo. Ha solo voluto sfidarmi apertamente facendoti del male».
Alzai le mani in segno di resa. «No, ti prego, fermati. Aspetta, mi stai dicendo che ha fatto quel che ha fatto solo per te?» Annuì con aria grave, mentre il mio cervello lottava per ragionare e per trarre un senso da quelle parole, e se il senso era inesistente, volevo almeno riordinare le informazioni appena ricevute.
«Ma perché proprio io?»
«Sei stata tu ad andare da lui, ha visto che lo fissavo quando ha smesso di giocare a biliardo e presumo che volesse…come dire, dimostrarmi che può sempre fare ciò che vuole. Tu non hai nessun significato per lui, sei solo una delle tante persone presenti in quel locale e che ha deciso di farsi avanti. Probabilmente non ti avrebbe fatto del male se non fossi stato presente».
Mi passai le mani sul volto, sentendomi davvero sciocca. Avevo creduto che Simon stesse fissando me, prima di decidere di andare da lui, invece…era Samuel che guardava. Rialzai lo sguardo su di lui.
«E sapevi che avrebbe reagito così?»
«Non con certezza. Quando si è allontanato dal bancone speravo che se ne fosse andato, ma tu l’hai seguito. Allora non sapevo cosa fare, temevo che intervenire e raggiungervi equivalesse a sfidarlo a mia volta, non volevo rischiare. Sa essere molto malvagio, ma non mi aspettavo che facesse un gesto tanto eclatante in un locale così affollato». Mi osservò attentamente, mentre io restavo in silenzio immagazzinando quelle notizie. Tutto mi parve un po’ più chiaro a pensarci bene. Ecco chi stava osservando nel momento del brindisi, sempre Samuel, anche se io non avevo notato nulla, ed ecco ancora a chi si riferiva quando aveva parlato di questo amico a cui voleva dedicare la mia morte. Guarda caso il responsabile inconsapevole degli eventi era il ragazzo che mi aveva salvato la vita. Feci un profondo sospiro.
«Lui ha…qualche problema?» Azzardai.
«Che cosa intendi esattamente per problema
Mi scappò una risatina lievemente isterica. «Beh, non è normale che una persona tenti di fare fuori qualcuno senza un valido motivo, non ti pare?»
«Lui non è una persona normale, ma non è pazzo, se è questo che pensi. Sadico, vendicativo e incurante delle regole, sì, ma non pazzo. Ha agito per ferirmi e sfidarmi, ma sono sicuro che è soprattutto il compiacimento che lo spinge a comportarsi così. Mi spiace che tu sia stata coinvolta».
Annuii, soprappensiero. «Ho capito, ma questo non cambia il fatto che mi hai aiutato, quindi non devi sentirti responsabile. Non è stata davvero colpa tua. Se conosci Simon allora di certo avrai delle informazioni su di lui, ne hai parlato con la polizia?»
Scosse la testa, guardando a terra, come se preferisse contare i fili d’erba piuttosto che affrontare quell’argomento. «Mi hanno fatto delle domande, come a tutti gli altri, ma non so nulla di utile per le indagini, e soprattutto nulla che possa essere raccontato alla polizia».
Sentivo che ci stavamo addentrando in un’altra zona di turbolenza, guidati dalle sue parole allusive, ma non osai chiedere cosa intendesse dire. Ci pensò da solo a chiarire le sue intenzioni.
«Il discorso appena affrontato era la parte più facile per te, temo».
«Qualche altra brutta confessione?»
Finalmente mi regalò il primo vero, ampio sorriso. I suoi denti erano perfetti e bianchi, il suo volto parve illuminarsi tutto per quel gesto e io mi sentii lievemente più al sicuro.
«Oh, non è affatto brutto ciò che ti sto per dire, tutt’altro. Ma non sarà facile per te credere alle mie parole e accettarle, così come molti prima di te sono stati scettici per paura o testardaggine».
