Capitolo
7
L’odore del
sangue
– Domani ti riporto a Damasco.
Aveva detto
esattamente così. Senza la benché minima cura,
senza neanche sforzarsi di sembrare almeno un po’ costernato
mentre m’ignorava per una catasta di dispacci vuoti, che
ricurvo come un vecchio librario si apprestava a spostare e osservare
sotto la luce tremula di una candela, l’unica luce in tutta
la piccola stanzetta.
Riuscii a distinguere
sulla superficie anche un paio di libri dalla rilegatura sottile e un
calamaio con l’inchiostro secco, ma non ne ero sicura.
Quando
esordì con quella frase, io ero seduta sul ciglio del letto,
il suo, con esattezza, a fissarlo contrariata e vagamente alticcia
mentre colle dita stropicciavo l’orlo liscio della camicia da
notte con cui mi ero appena cambiata.
Sentivo, poi, che la
schiena era bagnata, che i capelli pesavano e che i piedi erano
ghiacciati e ritratti sul pavimento, non sopportavano il contatto: che
mi fossi anche lavata in quel buco nero che per la mia testa erano i
dieci minuti precedenti a quel momento di ritrovata lucidità?
In verità,
non me ne curai, perché adesso stavo riconoscendo le mura
anguste e umide della stanza a celletta, i vari suppellettili adombrati
nella notte, una porta massiccia più in fondo, il lavamano e
gli specchi di luce lunare che dalla finestra si proiettavano a
intermittenza nella stanza di Kadar.
Poi, di punto in
bianco, mi alzai dal materasso imbottito di paglia e schiarendomi la
voce andai incontro al novizio con falcate decise.
Lui si
voltò sotto lo strattone della mia mano, mostrandomi il
fianco su cui teneva stretto gli abiti di Altaïr e, penzoloni
al fianco, la spada del temuto Assassino. Quand’è
che li avevo tolti per darli a Kadar, affinché provvedesse
alla loro sostituzione al legittimo proprietario?
Prima o dopo quel buco
di dieci minuti?
Ci misi un
po’ prima di riuscire a sciogliermi la lingua in quel
pensiero.
– Che cosa
vuol dire… che domani mi riporti a Damasco? –
sibilai torva e con l’alito che puzzava di vino, gli occhi
serrati nel tentativo inutile di mettere a fuoco la sua espressione
oltre la foschia leggera e la già poca luce della candela.
Kadar
indugiò sul mio volto per un bel po’ prima di
decidersi a parlare. Forse, stava ripensando a quello che gli avevo
detto di ritorno al refettorio, subito dopo esserci congedati dal suo
fratello per dirigersi nelle sue stanze.
Già,
cos’è che gli avevo detto…?
– Oggi
abbiamo rischiato troppo. – esordì a testa china.
– Ho già mentito per te al mio Gran Maestro, a
Malik, ad Altaïr ... – Indugiò, facendosi
sfuggire una smorfia mentre si scostava dalla traiettoria del mio alito
imbevuto di vino. – Non ti sembra che abbia già
fatto abbastanza per coprirti?
Prima che potessi
obbiettare, mi raggirò con uno scatto perentorio,
continuando a concedermi solo le sue grandi spalle mentre scivolava
sfuggente verso la finestra inondata di luce lattea.
– Al Mualim
è stato comprensivo e mi ha dato un’occasione per
rimediare all’insubordinazione di quest’oggi.
– spiegò, volgendosi a guardarmi quasi per
sbaglio, come se non avesse saputo resistere. Si corresse subito e
tornò diritto, un vero soldato. – Mi ha chiesto di
adare a Damasco per raccogliere informazioni per un mio superiore, e tu
verrai con me. Sarai Nadim per l’ultima volta,
così, quando saremo dentro le mura della città,
noi ci separeremo. Definitivamente.
Faticai sinceramente a
rimettere apposto i pensieri e anche dopo non riuscii a non guardarlo
con totale smarrimento, come se, all’improvviso, mi fosse
appena giunto uno schiaffo dal cielo ed io non riuscissi a capire da
quale lato fosse arrivato.
–
Stai… stai scherzando, spero! – esclamai a fil di
voce, non riuscendo a trattenere lo slancio del mio corpo che
andò in avanti. – Non vorrai davvero mollarmi
lì, accidenti!
Ma lui rimase
impassibile dentro il riflesso alla finestra.
– Damasco
è tappezzata da drappelli templari, non sarà
difficile per te convincerli a darti la loro protezione. –
Poi mi lanciò un’occhiata malevola, aggiungendo
– In fondo, sei brava a manipolare il volere degli altri. Non
sarà questa gran cosa per te ottenere da loro una
complicità forzata.
Colpita. Distolsi lo
sguardo con gli occhi stretti e le labbra serrate, sbruffando.
– Sei tu che
hai voluto mentire a tuo fratello, Kadar. – gli ricordai
allora io, rivolgendo un’occhiata severa ai suoi spostamenti
dentro la stanza. Ora stava passando vicino al letto, lo aveva guardato
ed era andato avanti. – Sei tu che hai insistito per
assumerti tutte le responsabilità difronte ad Al Mualim, e
sempre tu hai convinto Altaïr che ero tua sorella, anche
quando tu stesso dici di non crederci. Non io!
Senza alcun preavviso,
Kadar si bloccò nel bel mezzo della camera, sopracciglia
arcuate e aria fastidiosamente basita mentre, per la prima volta da
quando lo conoscevo, alzava di poco la voce.
– Tu guarda
che faccia tosta! Se io non avessi raccontato tutte quelle bugie, a
quest’ora tu staresti accucciata come un cane sul pavimento
di una cella ad aspettare la tua esecuzione! Non saresti mai
sopravvissuta senza di me!
Sentendomi attaccata,
serrai i pugni lungo i fianchi, ringhiando – Vuoi che ti dica
grazie? D’accordo! Eccoti servito: grazie per avermi accusato
di essere una Templare, grazie di non avermi sbattuto ingiustamente in
prigione per poi farmi giustiziare nel piazzale del castello il
dì seguente! Davvero, grazie di cuore!
– Certo,
certo che devi ringraziarmi! Non ero dovuto a fare tutto questo, ma
l’ho fatto, razza d’ingrata, cocciuta egoista di
una Templare!
Di nuovo quella
parola. Iniziavo davvero a odiarla.
– Quante
volte devo ripeterlo? – avanzai di un passo mentre scandivo a
gran voce – Io non sono una Templare, maledizione, smettila
di accusarmi come se avessi fatto qualcosa di orribile!
– Adesso
basta! Tu farai come ti dico! Sono tuo fratello e decido io!
– Ma io sono
più grande di te di un anno, quindi non puoi comandarmi, non
puoi!
Le sue guance si
accesero subito di rosso, dovevo appena aver colpito il suo orgoglio
maschile.
– Di tutte
le donne che ho incontrato, tu sei in assoluto la più
cocciuta e arrogante!
– Ah,
sì? – e feci un altro passo avanti, sfidandolo.
– Puoi
scommetterci! – ribadì e si tese inavvertitamente
verso di me, una pura presa di potestà, ma in qualche modo
non fu affatto intimidatorio, anzi. Mi avvicinai ancora di
più, inesorabilmente attratta da quel suo sorriso sornione.
