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Autore: Lusivia    09/06/2016    3 recensioni
[STORIA IN VIA DI REVISIONE: primi SETTE capitoli aggiornati.]
Un tempo credevo che quelle piccole sferette bianche fossero la sola cosa che mi impedisse di impazzire, quel filo stretto attorno alle rovine della mia mente, e tutto ciò che dovevo fare per evitare il collasso era chiudere gli occhi e buttarle giù.
Per diciotto anni avevo vissuto nella convinzione che fosse giusto così, che non poteva esserci via d'uscita da quella villa nascosta tra le colline, ma spiriti antichi avevano cominciato a sussurrare le loro verità.
Un giorno, da un debole atto di ribellione scoprii che ciò che vi era dentro di me era molto più che il riflesso della malattia; era qualcosa di più antico, l'eco del sangue versato in nome di quell'eterna battaglia che continuava ad emettere i suoi clangori, ma l'umanità era ormai troppo giovane per ricordarne il suono.
Ho dovuto vivere le favole narrate dalle antiche voci nella mia testa per scoprire la verità su di me, sul mondo, sull'autentica faccia dell’umanità, e ancora non sono sicura che sia davvero tutto.
Ma ora dimmi, Laura: quanto indietro vuoi tornare per scoprire che la tua vita è, ed è sempre stata, una bugia?
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Kadar Al-Sayf, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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                                                                            Capitolo 6

                                   Un bicchiere con l’Assassino










Kadar fu il primo a sguainare l’arma bianca dal fodero.

Il suo avversario era Spada Lesta, che alla prima offensiva deviò il fendente dell’avversario e, roteandogli attorno come una ballerina della morte, tentò un affondo che andò quasi a segno.

Se solo il giovane cenerino fosse stato uno sprovveduto alle prime armi; in verità, Kadar era una combinazione formidabile di scaltrezza e velocità.

Colpiva energicamente, raggirava il suo avversario e lo centrava senza alcuna pietà, in una sequenza di movimenti assieme fluidi e brutali, e per un istante mi ritornò in mente quel pomeriggio assolato della mia infanzia; avevo rotto un vaso giù in salotto, uno di quelli azzurri e bianchi di una certa dinastia cinese, e adesso mia madre mi stava cercando furibonda per tutta la casa. Kadar apparve dietro le tendine in cui ero nascosta, e sorridendomi mi suggerì di fuggire sul tetto di casa.

A guardarlo adesso, quel feroce guerriero nell’arena non aveva nulla a che fare col mio dolce fratello angelo.

Nel frattempo, Malik aveva già ingaggiato uno scontro col minaccioso Uomo Toro.

Allo stesso modo del primo, il maggiore dei fratelli Al-Sayf non tardò a manifestare un’innata grazia e mirabile tecnica sin dal primo cozzare delle possenti spade.

Notai subito che prediligeva attacchi precisi e rapidi sui punti ciechi del suo massiccio avversario, quelli che aveva silenziosamente individuato mentre incassava i primi colpi dello scontro, e che adesso si manifestavano ai suoi occhi come una mappa di fili rossi.

Il suo schema di combattimento era pressoché perfetto.

Rovescio, parata, guardia alta. La spada scatta, un tentativo di affondo in avanti, reso nullo da una spazzata di lama, la polvere si alza e spande nell’aria. Una piroetta, di nuovo in posizione, i polmoni tossiscono fuori la terra, i denti digrignano, i capelli sudano, era un ritmo incalzante.

Ovviamente. Perché, me ne resi conto solo ora, i ranghi che portava addosso Malik erano splendenti come quelli dei priori.

– Mi sembri turbata. – la voce saccente di Altaïr arrivò graffiante alle mie spalle. – Che c’è, bimba? Per caso gli spargimenti di sangue turbano la tua timida sensibilità?

Magari, se fossi stata in vena, gli avrei risposto che avevo visto più ossa rotte di qualsiasi altra fanciulla borghese rinchiusa nella foresta di una valle sperduta, tant’erano state le volte in cui ero scivolata dal tetto.

Ma ora avevo qualcosa, ramificato nello stomaco. Qualcosa di appuntito, e freddo, e pruriginoso come l’edera. Qualcosa come il sentimento cocente del tradimento, e m’impediva di parlare.

– Kadar… non ha fatto altro che mentirmi su chi fosse realmente. – la mia voce era sofferente, il lamento di una donna tradita dal suo uomo.

Rido, adesso. Perché mi rendo conto che dell'epoca il mio cuore sapeva già ogni cosa, ma la mia mente era ancora troppo spaventata per ammettere un qualcosa di così sconvolgente, qualcosa a cui non ero ancora pronta.

– Presuntuoso, detto da una che sostiene d’esser sua sorella! – esclamò ridendo.

Irritata, alzai lo sguardo verso la macchia bianca del suo cappuccio, straordinariamente luminoso con il sole di mezzogiorno, pareva un’aureola in testa a un bellissimo demonio.

– Come ha fatto Kadar a corromperti? Perché ancora non corri a denunciarmi al Veglio, eh? – domandai a quel punto, cupa in viso.

Mi diede due buffetti gentili sui capelli. – Questi non sono affari tuoi, bimba.

Gli schiaffeggiai via la mano. – La smetti di chiamarmi bimba? Io non sono tua figlia, non sono una bambina e non sono nemmeno tua amica!

