Whirled
di
Janet Mourfaaill
Aveva iniziato a
vestirsi in religioso silenzio.
In realtà non aveva
minimamente badato a ciò che stava indossando, la mente ancora annebbiata e gli
occhi socchiusi.
Fuori il sole illuminava appena, i raggi
ancora troppo pallidi per destare anche solo un pensiero.
Dentro, congelava.
Tossì piano, prima di
guardare svogliatamente la propria immagine riflessa nello specchio.
Aveva la tipica
espressione del bambino appena sveglio, lo sguardo ancora assonnato e le
occhiaia pronunciate che quella mattina parevano ancor più evidenti del solito.
Fuori, da qualche
parte, si udì il frenetico battito di ali di un gufo, o magari di un corvo.
Non seppe spiegarsi il
perché, ma persino un particolare insignificante come quello le trasmise un’enorme
tristezza.
Rivolse di nuovo lo
sguardo alla finestra, tentando di riprendersi.
Per quanto ci
provasse, non riusciva a svegliarsi del tutto. Era intorpidita, assuefatta,
immersa in una scomoda sensazione di malessere, di parziale consapevolezza. Si
sentiva come se, durante la notte, si fosse ritrovata a dover camminare per ore
scalza, in mezzo a una foresta.
Presa per mano,
accompagnata su un altare di pietra, e fatta girare, e girare, e girare.
Inspirò,
massaggiandosi le tempie. Ora persino il mal di testa.
Catapultata tra foglie
e alberi, tra terra e germogli, acqua e fango, fatta girare, e girare, e girare.
Afferrò violentemente
la sciarpa, infuriata con se stessa. Da settimane ormai si svegliava con quella
sensazione, con quell’instabilità mentale e fisica, e più si chiedeva il perché
meno era in grado di rispondersi.
Sapeva solo che la
notte era diventata il suo incubo. Panico e rabbia quando, al risveglio,
constatava che l’incubo non finiva.
Stanchezza anormale,
inspiegabile.
Su per la schiena, nei
muscoli delle gambe, delle braccia, nelle dita delle mani, tutt’intorno al
collo, persino sotto la pianta dei piedi.
Indossò il mantello,
barcollante.
Muschio sotto le dita, ottone brillante di
cortecce bagnate. Pioggia o nuvola, vento o calore. Erba fresca tra le
caviglie, e ruotare, ruotare, ruotare.
Senza luce, senza
vista, senza coscienza.
Luccichio soffuso
delle poche stelle affacciate su di lei, tra corse e salite, tra freddo e
calore, e vento e calore, torpore.
Erba tiepida sotto le
dita, spighe tra le caviglie.
Non riuscì a
trattenere un’imprecazione, prima di trascinarsi dietro la solita borsa colma
di libri, aprire la porta e sbatterla violentemente, uscendo.
E girare, girare,
girare.
*
Respiro.
Dopo quasi due minuti
di apnea involontaria, si era reso conto che magari era anche il caso di
smetterla, e in fretta.
Si massaggiò gli occhi
stancamente.
Fuori un acerbo sole
mattutino che, altrettanto stancamente, allungava i propri raggi sull’immenso
bosco, quasi al volerlo mollemente accarezzare con tiepidi bagni di luce.
Inspirò, tossendo un
poco.
Era l’ennesima notte
che passava lontano dai sotterranei, e non avrebbe saputo dire quanto ciò gli
stesse giovando.
All’inizio era stato
quasi divertente.
Perdere e ritrovare la
ragione; misterioso, affascinante, un gioco destinato a durare poco, ma non
importava, non ancora.
Quando la notte diventa l’unico diversivo,
l’ultima carta da giocare perché non si ha altro in mano, e, disperatamente, si
punta tutto su uno sporco bluff, alla cieca.
Poi, col tempo, aveva
iniziato a risentirne. Esausto, aveva cominciato a sentire il peso di tutte
quelle partite, castelli di sabbia su basamenti instabili, circuiti interrotti.