Ma forse era l’alcool a farmelo vedere.
– E di
quante donne stiamo parlando, mio caro fratellino?
Lui rise appena,
distolse lo sguardo e si pulì gli angoli della bocca col
pollice e l’indice, dunque, tornò a guardarmi con
aria scostante. – A te che importa, sorellina?
Chiusi gli occhi
acquosi e alticci, sospirando – M’importa. Molto.
Lui mi
fissò. All’improvviso, aveva preso la cosa
seriamente.
Con un ultimo tratto,
Kadar divorò la distanza minima che correva dal mio petto al
suo, ritrovandomi a dover drizzare il collo per riuscire a tenere il
confronto, che ora volgeva a suo favore con quei dieci centimetri in
più della sua altezza. Provò a nasconderlo, ma
lui si gongolò di quel piccolo vantaggio e sorrise, un mezzo
ghigno che donò un nonsoché di mellifluo alla sua
voce quando mi sussurrò in faccia il suo divertimento.
– Sei
gelosa?
Annuii, ma me ne
pentii subito.
La candela
bruciò per un po’ sui nostri volti, fermi e ora
compressi in sentimenti che non riuscivamo bene a capire ma che, era
evidente, ci avevano scombussolato a tal punto da far calare il
silenzio nella stanza.
C’era un
buon profumo, ora che il suo collo era così prossimo al mio
naso. L’odore frizzante di salsedine e quello leggero della
spuma di mare.
Poi, accadde.
Il compimento in
pensiero di quella che era la mia paura più grande e
profonda. La caduta di quella goccia che fece straripare un mare di
sentimenti ed emozioni soppresse per diciotto anni.
Io amavo Kadar.
Lo amavo
quand’ero solo una bambina, l’ho amato anche dopo,
quando se n’era andato, e adesso, anche adesso che sapevo di
aver difronte l’idealizzazione di un corpo incorporeo, morivo
dalla voglia di stringerlo a me come se fosse fatto di carne, e
affondare nelle sue labbra come se potessi sentirne il sapore, e,
sì, farci l’amore, come se quella notte sarei
diventata finalmente una donna.
– Kadar
…
Mi allungai appena
verso il suo volto, sentii l’attimo in cui il respiro gli si
mozzò in gola, atterrito. Avvertii il vago richiamo della
sua carne calda in prossimità della bocca. Ma
all’improvviso lui si ritrasse.
Riaprii gli occhi e
non appena mi rividi riflessa nei suoi sbarrati, viso tondo e naso
rosso per il vino, ebbene, quell’idilliaca sensazione di
rivelazione e accettazione che avevo provato per pochissimi attimi mi
franò in testa come il tetto di una casa.
Ora tutto
ciò che sentivo era l’acuto sentimento del disagio
e di un orgoglio ferito.
–
Domani… domani il gonfiore del tuo viso dovrebbe esser
diminuito. – Kadar faticò a riprendere la
naturalezza della conversazione, ma lo sguardo puntato in basso e
l’improvvisa ritrosia del suo corpo gli facilitarono di
parecchio il compito. – La gente potrebbe insospettirsi del
tuo aspetto, capirebbe che sei una donna e Nadim solo un travestimento.
Ancora confusa, mi
sforzai di non scoppiare a piangere mentre col volto accaldato mi
allontanavo e tenevo la fronte tra le dita, per nascondermi ai suoi
sguardi impacciati, quelli di chi non sapeva bene come comportarsi ora
che le cose avevano preso una piega troppo compromettente.
–
C… concordo. – risposi quasi per dovere, spingendo
le mani dietro i fianchi mentre, volgendomi di scatto, tiravo un
sospiro per rischiararmi i pensieri. Dannazione.
Dannazione,
dannazione, dannazione!
– Ci
conviene partire prima che il sole sorga, quando le sentinelle faranno
il cambio di ronda, per evitare d’incrociare controlli alle
porte. – affermò poi, un po’ teso,
tirandosi gli abiti ripiegati sottobraccio e sistemandosi la spada
d’Altaïr al fianco, forse
nell’inconsapevole ricerca di un
incoraggiamento. – Passerò verso
l’alba per portarti abiti nuovi e mangeremo qualcosa a
cavallo, forse dovremo fermarci a qualche sorgente prima di addentrarci
nel deserto e riempire anche le borracce delle tue
bisacce.
Non si volse nemmeno
una volta a guardarmi mentre impartiva i suoi ben chiari ordini, e non
lo fece nemmeno difronte alla porta aperta, invece, mi
liquidò con queste semplici parole, come se non vedesse
l’ora di liberarsi di me.
–
È tutto chiaro?
Chiarissimo. Mi
lasciai sfuggire un singhiozzo dentro il sorriso, chinando la testa sui
miei piedi nudi e bianchicci, mentre dentro iniziava a bruciare.
Sì, Kadar. La prima lacrima fuoriuscì e cadde sul
mio alluce.
Ora è
perfettamente chiaro.
– Sparisci ... sparisci dalla mia
vita.
Un sussurro.
Impercettibile. E in qualche modo, Kadar lo sentì.
Rimase con un piede
nella stanza e l’altro già in corridoio per
chissà quanto tempo, in equilibrio tra la voglia di
sbattersi dietro quella porta e andarsene, oppure, rientrare dentro e
chiedermi che cosa intendessi, perché continuavo a
trattenerlo con tutte quelle subdole bugie e, poi, gli intimavo di
sparire per sempre dalla mia vita.
Ma non ci riuscii.
Non riuscii a
spiegargli il complesso motivo per cui non riuscivo ad accettare i miei
sentimenti per lui, e anche se ci fossi riuscita, lui non mi avrebbe
mai creduto.
Quindi, Kadar se ne
andò. Nessuna parola, nessun tentativo di capire.
Semplicemente, ero di
nuovo sola.
*
*
*
Ricorda,
amore mio. Nulla di quel che ritieni esser vero è reale, ma
tutto quello che ti sembra impossibile e assurdo, ebbene quello
sì, quello è reale.
Ricordati, Laura.
Nulla è
reale, ma tutto è lecito.
Ricordatelo. Devi
ricordarlo.
Laura.
Mi risvegliai di
soprassalto e lo sbilanciamento del sussulto mi colpì in
pieno stomaco, rovesciando il suo contenuto con una capriola che
mandò tutto sottosopra.
Resistetti pochi
secondi con le mani pressate sul grembo nel penoso tentativo di far
passare gli spasimi e i dolori lancinanti, poi scivolai oltre il bordo
del letto e scaraventando le ginocchia per terra mi chinai subito a
recuperare il vaso da notte vuoto sotto il letto. Appena in tempo.
Liberai lo stomaco di
tutto il vino ristagnante nel fondo del mio stomaco e quando ebbi
finito l’odore di fermentazione e del cibo misto ai succhi
gastrici mandò il mio cervello indietro, costringendomi a
trovare appoggio contro l’angolo del letto.
Rimasi seduta a terra
per un bel po’, quasi priva di una coscienza vigile e con gli
occhi chiusi nella confusione di una sbronza che faticava a scemare e
un gran mal di stomaco, forse perché avevo mangiato, anzi,
fagocitato avidamente tutto ciò che sulla tavolata imbandita
aveva un benché vago odore di cibo dopo quasi due giorni di
digiuno.