Colpito dalla mia propensione naturale all’insolenza, l’Assassino sollevò la mano dalla mia testa e fece un passo indietro, quasi per paura di essere morso. – Mia figlia? Suvvia, non sono poi così vecchio, tesoro! – Poi mi squadrò per mezzo secondo, ed esordì – Lascialo perdere, che è meglio.

Il suo volto era un’ombra piatta, ma la voce tradiva un sentimento di fastidio.

Mi accigliai. – Di che cosa stai parlando? – chiesi scocciata.

– Di Kadar. Lascialo perdere, o non farai altro che renderglielo più complicato.

– Complicato, cosa?

Lui scosse la testa con un sorriso biasimevole. – Sei carina, ma non troppo arguta, eh. Tu continui a carezzarlo e a stordirgli la mente col profumo inebriante delle tue bugie, forse perché ti annoi, o magari hai un doppio fine, questo non lo so. Ma se continuerai a rimbecillirlo in questo modo, ebbene… – Indugiò per un attimo. – Kadar è solo un ragazzino, bimba. Non illuderlo di potersi fidare di te.

– Io non lo tradirei mai. – sibilai piccata, profondamente offesa.

– Certo che no. Ma dimentichi una cosa.

Vidi Altaïr chinarsi al mio fianco e sedersi sui talloni, incrociando le dita mollemente sospese tra le sue ginocchia. Adesso, potevo vedere la sua ferita, ancora vivida sulla bocca, aguzzarsi in un sorriso impaziente.

– Indipendentemente da chi tu sia, o da cosa sei venuta a fare a Masyaf, Kadar è prima di tutto un Assassino. È cresciuto tra queste mura che era solo un moccioso in fasce, ha massacrato il suo corpo negli addestramenti per anni e, un giorno, ha votato la sua esistenza per il Credo. E il Credo viene prima di tutto.

Allora, tese la mano con la lama celata verso di me. Sussultai, ritraendomi troppo tardi.

Prese un ciuffo dei miei capelli tra le dita e l’arrotolò pigramente attorno alla prima falange, mentre i suoi occhi si divertivano a farmi cambiare il colorito del mio volto, da bianco a rosso cangiante.

All’improvviso, avevo il respiro grosso.

– E il Credo viene prima anche prima di te, bimba. Per cui, quando quel giorno arriverà, vedi di non fare la gelosa, d’accordo?

In altre circostanze, probabilmente gli avrei dato un pugno in faccia, e magari lui l’avrebbe anche rimandato sul mio naso per istinto, tanto era abile. Ma quella volta accadde qualcosa di assordante nella mia testa.

Qualcosa che squarciò definitivamente qualsiasi mia dorata illusione e mi lasciò lì, intontita.

Per Kadar sarei sempre, solo stato un peso, un fastidio che non valeva nemmeno la pena di raccontare a suo fratello, una pena, un’intrigante ragazzina che si era ficcata in testa di potergli scombussolare così la vita senza neanche la decenza di dirgli grazie.

In quell’istante, decisi che sarei partita da Masyaf quel giorno stesso, dopo aver convinto mastro Frye a cedermi uno dei suoi puledri, avrei salutato il piccolo garzone e mi sarei persa per dieci giorni nel deserto, prima d’esser trovata dai briganti o, se ero fortunata, d’intravedere le alte porte di una qualsiasi metropoli siriana.

E lo avrei fatto, perché d’un tratto non volevo più stare accanto a Kadar.

Tuttavia, il destino aveva disposto altri tasselli nel mio percorso.

Era stato improvviso. Una freccia che mi trapassò trapassato il cervello, il grido del dolore lacerante della carne che si tagliava.

Scattai sul bordo del tetto così in fretta che per poco non scivolai in avanti, forse Altaïr mi tenne per la cintola rossa, ma in quel momento avrebbe potuto anche prendermi a calci, io non avrei sentito nulla.

Kadar era finito ai bordi dello steccato, completamente disarmato dall’ultimo fendente del Toro, la spalla gli sanguinava copiosamente e ciò m’impediva di stabilire la gravità della ferita, gettandomi in un panico cieco.

Allora, vidi Malik tentare di raggirare Spada Lesta per soccorrere il fratello, ma l’altro era deciso a volersi vantare di aver sconfitto un priore e pertanto tagliò a Malik la strada con la sua lama, costringendolo a finire l’incontro con lui. Quello digrignò, saltò indietro e fu costretto a combattere per parare gli attacchi incalzanti.

A quel punto, guardai disperatamente Al Mualim, pallido fantasma guardiano che svolazzava al vento coi suoi abiti scuri, e sperai che intervenisse per bloccare quella follia.

Ma non lo fece. Non si mosse di un solo muscolo. Rimase lì, inespressivo, a guardare mentre Uomo Toro prendeva ad avanzare verso Kadar.

Sapeva che era uno scontro dispari. Ma voleva che il giovane novizio dimostrasse di poter affrontare qualsiasi avversario.

E Kadar, fiero e impavido com’era, non mancò di combattere strenuamente fino alla fine.

Deviò i feroci fendenti del Toro con coraggio, schivò gli affondi nonostante il sangue che sgocciolava qua e là sulla sabbia rovente, riuscì perfino a lacerare il tessuto sopra la spalla, mentre Malik lo incitava e si sgolava sotto gli schiamazzi goliardici della folla.