Passò le dita sui
pronunciati solchi sotto gli occhi. Tracce violacee di ore prive di sonno,
cuscini freddi e letti mai sfiorati per notti e notti.
Sorrise tra sé e sé.
Lo sguardo era di nuovo
vagato fuori dall’ampia finestra. Aspro, quel gelido sole, di certo non
riscaldava alcunché.
Quella notte, senza avere reale cognizione
del perché, era uscito dal castello.
Faceva freddo. Quel pensiero gli attraversò
la mente, distratto, mentre nemmeno si curava di chiudersi il cappotto o di
sistemarsi meglio la sciarpa attorno al pallido collo congelato.
Pungente, il vento lo colpiva dritto in
viso, arrossandolo.
Lui preferiva restare così, spavaldamente
esposto a quegli schiaffi che riuscivano a tenerlo sveglio e poco lo turbavano, in fondo.
Di nuovo non seppe spiegarsi il perché
della direzione che stava inconsciamente prendendo; dritto, contro vento, verso
il lago nero.
La notte era silenziosa, quasi angosciante
nella sua calma. Draco fissò il cielo, così scuro da confondersi perfettamente
con le acque del lago, formando un tutt’uno di un’omogeneità inverosimile.
Gli sembrava di andare incontro a un enorme
e indefinito buco nero.
Non c’erano rumori a parte il docile
frusciare dell’erba incolta sotto quelle folate intense. Aria così pura che si
faticava a respirare. Silenzio così intenso che si faticava a udire.
Aveva le labbra increspate, gli occhi particolarmente
chiari a contrastare con quel buio assoluto.
Ormai arrivato alle rive del lago rivolse
lo sguardo alle sue acque stagnanti, vaste e assopite.
Sbatté le palpebre velocemente, la vista
annebbiata da una visione improvvisa. Aggrottò le sopracciglia.
Sciolti capelli scuri violentemente in
preda al vento, una lunga veste chiara e le braccia tremanti lungo i fianchi. I
piedi nudi appena bagnati dall’acqua, i palmi delle mani aperti.
Draco deglutì a fatica. Se quel dannato
freddo lo rendeva visionario, allora era segno che il suo autocontrollo era
definitivamente andato a puttane.
Improvvisamente una folata particolarmente
forte gli sfilò la sciarpa dal collo. Lui scattò in avanti, ma quella era già
lontana, trascinata via per almeno una decina di metri.
Trattenne un’imprecazione mentre gli
correva dietro e malediva quel gelo indecente.
Si fermò, ansimante, dopo averla vista
impigliarsi a un ramo di un albero secco affacciato sul lago.
Rimase distante, paralizzato, mentre
realizzava di avere davanti agli occhi la visione di poco prima.
Lì, a pochi metri da lui, quelle mani
cineree stavano delicatamente afferrando la sua sciarpa, riuscendo
miracolosamente a non strapparla.
Un volto pallido, noto, occhi serrati e
un’espressione indecifrabile. Aveva il viso sollevato su di lui, ma non lo
guardava.
Sembrava stesse dormendo nella più totale
serenità.
Draco sbarrò gli occhi.
- Granger? -
Strinse il pugno, le
unghie conficcate nella pelle, le nocche pallide.
Granger?
Inizialmente non gli era
importato.
Non aveva reagito dopo
averla vista davanti a sé, quasi incorporea, dominata da un sonno profondo. Da
un’apparente infermità.
Si era limitato a
fissarla, ammutolito, mentre le prendeva la sciarpa e la guardava allibito
rivolgere di nuovo il volto verso il lago.
Il volto bianco
come quello di un morto. Se fosse scesa la neve sulla sua pelle, sarebbe parsa
carbone.
Il resto della notte
l’aveva passato così; semplicemente a guardarla.
Lei se ne stava immobile
con gli occhi costantemente chiusi, la bocca increspata dal pallido riflesso di
un sorriso.