Solo adesso mi rendevo
conto di quanto fosse stata stupida l’idea di finire da sola
un piatto considerevole di carne d’agnello che divisi Malik,
il quale la sbocconcellava tra un racconto e l’altro e ne
inzuppava grossi pezzi in una strana salsa nera, rompeva gusci di noce
color del miele e me ne offriva, consapevole che non avrei rifiutato. E
nel frattempo bevevo, bevevo interi bicchieri di vino per mandare
giù i grossi bocconi che nemmeno masticavo tale era
l’euforia di risentire i gusti dopo un periodo di assoluta
aridità per il mio povero stomaco.
Mi pentivo
d’essermi ingozzata senza pensare che potessi avere
un’indigestione, mi pentivo d’aver bevuto tutto
quel vino solo perché la conversazione era scorrevole e
piacevole, ma più di tutto, mi pentivo di non esser riuscita
a tenere a bada i miei sentimenti difronte a Kadar, mettendolo nella
scomoda posizione di rifiutare sua
sorella.
Mi pentii di tutto.
Tutto quanto.
Gli avrei chiesto
scusa nell’indomani, quando sarebbe venuto a prendermi per
partire. Avrei incolpato l’alcool. Sì. Poteva
andare.
Quando poi mi sentii
un po’ meglio, e riuscii ad aprire gli occhi senza che
provassi un forte senso di vertigine, mi feci leva sul materasso e
anche se un po’ barcollante riuscii a rimettermi in piedi e a
recuperare il vaso pieno di vino fermentato, che buttai fuori dalla
finestra e già lungo la torre buia.
Storsi il naso e volsi
il viso da un’altra parte mentre sbattevo il vaso sul muro
esterno, per scrollare via qualsiasi residuo, e fu allora, mentre
riportavo il braccio dentro e mi apprestavo a richiudere le vetrate,
che notai la pesante cappa di elettricità che ricopriva
l’intero cielo.
Difficile dirlo, ma
doveva essere notte fonda. Forse le due, le tre di notte.
Richiusi la finestra
con un sospiro, e giacché avevo una certa sete andai diritta
verso il lavamano in un angolo della stanza, ma quando sbirciai dentro
il tinello di rame lo trovai vuoto, così come la caraffa
poggiata sul fondo.
Sbuffai, abbandonando
il vaso da notte sulla superficie spoglia e buia e mettendomi in
equilibrio sui palmi aperti lungo il bordo di legno. Che stupida. Mi
ero dimenticata di averla usata tutta per lavarmi, anzi, strofinarmi
via la sporcizia di quei tre giorni.
Ora mi sarebbe toccato
cercarne dell’altra.
Lo ammetto,
l’idea di uscire fuori non mi esaltava molto. In
verità, il pensiero di tutti quei cunicoli, corridoi,
passaggi segreti e atri deserti mi metteva addosso una certa tensione,
o forse era proprio fifa.
Insomma, chi mai
avrebbe avuto l’ardire di addentrarsi in un castello
medievale del dodicesimo secolo a notte fonda, con tutto il rischio
d’incappare in qualche spirito o fantasma di passaggio cui
esistenza, per quanto ridicolizzata dalla mia fede incrollabile per
tutto ciò che era razionale e scientificamente spiegabile,
era comunque tenuta in vita da quel minuscolo timore nel mio cuoricino,
ovvero che, sotto sotto, le antiche leggende e gli incubi
dell’ottuso immaginario medievale non era poi tanto
immaginario?
Nessuno. Ma io avevo
una gran sete e, come già detto, in quella dannata
allucinazione le sensazioni e i bisogni fisiologici erano
più vere che nella realtà.
Quindi, mi feci
coraggio e uscii fuori dalla zona sicura della camera di Kadar,
addentrandomi nel cuore del castello addormentato.
Tutto taceva, i
corridoi erano vuoti e le lanterne illuminavano gli archi che dalla
cima delle scalinate si proiettavano sulla fronda frastagliata di un
albero di arancio in un giardino murato, la cucina era chiusa e i
tavoli nel refettorio desolati, la maggior parte degli Assassini era
nei loro alloggi o sulla passerella delle mura esterne e tra i merli
dei torrioni, dove vegliavano sul villaggio e i confratelli
addormentati.
Grazie alla chiamata
alle ronde non trovai nessuno a sbarrarmi il cammino dentro il castello
e passai da un’ala all’altra del castello,
indisturbata ma non per questo meno tesa, perché temevo
sempre di ritrovarmi davanti al fantasma di una fanciulla caduta dalla
torre, o del suo cavaliere senza testa.
E tanto fui presa da
questa improbabile possibilità che non mi resi conto di aver
sbagliato completamente direzione.
Non andai alle cucine,
come invece avevo deciso di fare, ma proseguii per delle scale strette
tra due mura a spirale, scendendo giù di qualche metro.
Intuii subito che qualcosa non andava, ma quando pensai di tornare
indietro era già troppo tardi.
Due guardie, ferme
sotto un’arcata di pietra, erano sbucate dal pavimento
dinanzi a me come dei veri e autentici fantasmi, sbarrandomi il cammino
appena entrai in corridoio.
Il corpo
balzò subito indietro, a cercare riparo contro
l’angolo e lì rimasi con lo sguardo sbarrato nel
terrore per chissà quanto prima d’accorgermi che
le due guardie erano belle che addormentate sul posto di lavoro,
braccia conserte e mento affondato sul petto bianco.
Tuttavia non uscii
subito allo scoperto, invece, rimasi cautamente affacciata dal mio
nascondiglio e soppesai il rischio di tentare seduta stante di
sgattaiolare via, prima che le guardie si svegliassero. Però
non riuscivo a non chiedermi cosa ci fosse dall’altra parte
di quell’arco per essere sorvegliato da due Assassini. Forse,
le segrete del castello?
Un lampo mi
trapassò la testa.
E se … ?
Scossi il capo,
schernendo quell’idea con una risata sommessa. No,
decisamente, non era il caso.
Feci così
per tornare indietro nel corridoio, salii i primi due gradini e mi
bloccai al terzo. Resistetti un bel po’alla tentazione prima
di cedere e sbirciare oltre la mia spalla sinistra, tormentata dal
volteggio angosciante di pensieri che proprio non volevano lasciare la
mia testa.
E se non fosse stato
un caso, che quella mattina al villaggio fosse giunto un Templare
proprio mentre me la stavo squagliando da Masyaf?
E se ci fosse un
disegno dietro il nostro incontro accidentale, avvenuto per uno scarto
di pochi minuti oltre il quale non ci saremmo mai incrociati,
un’intenzione nel farmi indugiare alle porte il tempo
necessario per vedere quel novizio alzare la mano contro di lui, lo
scopo esatto di riscuotere in me un sentimento assopito,
quell’antica identità sepolta nelle
profondità del mio sangue?
E se quel Templare, il
fantasma di un Ordine tramontato da secoli oramai, fosse la risposta a
ciò che mi stava succedendo?
L’unico modo
per saperlo era superare le guardie e scendere direttamente nella bocca
dell’inferno.
*
*
*
Quando
giunsi nelle
segrete, l’aria viziata e muffosa mi penetrò fino
ai polmoni, fu come se mi avessero gettato in faccia un panno di lana
nel bel mezzo di una camera ardente e, in effetti, quel posto aveva
tutta l’aria di esserlo, con quelle rare fiaccole che
ardevano sulle colonne fiancheggianti il lungo cammino buio e il
soffitto nero per il fumo delle torce.