Un rumore alle mie spalle, quasi impercettibile, interruppe il suo discorso e lo costrinse ad interrompere il contatto visivo con me. Quei suoi occhi azzurri erano vortici in cui non era tanto difficile perdersi.
Mamma comparve dalla cucina con la torta di mandorle fatta quella mattina, una bottiglia di succo di frutta e due bicchieri stretti tra gomito e fianco. Rivolse a Samuel un sorriso smagliante, posando tutto sul tavolino davanti a noi in una strana imitazione della perfetta donna di casa e amorevole ospite.
«Ecco qui, non starete mica a bocca asciutta?» domandò, con un’aria cordiale terribilmente falsa. Sperai che non avesse origliato la conversazione avuta poco prima, anche se la sua serenità suggeriva il contrario, e le rivolsi un’occhiataccia per aver interrotto il nuovo curioso discorso intrapreso dal ragazzo. Da sotto il piatto su cui stava la torta, rivelò due piattini piccoli su cui servì il dolce.
«Grazie signora, sembra una torta fatta in casa» fece Samuel, educato.
«Oh, l’ha fatta Amber, io non sarei capace di bollire un uovo». Come darle torto. Se avesse tentato di cuocere una torta, presa com’era dalle sue cose, di sicuro l’avrebbe dimenticata nel forno per ore.
Approfittai dell’istante in cui porgeva il piattino al ragazzo per meditare su alcune cose. Che cosa voleva dirmi ancora di così importante? Dopo avermi parlato di Simon e dei loro cattivi rapporti, cosa poteva esserci di più serio? Aspettai che mamma si allontanasse e sparisse dalla vista, poi lo incalzai.
«Allora…stavi dicendo?» La torta rimase intatta davanti a lui, così come il di succo di frutta.
«Ci sarebbero così tante cose da dire, ti prometto che prima o poi ci prenderemo il tempo per approfondirle. Oggi mi limiterò alle nozioni basilari».
Ero consapevole che lo stavo fissando attentamente, carica di aspettativa, pronta a qualche altra confessione. Forse era ancora Simon il protagonista di quella conversazione, forse voleva farmi sapere qualcosa di importante a proposito di ciò che era successo. Nessun’altra questione avrebbe richiesto tanta concentrazione o gravità.
«Io sono un Mal’ak.» Disse, senza aggiungere nient’altro, sebbene lo guardassi in attesa di spiegazioni più approfondite. Rimase in silenzio come se quella parola, totalmente incomprensibile e sconosciuta per me, potesse fornire da sola i dati necessari a capire tutto.
«Mi spiace, non so di che si tratta. Cos’è una specie di setta…un popolo?»
«È una parola ebraica. Solo tra il terzo e il secondo secolo avanti Cristo questo termine fu sostituito, quando i traduttori greci si occuparono della Bibbia ebraica. Significa inviato o messaggero. Un messaggero divino».
«Non sarai mica un prete?» Forse colse il disprezzo nel mio tono di voce, perché aggrottò la fronte pallida e scosse la testa.
«No, non si tratta di questo. Quando la Bibbia fu tradotta in latino, la cosiddetta Vulgata, sai come fu definito il Mal’ak?» Scossi la testa, senza capire bene dove volesse andare a parare con quella curiosa chiacchierata sulla Bibbia. «Angelus. È ciò che sono».
«Un Angelo…» Ripetei. Quella parola in bocca a me suonò decisamente ridicola, ma il viso di lui rimase impassibile, incapace di mostrare un particolare qualsiasi che potesse farmi capire che si trattava solo di uno scherzo. Certo, era ovvio che mi stesse prendendo in giro, non poteva essere altrimenti.
«Ah, davvero? E le ali dove le hai lasciate? Ti manca pure l’aureola e una musichetta celestiale che ti accompagni» lo presi in giro. «Se intendi dire che sei stato un angelo ad aiutarmi allora te lo concedo, te ne sono grata».
