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Autore: Lusivia    27/07/2016    3 recensioni
[STORIA IN VIA DI REVISIONE: primi SETTE capitoli aggiornati.]
Un tempo credevo che quelle piccole sferette bianche fossero la sola cosa che mi impedisse di impazzire, quel filo stretto attorno alle rovine della mia mente, e tutto ciò che dovevo fare per evitare il collasso era chiudere gli occhi e buttarle giù.
Per diciotto anni avevo vissuto nella convinzione che fosse giusto così, che non poteva esserci via d'uscita da quella villa nascosta tra le colline, ma spiriti antichi avevano cominciato a sussurrare le loro verità.
Un giorno, da un debole atto di ribellione scoprii che ciò che vi era dentro di me era molto più che il riflesso della malattia; era qualcosa di più antico, l'eco del sangue versato in nome di quell'eterna battaglia che continuava ad emettere i suoi clangori, ma l'umanità era ormai troppo giovane per ricordarne il suono.
Ho dovuto vivere le favole narrate dalle antiche voci nella mia testa per scoprire la verità su di me, sul mondo, sull'autentica faccia dell’umanità, e ancora non sono sicura che sia davvero tutto.
Ma ora dimmi, Laura: quanto indietro vuoi tornare per scoprire che la tua vita è, ed è sempre stata, una bugia?
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Kadar Al-Sayf, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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                                                           Capitolo 7

 

                                                    L’odore del sangue






– Domani ti riporto a Damasco.

Aveva detto esattamente così. Senza la benché minima cura, senza neanche sforzarsi di sembrare almeno un po’ costernato mentre m’ignorava per una catasta di dispacci vuoti, che ricurvo come un vecchio librario si apprestava a spostare e osservare sotto la luce tremula di una candela, l’unica luce in tutta la piccola stanzetta.

Riuscii a distinguere sulla superficie anche un paio di libri dalla rilegatura sottile e un calamaio con l’inchiostro secco, ma non ne ero sicura.  

Quando esordì con quella frase, io ero seduta sul ciglio del letto, il suo, con esattezza, a fissarlo contrariata e vagamente alticcia mentre colle dita stropicciavo l’orlo liscio della camicia da notte con cui mi ero appena cambiata.

Sentivo, poi, che la schiena era bagnata, che i capelli pesavano e che i piedi erano ghiacciati e ritratti sul pavimento, non sopportavano il contatto: che mi fossi anche lavata in quel buco nero che per la mia testa erano i dieci minuti precedenti a quel momento di ritrovata lucidità?

In verità, non me ne curai, perché adesso stavo riconoscendo le mura anguste e umide della stanza a celletta, i vari suppellettili adombrati nella notte, una porta massiccia più in fondo, il lavamano e gli specchi di luce lunare che dalla finestra si proiettavano a intermittenza nella stanza di Kadar.  

Poi, di punto in bianco, mi alzai dal materasso imbottito di paglia e schiarendomi la voce andai incontro al novizio con falcate decise.

Lui si voltò sotto lo strattone della mia mano, mostrandomi il fianco su cui teneva stretto gli abiti di Altaïr e, penzoloni al fianco, la spada del temuto Assassino. Quand’è che li avevo tolti per darli a Kadar, affinché provvedesse alla loro sostituzione al legittimo proprietario?

Prima o dopo quel buco di dieci minuti?

Ci misi un po’ prima di riuscire a sciogliermi la lingua in quel pensiero.

– Che cosa vuol dire… che domani mi riporti a Damasco? – sibilai torva e con l’alito che puzzava di vino, gli occhi serrati nel tentativo inutile di mettere a fuoco la sua espressione oltre la foschia leggera e la già poca luce della candela.  

Kadar indugiò sul mio volto per un bel po’ prima di decidersi a parlare. Forse, stava ripensando a quello che gli avevo detto di ritorno al refettorio, subito dopo esserci congedati dal suo fratello per dirigersi nelle sue stanze.

Già, cos’è che gli avevo detto…?

– Oggi abbiamo rischiato troppo. – esordì a testa china. – Ho già mentito per te al mio Gran Maestro, a Malik, ad Altaïr ... – Indugiò, facendosi sfuggire una smorfia mentre si scostava dalla traiettoria del mio alito imbevuto di vino. – Non ti sembra che abbia già fatto abbastanza per coprirti?

Prima che potessi obbiettare, mi raggirò con uno scatto perentorio, continuando a concedermi solo le sue grandi spalle mentre scivolava sfuggente verso la finestra inondata di luce lattea.

– Al Mualim è stato comprensivo e mi ha dato un’occasione per rimediare all’insubordinazione di quest’oggi. – spiegò, volgendosi a guardarmi quasi per sbaglio, come se non avesse saputo resistere. Si corresse subito e tornò diritto, un vero soldato. – Mi ha chiesto di adare a Damasco per raccogliere informazioni per un mio superiore, e tu verrai con me. Sarai Nadim per l’ultima volta, così, quando saremo dentro le mura della città, noi ci separeremo. Definitivamente.  

Faticai sinceramente a rimettere apposto i pensieri e anche dopo non riuscii a non guardarlo con totale smarrimento, come se, all’improvviso, mi fosse appena giunto uno schiaffo dal cielo ed io non riuscissi a capire da quale lato fosse arrivato.   

– Stai… stai scherzando, spero! – esclamai a fil di voce, non riuscendo a trattenere lo slancio del mio corpo che andò in avanti. – Non vorrai davvero mollarmi lì, accidenti!  

Ma lui rimase impassibile dentro il riflesso alla finestra.

– Damasco è tappezzata da drappelli templari, non sarà difficile per te convincerli a darti la loro protezione. – Poi mi lanciò un’occhiata malevola, aggiungendo – In fondo, sei brava a manipolare il volere degli altri. Non sarà questa gran cosa per te ottenere da loro una complicità forzata.  

Colpita. Distolsi lo sguardo con gli occhi stretti e le labbra serrate, sbruffando.

– Sei tu che hai voluto mentire a tuo fratello, Kadar. – gli ricordai allora io, rivolgendo un’occhiata severa ai suoi spostamenti dentro la stanza. Ora stava passando vicino al letto, lo aveva guardato ed era andato avanti. – Sei tu che hai insistito per assumerti tutte le responsabilità difronte ad Al Mualim, e sempre tu hai convinto Altaïr che ero tua sorella, anche quando tu stesso dici di non crederci. Non io!

Senza alcun preavviso, Kadar si bloccò nel bel mezzo della camera, sopracciglia arcuate e aria fastidiosamente basita mentre, per la prima volta da quando lo conoscevo, alzava di poco la voce.

– Tu guarda che faccia tosta! Se io non avessi raccontato tutte quelle bugie, a quest’ora tu staresti accucciata come un cane sul pavimento di una cella ad aspettare la tua esecuzione! Non saresti mai sopravvissuta senza di me!

Sentendomi attaccata, serrai i pugni lungo i fianchi, ringhiando – Vuoi che ti dica grazie? D’accordo! Eccoti servito: grazie per avermi accusato di essere una Templare, grazie di non avermi sbattuto ingiustamente in prigione per poi farmi giustiziare nel piazzale del castello il dì seguente! Davvero, grazie di cuore!