Si era maledetto, quando,
istintivamente, l’aveva avvolta nel proprio mantello; non ci aveva nemmeno
pensato, si era avvicinato a lei e l’aveva coperta con foga, per paura di
vederla cadere morta sotto il peso congelato di quella notte.
Poi era retrocesso,
turbato, e si era ancorato alla corteccia dell’albero alle sue spalle.
Tra le mani ancora quella
sciarpa.
La notte seguente era
tornato nel medesimo posto, umiliato dalla consapevolezza di starlo facendo per
rivederla.
No. Voglio solo
starmene da solo. Non c’è altro.
Constatare a metà tra lo
stizzito e il sollevato che era lì. Sembrava non aver mosso un solo passo.
Sembrava fosse
lì ad aspettarlo.
Appoggiarsi all’albero e
tacere. Guardare. Inspirare.
Non aveva fatto altro per
le tre notti seguenti. Poco a poco aveva capito di poterle stare a una distanza
minima senza turbare il suo sonno perenne.
Notò cose a cui non aveva
mai fatto caso.
Aveva la bocca
costantemente screpolata. Un piccolo neo sulla parte destra del collo, quasi
invisibile – per lui, che mai
l’aveva guardata negli occhi a meno di un’intera sala di distanza, mai senza
che tra loro ci fossero corridoi gremiti di gente -. Le ciglia lunghe, la fronte più ampia di quella che
pensava.
Le mani sempre un po’ rigide,
grandi e forti. Dita lunghe e affusolate.
Ai tiepidi spiragli
dell’alba le poggiava una mano sulla spalla e la guidava fermamente verso il
castello.
Sempre più stupore nel
sentire quanto lei fosse docile e arrendevole al suo tocco. Lo seguiva, si affidava
a lui, e questo era quanto.
Erano passate ormai
quindici notti.
All’imbrunire, ogni
volta, non c’era altro a cui pensasse se non a ciò che sarebbe venuto dopo.
Quando poteva fare a meno di luce, quando
gli bastava osservare altro che non fosse una brillante distesa di abbagli.
Quando poteva fuggire in silenzio, legato
ad altro che non fosse il pensiero di doversi svegliare, prima o poi.
L’aveva
presa per mano, allarmato nel vederla addentrarsi nell’acqua.
-
No. – Aveva sussurrato, con una dolcezza che ripugnava lui stesso.
Lei
si era girata, se avesse avuto gli occhi aperti l’avrebbe guardato con
fermezza. L’espressione era dura, implacabile. Draco dovette fare uno sforzo
immane per trattenersi dallo strattonarla con forza.
Per vedere cosa c’era in quegli occhi,
quando sembravano guardarlo anche da chiusi.
Per capire quanta rabbia sarebbe riuscito a
farle provare, una volta destata dal suo sonno.
Per spiare in quei pozzi scuri che Dio solo
sapeva quanto potevano adirarlo.
Inspirare, e osservarli dardeggiare
confusi, per una volta.
Persi.
L’aveva
portata con sé nella foresta, lontana dal lago e dall’acqua. Lei gli stava
dietro.
Tra
il fitto degli alberi si era fermato a guadarla, angosciato.
Perché era ancora lì? Perché lo seguiva?
Cosa faceva tutte le notti? Che cosa aspettava, lì, immobile? Chi?
Aveva
sorriso, esausto, nel constatare che lei era in vestaglia da notte. Particolari
inutili che con il passare dei giorni prendevano il loro significato.
Le
si era avvicinato, esitante, posandole le mani sui fianchi.
Lei,
in un sospiro, aveva cominciato a girare su se stessa.
Dominante, passi su altari di pietra,
cortecce bagnate sotto i palmi delle mani, corse estenuanti.
Guardare, assorto, respirare
freneticamente, devastato dall’affanno, ma non scomporsi e continuare a
guardare.
Le pupille dilatate, la fatica nel
deglutire, il peso inspiegabile in mezzo al petto.
Un buco insondabile lì, poco più sotto la
gola, a squarciargli l’anima in milioni di pezzi.