Procedetti con cautela
per tutto il tempo, temendo il momento in cui, invece della pietra
vischiosa e fredda, avrei calpestato la coda di uno di quei topi che
correvano sul pavimento, e mentre avanzavo verso la fila di celle che
si perdevano a vista d’occhio su entrambi i lati del
corridoio ebbi quasi la sensazione che lo spazio si stesse restringendo.
Provai subito un certo
fastidio, perché ero claustrofobica, e l’odore
secco dei trefoli di canapa in combustione sulla cima delle torce non
mi aiutava. Poi, di punto in bianco, mi accorsi che non c’era
solo l’anidride carbonica e il puzzo di fumo
nell’aria.
Da qualche parte
lì sotto nelle segrete, si udiva l’eco di un
canticchiare sommesso.
Raggelai
all’istante. Uno spirito infestante?
A quel punto, fui
davvero tentata di tornare di corsa indietro, e quasi lo feci,
incoraggiata dalla menzogna che non fuggivo perché avessi
paura di trovarmi difronte uno spettro ma perché
lì sotto l’aria era davvero troppo malsana ed io
avevo bisogno di una boccata più fresca.
Ma poi riconobbi in
quella spettrale litania il ritmo vivace del greco, le
quantità secce e le stoccate scandite, venendo subito colta
dal ricordo spiazzante di una magione, di una finestra aperta sulle
montagne e del Critone in cui Platone immortalava il ricordo affettuoso
del suo amato maestro.
Fu come udire il
ricordo di una voce della mia infanzia e senza più paura
percorsi spedita l’ultimo tratto che mi avrebbe condotto
verso l’ultima cella a destra.
Lì,
finalmente, mi fermai.
Il Templare che era
arrivato a Masyaf quella mattina era un uomo davvero colossale, di
circa mezza età e col portamento fiero di un leone
solitario, e fu a dir poco deprimente vederlo accucciato nella sua
celletta mentre, ricurvo e di spalle, sbocconcellava un tozzo di pane
raffermo mentre, con la bocca piena, singhiozzava melanconico il
conforto di un’antica ninnananna della sua terra.
Enίa dé toi paides
enί, trághe, foinikόeanta, téntes….
kaì lasίo fimà perì
stόmati… ίppia paideύousi teou perì
naòn áetla… [1]
Di punto in bianco, la
nenia morì e la susseguì un teso silenzio in cui
rimasi immobile, a fissare l’ombra delle grosse vertebre
sotto la camicia tirata del Templare attraverso le grate.
– Ma guarda,
l’Assassino di questa mattina è venuto a farmi
visita… oh, un momento. – Sbirciò
indietro ed ebbi l’impressione che avesse sorriso sardonico
mentre esclamava col suo terribile accento arabo – Per tutti
i numi, ma… siete una donna!
Mi ritrovai a ingoiare
un grumo improvviso di saliva, sentendo tra i denti il sapore della mia
stessa paura.
– Ditemi:
conoscete un po’ di greco? – chiese poi, tornando a
dare le spalle al corridoio. – Perché ho davvero
molto fastidio a parlare arabo, è una favella un
po’ rozza, a parere mio.
Ci misi un
po’ prima di rispondere.
Non ero esattamente
quella che si poteva definire una persona coraggiosa o sicura di
sé, di solito non mi piaceva conoscere gente nuova, anche
perché non ero abituata, e difronte a qualcuno che non fosse
Agata o Erica mi sentivo non solo come se perdessi immediatamente la
lingua, ma avessi perfino difficoltà a esprimermi. Io, che
senza troppi problemi avevo tenuto testa ad Altaïr,
chiacchierato della vita di un perfetto sconosciuto come Richard Frye,
bevuto in compagnia di Malik, fatto cacciare la lingua a un ragazzino
che da una vita aveva smesso di parlare con chiunque, solo
perché non ero la vera me,
quella che nella vita vera viveva rinchiusa da diciotto anni dentro una
villa sperduta nel nulla.
Già. Forse,
era proprio questo il problema.
Perché
esattamente come il piccolo Nadim anch’io avevo paura di chi
avevo davanti, ma non appena ero divenuta qualcun altro, il grande
Nadim novizio spregiudicato, ebbene, era come se avessi indossato una
maschera dietro cui mi sentivo perfettamente protetta, e parlare non
era più stato un problema.
Forse, era questo che
dovevo fare: indossare la maschera di Nadim, fingere di essere ancora
lui.
E funzionò.
La mia lingua si sciolse come ghiaccio al sole, così.
– Io
… io non sono molto brava in greco, in realtà.
L’ho studiato, ma non lo parlo. – ammisi infine, un
po’ incerta. – Però, io…
Non finii di parlare,
che lui mi schernì con un versetto di sberleffo, quindi,
addentò vorace il misero tozzo di pane e se lo
masticò rumorosamente.
Quel suo gesto di
palese insofferenza colpì in pieno il mio orgoglio di
Chiaravalle e in un batter di ciglia mi ritrovai a gestire a stento un
atteggiamento volitivo e di ritrovata fierezza, che espressi col corpo,
schiena diritta e narici dilatate, mentre per la prima volta parlavo a
voce limpida.
– Non parlo
greco, ma parlo bene il latino, messere!
– esordii, gettando fuori quelle parole quasi correndo per
paura che potesse interrompermi di nuovo.
Non mi aspettavo che
tornasse a guardarmi e ora che mi aveva concesso una piena visione del
suo viso potei vedere che il bollo stampato sulla sua fronte quella
mattina si era modificato, adesso sembrava a tutti gli effetti un
brutto livido circondato da capillari rotti. Anche l’occhio
destro era gonfio, completamente richiuso su se stesso, mentre
l’altro, ben aperto e naturalmente tendente a una forma
triste, mi stava scrutando con fare sospettoso.
Poi, senza alcun
preavviso, l’uomo balzò in piedi e corse a
scagliarsi contro le grate, producendo coi suoi palmi un rumore che
rimbombò per tutte le segrete e che mandò
indietro il mio coraggio di tre passi.
– Sentiamo,
allora. – sussurrò, con l’alito pesante
di uno che non mangiava da svariati giorni.
Io arricciai il naso,
distogliendo lo sguardo contrariato per pochi secondi. Allora, quando
ebbi ricordato a me stessa la ragione per cui ero lì,
rispolverate le noiose lezioni della suora, con un certo sforzo mentale
iniziai a parlare.
–
Sciebasne… sciebasne essem muliere? – Sapevate che
ero una donna?, domandai guardandolo fisso.
La sua bocca si
squarciò in una risata fragorosa, colpendomi in pieno volto
col suo alito pestilenziale e con una risposta ben evidente.
– Papae!
Vere Latine loqueris! – Diavolo! Parli davvero latino!
Serrai le mani a
mo’ di pugno. – Sciebasne! – Lo
sapevate!, mi riferii al nostro primo incontro sotto le porte.
Lui mi
schernì con una smorfia della bocca, staccandosi dalle grate
e mettendo su un’espressione divertita.
– Hashashin
qui defendetur Miles Templi? – Un Hashashin, che difende un
Templare? – Dementis est! – Cose da pazzi!