Tuttavia, l’uomo contro di cui Kadar combatteva era più brutale e forte d’energie, e alla fine riuscì a prendere il sopravvento.

Il vecchio infortunio di Kadar alla gamba gli giocò un brutto tiro e lo costrinse a mettere un piede in avanti quando non avrebbe dovuto, facendolo scivolare sul suo stesso sangue. Cadde di mento a terra, e ancora intontito riuscì comunque a deviare il colpo in arrivo. Neanche Malik poté aiutarlo a quel punto, perché gli attacchi sconnessi di Spada Lesta gli impedivano di aprirsi un varco.

– Altaïr, aiutalo! – gridai nella foga del momento, ma mi fu subito chiaro che non avrebbe alzato un solo dito.

In quel momento, qualcosa scattò in me.

Sfilai il cappuccio dalla testa Altaïr con uno scatto fulmineo, probabilmente strappandogli via anche qualche capello, e scampando per un pelo ai suoi artigli mi calai sull’estrema tegola del tetto.

Non avevo mai fatto una cosa del genere, soprattutto, non così velocemente, e, infatti, il peso del mio corpo piombò su di me tutto d’un botto, trascinandomi rovinosamente sul terreno sottostante.

Un dolore lancinante per tutto il corpo, Altaïr che mi malediceva dal tetto, il terreno girò vorticosamente sotto la mia guancia schiacciata per qualche secondo, poi, la volontà di qualche forza divina che m’impose di rimettermi subito in piedi.

Iniziai a correre verso la calca quasi zoppicando, ormai, le intimidazioni rabbiose dell’uomo sul tetto me l’ero lasciate alle spalle. Mi aprii una breccia tra la baraonda di corpi muscolosi, sulla testa avevo già la rassicurante ombra del cappuccio.

Spinsi, sgomitai, gridai affinché mi lasciassero passare, e alla fine qualcuno si girò anche, pronto a iniziare una rissa in piena regola, se solo il suo vicino non gli avesse ammonito di non rovinare l’Inaugurazione.

Poi, finalmente, i bordi del campo.

Kadar adesso era a terra, la sua spada troppo lontana perché potesse riprenderla, il braccio gli sanguinava molto ma ormai non se lo reggeva più; ora era l’ultimo dei suoi pensieri. Infatti, il Toro era pronto a porre fine al loro incontro.

Chinai lo sguardo sul tizio davanti a me, sotto il suo gomito sbucava il pomo di una spada.

Non pensai. Gliela sfilai. E anche se pesava terribilmente, in quel momento l’adrenalina fu più forte di tutto e narcotizzò i miei parametri di giudizio.

Saltai nel recinto, le suole schiacciarono il sangue rappreso nella polvere, corsi incontro a Kadar e il Toro, storsi il corpo fino all’esasperazione, i tendini si stirarono e il corpo divenne di legno mentre tentava di tenere diritta la spada dinanzi a Kadar, nelle mie orecchie c’era solo il frullo assordante della folla.

Qualcosa che piombava a peso morto sul filo della lama. E mi ritrovai a cadere sotto l’urto della collisione, ruzzolando sul terreno mentre la spada mi schizzava via dalla mia mano, come se qualcuno l’avesse appena calciata via.

L’aria era immobile.

Io ero stesa al centro dell’arena, Uomo Toro fermo difronte a me, la sua spada ancora spostata di lato per la deviazione improvvisa di quella lama fantasma sbucata tra lui e Kadar esattamente nel momento giusto. La mia lama.

L’aria era immobile.

La folla non esultava più, non incitava più alla battaglia, all’improvviso, anche lo scontro tra Spada Lesta e Malik si era fermato, tanta era l’assurdità di quanto appena accaduto sotto i loro occhi.

L’aria, finalmente, era immobile.

E capovolta all’ingiù, potei vedere lo sguardo rovescio del Gran Maestro fissarmi fortemente contrariato. Come se mi avesse riconosciuto.

– Tu, brutto infame guastafeste! – fu il ruggito del Toro, offeso e umiliato dalla mia intromissione, a frantumare quella stasi sulla scena.

Mentre ero ancora intontita a terra, lo vidi slanciarsi verso di me, enorme come una montagna, allora ebbi appena il tempo di sentire Kadar urlarmi di scappare, che qualcosa di molto simile a una breccia d’aria si fiondò nella coscia del Toro, rallentandolo per qualche secondo.

Un pugnale da lancio.

Alzai lo sguardo in alto, verso i tetti, e posso giurare di aver visto Altaïr salutarmi prima di dileguarsi verso i cortili interni, lasciandomi lì con un timido sorriso inebetito, quasi commosso, e stupidamente distratto.

Thud! Qualcosa mi colpì in piena faccia.

Caddi di guancia nella polvere come una pera cotta, paralizzata dalla stessa adrenalina nel mio corpo. Dolore. Un immenso dolore al centro della faccia. Così grande che non ricordavo di averlo mai sentito in tutta la mia vita.

Rammento che Kadar si lanciò urlando su Uomo Toro, che lo atterrò sotto il suo corpo minuto e iniziò a colpirlo, e che a Malik ci vollero altri tre uomini per riuscire a separare quei due, che nonostante le loro condizioni si davano ancora addosso come due mastini.

L’ultima cosa che ricordo è l’ombra delle vesti di Al Mualim, che senza proferire parola si dileguò sul balcone.