E guardarla girare, e girare, e girare.
Scacciò quel pensiero
scomodo, una smorfia disgustata sul viso.
Improvvisamente si era
fatto serio.
Per quanto potesse farlo sentire impotente,
crudele, disgustoso.
Non riusciva, per ore e ore, ogni notte, a
toglierle gli occhi di dosso.
Succedeva e succedeva, fino a quando,
ingiusti, soggiungevano i primi segnali dell’alba. Quando la luce rivendica il proprio potere
sulle tenebre, e non c’è sconforto che la impietosisca.
Quando, come ogni volta, si buttava su
quella poltrona, e non prendeva sonno perché non c’era muscolo che glielo
permettesse.
Pulsava tutto il suo corpo.
La mente più sveglia che mai, che lesta
tentava di immagazzinare ogni ricordo della notte passata, con la
consapevolezza che sarebbe potuta essere l’ultima.
Si alzò di scatto,
nauseato.
Gli succedeva ogni volta,
e ogni volta reagiva allo stesso modo.
Socchiuse gli occhi,
realmente esausto.
Piegare lievemente la testa, sussurrare
qualcosa di incomprensibile anche per se stesso, e fermarla.
Inspirare e assaporare il profumo del vento
tra quei capelli, frustrazione ma anche soddisfazione nello stringerla in
quella morsa dalla quale non poteva sottrarsi.
Incosciente.
Baciarle la fronte, prenderle la mano,
guardarla mentre, come al solito, se ne stava in piedi davanti a lui, gli occhi
chiusi e la bocca semiaperta.
E affondare di nuovo lo sguardo sul suo
viso, premendole le labbra sul collo, le dita, le guance, le palpebre serrate.
Ancora frustrazione quando il pensiero
constatava che quei baci, al risveglio, per lei non sarebbero stati che una
remota sensazione.
Forse si sarebbe sentita sporca, strana,
violata.
Forse.
Chissà cos’avrebbe visto, la mattina dopo,
guardandosi allo specchio.
Chissà se sarebbe riuscita a scorgere tra
lo scuro delle proprie pupille tracce del suo sguardo intenso, dei suoi
abbracci, delle sue carezze, o anche solo della sua presenza.
Forse.
Era ancora troppo presto,
ma sentiva l’esigenza di uscire fuori da lì. Tutti quei pensieri lo stavano
facendo impazzire.
Si avvolse la sciarpa
nera attorno al pallido collo, le mani fredde e la medesima espressione nervosa
di poco prima.
Lasciarle la mano, con riluttanza, dopo
averla scortata fino al suo Dormitorio. E guardarla allontanarsi, sempre
avvolta da quel triste manto di incoscienza, salire le scale e scomparire
dietro quella maledetta porta.
Quasi assordante il silenzio che seguiva
quel momento, acuto e perforante.
Violento, lo accompagnava fino al maturare
dell’alba, impedendogli di chiudere finalmente gli occhi per abbandonarsi a
quello stato ormai così difficile da raggiungere, lontano da pensieri
ricorrenti, immerso nel buio mentale.
Sonno profondo, una volta tanto.
E invece se ne stava lì seduto, senza
fiatare, fissando inerme il cielo schiarirsi, cullato da quell’ossessionante
immagine, sempre la stessa.
Si diresse verso la
porta.
Poco più delle sette di
mattina, si disse, distrattamente.
Chissà se, fuori, l’odore
dell’erba era ancora inebriante, inondato di rugiada.
Bagnata.
Non aveva nemmeno più le
forze per scuotere il capo.
Doveva decisamente
smetterla.
Occhi vitrei, che guardavano ma non
vedevano, mentre dentro di sé pensava solo agli alberi, alle corse, al fiato
corto.
Vento tra i capelli, profumo di notte
insonne, di nuovo.
Trasalire, mentre ancora una volta si
sorprendeva a fissare insistentemente le nuvole.
E gli pareva di vederle girare, e girare, e
girare.