– Certo, certo che devi ringraziarmi! Non ero dovuto a fare tutto questo, ma l’ho fatto, razza d’ingrata, cocciuta egoista di una Templare!  

Di nuovo quella parola. Iniziavo davvero a odiarla.

– Quante volte devo ripeterlo? – avanzai di un passo mentre scandivo a gran voce – Io non sono una Templare, maledizione, smettila di accusarmi come se avessi fatto qualcosa di orribile!

– Adesso basta! Tu farai come ti dico! Sono tuo fratello e decido io!

– Ma io sono più grande di te di un anno, quindi non puoi comandarmi, non puoi!

Le sue guance si accesero subito di rosso, dovevo appena aver colpito il suo orgoglio maschile.

– Di tutte le donne che ho incontrato, tu sei in assoluto la più cocciuta e arrogante!

– Ah, sì? – e feci un altro passo avanti, sfidandolo.

– Puoi scommetterci! – ribadì e si tese inavvertitamente verso di me, una pura presa di potestà, ma in qualche modo non fu affatto intimidatorio, anzi. Mi avvicinai ancora di più, inesorabilmente attratta da quel suo sorriso sornione. Ma forse era l’alcool a farmelo vedere.

– E di quante donne stiamo parlando, mio caro fratellino?

Lui rise appena, distolse lo sguardo e si pulì gli angoli della bocca col pollice e l’indice, dunque, tornò a guardarmi con aria scostante. – A te che importa, sorellina?

Chiusi gli occhi acquosi e alticci, sospirando – M’importa. Molto.

Lui mi fissò. All’improvviso, aveva preso la cosa seriamente.

Con un ultimo tratto, Kadar divorò la distanza minima che correva dal mio petto al suo, ritrovandomi a dover drizzare il collo per riuscire a tenere il confronto, che ora volgeva a suo favore con quei dieci centimetri in più della sua altezza. Provò a nasconderlo, ma lui si gongolò di quel piccolo vantaggio e sorrise, un mezzo ghigno che donò un nonsoché di mellifluo alla sua voce quando mi sussurrò in faccia il suo divertimento.  

– Sei gelosa?  

Annuii, ma me ne pentii subito.

La candela bruciò per un po’ sui nostri volti, fermi e ora compressi in sentimenti che non riuscivamo bene a capire ma che, era evidente, ci avevano scombussolato a tal punto da far calare il silenzio nella stanza.

C’era un buon profumo, ora che il suo collo era così prossimo al mio naso. L’odore frizzante di salsedine e quello leggero della spuma di mare.

Poi, accadde.

Il compimento in pensiero di quella che era la mia paura più grande e profonda. La caduta di quella goccia che fece straripare un mare di sentimenti ed emozioni soppresse per diciotto anni.

Io amavo Kadar.

Lo amavo quand’ero solo una bambina, l’ho amato anche dopo, quando se n’era andato, e adesso, anche adesso che sapevo di aver difronte l’idealizzazione di un corpo incorporeo, morivo dalla voglia di stringerlo a me come se fosse fatto di carne, e affondare nelle sue labbra come se potessi sentirne il sapore, e, sì, farci l’amore, come se quella notte sarei diventata finalmente una donna.

– Kadar …

Mi allungai appena verso il suo volto, sentii l’attimo in cui il respiro gli si mozzò in gola, atterrito. Avvertii il vago richiamo della sua carne calda in prossimità della bocca. Ma all’improvviso lui si ritrasse.

Riaprii gli occhi e non appena mi rividi riflessa nei suoi sbarrati, viso tondo e naso rosso per il vino, ebbene, quell’idilliaca sensazione di rivelazione e accettazione che avevo provato per pochissimi attimi mi franò in testa come il tetto di una casa.

Ora tutto ciò che sentivo era l’acuto sentimento del disagio e di un orgoglio ferito.

– Domani… domani il gonfiore del tuo viso dovrebbe esser diminuito. – Kadar faticò a riprendere la naturalezza della conversazione, ma lo sguardo puntato in basso e l’improvvisa ritrosia del suo corpo gli facilitarono di parecchio il compito. – La gente potrebbe insospettirsi del tuo aspetto, capirebbe che sei una donna e Nadim solo un travestimento.

Ancora confusa, mi sforzai di non scoppiare a piangere mentre col volto accaldato mi allontanavo e tenevo la fronte tra le dita, per nascondermi ai suoi sguardi impacciati, quelli di chi non sapeva bene come comportarsi ora che le cose avevano preso una piega troppo compromettente.  

– C… concordo. – risposi quasi per dovere, spingendo le mani dietro i fianchi mentre, volgendomi di scatto, tiravo un sospiro per rischiararmi i pensieri. Dannazione.

Dannazione, dannazione, dannazione!

– Ci conviene partire prima che il sole sorga, quando le sentinelle faranno il cambio di ronda, per evitare d’incrociare controlli alle porte. – affermò poi, un po’ teso, tirandosi gli abiti ripiegati sottobraccio e sistemandosi la spada d’Altaïr al fianco, forse nell’inconsapevole ricerca di un incoraggiamento. – Passerò verso l’alba per portarti abiti nuovi e mangeremo qualcosa a cavallo, forse dovremo fermarci a qualche sorgente prima di addentrarci nel deserto e riempire anche le borracce delle tue bisacce.    

Non si volse nemmeno una volta a guardarmi mentre impartiva i suoi ben chiari ordini, e non lo fece nemmeno difronte alla porta aperta, invece, mi liquidò con queste semplici parole, come se non vedesse l’ora di liberarsi di me.

– È tutto chiaro?

Chiarissimo. Mi lasciai sfuggire un singhiozzo dentro il sorriso, chinando la testa sui miei piedi nudi e bianchicci, mentre dentro iniziava a bruciare. Sì, Kadar. La prima lacrima fuoriuscì e cadde sul mio alluce.

Ora è perfettamente chiaro.

Sparisci ... sparisci dalla mia vita.

Un sussurro. Impercettibile. E in qualche modo, Kadar lo sentì.

Rimase con un piede nella stanza e l’altro già in corridoio per chissà quanto tempo, in equilibrio tra la voglia di sbattersi dietro quella porta e andarsene, oppure, rientrare dentro e chiedermi che cosa intendessi, perché continuavo a trattenerlo con tutte quelle subdole bugie e, poi, gli intimavo di sparire per sempre dalla mia vita.

Ma non ci riuscii.

Non riuscii a spiegargli il complesso motivo per cui non riuscivo ad accettare i miei sentimenti per lui, e anche se ci fossi riuscita, lui non mi avrebbe mai creduto.  

Quindi, Kadar se ne andò. Nessuna parola, nessun tentativo di capire.

Semplicemente, ero di nuovo sola.

                                                                           *                 *                   *

Ricorda, amore mio. Nulla di quel che ritieni esser vero è reale, ma tutto quello che ti sembra impossibile e assurdo, ebbene quello sì, quello è reale.

Ricordati, Laura.

Nulla è reale, ma tutto è lecito.

Ricordatelo. Devi ricordarlo.

Laura.

Mi risvegliai di soprassalto e lo sbilanciamento del sussulto mi colpì in pieno stomaco, rovesciando il suo contenuto con una capriola che mandò tutto sottosopra.