*       *      *

Malik era molto apprensivo verso il futuro, soprattutto di suo fratello, e a volte manifestava un’eccessiva tendenza al controllo.

Che si trattasse di stoltezza, protervia o saggia lungimiranza, qualsiasi decisione lui prendesse era stata prima attentamente studiata, ponderata e macchinata per un totale minimo di venti secondi con un cruccio intenso sul viso e la bocca storta tra le dita; venti secondi, il tempo necessario, diceva lui, per scongiurare scelte prese di foga e agire sempre nel meglio di noi stessi.

A quei tempi, la sua mania del controllo mi ricordava molto Erica.

E adesso, che guardo con dolcezza a quei giorni passati, mi rendo conto di quanto quei due fossero dannatamente simili; forse, fu per questo che legammo così bene.

Non ricordo com’è che finii dentro il refettorio sotto i portici fioriti, né com’è che Kadar si ritrovò col braccio fasciato, o di chi era il volto che mi aveva passato lo straccio bagnato d’acqua fredda per tamponare l’emorragia al naso, gonfio e rosso come un peperone, ma per qualche stupida ragione non potei mai dimenticare il profumino delizioso dell’impasto di grano alle erbe che la servetta stava lavorando in cucina poco più dietro.

Probabilmente, era perché non mangiavo da tre giorni, che lo stomaco mi tormentava con immagini succulente e invitanti.

– Chi di voi due ha avuto quest’idea? – la voce di Malik era profonda, ma straordinariamente cristallina mentre ci scrutava con snervata impazienza.

Dopo qualche esitazione, Kadar sollevò lo sguardo dalle sue ginocchia divaricate, posandolo appena su di me. Anch’io lo fissai, celata tra l’orlo del cappuccio e la stoffa del canovaccio inzaccherato di sangue, ma se solo avrebbe indagato un po’ più affondo, allora avrebbe visto nel mio corpo la tensione sfiancante dell’attesa.

Il ragazzo si rivolse al fratello, che attendeva ricurvo coi palmi sul tavolo, e gli rispose.

– Abbiamo fatto una scommessa. Chi di noi due sarebbe riuscito a rubare i vestiti di un priore si beccava un dīnār.[1]Nadim non voleva, ma io l’ho costretto. Mi assumo tutte le responsabilità.

Scioccata, abbassai lo strofinaccio sulle ginocchia, stringendolo forte attorno al pollice fino a farlo diventare bianco. Perché quello stupido si stava prendendo la colpa per entrambi?

Ma soprattutto, per quale ragione Malik non ci stava ancora strillando addosso?

Se ne stava lì, in piedi, a scrutarci con l’espressione compassionevole di chi aveva capito fin troppo bene la presenza di un tacito accordo di collaborazione e protezione, ma a differenza di quanto pensava, non era l’alleanza di due compagni di bravate, il nostro, strano legame.

Poi, senza alcun preavviso, il priore scavalcò la panchetta una gamba per volta e si sedette difronte a noi.

– Pensaci bene prima di assumerti questa responsabilità. – lo invitò paziente il fratello. – Ascoltami. Mufeed è stato ferito da un pugnale vagante, ha un tendine rotto ed Al Mualim è molto arrabbiato di aver perso uno dei suoi Assassini migliori per le missioni del prossimo mese. Se non vuoi mettere in mezzo Nadim, almeno, non prenderti la colpa per quel lancio. Dimmi chi è stato, Kadar.

– Non conosco il volto del lanciatore. – Ed era la verità.

Lo sguardo d’onice dell’altro s’indurì. – Non osare mentirmi! Lo so che a Rauf piace lanciare i suoi pugnali sui novizi per spaventarli, non mi sarebbe difficile credere che si sia intromesso per aiutarti da qualche tetto!

– Non è stato Rauf.

– La tua lealtà vale per caso più della promozione? Perché è a questo che stai rinunciando adesso, alla possibilità di conquistarti un rango!

Kadar fece una smorfia di dolore, per un momento sembrò vacillare. – Non importa. Ormai, ho preso la mia decisione, Malik. – decretò alla fine, ormai, era deciso ad andare fino in fondo per la strada che si era scelto.

– No, Kadar, aspetta. – bisbigliai al suo orecchio, affinché solo lui potesse sentire la mia supplica disperata, ma quando provai a prendergli una mano sotto il tavolo lui la ritrasse.

Malik, a quel punto, si trovò diviso tra due emozioni: i sentimenti del cuore e il dovere dei propri ranghi; doveva studiare un attimo la questione. Allora, intrecciò le dita davanti al suo naso, pressò i pollici contro la sua barbetta scura e, con un freddo animo machiavellico, iniziò a elucubrare, intenso, contrariato, sconcertato.

Passarono i venti secondi. E ,finalmente, Malik riemerse con la risposta scritta nello sguardo.

– E va bene. Recita il Credo degli Assassini, Kadar.

Sulle prime, rimasi colpita dalla richiesta di Malik, quasi gli stesse chiedendo di confessarsi ai piedi dell’altare, e fu proprio con quello spirito che Kadar rispolverò le vecchie cantilene con cui lo avevano ammorbato dalla fanciullezza all’età del sacro rito, recitando, seppur un po’ intimidito dalla mia presenza, la preghiera degli Assassini.