– Immo. – Anzi. – Muliebriter!
– Da donna!
Si spostò
all’interno della cella e per un istante lo persi
nell’oscurità della notte. Mi avvicinai un poco
alla cella, strizzando gli occhi nella ricerca di qualche ombra.
– Tunc,
quare tacuisti in conspectu Hashashin? – Allora,
perché avete taciuto difronte agli Assassini?, chiesi piano,
guardando affondo nella stanzetta.
Da così
vicino, fui investita dall’odore poderoso di feci e piscio
che proveniva dal fondo della prigione, quand’ecco che due
orbite luminose si volsero a guardarmi, trapassandomi l’anima
con la velocità di un proiettile.
– Hodie
tibi, cras mihi, dominae mea. – Oggi a te, domani a me, mia
Signora.
Poi, il Templare
sorrise e tornò a girovagare per la cella e a passare il
pezzo di pane da una mano all’altra, lasciandomi
completamente ammutolita per un tempo che parve logorante alle mie
corde vocali.
– Ditemi,
Signora mia, da quanto tempo siete in queste terre barbare? –
fu lui a riprendere la parola, mantenendo la stessa disinvoltura anche
mentre strappava un pezzo del suo pane e lo lanciava al topo che si era
affacciato dal buco nel muro. – Siete stata data in moglie a
qualche barbaro Saraceno [2] quando eravate
ancora una bimba ?
– Non sono
sposata, né ho in progetto di farlo prima dei miei
sessant’anni.
– Ma sarete
cristiana, suppongo. – provò allora, storcendo il
naso quando continuò – Una donna cristiana che
parla la lingua templare [3], favella in
saraceno e indossa abiti da Assassino. È straordinario anche
per questi rozzi uomini. Decisamente, qualcosa di non
convenzionale, che una donna pensi
così tanto.
– Beh, io
penso. – ribattei saccente, un sopracciglio completamente
arcuato nella stizza. – E non sono cristiana. In
realtà, l’unica cosa in cui credo è la
realtà dei fatti.
– Ah!
– il suo motteggio mi giunse forte dal muro in fondo.
– Abbiamo una scettica! La conversazione si fa finalmente
stimolante.
– Se volete
convertirmi, – lo schernii con un mezzo sorriso, –
perderete soltanto tempo…
– Parlavo
della vostra diffidenza. Di solito è sintomo di grande
intelligenza, o immensa stupidità. La vostra qual
è?
– Vi trovo
un gran cafone.
–
Perdonatemi. – Sorrise sotto i baffi. – Allora,
permettetemi di rimediare. Vorrei comprendere quanto è
intelligente la mia Signora, che di certo deve essere una donna
speciale, ponendovi difronte un mio piccolo grattacapo. Una questione,
se vogliamo, da cui dipenderà la nostra …
amicizia!
Arcuai un sopracciglio
con fare scettico. – Io non sono qui per la vostra amicizia.
Ma. – Sospirai. – Vi ascolto.
–
Sarà questione di un attimo.
Con un movimento
fluido e scattante il Templare si accoccolò per terra a
gambe incrociate, e quasi si aspettò di vedermi fare
altrettanto, se solo non fossi rimasta cocciutamente in piedi a
fissarlo con quell’espressione che sta a metà tra
lo scherno e l’indifferenza. Insomma, alla fine io rimasi
dov’ero e l’uomo, rinunciatoci, iniziò a
parlare.
– Cosa
sapete voi degli Assassini, mia Signora?
Incrociai le braccia,
sbuffando.
– Non molto,
in realtà. – risposi breve. – Solo che
sono molto eruditi, che hanno un complesso sistema gerarchico e che
sono estremamente agili, che la loco capacità di
arrampicarsi anche sui punti più impervi costituisce per
loro un notevole vantaggio sui nemici. Ecco perché sono
così letali e, soprattutto, pericolosi.
– Tutto
giusto. Ma avete dimenticato la cosa più importante.
– Alzò l’avambraccio sinistro, piegando
tutte le dita della mano eccetto l’anulare. – Avete
mai notato che tutti gli Assassini mancano di questo dito?
Non risposi.
– Certo che
sì. – sorrise, riportandosi la mano sul ginocchio.
– E saprete anche che è per utilizzare meglio la
loro adorata lama celata, un infido pugnale nel loro bracciale che quei
codardi usano per uccidere il loro bersaglio senza affrontarlo, che
amputano l’anulare a tutti i neonati, figli di puttane e
ladre mandate al rogo nella piazza della città? Certo, a
volte non trovano pargoli della sfortuna da raccattare dalle strade e
allora entrano nelle case, uccidono le loro famiglie e prendono i
piccini per portarli a Masyaf, dove vengono massacrati dagli
allenamenti, picchiati, costretti a gettarsi giù dalle torri
al minimo ordine del loro Maestro …
– Dove
volete arrivare?
– Non so
cosa vi abbiano detto qui, ma non sono i Templari i cattivi di questa
storia. Gli Assassini lo sono.
–
Spiegatevi.
Vidi un sorrisetto
moderatamente soddisfatto fiorire sul suo volto magro. Sapeva di avermi
attirato nella sua trappola ed ora, ora poteva davvero parlami con la
sicurezza che lo avrei ascoltato fino all’ultima sillaba.
– Sapete,
mia Signora, quella tra Assassini e Templari è una storia
davvero molto antica. Nessuno sa con esattezza
quand’è che tutto cominciò,
né se i nostri Ordini fossero in principio uno soltanto, ma
eravamo antichi e uniti dal sangue come Caino e Abele: fratelli,
individui uniti dalla volontà di tenere questo mondo lontano
dalle Grandi Tenebre. Dei campioni della Luce. Ma poi,
purtroppo…
– Poi sono
iniziate le gelosie e i primi screzi. – conclusi io per lui
con saccente ovvietà, forse troppa. Lo vidi guardarmi torvo
e subito mi morsi la lingua a testa china.
–
Già, accadde proprio questo. – riprese a parlare,
ma questa volta senza guardarmi in faccia, sbirciando lungo il
corridoio con aria distante. – Cominciammo a pensare non
più come un’unica, bianca entità, ma
come tante piccole testa d’ombre e chiaroscuri,
all’improvviso, non ci trovavamo più in accordo su
nulla. Gli Assassini non riuscivano ad accettare l’idea che
l’umanità fosse ormai compromessa, si ostinavano a
credere che ci fosse del salvabile, che era ancora possibile una
redenzione. Ma la loro è una mera illusione. Il Padre della
Comprensione ci ha dato concesso una preziosa occasione e noi
l’abbiamo scialacquata. L’ordine ha ceduto il posto
al caos, adesso i fratelli uccidono i propri fratelli, i bordelli sono
affollati e le strade costellate di figli della guerra, bambini che
piangono ai piedi del ricco che passeggia col suo seguito tra le strade
di Acri, e gli Assassini, loro non vogliono alzare un dito per cambiare
questa situazione! Loro sono la schiatta del male, impediscono ai
Templari di ripulire il mondo da queste terribili atrocità!
E se per cambiare le cose dovremo immergerci nel sangue di quelli che
un tempo erano i nostri fratelli fino alle ginocchia, se per farlo
dovremo estirpare la feccia dell’umanità, ebbene,
e così sia!