Resistetti pochi secondi con le mani pressate sul grembo nel penoso tentativo di far passare gli spasimi e i dolori lancinanti, poi scivolai oltre il bordo del letto e scaraventando le ginocchia per terra mi chinai subito a recuperare il vaso da notte vuoto sotto il letto. Appena in tempo.

Liberai lo stomaco di tutto il vino ristagnante nel fondo del mio stomaco e quando ebbi finito l’odore di fermentazione e del cibo misto ai succhi gastrici mandò il mio cervello indietro, costringendomi a trovare appoggio contro l’angolo del letto.  

Rimasi seduta a terra per un bel po’, quasi priva di una coscienza vigile e con gli occhi chiusi nella confusione di una sbronza che faticava a scemare e un gran mal di stomaco, forse perché avevo mangiato, anzi, fagocitato avidamente tutto ciò che sulla tavolata imbandita aveva un benché vago odore di cibo dopo quasi due giorni di digiuno.  

Solo adesso mi rendevo conto di quanto fosse stata stupida l’idea di finire da sola un piatto considerevole di carne d’agnello che divisi Malik, il quale la sbocconcellava tra un racconto e l’altro e ne inzuppava grossi pezzi in una strana salsa nera, rompeva gusci di noce color del miele e me ne offriva, consapevole che non avrei rifiutato. E nel frattempo bevevo, bevevo interi bicchieri di vino per mandare giù i grossi bocconi che nemmeno masticavo tale era l’euforia di risentire i gusti dopo un periodo di assoluta aridità per il mio povero stomaco.

Mi pentivo d’essermi ingozzata senza pensare che potessi avere un’indigestione, mi pentivo d’aver bevuto tutto quel vino solo perché la conversazione era scorrevole e piacevole, ma più di tutto, mi pentivo di non esser riuscita a tenere a bada i miei sentimenti difronte a Kadar, mettendolo nella scomoda posizione di rifiutare sua sorella.         

Mi pentii di tutto. Tutto quanto.

Gli avrei chiesto scusa nell’indomani, quando sarebbe venuto a prendermi per partire. Avrei incolpato l’alcool. Sì. Poteva andare.  

Quando poi mi sentii un po’ meglio, e riuscii ad aprire gli occhi senza che provassi un forte senso di vertigine, mi feci leva sul materasso e anche se un po’ barcollante riuscii a rimettermi in piedi e a recuperare il vaso pieno di vino fermentato, che buttai fuori dalla finestra e già lungo la torre buia.

Storsi il naso e volsi il viso da un’altra parte mentre sbattevo il vaso sul muro esterno, per scrollare via qualsiasi residuo, e fu allora, mentre riportavo il braccio dentro e mi apprestavo a richiudere le vetrate, che notai la pesante cappa di elettricità che ricopriva l’intero cielo.

Difficile dirlo, ma doveva essere notte fonda. Forse le due, le tre di notte.

Richiusi la finestra con un sospiro, e giacché avevo una certa sete andai diritta verso il lavamano in un angolo della stanza, ma quando sbirciai dentro il tinello di rame lo trovai vuoto, così come la caraffa poggiata sul fondo.

Sbuffai, abbandonando il vaso da notte sulla superficie spoglia e buia e mettendomi in equilibrio sui palmi aperti lungo il bordo di legno. Che stupida. Mi ero dimenticata di averla usata tutta per lavarmi, anzi, strofinarmi via la sporcizia di quei tre giorni.

Ora mi sarebbe toccato cercarne dell’altra.

Lo ammetto, l’idea di uscire fuori non mi esaltava molto. In verità, il pensiero di tutti quei cunicoli, corridoi, passaggi segreti e atri deserti mi metteva addosso una certa tensione, o forse era proprio fifa.

Insomma, chi mai avrebbe avuto l’ardire di addentrarsi in un castello medievale del dodicesimo secolo a notte fonda, con tutto il rischio d’incappare in qualche spirito o fantasma di passaggio cui esistenza, per quanto ridicolizzata dalla mia fede incrollabile per tutto ciò che era razionale e scientificamente spiegabile, era comunque tenuta in vita da quel minuscolo timore nel mio cuoricino, ovvero che, sotto sotto, le antiche leggende e gli incubi dell’ottuso immaginario medievale non era poi tanto immaginario?

Nessuno. Ma io avevo una gran sete e, come già detto, in quella dannata allucinazione le sensazioni e i bisogni fisiologici erano più vere che nella realtà.

Quindi, mi feci coraggio e uscii fuori dalla zona sicura della camera di Kadar, addentrandomi nel cuore del castello addormentato.

Tutto taceva, i corridoi erano vuoti e le lanterne illuminavano gli archi che dalla cima delle scalinate si proiettavano sulla fronda frastagliata di un albero di arancio in un giardino murato, la cucina era chiusa e i tavoli nel refettorio desolati, la maggior parte degli Assassini era nei loro alloggi o sulla passerella delle mura esterne e tra i merli dei torrioni, dove vegliavano sul villaggio e i confratelli addormentati.    

Grazie alla chiamata alle ronde non trovai nessuno a sbarrarmi il cammino dentro il castello e passai da un’ala all’altra del castello, indisturbata ma non per questo meno tesa, perché temevo sempre di ritrovarmi davanti al fantasma di una fanciulla caduta dalla torre, o del suo cavaliere senza testa.

E tanto fui presa da questa improbabile possibilità che non mi resi conto di aver sbagliato completamente direzione.

Non andai alle cucine, come invece avevo deciso di fare, ma proseguii per delle scale strette tra due mura a spirale, scendendo giù di qualche metro. Intuii subito che qualcosa non andava, ma quando pensai di tornare indietro era già troppo tardi.

Due guardie, ferme sotto un’arcata di pietra, erano sbucate dal pavimento dinanzi a me come dei veri e autentici fantasmi, sbarrandomi il cammino appena entrai in corridoio.

Il corpo balzò subito indietro, a cercare riparo contro l’angolo e lì rimasi con lo sguardo sbarrato nel terrore per chissà quanto prima d’accorgermi che le due guardie erano belle che addormentate sul posto di lavoro, braccia conserte e mento affondato sul petto bianco.  

Tuttavia non uscii subito allo scoperto, invece, rimasi cautamente affacciata dal mio nascondiglio e soppesai il rischio di tentare seduta stante di sgattaiolare via, prima che le guardie si svegliassero. Però non riuscivo a non chiedermi cosa ci fosse dall’altra parte di quell’arco per essere sorvegliato da due Assassini. Forse, le segrete del castello?

Un lampo mi trapassò la testa.

E se … ?

Scossi il capo, schernendo quell’idea con una risata sommessa. No, decisamente, non era il caso.

Feci così per tornare indietro nel corridoio, salii i primi due gradini e mi bloccai al terzo. Resistetti un bel po’alla tentazione prima di cedere e sbirciare oltre la mia spalla sinistra, tormentata dal volteggio angosciante di pensieri che proprio non volevano lasciare la mia testa.

E se non fosse stato un caso, che quella mattina al villaggio fosse giunto un Templare proprio mentre me la stavo squagliando da Masyaf?