«Questo è un utilizzo improprio del termine, lo sai bene. Ti giuro che non mi sto prendendo gioco di te, sto dicendo la verità e anche se ancora non te ne sei resa conto o non lo vuoi accettare, lo sai anche tu. Sai benissimo che i medici hanno visto solo una parte di ciò che ti è stato fatto, ti hanno ritenuta fortunata a cavartela con un taglio poco grave, ma ci sono dei testimoni che potrebbero confermare ciò che dico. Stavi morendo dissanguata, Amber, nessuno avrebbe potuto salvarti in quelle condizioni…nessuno tranne me».
Scossi la testa, ma i pensieri erano annebbiati dai dubbi. Era proprio così, entrambi pensavamo che il giudizio dei dottori fosse inesatto, ma questo non significava per forza che solo il suo intervento avesse potuto salvarmi la vita, perché ammetterlo significava credere che fosse davvero…
Solo la parola mi faceva ridere, sicura che fosse solo uno scherzo di cattivo gusto. Soffocai i dubbi con una smorfia di disappunto.
«D’accordo, è stato divertente, ora basta, ho capito che è uno scherzo. Perché invece non mi parli un po’ di te, intendo davvero di te. Non ti ho mai visto da queste parti, non abiti in zona vero?»
«No». La risposta fu categorica, seguita da un lungo silenzio e da uno sguardo limpido che pesava su di me come un macigno. Lo sostenni per qualche istante, cercando nel suo volto qualche segno di debolezza, una crepa nella maschera usata per quella recita, ma riflettendoci bene e osservando con attenzione la sua espressione impassibile, capii che era fermamente convinto di ciò che aveva detto.
«Andiamo, non puoi davvero aspettarti che io creda ad una cosa simile!»
«Perché non dovresti? Io non so mentire, perciò puoi fidarti delle mie parole» fece tranquillamente.
«Conosco abbastanza gli esseri umani per capire che tutti quanto sanno mentire».
«Hai detto bene: gli esseri umani».
Trassi un profondo sospiro, scuotendo la testa, indecisa se essere divertita o disturbata dalla fermezza che leggevo nel suo viso. «Adesso capisco perché tu e Simon vi conoscete…andavate dallo stesso psichiatra per caso? Lui un pazzo assassino e tu uno squilibrato che crede di essere un messaggero divino!»
Con le mani unite si sporse in avanti senza staccare un secondo gli occhi dai miei. Non parve minimamente offeso. E pensare che qualche istante prima l’unica cosa che volevo fare era ringraziarlo a dovere per avermi tolto da una situazione critica, ora volevo trovarmi ovunque tranne che lì. Non volevo cacciarlo da casa mia, mi sembrava contrario ai miei principi di ospite, ma mi sentivo a disagio.
«Per favore, Amber, lascia che ti spieghi. Quando avrò finito capirai molte cose, il mio ruolo e quello di Simon in questa faccenda».
Forse stava mentendo o forse era davvero pazzo e convinto di essere un Angelo, ma se sapeva qualcosa su Simon non era meglio ascoltare ciò che aveva da dire e poi immagazzinare tutto? Potevo trarne informazioni utili alla polizia, dati che forse lui non considerava rilevanti, ma che potevano invece esserlo. Mi meravigliai quando mi scoprii pronta a starmene buona, in silenzio e in ascolto.
«Le Sacre Scritture non sono molto chiare a proposito di noi, ci nominano in diversi passi, ma non c’è mai una perfetta descrizione degli Angeli, soprattutto sulla nostra personalità. Se tu hai letto la Bibbia certamente ricorderai molte menzioni a esseri celesti che servono Dio nel suo operato, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento».
Ricordare? Tutto ciò che sapevo di quel testo erano le lezioni di catechesi, il resto era per sentito dire e non avevo idea a quali scritti facesse riferimento.
«Ma non importa la precisione, o la mancanza di essa, nel descrive gli Angeli, ciò che risulta simile in ogni testo è il loro ruolo. Sono presentati come il tramite tra Dio e l’uomo, i messaggeri incaricati di un ministero, di una missione a Suo nome. Se non mi credi sappi che la Chiesa venera degli Angeli come santi, il 29 settembre è la festa degli Arcangeli, il 2 ottobre la festa degli Angeli custodi».