Quando gli altri seguono ciecamente la verità, ricorda: nulla è reale. Perché la società è una creazione umana, imperfetta e fragile, e tocca a noi essere i pastori della nostra stessa civiltà. Quando gli altri si piegano alla morale e alle leggi, ricorda: tutto è lecito. Perché l’uomo è nato libero e uguale al suo fratello, e come tale è l’architetto del proprio destino. Ciò vuol dire prendere consapevolezza delle proprie azioni e convivere con le loro conseguenze, che siano essere gloriose, o tragiche. Nulla è reale. Tutto è lecito.

Finito di parlare, Kadar rimase con Malik sospeso nella solennità di quelle parole che ancora alleggiavano nell’aria, mentre io… io avevo un terremoto dentro, uno stupore, un indescrivibile stato di shock, un senso di vago smarrimento.

Quella che era una filastrocca per i brutti incubi, all’improvviso, mutò di significato sotto i miei occhi.

Mutò le forme e i colori e le sagome e il sapore, entrandomi nella pelle, invadendomi i polmoni, contaminando ogni globulo rosso, scrivendosi lungo ogni centimetro del mio corpo, sopra i miei vestiti, fino ad aderire ai miei pensieri e gonfiarmi la testa come un pallone elettrostatico, pieno d’aria compressa.

Perché, all’improvviso, mi sentivo di aver frainteso ogni cosa?

Perché, adesso, ero convinta più che mai che Altaïr avesse detto la verità su di me e Kadar, sull’ineluttabilità del nostro triste destino, come una profezia, una finestra su ciò che sarebbe accaduto?

All’improvviso, sentii la panchetta sobbalzare. Il giovane cenerino era in piedi dietro di me, stava raggirando il tavolo per andare nell’ufficio del Gran Maestro. Voleva consegnarsi.

Presa da un impeto che veniva dal profondo, gli corsi dietro per acchiappargli la manica della giubba.

– Non farlo, non consegnarti al vecchio. Ti punirà. – lo supplicai a fil di voce.

Lui mi scrutò, aveva gli occhi più chiari del solito, quasi trasparenti. – Non lo faccio per te. – disse e con uno strattone gentile riuscì a liberarsi, uscendo dalla stanza senza più voltarsi. Fu come se mi avessero strappato dal fianco un pezzo di carne.



*      *       *


Malik chiamò una delle ragazze in cucina perché portasse del vino da condividere con me, come tra amici, come se avesse in qualche modo avvertito il mio improvviso senso di smarrimento lasciato dal profumo agro del fratello.

Ma quello che portò la servetta dalla pelle lucida e le braccia tintinnanti non era semplice vino del mercato di Masyaf, bensì, un rosso corposo e fresco di mattinata giunto dai carri di Shiraz, una lontana cittadina nel Fars [2] governata dalla dinastia turca dei Selgiuchidi, di cui conoscevo la raffinatezza e la passione per i vini più ricercati di tutto il Levante da una ricerca che feci per Suor Agata sotto Natale.

Ovviamente, la pacata gentilezza che l’Assassino mi mostrò quando, con un gesto affabile, m’invitò a unirmi a lui al tavolo, mi lasciò terribilmente spiazzata, specialmente ora, che avevo appena mandato suo fratello a incolparsi al posto mio, non capivo come potesse volere la mia compagnia.

Che stesse pianificando di farmi ubriacare per bene, prima di riempirmi di botte e trascinarmi di peso da Al Mualim a confessare ogni cosa?

Di questo non potevo esserne certa. Allora, cos’altro avrei dovuto fare, se non indossare un’ultima volta gli abiti del giovane e misterioso Nadim, sedermi al tavolo difronte all’Assassino dagli occhi neri e brindare a coppa alta alla Confraternita?

Semplicemente, avrei dovuto essere accondiscendente, brindare e resistere fino all’arrivo di Kadar, così Malik non si sarebbe insospettito troppo.

Sospirai. Se Kadar sarebbe tornato a prendermi.

– E allora, Nadim. – fu Malik ad aprire i giochi, cortese e onnisciente nel suo ruolo d’anfitrione. – Quando non vai in giro a rubare i ranghi dei priori, di solito indossi gli abiti del novizio? È così che hai conosciuto mio fratello, no? Negli allenamenti.

Il vino mi finì di traverso, staccai la coppa dalle labbra con uno scatto e iniziai, tra un colpo di tosse e l’altro, a picchiarmi il pugno sul petto.

– Sì. – gracidai, senza più fiato. – Sì, è … è esatto. Ci siamo conosciuto lì. Accidenti, questo vino è davvero forte…

– Mh. E ti piace indossare il cappuccio in ogni momento? – incalzò saccente.

Avvampai, pensai svelta. – Ho una brutta cicatrice sulla fronte.

– Capisco. – Oscillò il contenuto della sua coppa tra le dita, almanaccando con lo sguardo perso nel vino.

– Perché mi hai invitato a bere con te? – lo studiai affondo prima di porgli quella domanda, quasi sperando di trovare un suo punto debole, una leva di emergenza da tirare al primo segnale di pericolo.

Malik alzò gli occhi, neri e lucenti come la notte stellata, e notai che avevano una strana sfumatura argentea, come le foglie di ulivo, che donavano al suo sguardo un nonsoché di estremamente melanconico.

– Non ti hanno insegnato a portare rispetto ai tuoi superiori, novizio? – mi riprese per aver usato il tu. – O magari, credi di poter cacciare la testa solo perché non ti ho punito per questa mattina, quando mi hai offeso, quando mi hai sfidato?