E se ci fosse un disegno dietro il nostro incontro accidentale, avvenuto per uno scarto di pochi minuti oltre il quale non ci saremmo mai incrociati, un’intenzione nel farmi indugiare alle porte il tempo necessario per vedere quel novizio alzare la mano contro di lui, lo scopo esatto di riscuotere in me un sentimento assopito, quell’antica identità sepolta nelle profondità del mio sangue?    

E se quel Templare, il fantasma di un Ordine tramontato da secoli oramai, fosse la risposta a ciò che mi stava succedendo?

L’unico modo per saperlo era superare le guardie e scendere direttamente nella bocca dell’inferno.


                             
                           
                                                                                *                 *                   *


Quando giunsi nelle segrete, l’aria viziata e muffosa mi penetrò fino ai polmoni, fu come se mi avessero gettato in faccia un panno di lana nel bel mezzo di una camera ardente e, in effetti, quel posto aveva tutta l’aria di esserlo, con quelle rare fiaccole che ardevano sulle colonne fiancheggianti il lungo cammino buio e il soffitto nero per il fumo delle torce.

Procedetti con cautela per tutto il tempo, temendo il momento in cui, invece della pietra vischiosa e fredda, avrei calpestato la coda di uno di quei topi che correvano sul pavimento, e mentre avanzavo verso la fila di celle che si perdevano a vista d’occhio su entrambi i lati del corridoio ebbi quasi la sensazione che lo spazio si stesse restringendo.

Provai subito un certo fastidio, perché ero claustrofobica, e l’odore secco dei trefoli di canapa in combustione sulla cima delle torce non mi aiutava. Poi, di punto in bianco, mi accorsi che non c’era solo l’anidride carbonica e il puzzo di fumo nell’aria.  

Da qualche parte lì sotto nelle segrete, si udiva l’eco di un canticchiare sommesso.

Raggelai all’istante. Uno spirito infestante?  

A quel punto, fui davvero tentata di tornare di corsa indietro, e quasi lo feci, incoraggiata dalla menzogna che non fuggivo perché avessi paura di trovarmi difronte uno spettro ma perché lì sotto l’aria era davvero troppo malsana ed io avevo bisogno di una boccata più fresca.

Ma poi riconobbi in quella spettrale litania il ritmo vivace del greco, le quantità secce e le stoccate scandite, venendo subito colta dal ricordo spiazzante di una magione, di una finestra aperta sulle montagne e del Critone in cui Platone immortalava il ricordo affettuoso del suo amato maestro.

Fu come udire il ricordo di una voce della mia infanzia e senza più paura percorsi spedita l’ultimo tratto che mi avrebbe condotto verso l’ultima cella a destra.   

Lì, finalmente, mi fermai.

Il Templare che era arrivato a Masyaf quella mattina era un uomo davvero colossale, di circa mezza età e col portamento fiero di un leone solitario, e fu a dir poco deprimente vederlo accucciato nella sua celletta mentre, ricurvo e di spalle, sbocconcellava un tozzo di pane raffermo mentre, con la bocca piena, singhiozzava melanconico il conforto di un’antica ninnananna della sua terra.  

Enίa dé toi paides enί, trághe, foinikόeanta, téntes…. kaì lasίo fimà perì stόmati… ίppia paideύousi teou perì naòn áetla [1]

Di punto in bianco, la nenia morì e la susseguì un teso silenzio in cui rimasi immobile, a fissare l’ombra delle grosse vertebre sotto la camicia tirata del Templare attraverso le grate.

– Ma guarda, l’Assassino di questa mattina è venuto a farmi visita… oh, un momento. – Sbirciò indietro ed ebbi l’impressione che avesse sorriso sardonico mentre esclamava col suo terribile accento arabo – Per tutti i numi, ma… siete una donna!

Mi ritrovai a ingoiare un grumo improvviso di saliva, sentendo tra i denti il sapore della mia stessa paura.

– Ditemi: conoscete un po’ di greco? – chiese poi, tornando a dare le spalle al corridoio. – Perché ho davvero molto fastidio a parlare arabo, è una favella un po’ rozza, a parere mio.

Ci misi un po’ prima di rispondere.

Non ero esattamente quella che si poteva definire una persona coraggiosa o sicura di sé, di solito non mi piaceva conoscere gente nuova, anche perché non ero abituata, e difronte a qualcuno che non fosse Agata o Erica mi sentivo non solo come se perdessi immediatamente la lingua, ma avessi perfino difficoltà a esprimermi. Io, che senza troppi problemi avevo tenuto testa ad Altaïr, chiacchierato della vita di un perfetto sconosciuto come Richard Frye, bevuto in compagnia di Malik, fatto cacciare la lingua a un ragazzino che da una vita aveva smesso di parlare con chiunque, solo perché non ero la vera me, quella che nella vita vera viveva rinchiusa da diciotto anni dentro una villa sperduta nel nulla.

Già. Forse, era proprio questo il problema.

Perché esattamente come il piccolo Nadim anch’io avevo paura di chi avevo davanti, ma non appena ero divenuta qualcun altro, il grande Nadim novizio spregiudicato, ebbene, era come se avessi indossato una maschera dietro cui mi sentivo perfettamente protetta, e parlare non era più stato un problema.  

Forse, era questo che dovevo fare: indossare la maschera di Nadim, fingere di essere ancora lui.

E funzionò. La mia lingua si sciolse come ghiaccio al sole, così.  

– Io … io non sono molto brava in greco, in realtà. L’ho studiato, ma non lo parlo. – ammisi infine, un po’ incerta. – Però, io…

Non finii di parlare, che lui mi schernì con un versetto di sberleffo, quindi, addentò vorace il misero tozzo di pane e se lo masticò rumorosamente.

Quel suo gesto di palese insofferenza colpì in pieno il mio orgoglio di Chiaravalle e in un batter di ciglia mi ritrovai a gestire a stento un atteggiamento volitivo e di ritrovata fierezza, che espressi col corpo, schiena diritta e narici dilatate, mentre per la prima volta parlavo a voce limpida.

– Non parlo greco, ma parlo bene il latino, messere! – esordii, gettando fuori quelle parole quasi correndo per paura che potesse interrompermi di nuovo.

Non mi aspettavo che tornasse a guardarmi e ora che mi aveva concesso una piena visione del suo viso potei vedere che il bollo stampato sulla sua fronte quella mattina si era modificato, adesso sembrava a tutti gli effetti un brutto livido circondato da capillari rotti. Anche l’occhio destro era gonfio, completamente richiuso su se stesso, mentre l’altro, ben aperto e naturalmente tendente a una forma triste, mi stava scrutando con fare sospettoso.  

Poi, senza alcun preavviso, l’uomo balzò in piedi e corse a scagliarsi contro le grate, producendo coi suoi palmi un rumore che rimbombò per tutte le segrete e che mandò indietro il mio coraggio di tre passi.     

– Sentiamo, allora. – sussurrò, con l’alito pesante di uno che non mangiava da svariati giorni.

Io arricciai il naso, distogliendo lo sguardo contrariato per pochi secondi. Allora, quando ebbi ricordato a me stessa la ragione per cui ero lì, rispolverate le noiose lezioni della suora, con un certo sforzo mentale iniziai a parlare.  