«E tu sei un Angelo custode?» L’interruzione lo colse alla sprovvista, si schiarì la voce.
«In realtà…non esistono veri e propri Angeli custodi, molte persone credono che qualunque cosa facciano siano sempre vegliati da una figura celeste che li protegge, ma non è così. Noi Angeli viviamo sulla terra, ma proteggere tutti gli esseri umani non è la nostra mansione, non è possibile per noi farlo. Tralasciata questa piccola imprecisione, è chiaro che ormai la figura degli Angeli è entrata nell’immaginario collettivo…»
«…come figure mitologiche! Non credo agli Angeli più di quanto crederei a Pegaso o ai folletti».
«Ma credi in Dio…» La mia espressione fu rivelatoria, perché lo vidi sgranare gli occhi ancora prima che pronunciassi la fatidica frase che lo indignò.
«Spiacente di deluderti, sono atea, perciò puoi insistere all’infinito sulla questione, ma non potrei mai crederti davvero».
«Atea!?» ripeté quella parola come se si fosse trattato di una terribile bestemmia.
«Non credo in Dio».
«Lo so che cosa significa, tuttavia ciò non mi impedisce di esserne stupefatto. È assurdo non credere all’essere che ha creato tutto! Ogni cosa che vedi è nata da lui, dal suo amore! La tua vita è un suo dono!» Era così infervorato che mi dispiaceva quasi pensare che fosse uno svitato. Scosse la testa infiammato dall’entusiasmo di un bambino, e allargò le braccia come per avvolgere tutto ciò che ci circondava.
«Da dove credi che sia venuto tutto questo? Guarda gli alberi, l’erba su cui teniamo i piedi, tutto quanto!»
«Qualcuno lo chiama Big Bang» dichiarai stringendomi nelle spalle con aria di sufficienza.
«Farò finta di non aver sentito…cosa sei. Nonostante il tuo problema, immagino tu abbia già sentito parlare delle schiere angeliche». Ci riflettei su. Non sapevo quasi nulla di religione, se c’era una domanda in proposito in qualche quiz televisivo per me era quasi possibile indovinare, ma quei termini mi parvero familiari. «Forse sì…c’entrano qualcosa i Cherubini?»
Gli occhi del ragazzo si illuminarono e il sorriso che mi regalò contribuì in parte a sciogliere la tensione che si era creata. Sembrava così convinto delle sue parole, che non me la sentivo di prendermela eccessivamente con lui. Alle medie conoscevo un ragazzo che era convinto di essere capace di leggere nella mente delle persone e passava le ore di lezione a fissare tutti a occhi stretti. Era probabile che con Samuel fosse lo stesso, forse soffriva di qualche disagio mentale di cui non avrei dovuto ridere. Mi sentii un po’ in colpa per averlo fatto fino a quel momento.
«Esatto!» Esclamò, distogliendomi dai miei rimorsi. «Dopotutto non sei così digiuna di materia religiosa. Dio è definito Adonay Tsebayoth, che in ebraico significa Signore delle schiere. Il Medioevo ha maturato una gerarchia angelica molto precisa, anche se le fonti sono state per lungo tempo contrastanti, formata da Cherubini, Serafini, Troni, Dominazioni, Virtù, Potestà, Arcangeli e Angeli. In realtà è un ordine fissato da uomini, perciò impreciso, basti pensare che i Cherubini e Serafini sono figure della mitologia mesopotamica, i primi dalla figura ibrida tra uomo e toro, con le ali, i secondi probabilmente derivati dall’immagine di un serpente alato che sputa fuoco. L’iconografia posteriore associa i Cherubini ad angioletti bambini, simili a Cupido e i serafini a esseri luminosi con sei ali. Tuttavia un ordine angelico esiste anche se molto più semplice: Arcangeli e Angeli. Sono questi i messaggeri che Dio ha scelto per la sua missione. Fungono da mediazione tra il mondo degli esseri umani e quello celeste». Di nuovo un sorriso smagliante. «Hai capito ora?»