Colpita, serrai forte le labbra tra loro. Malik ruotò leggermente il mento sulla spalla, ridacchiando.

– Cos’è quella faccia seria? Avanti, stavo solo scherzando, tranquillo!

– Ah. – Mi accigliai. – Ma allora…?

Lasciò che un sospiro stanco gli allentasse il corpo rigido, diede un breve sorso. – Quello che oggi mi ha affrontato alle porte non era un novizio qualunque, un servile leccapiedi che cerca la protezione dei più anziani nell’Ordine, ma un ragazzo fiero e senza alcun maestro, che non si è fermato difronte ai ranghi per difendere un uomo in quel momento debole. – Mi guardò. – Un ragazzo che mi ha colpito sin dal primo istante.

Colpita e confusa dai suoi occhi, chinai lo sguardo dentro il vino. – Quello, quello non era nulla…

– No, Nadim. Era tutto.

Gli occhi schizzarono su, anche lui mi stava fissando, pensoso. Deglutii e senza abbassare lo sguardo bevvi un sorso dalla coppa. Il vino piombò come un mattone nel mio stomaco vuoto di tre giorni, ma cercai di non darlo troppo a vedere.

Dovevo mantenere la mente lucida, concentrarmi sulla parte, dovevo fargli credere che stesse parlando col ragazzo che lo aveva impressionato quella mattina alle porte.

– Qual è la tua storia, Nadim? – la sua domanda era seria, e come tale riflettei con cura alla riposta. – Insomma, non voglio credere che sei sbucato fuori dal nulla!

No, certo che no!, pensai ironica. – Non ho una storia che valga la pena raccontare. – mugugnai invece, sprofondando con un sospiro frustrato.

– Suvvia, tutti hanno una storia da raccontare! – ribatté divertito lui.

Lo guardai negli occhi. – Beh, io non ce l’ho.

Malik tacque per un periodo che mi sembrò infinito. Rigirò tra le dita il vino scintillante nella coppa di legno, mentre con sguardo indagatore mi sondava e scrutava, ed io sostenni il contatto visivo senza il benché minimo tentennamento, conscia, ormai, di essere l’oggetto indiscusso del suo ermetico interesse.

– Allora, Nadim, se me lo permetti, voglio raccontarti una storia io. – iniziò, tenendosi a versarmi un secondo giro di vino. – Quando avevo tredici anni, mio padre morì all’improvviso mentre serviva il nostro Ordine, nell’isola di Cipro. Poco tempo dopo la sua morte, a Masyaf tornò il confratello che aveva accompagnato mio padre in missione, e che lo aveva visto morire tra le sue braccia. Quell’uomo era Umar Ibn-La'Ahad.

Sgranai gli occhi, riavvicinando lentamente la coppa verso di me. – Il padre di Altaïr?

Lui annuì, e con un gesto stanco ebbe riappoggiato il fiasco sul tavolo. – Bada, però, che Umar era un Assassino onorevole e umile, nulla a che fare con quel suo figlio degenere, così abituato a venerare se stesso che non s’accorge più quando il suo agire supera la soglia sottile che sta tra il dovere e l’infame tracotanza. Fu lui a riportarmi questo, sotto esplicita supplica di mio padre.

Allora Malik estrasse dalla fodera alle sue spalle un pugnale di ferro nero con l’estremità del manico leggermente ricurva all’indietro e il pomo decorato dalla testa di un leone d’oro, mentre spirali verdi e neri avvolgevano l’elsa e la impreziosivano di orientale raffinatezza e eccellente fattura.

Mi mise l’arma davanti al volto, affinché potessi ammirarla in tutta la sua inquietante bellezza, e per qualche ragione ne fui subito intimorita, se non perversamente affascinata.

– Questo era il pugnale di mio padre. – annunciò, un po’ melanconico. – Lo avrebbe voluto dare a Kadar, ma lui era troppo piccolo, aveva solo cinque anni quando morì, e quindi volle darlo a me, come pegno di una promessa. Anche se non pianse mai per nostro padre, quasi fosse già un giovane uomo, io sapevo che Kadar aveva ancora bisogno di una figura paterna, di un modello, una colonna, una certezza, sapevo che dipendeva da me. E allora, mi presi cura di lui. L’ho istruito al Credo, l’ho addestrato, l’ho educato, l’ho fatto diventare un Assassino degno di questo nome. Perché è così che nostro padre avrebbe voluto.

Detto ciò, Malik rimise la lama nel fodero sulle spalle, sospirando mentre si tirava in dietro sulla panchetta, e con la mano destra riafferrava la coppa ancora piena.

All’improvviso, avevo capito dove volesse andare a parare con quella storiella, e chissà perché non ne rimasi affatto sorpresa.

– Pensi che io possa mandare a monte i tuoi sforzi di questi anni, il lavoro che hai fatto con tuo fratello?

– Penso che Kadar sia solo un diciassettenne, – m’interruppe con l’indice appena sollevato dal ripiano del tavolo – che ha un carattere difficile e che in questo momento vuole solo divertirsi e fare bravate coi suoi amici, senza suo fratello maggiore a seccargli le palle.

– Quindi?

– Tu sei fedele a Kadar.

Avvampai, forse troppo. – Cosa?