– Sciebasne… sciebasne essem muliere? – Sapevate che ero una donna?, domandai guardandolo fisso.

La sua bocca si squarciò in una risata fragorosa, colpendomi in pieno volto col suo alito pestilenziale e con una risposta ben evidente.

– Papae! Vere Latine loqueris! – Diavolo! Parli davvero latino!

Serrai le mani a mo’ di pugno. – Sciebasne! – Lo sapevate!, mi riferii al nostro primo incontro sotto le porte.

Lui mi schernì con una smorfia della bocca, staccandosi dalle grate e mettendo su un’espressione divertita.

– Hashashin qui defendetur Miles Templi? – Un Hashashin, che difende un Templare? – Dementis est! – Cose da pazzi! – Immo. – Anzi. – Muliebriter! – Da donna!   

Si spostò all’interno della cella e per un istante lo persi nell’oscurità della notte. Mi avvicinai un poco alla cella, strizzando gli occhi nella ricerca di qualche ombra.

– Tunc, quare tacuisti in conspectu Hashashin? – Allora, perché avete taciuto difronte agli Assassini?, chiesi piano, guardando affondo nella stanzetta.

Da così vicino, fui investita dall’odore poderoso di feci e piscio che proveniva dal fondo della prigione, quand’ecco che due orbite luminose si volsero a guardarmi, trapassandomi l’anima con la velocità di un proiettile.

– Hodie tibi, cras mihi, dominae mea. – Oggi a te, domani a me, mia Signora.

Poi, il Templare sorrise e tornò a girovagare per la cella e a passare il pezzo di pane da una mano all’altra, lasciandomi completamente ammutolita per un tempo che parve logorante alle mie corde vocali.

– Ditemi, Signora mia, da quanto tempo siete in queste terre barbare? – fu lui a riprendere la parola, mantenendo la stessa disinvoltura anche mentre strappava un pezzo del suo pane e lo lanciava al topo che si era affacciato dal buco nel muro. – Siete stata data in moglie a qualche barbaro Saraceno [2] quando eravate ancora una bimba ?

– Non sono sposata, né ho in progetto di farlo prima dei miei sessant’anni.

– Ma sarete cristiana, suppongo. – provò allora, storcendo il naso quando continuò – Una donna cristiana che parla la lingua templare [3], favella in saraceno e indossa abiti da Assassino. È straordinario anche per questi rozzi uomini.  Decisamente, qualcosa di non convenzionale, che una donna pensi così tanto.

– Beh, io penso. – ribattei saccente, un sopracciglio completamente arcuato nella stizza. – E non sono cristiana. In realtà, l’unica cosa in cui credo è la realtà dei fatti.

– Ah! – il suo motteggio mi giunse forte dal muro in fondo. – Abbiamo una scettica! La conversazione si fa finalmente stimolante.

– Se volete convertirmi, – lo schernii con un mezzo sorriso, – perderete soltanto tempo…

– Parlavo della vostra diffidenza. Di solito è sintomo di grande intelligenza, o immensa stupidità. La vostra qual è?

– Vi trovo un gran cafone.

– Perdonatemi. – Sorrise sotto i baffi. – Allora, permettetemi di rimediare. Vorrei comprendere quanto è intelligente la mia Signora, che di certo deve essere una donna speciale, ponendovi difronte un mio piccolo grattacapo. Una questione, se vogliamo, da cui dipenderà la nostra … amicizia!

Arcuai un sopracciglio con fare scettico. – Io non sono qui per la vostra amicizia. Ma. – Sospirai. – Vi ascolto.

– Sarà questione di un attimo.

Con un movimento fluido e scattante il Templare si accoccolò per terra a gambe incrociate, e quasi si aspettò di vedermi fare altrettanto, se solo non fossi rimasta cocciutamente in piedi a fissarlo con quell’espressione che sta a metà tra lo scherno e l’indifferenza. Insomma, alla fine io rimasi dov’ero e l’uomo, rinunciatoci, iniziò a parlare.

– Cosa sapete voi degli Assassini, mia Signora?

Incrociai le braccia, sbuffando.

– Non molto, in realtà. – risposi breve. – Solo che sono molto eruditi, che hanno un complesso sistema gerarchico e che sono estremamente agili, che la loco capacità di arrampicarsi anche sui punti più impervi costituisce per loro un notevole vantaggio sui nemici. Ecco perché sono così letali e, soprattutto, pericolosi.

– Tutto giusto. Ma avete dimenticato la cosa più importante. – Alzò l’avambraccio sinistro, piegando tutte le dita della mano eccetto l’anulare. – Avete mai notato che tutti gli Assassini mancano di questo dito?

Non risposi.

– Certo che sì. – sorrise, riportandosi la mano sul ginocchio. – E saprete anche che è per utilizzare meglio la loro adorata lama celata, un infido pugnale nel loro bracciale che quei codardi usano per uccidere il loro bersaglio senza affrontarlo, che amputano l’anulare a tutti i neonati, figli di puttane e ladre mandate al rogo nella piazza della città? Certo, a volte non trovano pargoli della sfortuna da raccattare dalle strade e allora entrano nelle case, uccidono le loro famiglie e prendono i piccini per portarli a Masyaf, dove vengono massacrati dagli allenamenti, picchiati, costretti a gettarsi giù dalle torri al minimo ordine del loro Maestro …

– Dove volete arrivare?  

– Non so cosa vi abbiano detto qui, ma non sono i Templari i cattivi di questa storia. Gli Assassini lo sono.

– Spiegatevi.

Vidi un sorrisetto moderatamente soddisfatto fiorire sul suo volto magro. Sapeva di avermi attirato nella sua trappola ed ora, ora poteva davvero parlami con la sicurezza che lo avrei ascoltato fino all’ultima sillaba.

– Sapete, mia Signora, quella tra Assassini e Templari è una storia davvero molto antica. Nessuno sa con esattezza quand’è che tutto cominciò, né se i nostri Ordini fossero in principio uno soltanto, ma eravamo antichi e uniti dal sangue come Caino e Abele: fratelli, individui uniti dalla volontà di tenere questo mondo lontano dalle Grandi Tenebre. Dei campioni della Luce. Ma poi, purtroppo…

– Poi sono iniziate le gelosie e i primi screzi. – conclusi io per lui con saccente ovvietà, forse troppa. Lo vidi guardarmi torvo e subito mi morsi la lingua a testa china.

– Già, accadde proprio questo. – riprese a parlare, ma questa volta senza guardarmi in faccia, sbirciando lungo il corridoio con aria distante. – Cominciammo a pensare non più come un’unica, bianca entità, ma come tante piccole testa d’ombre e chiaroscuri, all’improvviso, non ci trovavamo più in accordo su nulla. Gli Assassini non riuscivano ad accettare l’idea che l’umanità fosse ormai compromessa, si ostinavano a credere che ci fosse del salvabile, che era ancora possibile una redenzione. Ma la loro è una mera illusione. Il Padre della Comprensione ci ha dato concesso una preziosa occasione e noi l’abbiamo scialacquata. L’ordine ha ceduto il posto al caos, adesso i fratelli uccidono i propri fratelli, i bordelli sono affollati e le strade costellate di figli della guerra, bambini che piangono ai piedi del ricco che passeggia col suo seguito tra le strade di Acri, e gli Assassini, loro non vogliono alzare un dito per cambiare questa situazione! Loro sono la schiatta del male, impediscono ai Templari di ripulire il mondo da queste terribili atrocità! E se per cambiare le cose dovremo immergerci nel sangue di quelli che un tempo erano i nostri fratelli fino alle ginocchia, se per farlo dovremo estirpare la feccia dell’umanità, ebbene, e così sia!  