Annuii in silenzio, continuando a sentirmi molto scettica al riguardo, ma incapace di dirglielo in modo esplicito. Per evitare commenti afferrai il bicchiere e deglutii una lunga sorsata di succo. Certo, la spiegazione era stata molto precisa, per quanto io potessi saperne, ma era come descrivermi il mondo della fate. Interessante, ma palesemente fantasioso.
«Ancora non mi credi, vero?»
«Si vede così tanto?» chiesi in un sussurro. Lo sguardo di Samuel si abbassò sulla torta.
«Forse ho capito come convincerti». Lo scatto in avanti che fece mi colse di sorpresa e il sangue mi si gelò nelle vene quando in mano gli vidi il lungo coltello che mamma aveva portato assieme al dolce. Era uno di quelli appartenenti al set di cinque coltelli da cucina infilati nel ceppo in legno che tenevo sul bancone, accanto al frigorifero, un pensiero irrilevante in quel momento, ma rifletterci su significava anche riconoscere che erano tra gli utensili da cucina che più utilizzavo per cucinare, e ciò significava che la lama veniva frequentemente affilata. D’istinto scivolai via dalla sedia velocemente, indietreggiando.
«Aspetta, che fai? Che ti salta in mente?» dissi, con voce tremante, indecisa tra varie opzioni. Restare lì e aspettare una sua mossa, schizzare via verso l’interno della casa o mettermi a strillare per attirare l’attenzione di mia madre o dei vicini? Non riuscivo a muovere un muscolo, né a decidermi a gridare. Ero paralizzata.
Il ragazzo teneva saldamente l’arma in mano, come se qualunque decisione avesse preso fosse ormai sicura nella sua mente ed inevitabile.
«Non preoccuparti. Tu non mi credi, sei ancora scettica e questo è l’unico modo per provarti che ciò che dico è vero.»
Questo tizio è completamente pazzo, fai qualcosa! Mi avvertì nuovamente la vocina nella mia testa. Attribuii quello zelo alla mia coscienza, incapace di etichettare in altro modo il conflitto che si stava scatenando nella mia testa.
Guardalo bene, regge un coltello lungo una ventina di centimetri ed è dannatamente calmo!
Era vero, il viso di Samuel era impassibile, sereno come se non stesse accadendo nulla di grave.
«Per favore…» sussurrai, rimproverandomi mentalmente perché non stavo gridando, ma le parole uscirono dalle mie labbra a fatica come se l’adrenalina fosse una mano forte che premeva sulla mia gola. Inoltre ero terrorizzata all’idea che alzando troppo la voce o facendo qualche mossa azzardata lui potesse fraintendere le mie intenzioni e aggredirmi. Mi mossi lentamente di lato, ma non avevo scappatoie se non la cucina.
Era stato un errore farlo entrare in casa. Perché, perché sempre io attiravo gli squinternati?
«…Mettilo giù».
«Voglio solo che mi credi» affermò. Poi fece una cosa che non mi sarei aspettata, ma che nuovamente mi fece schizzare il cuore in gola. Avevo creduto da quando aveva preso quell’arma che fosse intenzionato di farmi del male, anche se il motivo mi sfuggiva, perciò non ero preparata all’eventualità che vidi realizzarsi di fronte ai miei occhi.
Di punto in bianco, sempre con quell’espressione pacifica sul volto e lo sguardo imperscrutabile, rivolse la lama verso di sé, con la punta pericolosamente vicina alla stoffa della maglietta grigia e allo stomaco. Senza nessuna esitazione tese le braccia in modo che il colpo assumesse la giusta forza.