Terminata la sua
sentita apologia, il Templare si tirò in piedi e diede due
colpetti di palmo per ripulirsi i pantaloni sdruciti ai lati, quindi,
si alzò quasi aspettandomi di trovarmi con
quell’espressione tesa, labbra strette e braccia conserte
mentre mi lambiccavo il cervello con furiosa inconcludenza.
– Ebbene?
– il Templare era impaziente di sentire la mia opinione.
– Voi
… siete un pazzo! – fu tutto ciò che
riuscii a strapparmi via dai denti. – Estirpare il genere
umano, rigenerare il mondo dalla ... feccia ! Voi vi
credete Dio!
Lui
rabbrividì come di stizza, dicendo – Mia Signora,
avete completamente frainteso! Sono gli Assassini quelli che giocano ad
essere Dio, uccidendo e dissacrando il dono della vita umana!
– E voi non
fate forse lo stesso, signor Templare?
–
Sì, è vero. Ma le nostre azioni sono per una
Causa onorevole. Noi uccidiamo perché dobbiamo.
– Dobbiamo? – ripete, stizzita. – Ma vi sentite? Nessuna
Causa vale la vita
delle persone, nemmeno la più giusta!
Vidi il suo volto
aprirsi gradualmente in un sorriso ironico.
– Voi mi
attaccate, – disse, – ma non riuscite a
non essere d’accordo con me. Sapete che
l’umanità non ha più alcuna speranza.
Non è vero?
Avrei tanto voluto
obbiettare, sputargli addosso che non era così, che non
avrei mai approvato una simile follia, perché …
beh, era semplicemente folle.
Ma la
verità era che, sotto sotto, mentre lui elencava le
ingiustizie che, sapevo fin troppo bene, pullulavano in questo mondo
indisturbate da fin troppo tempo, il mio sangue era ribollito, avevo
sentito il peso dell’impotenza schiacciarmi e subito dopo lo
slancio della rabbia rimontarmi, portandomi, seppur per un brevissimo
secondo, ad approvare l’idea di una depurazione.
Ma era sbagliato.
Era sbagliato pensare
di condannare un’intera umanità e questo gli
Assassini lo sapevano.
– Non sono
venuta qua per farmi prendere in giro da voi, signor cavaliere.
– borbottai a denti stretti.
– Siete qui
per chiedermi della Vecchia Regina. Lo so.
Silenzio.
Un inaspettato,
soffocante pezzo di silenzio andatomi di traverso giù per la
gola. Ed ora mi ritrovai ad indietreggiare, colpita
dall’improvvisa consapevolezza che ciò che pensavo
era vero. L’arrivo di quel Templare era prescritto, il nostro
incontro voluto dal destino, il mio arrivo lì, a Masyaf
… doveva accadere.
– Chi siete
voi, veramente, signor Templare? – scandii quelle parole con
perfetta lucidità ma il cuore che mi pulsava nelle tempie,
spiazzata dalla possibilità che, forse, avevo trovato
l’uomo che mi avrebbe dato delle risposte.
– Chi sono
io non ha affatto importanza. – mi liquidò invece
lui, sbrigativo. – Ma se fossi in voi rinuncerei a cercare i
vecchi signori templari, per il vostro bene.
– Cosa
volete dire ?
Rimuginò
con fare indeciso.
– Voi
credete agli spiriti, mia Signora?
Colpita, mi ritrassi
subito col busto, il pugno era corso al petto e lo stringeva mentre
sotto il cuore scalpitava.
–
Spiriti…? – ripetei quasi balbettando.
– Sapete,
questo castello ne è pieno zeppo, di spettri che vagano
nella notte.
– Smettetela.
– Tra i
corridoi, negli atri… qui, nei sotterranei…
– Adesso
basta! Non ho tempo per queste vostre assurdità! Se non
volete parlare con me, ebbene…
– Voi siete
qui perché pensate io possa dirvi dove sono i Chiaravalle.
– esordì, schiacciando lo zigomo contro le grate
con fare quasi annoiato. – Ma state perdendo solo
… come si dice? Tempo.
A quel punto, ero
pronta per scappare, davvero. Ma poi riempii i polmoni di tutta
l’aria disponibile, trattenni il respiro, e contai.
Uno, due,
tre… fino a dieci. Finiti i numeri, il battito cardiaco si
era più o a meno regolarizzato. Adesso avevo i pensieri
più lucidi e ordinati, potevo pensare senza che
l’aria attorno mi soffocasse con le sue oscure presenze.
–
D’accordo. – Mi volsi con tutto il corpo verso le
grate, i pugni stretti lungo i fianchi, lo sguardo deciso. –
Ammettiamo… ammettiamo che io stia cercando la famiglia
Chiaravalle. Perché sarebbe una perdita di tempo?
Nessuna risposta.
– Dovete
andare. – all’improvviso, aveva fretta di
concludere la nostra conversazione.
– Cosa? No,
aspettate! Cosa accadde davvero quel giorno di trent’anni fa
al mercato di Gerusalemme? Chi tradì i Sette Fratelli?
È vero ciò che si dice, o è solo una
leggenda? Vi prego, ditemelo!
– Non
dovreste rievocare la memoria dei defunti. È pericoloso, ed
è proibito.
– Proibito?
E da chi?
– Avete
finito il tempo a vostra disposizione. Ora andate.
Spazientita, andai
spedita alle grate e le afferrai con entrambe le mani, opponendomi a
gran voce.
– Io non me
ne vado di qui finché non risponderete!
Rumore improvviso di
ciottoli che rotolavano sul pavimento.
Il cuore mi
saltò in gola, l’occhio corse verso il corridoio
buio e all’improvviso sentii che stavo tremando, tremavo
così forte che non riuscivo più a tenere le dita
allacciate attorno alle grate. Come se fossi divenuta di pastafrolla.
Mi sentivo molle.
–
Voi… voi avete risvegliato la maledizione.
– la voce del Templare, riemerso
dall’oscurità come un derelitto dal mare, mi
riportò su di lui, ed ora, sì, sentivo che avevo
gli occhi sgranati dalla paura.
Un’indescrivibile,
viscerale paura dal profondo del mio petto.
Eppure, riuscii, in
qualche modo, ad aggrapparmi a quell’ultimo, disperato
barlume di ragione scientifica che ancora non era stato spento dai
venti freddi di un primitivo incubo, e stendendo la mano in avanti
riuscii ad agguantare la mano del Templare sull’inferriata.
– Quale
maledizione? – sussurrai rotta. – Quale…
è per questo… che non riesco più a
tornare a casa? È per questo … ?
Nessuna risposta, solo
i suoi occhi che mi fissavano, comprensivi, quasi amici. Poi, stese la
mano sul mio volto, carezzandomi con dolcezza il profilo della
mandibola da parte a parte.
–
È … dentro di voi.
Mi scostai appena
dalle sue dita, allibita.
– Cosa?
– sussurrai.
Lui mi
afferrò per un braccio, tirandomi verso di lui con violenza
tale che andai a sbattere contro le grate con la pancia, ritrovandomi
faccia a faccia col suo grosso, flaccido volto. Aveva gli occhi stretti
in due fessure, da folli.
– Il sangue
dei Chiaravalle. – sussurrò. – Sento il
suo odore… nelle vostre vene.