Terminata la sua sentita apologia, il Templare si tirò in piedi e diede due colpetti di palmo per ripulirsi i pantaloni sdruciti ai lati, quindi, si alzò quasi aspettandomi di trovarmi con quell’espressione tesa, labbra strette e braccia conserte mentre mi lambiccavo il cervello con furiosa inconcludenza.

– Ebbene? – il Templare era impaziente di sentire la mia opinione.

– Voi … siete un pazzo! – fu tutto ciò che riuscii a strapparmi via dai denti. – Estirpare il genere umano, rigenerare il mondo dalla ... feccia ! Voi vi credete Dio!

Lui rabbrividì come di stizza, dicendo – Mia Signora, avete completamente frainteso! Sono gli Assassini quelli che giocano ad essere Dio, uccidendo e dissacrando il dono della vita umana!

– E voi non fate forse lo stesso, signor Templare?

– Sì, è vero. Ma le nostre azioni sono per una Causa onorevole. Noi uccidiamo perché dobbiamo.

– Dobbiamo? ripete, stizzita. Ma vi sentite? Nessuna Causa vale la vita delle persone, nemmeno la più giusta! 

Vidi il suo volto aprirsi gradualmente in un sorriso ironico.

– Voi mi attaccate, – disse, – ma non riuscite a non essere d’accordo con me. Sapete che l’umanità non ha più alcuna speranza. Non è vero?

Avrei tanto voluto obbiettare, sputargli addosso che non era così, che non avrei mai approvato una simile follia, perché … beh, era semplicemente folle.

Ma la verità era che, sotto sotto, mentre lui elencava le ingiustizie che, sapevo fin troppo bene, pullulavano in questo mondo indisturbate da fin troppo tempo, il mio sangue era ribollito, avevo sentito il peso dell’impotenza schiacciarmi e subito dopo lo slancio della rabbia rimontarmi, portandomi, seppur per un brevissimo secondo, ad approvare l’idea di una depurazione.

Ma era sbagliato.

Era sbagliato pensare di condannare un’intera umanità e questo gli Assassini lo sapevano.

– Non sono venuta qua per farmi prendere in giro da voi, signor cavaliere. – borbottai a denti stretti.

– Siete qui per chiedermi della Vecchia Regina. Lo so.

Silenzio.

Un inaspettato, soffocante pezzo di silenzio andatomi di traverso giù per la gola. Ed ora mi ritrovai ad indietreggiare, colpita dall’improvvisa consapevolezza che ciò che pensavo era vero. L’arrivo di quel Templare era prescritto, il nostro incontro voluto dal destino, il mio arrivo lì, a Masyaf … doveva accadere.

– Chi siete voi, veramente, signor Templare? – scandii quelle parole con perfetta lucidità ma il cuore che mi pulsava nelle tempie, spiazzata dalla possibilità che, forse, avevo trovato l’uomo che mi avrebbe dato delle risposte.

– Chi sono io non ha affatto importanza. – mi liquidò invece lui, sbrigativo. – Ma se fossi in voi rinuncerei a cercare i vecchi signori templari, per il vostro bene.

– Cosa volete dire ?

Rimuginò con fare indeciso.

– Voi credete agli spiriti, mia Signora?

Colpita, mi ritrassi subito col busto, il pugno era corso al petto e lo stringeva mentre sotto il cuore scalpitava.

– Spiriti…? – ripetei quasi balbettando.

– Sapete, questo castello ne è pieno zeppo, di spettri che vagano nella notte.

– Smettetela.

– Tra i corridoi, negli atri… qui, nei sotterranei…

– Adesso basta! Non ho tempo per queste vostre assurdità! Se non volete parlare con me, ebbene…

– Voi siete qui perché pensate io possa dirvi dove sono i Chiaravalle. – esordì, schiacciando lo zigomo contro le grate con fare quasi annoiato. – Ma state perdendo solo … come si dice? Tempo.

A quel punto, ero pronta per scappare, davvero. Ma poi riempii i polmoni di tutta l’aria disponibile, trattenni il respiro, e contai.

Uno, due, tre… fino a dieci. Finiti i numeri, il battito cardiaco si era più o a meno regolarizzato. Adesso avevo i pensieri più lucidi e ordinati, potevo pensare senza che l’aria attorno mi soffocasse con le sue oscure presenze.

– D’accordo. – Mi volsi con tutto il corpo verso le grate, i pugni stretti lungo i fianchi, lo sguardo deciso. – Ammettiamo… ammettiamo che io stia cercando la famiglia Chiaravalle. Perché sarebbe una perdita di tempo?

Nessuna risposta.

– Dovete andare. – all’improvviso, aveva fretta di concludere la nostra conversazione.

– Cosa? No, aspettate! Cosa accadde davvero quel giorno di trent’anni fa al mercato di Gerusalemme? Chi tradì i Sette Fratelli? È vero ciò che si dice, o è solo una leggenda? Vi prego, ditemelo!

– Non dovreste rievocare la memoria dei defunti. È pericoloso, ed è proibito.

– Proibito? E da chi?

– Avete finito il tempo a vostra disposizione. Ora andate.

Spazientita, andai spedita alle grate e le afferrai con entrambe le mani, opponendomi a gran voce.

– Io non me ne vado di qui finché non risponderete!

Rumore improvviso di ciottoli che rotolavano sul pavimento.

Il cuore mi saltò in gola, l’occhio corse verso il corridoio buio e all’improvviso sentii che stavo tremando, tremavo così forte che non riuscivo più a tenere le dita allacciate attorno alle grate. Come se fossi divenuta di pastafrolla. Mi sentivo molle.

– Voi… voi avete risvegliato la maledizione. – la voce del Templare, riemerso dall’oscurità come un derelitto dal mare, mi riportò su di lui, ed ora, sì, sentivo che avevo gli occhi sgranati dalla paura.

Un’indescrivibile, viscerale paura dal profondo del mio petto.

Eppure, riuscii, in qualche modo, ad aggrapparmi a quell’ultimo, disperato barlume di ragione scientifica che ancora non era stato spento dai venti freddi di un primitivo incubo, e stendendo la mano in avanti riuscii ad agguantare la mano del Templare sull’inferriata.

– Quale maledizione? – sussurrai rotta. – Quale… è per questo… che non riesco più a tornare a casa? È per questo … ?

Nessuna risposta, solo i suoi occhi che mi fissavano, comprensivi, quasi amici. Poi, stese la mano sul mio volto, carezzandomi con dolcezza il profilo della mandibola da parte a parte.

– È … dentro di voi.  

Mi scostai appena dalle sue dita, allibita.

– Cosa? – sussurrai.  