– Sei fedele a Kadar. Altrimenti, non avresti tentato di dissuaderlo dal consegnarsi.

– … E se così fosse?

– Se così fosse. – Picchiò l’indice sul tavolo. – Dovrai promettermi di non tradire mai mio fratello, Nadim. Promettimi che gli guarderai le spalle e che lo aiuterai, come oggi lui ha aiutato te. Puoi farlo?

Lo fissai, stringendo le mani attorno alla coppa. – È per questo che non sono davanti ad Al Mualim, a confessare tutte le mie colpe?

– Per questo, e perché hai rubato i vestiti a quell’idiota di Altaïr. – ammise ridente, tirandosi indietro mentre portava la coppa alla bocca. – E per tutti i diavoli, qualunque uomo abbia il coraggio di fare una cosa simile si guadagnerebbe il mio rispetto. – ammise sottovoce, prima di affogare un sorrisetto dentro il vino.

Per un momento non seppi davvero che dirgli, ma rimasi così, a fissarlo, con le dita strette attorno alla coppa di legno. Poi, trincai giù il vino tutto d’un fiato, sbattei il polso sul tavolo e con lo sguardo fisso su Malik gli allungai il contenitore vuoto.

– Non lo faccio per te, non lo faccio per fifa. – dichiarai, ferma. – Lo faccio perché ho un debito verso Kadar. Ora e sempre.

Malik si sforzò di ritenersi soddisfatto della mia risposta, tirando un sorriso sbilenco.

– Sei proprio come mi eri apparso la prima volta, Nadim. – disse e mi versò altro vino. – Stupido. E con un forte senso dell’onore.

Grazie al vino, di lì a poi la conversazione scivolò più agilmente, che quasi ci dimenticammo di Kadar e non ci accorgemmo che stava calando la sera.

Malik prese a raccontare i dettagli della sua ultima missione che lo aveva tenuto lontano da Masyaf per un mese intero, e tra una pennellata e l’altra della sua lingua chiacchierina, tra una sfumatura e l’impercettibile tocco delle sue espressioni ancora esaltate da ciò che aveva vissuto nemmeno un mese fa, Malik dipinse una vastità di mercati, edifici, chiese e moschee, cortili, fontane e strade affollate di vita, antiche mura bianche ammantate dal sole di mezzogiorno dentro uno scrigno di oasi e miglia e miglia di cunette desertiche.

Dapprima, pensai a quella come un’occasione di constatare una volta per tutte quanto c’era di vero nei racconti di Marco Polo, ma poi Malik riuscì a trascinarmi nel turbine delle sue immagini, dei suoni, delle voci, perfino di sapori mai saggiati con la lingua, e all’improvviso mi dimenticai di tenere i piedi per terra.

Diceva che gli Assassini erano sciolti dagli obblighi comuni, che potevano consumare alcolici, mangiare carne di maiale e adorare qualsiasi dio loro volessero, che disprezzavano i limiti del buon senso comune e sfidavano la morte con arrampicate folli su per altezze indicibili, lì dove la terra e il cielo s’incontravano e le aquile facevano il nido, affidando la propria vita a una scricchiolante, precaria sporgenza di legno.

O almeno, questo era ciò che mi ero figurata quando Malik si vantò di com’era riuscito a fuggire sopra una torre in mezzo alla città mentre aveva una freccia conficcata nella spalla e tutte le guardie nel quartiere ovest alle calcagna, lì dove tornò qualche ora dopo andare in un bordello a mangiare carne di maiale, bere vino e godersi i piaceri voluttuosi di una cortigiana.

A parte quell’ultima immagine, che scacciai un po’ imbarazzata dalla testa, i racconti di Malik mi avevano totalmente stregato, sicché, non appena lui finì di raccontare quella storia, io gliene chiesi subito un’altra, una più vecchia, magari in un’altra città.

Allora, mi disse di Acri, e di quella volta che si era intrufolato in una chiesa cristiana per scovare un mercante di schiavi tebano, che conduceva i suoi loschi traffici coi Templari da quasi un anno, e nemmeno lì mancò l’incontro con una donna, una cristiana che lo aveva aiutato ad infiltrarsi tra gli eruditi nella cappella, e che lo consolò dalle stanchezze quella stessa notte nel suo letto.

Poi, rimembrò un inverno a Gerusalemme e di quella ferita da spada lo aveva costretto per un certo periodo in un posto che non disse, tra i libri di filosofia e medicina, ma, soprattutto, tra le braccia paffute della figlia del pescivendolo in fondo alla strada.

E i suoi racconti andarono sempre più affondo nel vino, fino a far riemergere il ricordo di un giorno di mezz’estate, quando un giovane novizio dagli occhi truci e la coscienza sporca del primo omicidio venne rincuorato dalle parole e dalle pacche vigorosi del suo priore, che per fargli passare il malumore decise di ricompensarlo con una notte al bordello di Damasco, tra l’odore rintronante d’incenso e quello seducente dei tessuti di seta e unguenti per il corpo.

Forse era l’alcool a parlare, ma giurai di aver visto nei suoi occhi perfettamente lucidi dell’amorevole affetto per quella prima donna che ebbe il piacere di sentire sulla sua giovane pelle, una cortigiana dai lunghi capelli intrecciati e con una passione per le poesie provenzali; Malik gliene recitò due, sforzandosi di ricordare le lezioni di provenzale che, assieme al greco, latino e saraceno, viene impartito agli Assassini nei loro primi anni di addestramento, per assicurarsi un giorno contatti in tutto il mediterraneo, e grazie a quel provenzale rozzo e scadente le gambe della cortigiana si aprirono per lui come le porte di una chiesa.