«No!» gridai, e senza che la mia mente lo avesse programmato, percepii il mio corpo gettarsi spontaneamente in avanti, verso il ragazzo. Fu questione di un paio di secondi, durante i quali, ne ero certa, trattenni il respiro e abbandonai ogni pensiero. Con le dita gli afferrai saldamente i polsi, un istante prima che la lama potesse penetrare la stoffa e la carne. Samuel non oppose la minima resistenza e io riuscii a frenare l’impeto. Rimase per qualche istante fermo a guardarmi, senza dire nulla, mentre io respiravo affannosamente come se avessi corso per chilometri. Il cuore batteva come un pazzo nel petto. Dopo qualche istante Samuel sorrise con aspetto del tutto bonario e posò il coltello esattamente dove l’aveva preso.
Dei passi pesanti e rapidi alle mie spalle mi fecero capire che mamma era accorsa.
«Che cosa succede?» chiese preoccupata, facendo capolino dalla cucina. Samuel sorrise e scosse la testa. «Niente di grave signora, è tutto a posto».
«Ho sentito gridare».
Io evitavo di guardarla in faccia, consapevole del colorito spettrale del mio viso e degli occhi che probabilmente erano schizzati fuori dalle orbite per lo spavento. Deglutii più volte, poi mi voltai e le regalai il sorriso più rassicurante che mi riuscii in quel momento.
«Un’ape mi ha attaccata. È tutto a posto».
Mamma inarcò un sopracciglio perfettamente curato. «Tutto questo trambusto per un’ape?»
«Scusa». Non capivo perché non volessi dirle che Samuel, il caro Samuel con l’aria tranquilla e gli occhi splendidi, aveva cercato di sventrarsi come un pesce nel nostro giardino. Perché lo stavo proteggendo anche dopo ciò che era quasi successo?
Senza fare altre domande la donna tornò dentro e io mi sentii libera di respirare a fondo per darmi una calmata.
Appena in tempo. Ancora un secondo e avresti raccolto budella dal pavimento.
«Credo che sia il momento che tu vada» mormorai, sentendo le gambe trasformarsi in gelatina a causa dell’adrenalina che defluiva dai miei arti, lasciandomi sola con quella sgradevole sensazione di spossatezza. Non questionò, si limitò ad annuire comprensivo. Capiva che mi aveva fatto quasi venire un infarto?
Lo accompagnai alla porta, lui rivolse i dovuti saluti e ringraziamenti a mia madre, che lo invitò a tornare anche se avrei voluto tapparle la bocca e dirle che quel tizio non si sarebbe mai più avvicinato a casa nostra.
Quando fu sulla scaletta fuori casa, mi chiusi la porta alle spalle per avere ancora un attimo di privacy.
«Non farlo mai più!» esclamai, categorica.
«Non temere» rispose il ragazzo, come se non stessimo affatto parlando di qualcosa di serio, bensì di un’amabile pic-nic al parco. «Non stavo rischiando nulla, non posso farmi alcun male. È questo che volevo farti vedere…affinché mi credessi».
«Beh, non farlo più…per favore». Abbassò lo sguardo, assomigliando d’un tratto ad un cucciolo smarrito.
«Scusa, era un’azione fatta in buona fede…»
Scrollai la testa indignata. In buona fede? Chi si ammazzerebbe in buona fede?
«Sei fuori di testa…» mormorai.
«Forse sono stato un po’ azzardato». Avrei voluto picchiarlo. Azzardato era un eufemismo, ma i miei pensieri da quel momento in poi era meglio tenerli a bada.
«Promettimi che non tenterai più di fare una cosa del genere. Né per dimostrare qualcosa, né per altri motivi».
I suoi occhi erano grandi, azzurri e sinceri. «Hai la mia parola.» Mi concedette. Non sapevo quanto potesse valere, ma decisi che poteva bastarmi.
Scese silenziosamente i gradini che lo separavano dalla strada. Dopo qualche metro si voltò e chinò il capo con educazione. «Grazie per l’ospitalità». Prima che se ne andasse fui io a fermarlo ancora per un istante.
«Aspetta, ho ancora una domanda. Perché sei venuto da me a dirmi tutte quelle cose?»