Lui mi afferrò per un braccio, tirandomi verso di lui con violenza tale che andai a sbattere contro le grate con la pancia, ritrovandomi faccia a faccia col suo grosso, flaccido volto. Aveva gli occhi stretti in due fessure, da folli.

– Il sangue dei Chiaravalle. – sussurrò. – Sento il suo odore… nelle vostre vene.  

Qualcosa fece rumore alle mie spalle.

Fu un istante.

Una lama che sbucava nel mio campo visivo. Poi, del sangue schizzò sul pavimento.

                                       *                  *                 *


Correvo.

Correvo e non sapevo dove nascondermi.

Correvo, e nonostante ciò le mie orecchie continuavano a sentirlo. Un ronzio d’insetti sciamanti che mi rincorrevano tra le pareti come l’ombra di un incubo.

Correvo, e le ginocchia tremavano ogni volta che toccavano il pavimento reso terribilmente scivoloso dal sangue che avevo sotto i piedi, sulla camicia da notte, lungo il petto fino all’orlo di cotone bianco, schizzato sulla punta dei capelli, mentre la mano non bastava più a contenere il sangue che scivolava dal collo al polso, lasciando sul pavimento i segni del mio passaggio.

Era stato il Templare.

Avevo abbassato la guardia per un solo minuto, soltanto uno, e non mi ero resa conto di quell’ombra di morte che incombeva sulle mie spalle. Avevo abbassato la guardia solo per un fragilissimo secondo …

Poi, la sua mano che mi spingeva via, scagliandomi contro il pilastro appena in tempo ma non abbastanza in fretta per impedire a quel pugnaletto di graffiarmi il lato destro del collo, dalla mascella all’orecchio, stillandomi fiotti di sangue rubino.

Non mi resi subito conto che stavo perdendo sangue. In realtà, non sentii più nulla per quasi trenta secondi.

Ero rimasta lì, immobilizzata sotto la torcia in cima al pilastro, come ingoiata da una bolla del suono; né rumori, né dolore, solo il Templare che lottava dall’altra parte della cella per tenere un uomo avvolto da strati di stoffa verdi e dorata contro le grate.

E tra le sue callose dita scure, il pugnaletto che aveva stillato sette gocce del mio sangue.

Un sicario, un fantasma, un assassino: un nemico, un amico, non importava. Aveva tentato di uccidermi, e se il Templare non mi avesse spinto via in tempo, ci sarebbe anche riuscito.

– Correte, dannazione, correte!

Furono le urla rabbiose del Templare a crepare la superficie della bolla, e in un attimo, i rumori mi riesplosero in faccia, e con essi, quel ronzio tartassante.

Vespe.

– Adesso! – urlò di nuovo l’uomo – Correte, mia Signora!

Ricordo a malapena a cosa pensai mentre percorrevo di corsa le scale verso la superficie. Forse, che per la prima volta avevo davvero paura di morire in quell’allucinazione. Poteva essere.

Quando poi proruppi sotto l’arco all’entrata delle segrete e trovai le due guardie stese in una pozza di sangue, morte sgozzate nel sonno, ebbene, la pressione schizzò alle stelle dietro i miei occhi, rendendo il ronzio un cupo, straziante grido nero.

Mi mossi troppo in fretta, volli scansare la mano morta della guardia più giovane mentre scattavo in corsa e invece scivolai nel loro sangue coi palmi e le ginocchia, schizzandomi il volto e i capelli di quel nauseabondo, indelebile puzzo di morte che mai, mai avrei dimenticato da quella notte.

Non emisi nemmeno un gridolino, non potevo, bensì, raccolsi l’orlo della sottoveste e ripresi subito a correre, trascinandomi come se fosse uno strascico nero il brusio sciamante.  

Mentre vedevo gli ambienti schizzare ai miei lati in una sorta di galleria distorta e piena di luci, realizzai che avrei potuto urlare, avrei potuto svegliare l’intero castello e dare l’allarme per salvarmi la vita. Ma questo voleva dire farsi scoprire, e, potenzialmente, far condannare a morte Kadar per alto tradimento, lui, l’unica persona che mi aveva protetto dall’inizio di quella storia.

No, non ero disposta a correre quel rischio, non lo avrei tradito.

Mi ritrovai a dare una spallata a una porta piazzata sulla mia strada, irrompendo quasi in un ruzzolone tra tre corridoi deserti, difronte a me la distesa blu notte dall’altra parte delle vetrate tremolanti di luce. Danzavano, mi distraevano dall’avanzata imminente dello sciame su per le scale da cui ero appena giunta. Per un istante mi persi.

Poi, il plop di una goccia di sangue sul collo niveo del mio piede, rinvenni.

Ecco il contatto. Sapevo cosa fare.

Fuggire all’esterno, andare via dal castello. Cercare mastro Frye. Lui mi avrebbe aiutato, era l’unico che sapesse la verità ed era sufficientemente forte per proteggermi. Sì.

Mi sarei salvata.

Non recuperai neanche del tutto il respiro che raccolsi l’orlo della lunga veste in mano, liberandomi le gambe da ogni intralcio per correre a cercare salvezza fuori dalle mura labirintiche della fortezza. Non ci misi molto che la memoria di qualche giorno fa mi riportò in una loggia pervia a diversi metri da terra, finendo con l’essere travolta dal pungente vento della notte che attraversava la passerella da un arco all’altro di pietra.

Il gelo colpì il mio già precario equilibrio, costringendomi a crollare sul pavimento.

Non ce la facevo, non riuscivo più a continuare.

La paura …  mi stava letteralmente prosciugando le energie. E quel ronzio m’impediva di pensare.

Ero al limite.

Basta.

Vi prego.

Voglio svegliarmi!

– A … aiuto…

Gettai la mano tentoni sul parapetto e trovai l’appiglio di uno stendardo velato dalle ombre. Feci forza col braccio, macchiando lo stendardo col mio sangue, ma fu inutile. Non avevo presa sufficiente per rimettermi in piedi.

Così, con le lacrime agli occhi, cercai dentro di me la forza per cercare soccorso.

– A… aiuto! – finalmente, il suono della mia voce rimbombò tra i pilastri e le pietre, ritornando a me con più convinzione. – Aiuto… aiuto, aiuto, vi prego, qualcuno mi aiuti!

Qualcuno arrivò davvero.

Era risalito dal fondo delle scale dopo aver fiutato la scia del mio sangue, quindi, si era affacciato nella loggia con la silenziosità di una lince affamata, ed io, io ero il piccolo pettirosso a cui stava dando la caccia quella notte.

Non appena riconobbi sotto gli occhi il verde brillante dei suoi abiti mi gettai subito sui gomiti per trascinarmi via di lì, ma la salvezza era a una porta più in la e le caviglie strette nel nodo della paura, troppo pesanti per permettermi di arrivarci.

Non so cosa il sicario vide in quella fanciulla zuppa di sangue che gli stendeva la mano per implorargli pietà, mentre lui, invece, avanzava col coltello riverso indietro, il pomo d’oro che risplendeva nei miei occhi spalancati, ma per un secondo, un impercettibile nanosecondo, mi rividi ardere nelle fiamme del suo sguardo.