Mi piaceva come raccontava le storie Malik, c’era sempre un risvolto romantico, anche se romantico non era esattamente come lui avrebbe descritto la sua debolezza per la carne, ma forse era giusto così.

Lui era un uomo forgiato tra le battaglie e il sangue, di tanto in tanto si concedeva qualche bella puttana di borgo, io, invece, una giovane ragazza impregnata dell’odore dei libri e delle aiuole fiorite dietro casa Chiaravalle, ancora molto ingenua e, sì, anche un po’ bimba, che pensava solo a ritornare nella sua vera vita.

Eppure, qualcosa era scattato in me, quel giorno. Qualcosa si era risvegliato.

Già quel pomeriggio nell’arena, quando avevo indossato la mia maschera eroica e avevo fronteggiato il “ Toro” con una spada che riuscivo a malapena a tenere in mano, sentivo qualcosa di diverso, come se, all’improvviso, provassi la voglia di mettere alla prova l’elasticità della mia amica schizofrenia, vedere quanto riuscisse a seguirmi, a come avrebbe risposto all’evolvere inaspettato dei miei capricci.

Fu allora, che quella consapevolezza si affacciò nella mia mente.

Il fatto di aver detto a Malik di non aver nessuna storia che valesse la pena raccontare, era vero. Laura Maria Gaia di Chiaravalle non aveva nessuna storia, nessun passato, nessun presente, nessun dannatissimo futuro all’infuori di casa Chiaravalle.

Ma Nadim… Nadim era un foglio bianco, l’inizio di un libro che non era ancora stato scritto ma che si era aperto quasi per caso sulle mie gambe, e io avevo la penna in mano.

Chissà, forse fu proprio per questa improvvisa consapevolezza di possibilità che scattò il primo anello della catena, il primo dei tanti eventi inarrestabili che avrebbe scosso le fondamenta della mia casa, il motivo per cui mi ritrovo adesso a scrivere questa storia.

Lo sentivo.

Lì, adesso, assieme al vino che incalzava nella testa e un leggero sentimento di affezione verso quei sorrisi stretti, quasi nascosti dietro un muso lungo, le alzate di spalle e gli occhi argentati di Malik, adesso, lo sentivo.

E mentre fuori la luna solitaria illuminava coi suoi fasci le porte spalancate nei portici quieti, e l’aria scivolava sul pavimento di pietra fino a solleticare i nostri piedi sotto il tavolo, un Assassino armato fino ai denti brindò con me l’ultimo bicchiere di quella sera, lasciando che le nel castello vaghe voci parlassero ancora di ciò che era accaduto quella lontana mattina di ottocento e venticinque anni fa, quando un certo ragazzo, in un certo castello di un certo villaggio medievale, aveva mandato a monte un Inaugurazione per la prima volta in mille anni.

Quello che sentivo, era l’eco lontano della libertà.






Angolo autrice:

[1] = Il dīnār è una moneta d’oro diffusa nel mondo islamico in epoca classica. Fino al 12°sec. reca iscrizioni islamiche e il suo peso è l’equivalente di 20 carati da 0,2125 g di oro a titolo elevato. Ho pensato che una moneta d’oro fosse il prezzo giusto per una scommessa tanto rischiosa! ;)

[2] = Il Fars fu culla della civiltà e della cultura persiane, e il centro dell'immenso impero achemenide, il primo impero persiano. In epoca islamica la provincia passò da una dinastia all'altra, da quella saffaride (IX secolo) a quella buwaihide (934-1062), da quella selgiuchide (XII secolo) a quella muzaffaride (XIV secolo), per essere infine sottomessa dai Safavidi ai primi del XVI secolo.

Benvenuti a tutti in questo nuovo aggiornamento!<3

Bene bene; avrete notato che nel capitolo ho tentato di soffermarmi po’ su Malik, sperando di aver creato un bel quadro del suo personaggio, che ho voluto rappresentare in maniera un po’ più spigliata e rilassata per la prima parte della storia. Infatti, avrei in progetto di raccontare una sorta di “evoluzione” del suo personaggio, quindi vedrò di dargli lo spazio che si merita tra una sventura e l’atra della nostra eroina, senza soffocare Altaïr, chiaro ^-^

( Ma ora che ci penso, sarebbe pressoché impossibile nascondere dalla scena Altaïr. Perché lui è dappertutto. E s’infila in ogni dannata situazione. Sarà l’ombra di Laura. Beata lei! xD )

E a proposito di Laura, ha iniziato a scoprire qualche cosa in più sugli Assassini, sulla loro “ preghiera”. Chissà cosa le è passato in mente, quando ha sentito quelle parole così famigliari interpretare in quel modo da Malik e Kadar?

Le rotelle nella sua testa iniziano a girare, scricchiolare, quanto fumo che faranno, i suoi neuroni atrofizzati dentro i nodi costretti della beata ragione!

Che sia un meccanismo di difesa, il suo eccessivo scetticismo scientifico? Mhmh…

Grazie a tutti i miei lettori, silenziosi e non, a cui dedico ogni mio capitolo.

Baci,

Lusivia


   
 
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