Qualcosa fece rumore
alle mie spalle.
Fu un istante.
Una lama che sbucava
nel mio campo visivo. Poi, del sangue schizzò sul pavimento.
*
*
*
Correvo.
Correvo e non sapevo
dove nascondermi.
Correvo, e nonostante
ciò le mie orecchie continuavano a sentirlo. Un ronzio
d’insetti sciamanti che mi rincorrevano tra le pareti come
l’ombra di un incubo.
Correvo, e le
ginocchia tremavano ogni volta che toccavano il pavimento reso
terribilmente scivoloso dal sangue che avevo sotto i piedi, sulla
camicia da notte, lungo il petto fino all’orlo di cotone
bianco, schizzato sulla punta dei capelli, mentre la mano non bastava
più a contenere il sangue che scivolava dal collo al polso,
lasciando sul pavimento i segni del mio passaggio.
Era stato il Templare.
Avevo abbassato la
guardia per un solo minuto, soltanto uno, e non mi ero resa conto di
quell’ombra di morte che incombeva sulle mie spalle. Avevo
abbassato la guardia solo per un fragilissimo secondo …
Poi, la sua mano che
mi spingeva via, scagliandomi contro il pilastro appena in tempo ma non
abbastanza in fretta per impedire a quel pugnaletto di graffiarmi il
lato destro del collo, dalla mascella all’orecchio,
stillandomi fiotti di sangue rubino.
Non mi resi subito
conto che stavo perdendo sangue. In realtà, non sentii
più nulla per quasi trenta secondi.
Ero rimasta
lì, immobilizzata sotto la torcia in cima al pilastro, come
ingoiata da una bolla del suono; né rumori, né
dolore, solo il Templare che lottava dall’altra parte della
cella per tenere un uomo avvolto da strati di stoffa verdi e dorata
contro le grate.
E tra le sue callose
dita scure, il pugnaletto che aveva stillato sette gocce del mio sangue.
Un sicario, un
fantasma, un assassino: un nemico, un amico, non importava. Aveva
tentato di uccidermi, e se il Templare non mi avesse spinto via in
tempo, ci sarebbe anche riuscito.
– Correte,
dannazione, correte!
Furono le urla
rabbiose del Templare a crepare la superficie della bolla, e in un
attimo, i rumori mi riesplosero in faccia, e con essi, quel ronzio
tartassante.
Vespe.
– Adesso!
– urlò di nuovo l’uomo –
Correte, mia Signora!
Ricordo a malapena a
cosa pensai mentre percorrevo di corsa le scale verso la superficie.
Forse, che per la prima volta avevo davvero paura di morire in
quell’allucinazione. Poteva essere.
Quando poi proruppi
sotto l’arco all’entrata delle segrete e trovai le
due guardie stese in una pozza di sangue, morte sgozzate nel sonno,
ebbene, la pressione schizzò alle stelle dietro i miei
occhi, rendendo il ronzio un cupo, straziante grido nero.
Mi mossi troppo in
fretta, volli scansare la mano morta della guardia più
giovane mentre scattavo in corsa e invece scivolai nel loro sangue coi
palmi e le ginocchia, schizzandomi il volto e i capelli di quel
nauseabondo, indelebile puzzo di morte che mai, mai avrei dimenticato
da quella notte.
Non emisi nemmeno un
gridolino, non potevo, bensì, raccolsi l’orlo
della sottoveste e ripresi subito a correre, trascinandomi come se
fosse uno strascico nero il brusio sciamante.
Mentre vedevo gli
ambienti schizzare ai miei lati in una sorta di galleria distorta e
piena di luci, realizzai che avrei potuto urlare, avrei potuto
svegliare l’intero castello e dare l’allarme per
salvarmi la vita. Ma questo voleva dire farsi scoprire, e,
potenzialmente, far condannare a morte Kadar per alto tradimento, lui,
l’unica persona che mi aveva protetto dall’inizio
di quella storia.
No, non ero disposta a
correre quel rischio, non lo avrei tradito.
Mi ritrovai a dare una
spallata a una porta piazzata sulla mia strada, irrompendo quasi in un
ruzzolone tra tre corridoi deserti, difronte a me la distesa blu notte
dall’altra parte delle vetrate tremolanti di luce. Danzavano,
mi distraevano dall’avanzata imminente dello sciame su per le
scale da cui ero appena giunta. Per un istante mi persi.
Poi, il plop di una goccia
di sangue sul collo niveo del mio piede, rinvenni.
Ecco il contatto.
Sapevo cosa fare.
Fuggire
all’esterno, andare via dal castello. Cercare mastro Frye.
Lui mi avrebbe aiutato, era l’unico che sapesse la
verità ed era sufficientemente forte per proteggermi.
Sì.
Mi sarei salvata.
Non recuperai neanche
del tutto il respiro che raccolsi l’orlo della lunga veste in
mano, liberandomi le gambe da ogni intralcio per correre a cercare
salvezza fuori dalle mura labirintiche della fortezza. Non ci misi
molto che la memoria di qualche giorno fa mi riportò in una
loggia pervia a diversi metri da terra, finendo con l’essere
travolta dal pungente vento della notte che attraversava la passerella
da un arco all’altro di pietra.
Il gelo
colpì il mio già precario equilibrio,
costringendomi a crollare sul pavimento.
Non ce la facevo, non
riuscivo più a continuare.
La paura
… mi stava letteralmente prosciugando le energie.
E quel ronzio m’impediva di pensare.
Ero al limite.
Basta.
Vi prego.
Voglio svegliarmi!
– A
… aiuto…
Gettai la mano tentoni
sul parapetto e trovai l’appiglio di uno stendardo velato
dalle ombre. Feci forza col braccio, macchiando lo stendardo col mio
sangue, ma fu inutile. Non avevo presa sufficiente per rimettermi in
piedi.
Così, con
le lacrime agli occhi, cercai dentro di me la forza per cercare
soccorso.
–
A… aiuto! – finalmente, il suono della mia voce
rimbombò tra i pilastri e le pietre, ritornando a me con
più convinzione. – Aiuto… aiuto, aiuto,
vi prego, qualcuno mi aiuti!
Qualcuno
arrivò davvero.
Era risalito dal fondo
delle scale dopo aver fiutato la scia del mio sangue, quindi, si era
affacciato nella loggia con la silenziosità di una lince
affamata, ed io, io ero il piccolo pettirosso a cui stava dando la
caccia quella notte.
Non appena riconobbi
sotto gli occhi il verde brillante dei suoi abiti mi gettai subito sui
gomiti per trascinarmi via di lì, ma la salvezza era a una
porta più in la e le caviglie strette nel nodo della paura,
troppo pesanti per permettermi di arrivarci.
Non so cosa il sicario
vide in quella fanciulla zuppa di sangue che gli stendeva la mano per
implorargli pietà, mentre lui, invece, avanzava col coltello
riverso indietro, il pomo d’oro che risplendeva nei miei
occhi spalancati, ma per un secondo, un impercettibile nanosecondo, mi
rividi ardere nelle fiamme del suo sguardo.
Povera. Povera,
piccola ragazzina spaventata. Ti avrebbe uccisa, e non avresti potuto
far nulla per impedirlo. Accidenti.
Il brusio si stava
facendo più forte.
Battei le ciglia.