Si guardò intorno assicurandosi che nessuno prestasse attenzione a noi. Il figlio dei miei vicini di casa, un ragazzino di nome Mitchell, gli passò accanto con lo skate senza degnare di uno sguardo nessuno dei due.
«Vedi, Amber, in quanto elementi di mediazione tra il divino e l’umano, noi Angeli siamo simili a voi, ma possediamo dei poteri. Sono molto deboli, più che altro una traccia di capacità maggiori, con questo io ti ho salvato la vita. Ho fermato l’emorragia in corso e ti ho permesso di tornare a respirare. Ti ho guarito in parte, per questo la ferita ai medici è sembrata meno profonda di quello che fosse in realtà. Te lo assicuro non saresti sopravvissuta se non fossi intervenuto, ma non avrei dovuto farlo».
«Perché?»
«Ordini. Noi non possiamo metterci in mezzo. Supervisioniamo, ci limitiamo a ispezionare il vostro mondo e a riferire a chi sta più in alto di noi, ma ci è severamente vietato utilizzare quei poteri».
«Allora perché l’hai fatto?»
Fece un cenno verso di me. «Non potevo permettere che un’innocente morisse di fronte ai miei occhi, soprattutto sapendo che in fondo è tutta colpa mia. Simon sapeva che non potevo intervenire, anche per questo mi ha sfidato. È stato più forte di me, e ora che ho trasgredito gli ordini devo pagarne le conseguenze».
Il suo tono era così serio che, sebbene sapessi che stava dicendo un sacco di cavolate, mi sentii rabbrividire. «Ogni azione ha delle ripercussioni, Amber. La mia comporta il fatto che ho dovuto raccontarti la verità, affinché tu sia pronta a qualsiasi evenienza. Sebbene di solito ci teniamo alla larga dai problemi degli umani, mi è stato concesso di avvertirti, ma non posso metterti in guardia senza che tu sappia in qualche guaio ti sei cacciata dando confidenza ad uno come lui. Ha fatto ciò che voleva fare per il suo divertimento, ma tu sei ancora viva e questo lui non se l’aspettava».
Deglutii, riconoscendo come paura quella sensazione formicolante allo stomaco. «Credi che tenterà ancora di farmi del male?» chiesi.
«Non lo so, ma certamente ha deciso molto tempo fa da che parte stare. So che ancora non mi credi, ma quelli come Simon una volta erano come me…anch’essi Angeli. Ora non lo sono più».
Probabilmente la mia espressione lo fermò prima che andasse oltre. «Non importa, per oggi basta così con le spiegazioni. Promettimi che starai attenta e lontana dal Mephisto. Tutti coloro che ci lavorano sono esattamente come Simon benché si siano comportati come persone normali» mi avvertì. Mi era difficile prenderlo sul serio ricordando la disponibilità di tutti i camerieri. Non potevano essere accomunati a un assassino.
«Per il momento ti chiedo un po’ di discrezione. Tu meriti di sapere la verità, ormai è una questione che ti riguarda, ma ti chiedo per cortesia di tenere per te ciò che ti ho detto».
«Ma certo» gli assicurai, evitando di aggiungere che chiunque avesse sentito quella storia mi avrebbe creduto fuori di testa.
«Ci vedremo di nuovo, è una promessa» dichiarò.
Semmai una minaccia. Intervenne la mia coscienza e io non potei darle del tutto torto.
«A proposito» ancora si interruppe prima di andare via. «Il mio vero nome non è Samuel. È Hadas. È ebraico e significa Nuovo. La prossima volta ti racconterò il resto».
Lo guardai allontanarsi, pensando che non volevo che ci fosse una prossima volta. Volevo che lui e le sue stronzate religiose da quattro soldi sparissero definitivamente dalla mia vita. Ma quando rientrai in casa mi resi conto che non era davvero così. Sospirai e posai la schiena contro la porta, chiudendo gli occhi e sentendomi stanca e ancora fiacca dopo lo shock del tentato suicidio.
In che guaio mi sono cacciata?


  
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