Povera. Povera, piccola ragazzina spaventata. Ti avrebbe uccisa, e non avresti potuto far nulla per impedirlo. Accidenti.

Il brusio si stava facendo più forte.

Battei le ciglia.

… No.

No, non sarebbe finita così.

Io non sarei morta lì.

La lama scintillò fredda sul mio viso, il vento fischiò alla sua calata, quand’ecco che, con un ruggito disperato, strappai con forza lo stendardo dal muro. In un batter d’occhio tutto divenne bianco, udii l’uomo sbraitare e tirare il tessuto da ogni dove, con l’unico risultato che rimase ancora più impigliato di prima. Non persi tempo, con una bracciata riuscii ad aprirmi un varco e non appena fui fuori ripresi subito a correre.

Scesi le scale, svoltai l’angolo per passare sotto due archi, quando udii dei passi alle mie spalle.

Mi sentii agguantare per i capelli, urlai ferocemente lottando per liberarmi da quella mano che tentava di tirarmi indietro e nel frattempo una voce gutturale sbottava in saraceno: “ Ferma, ferma!”

Un Moro. [4]

Al terzo scatto, finalmente, riuscii ad alzare abbastanza il gomito per colpirlo in faccia, riuscendo a fargli allentare la presa il tempo necessario per svincolarmi e fuggire ansimante dentro l’ufficio di Al Mualim. Sbucai difronte all’enorme vetrata buia e alle alte librerie attorno alla scrivania, poi piegai per la scalinata a sinistra, non riuscendo, tuttavia, ad impedire che il sangue impregnato sotto i piedi rendesse il primo gradino scivoloso.

Ruzzolai giù per le scale e lo slancio della caduta mi scagliò lungo il pavimento dell’atrio immerso nel liquido lunare, arrestandomi a pochi passi dal portone spalancato, dove iniziai a guaire e a contorcermi dolorante.

Sentivo tutte le ossa rotte, forse mi ero spaccata il labbro inferiore e come se non bastasse all’improvviso erano tornate tutte le fitte post-combattimento col Toro, con l’unica differenza che ora erano triplicate, insopportabili.

Ma c’era di peggio.

Il Moro aveva sceso le scale con pochi balzi, aveva riposto il coltello nel suo fodero sulla schiena e adesso stava marciando verso di me. Non provai a strisciare via, ormai non avrebbe fatto altro che inferocirlo ancora di più, ed ora il mio corpo non poteva sopportare altro dolore.

Entrò nel chiarore artefatto della luna, si fermò e gli abiti sbatterono contro le sue gambe, mostrando in quella nuova luce la fattura pregiata dei suoi abiti verdi, dei decori color oro che colavano sugli orli e i drappeggi, della raffinata foggia del turbante di mussolina sceso a coprirgli il volto, su cui spiccavano solo gli occhi contornati di nero fuliggine.

Con quegli occhi lui mi guardò, e mi fece capire che ormai non potevo più sfuggirli.

Non ricordo se mi avesse strappato la gonna mentre mi forzava ad aprire le gambe, se si fosse già slacciato i pantaloni quando sentii quel contatto terribilmente spiacevole, o quando mi colpì perché gli avevo morso la mano nel tentativo di liberarmi la bocca e strillare, ma ormai, che importava? L’unica cosa che potevo fare era chiudere gli occhi, per proteggere almeno loro da quella bestiale violenza, e sperare che il brusio impazzito nella mia testa mi risucchiasse via dal mio corpo abbastanza in fretta da non sentire nulla.

Vi prego.

Voglio uscire da questo incubo.

Poi, di punto e in bianco, sentii il corpo del Moro scattare indietro, sollevandosi dal mio ventre nello stesso istante in cui spalancavo la bocca e riempivo i polmoni d’aria pulita. La sua mano lasciò l’impronta di un sapore salato, spiacevolmente stampato sulla mia bocca screpolata.

Spostai la testa tra mille e più dolori, riuscii a guardare oltre l’osso del mio ginocchio, e per un istante credetti di aver visto delle ali.

Lunghe, bianche soffici penne carezzevoli piantate tra le sue scapole scolpite, che vibravano e  s’imbevevano le punte sul sangue del Moro morto lungo il pavimento dell’atrio illuminato, e ciononostante, erano splendenti, così pure che perfino l’aria intorno di morte attorno a lui si purificava e cantava di luce.

Non avevo mai visto un angelo stare così bene nel sangue.





Angolo autrice:


[1] = Ἡνία δή τοί παιδες ἐνί, τράγε φοινικoέντα θέντες καὶ λασίῳ φιμὰ περὶ στόματι ἵππια παιδεύουσι θεου περὶ ναòν ἄεθλα ; Trad. “Alcuni fanciulli, o capro, misero nella tua bocca ispida briglie di porpora e un morso, e ora giocano alle corse dei cavalli davanti al tempio del dio.” _ (Anite, A.P. VII, 312)
La ninnananna cantata dal Templare è tratta dall’epigramma 312 di Anite di Tegea, poetessa greca vissuta nel III sec. a.C. che scriveva di scene di vita privata, scorci agresti e memorie del mondo infantile, come nel caso della filastrocca del capro.         
[2] = Il termine “ Saraceno ” fu usato a partire dal II sec. per tutto il Medioevo per indicare gli arabi in special modo.
[3] = La lingua ufficiale dei Templari era il latino.
[4] = Il termine “ Moro ” era usato in un contesto non-mussulmano per indicare le popolazioni mussulmane, specialmente berberi.

Dunque, dunque… capitolo con molte postille, eh. Scusate la mia noiosa pignoleria, ma ricordo molto poco dei miei studi liceali, quindi, perdonatemi se il mio greco e latino è un po’… morto stecchito … ? Ad ogni modo, non sono mai stata brava con le lingue antiche, ma ci ho provato! xP 
Se vi accorgete di qualche errore nelle traduzioni, vi prego, ditemelo, così correggo!
Ed ora, torniamo ai nostri cari personaggi.
Mh, vediamo… 
Kadar che vuole riportare Laura a Damasco, Malik che crede che lei sia un lui, Laura ubriaca che tenta di baciare Kadar e viene respinta, l’incontro notturno col misterioso Templare nelle segrete e la rivelazione: Assassini e Templari in origine erano Ordini fratelli e lavoravano per lo stesso obbiettivo, garantire l’equilibrio, ma poi qualcosa si è incrinato; è scoppiata la guerra e adesso una ragazza del ventunesimo secolo si ritrova nel bel mezzo della Terza Crociata, immischiata in una storia ben più grande di lei e della sua semplice richiesta: tornare a casa.
Ma il passato della sua famiglia la segue come un fantasma. E se i Sette Fratelli e la Vecchia Regina non fossero solo una leggenda? Se le origini mitiche della famiglia Chiaravalle fossero vere? E se davvero ci fosse una maledizione che grava sulla loro famiglia?
E chi è quel sicario in verde? Cosa era andato a fare nel castello di Masyaf, come aveva riuscito ad entrare?
Ma soprattutto. Cos’è quel rumore che Laura sente?  

Come sempre, vi ringrazio infinitamente per avermi dato la possibilità di raccontavi questa storia, e raccontarmi.

Baci,
la vostra amica,

Lusivia.


   
 
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