… No.
No, non sarebbe finita
così.
Io non sarei morta
lì.
La lama
scintillò fredda sul mio viso, il vento fischiò
alla sua calata, quand’ecco che, con un ruggito disperato,
strappai con forza lo stendardo dal muro. In un batter
d’occhio tutto divenne bianco, udii l’uomo
sbraitare e tirare il tessuto da ogni dove, con l’unico
risultato che rimase ancora più impigliato di prima. Non
persi tempo, con una bracciata riuscii ad aprirmi un varco e non appena
fui fuori ripresi subito a correre.
Scesi le scale,
svoltai l’angolo per passare sotto due archi, quando udii dei
passi alle mie spalle.
Mi sentii agguantare
per i capelli, urlai ferocemente lottando per liberarmi da quella mano
che tentava di tirarmi indietro e nel frattempo una voce gutturale
sbottava in saraceno: “ Ferma, ferma!”
Un Moro. [4]
Al terzo scatto,
finalmente, riuscii ad alzare abbastanza il gomito per colpirlo in
faccia, riuscendo a fargli allentare la presa il tempo necessario per
svincolarmi e fuggire ansimante dentro l’ufficio di Al
Mualim. Sbucai difronte all’enorme vetrata buia e alle alte
librerie attorno alla scrivania, poi piegai per la scalinata a
sinistra, non riuscendo, tuttavia, ad impedire che il sangue impregnato
sotto i piedi rendesse il primo gradino scivoloso.
Ruzzolai
giù per le scale e lo slancio della caduta mi
scagliò lungo il pavimento dell’atrio immerso nel
liquido lunare, arrestandomi a pochi passi dal portone spalancato, dove
iniziai a guaire e a contorcermi dolorante.
Sentivo tutte le ossa
rotte, forse mi ero spaccata il labbro inferiore e come se non bastasse
all’improvviso erano tornate tutte le fitte
post-combattimento col Toro, con l’unica differenza che ora
erano triplicate, insopportabili.
Ma c’era di
peggio.
Il Moro aveva sceso le
scale con pochi balzi, aveva riposto il coltello nel suo fodero sulla
schiena e adesso stava marciando verso di me. Non provai a strisciare
via, ormai non avrebbe fatto altro che inferocirlo ancora di
più, ed ora il mio corpo non poteva sopportare altro dolore.
Entrò nel
chiarore artefatto della luna, si fermò e gli abiti
sbatterono contro le sue gambe, mostrando in quella nuova luce la
fattura pregiata dei suoi abiti verdi, dei decori color oro che
colavano sugli orli e i drappeggi, della raffinata foggia del turbante
di mussolina sceso a coprirgli il volto, su cui spiccavano solo gli
occhi contornati di nero fuliggine.
Con quegli occhi lui
mi guardò, e mi fece capire che ormai non potevo
più sfuggirli.
Non ricordo se mi
avesse strappato la gonna mentre mi forzava ad aprire le gambe, se si
fosse già slacciato i pantaloni quando sentii quel contatto
terribilmente spiacevole, o quando mi colpì
perché gli avevo morso la mano nel tentativo di liberarmi la
bocca e strillare, ma ormai, che importava? L’unica cosa che
potevo fare era chiudere gli occhi, per proteggere almeno loro da
quella bestiale violenza, e sperare che il brusio impazzito nella mia
testa mi risucchiasse via dal mio corpo abbastanza in fretta da non
sentire nulla.
Vi prego.
Voglio uscire da
questo incubo.
Poi, di punto e in
bianco, sentii il corpo del Moro scattare indietro, sollevandosi dal
mio ventre nello stesso istante in cui spalancavo la bocca e riempivo i
polmoni d’aria pulita. La sua mano lasciò
l’impronta di un sapore salato, spiacevolmente stampato sulla
mia bocca screpolata.
Spostai la testa tra
mille e più dolori, riuscii a guardare oltre
l’osso del mio ginocchio, e per un istante credetti di aver
visto delle ali.
Lunghe, bianche
soffici penne carezzevoli piantate tra le sue scapole scolpite, che
vibravano e s’imbevevano le punte sul sangue del
Moro morto lungo il pavimento dell’atrio illuminato, e
ciononostante, erano splendenti, così pure che perfino
l’aria intorno di morte attorno a lui si purificava e cantava
di luce.
Non avevo mai visto un
angelo stare così bene nel sangue.
Angolo
autrice:
[1] = Ἡνία δή τοί
παιδες
ἐνί, τράγε
φοινικoέντα
θέντες
καὶ λασίῳ
φιμὰ περὶ
στόματι
ἵππια
παιδεύουσι
θεου
περὶ ναòν
ἄεθλα ; Trad.
“Alcuni fanciulli, o capro, misero nella tua bocca ispida
briglie di porpora e un morso, e ora giocano alle corse dei cavalli
davanti al tempio del dio.” _ (Anite, A.P. VII, 312)
La ninnananna cantata dal Templare è tratta
dall’epigramma 312 di Anite di Tegea, poetessa greca vissuta
nel III sec. a.C. che scriveva di scene di vita privata, scorci agresti
e memorie del mondo infantile, come nel caso della filastrocca del
capro.
[2] = Il termine “ Saraceno ” fu usato a partire
dal II sec. per tutto il Medioevo per indicare gli arabi in special
modo.
[3] = La lingua ufficiale dei Templari era il latino.
[4] = Il termine “ Moro ” era usato in un contesto
non-mussulmano per indicare le popolazioni mussulmane, specialmente
berberi.
Dunque, dunque… capitolo con molte postille, eh. Scusate la
mia noiosa pignoleria, ma ricordo molto poco dei miei studi liceali,
quindi, perdonatemi se il mio greco e latino è un
po’… morto stecchito … ? Ad ogni modo,
non sono mai stata brava con le lingue antiche, ma ci ho provato!
xP
Se vi accorgete di qualche errore nelle traduzioni, vi prego, ditemelo,
così correggo!
Ed ora, torniamo ai nostri cari personaggi.
Mh, vediamo…
Kadar che vuole riportare Laura a Damasco, Malik che crede che lei sia
un lui, Laura ubriaca che tenta di baciare Kadar e viene respinta,
l’incontro notturno col misterioso Templare nelle segrete e
la rivelazione: Assassini e Templari in origine erano Ordini fratelli e
lavoravano per lo stesso obbiettivo, garantire l’equilibrio,
ma poi qualcosa si è incrinato; è scoppiata la
guerra e adesso una ragazza del ventunesimo secolo si ritrova nel bel
mezzo della Terza Crociata, immischiata in una storia ben
più grande di lei e della sua semplice richiesta: tornare a
casa.
Ma il passato della sua famiglia la segue come un fantasma. E se i
Sette Fratelli e la Vecchia Regina non fossero solo una leggenda? Se le
origini mitiche della famiglia Chiaravalle fossero vere? E se davvero
ci fosse una maledizione che grava sulla loro famiglia?
E chi è quel sicario in verde? Cosa era andato a fare nel
castello di Masyaf, come aveva riuscito ad entrare?
Ma soprattutto. Cos’è quel rumore che Laura
sente?
Come sempre, vi ringrazio infinitamente per avermi dato la
possibilità di raccontavi questa storia, e raccontarmi.
Baci,
la vostra amica,
Lusivia.
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