He said to
lose my life or lose my love,
That’s the nightmare I’ve been running from.
So let me hold you in my arms a while,
I was always careless as a child.
*
- Ricordati: solo una
goccia prima di andare a dormire, non di più, a meno che tu non voglia
svegliarti con la testa fatta a pezzi. -
- Ma certo. Farò
attenzione. -
- Io lo uso da anni,
ormai. È un antidoto molto comune, strano che tu non lo conosca. -
- Beh, non ne ho mai
avuto bisogno, fino ad ora. Però ne avevo sentito parlare. -
- È molto efficace.
Anche a me capitava, tempo fa, di fare strani sogni e svegliarmi con una
sensazione di disagio. Ma è bastata una goccia di Polio al giorno per porre
fine ai miei problemi. -
Hermione annuì,
tentando di apparire convinta.
Si trattenne dal
replicare, e anzi salutò Madama Chips, la fiala stretta in mano, allontanandosi
dall’Infermeria.
Non poteva certo dirle
che i suoi non erano strani sogni, e che la sensazione che provava
appena sveglia, ogni maledetta mattina, era ben più che disagevole.
Assomigliava più al
risveglio dopo un cammino eterno, alla mancanza d’aria dopo una scalata, al
dolore sfiancante dopo una corsa cieca, a bocca aperta.
Nella sua testa
c’erano confuse immagini che le si presentavano, fugaci e indecifrabili, non
appena chiudeva gli occhi.
Non appena si rifugiava dietro al buio
delle proprie palpebre.
No, decisamente,
Madama Chips non aveva capito che cosa aveva cercato di dirle.
Si rigirò tra le mani
la piccola ampollina celeste, assorta.
Il colore del sogno, non dell’incubo.
Sospirò, scoraggiata.
D’altronde, però, non le restava altra scelta.
Perché l’incubo non ha colore.
Era ormai sera, e la
testa le doleva troppo per permetterle di unirsi agli altri, nella Sala Grande.
Rassegnata, s’incamminò verso il Dormitorio femminile Gryffindor, sentendo il
peso dei libri aumentare passo dopo passo.
Si gettò sul letto,
dolorante. Guardò l’orologio. Erano solo le nove.
Perché l’incubo è un vortice, e dentro vi è
tutto e niente. Troppo, e mai abbastanza.
Gemette, contorcendosi
sotto le lenzuola, nemmeno badò al mantello che si era dimenticata di
togliersi.
Perché l’incubo non salda i debiti, non dà
spiegazioni, e non ha colore.
No, non ha colore.
Calma, si disse,
asciugandosi il sudore che le stava inondando la fronte.
L’ancora di una nave fantasma. Vele fradice
sotto una pioggia incessante, e,
all’improvviso, illuminata da un lampo, l’immagine di una bandiera stracciata.
Sale sparso sulla prua
e le onde a devastare, implacabili.
L’incubo che come
un’ancora tiene stretto il terrore, si pianta e arresta ogni cosa.
Nave, viaggio, impresa.
Cuore.
Con uno sforzo
estremo, afferrò la fiala che aveva appoggiato sul comodino. La fissò per
qualche istante, prima di aprirla con quanta più fermezza le fu possibile.
Aprì la bocca, e,
accuratamente, lasciò che una goccia le scivolasse sulla lingua.
Nonostante la porzione
fosse minima, si stupì all’avvertire nitidamente il forte gusto dell’antidoto.
Sapeva di sale, ma
subito notò un fastidioso retrogusto lattiginoso. Non era propriamente salato,
in realtà non avrebbe saputo come descriverlo.
Lacrime.
Si distese di nuovo,
chiudendo gli occhi.
Nel giro di pochi
minuti, cominciò a sentire l’effetto. Si rilassò, le tempie smisero di pulsare,
e persino il dolore alle gambe diminuì.
Roteò gli occhi, come
nauseata da quel sapore salmastro che continuava ad invaderle la bocca, prima
di chiuderli e cadere preda del dilagante buio racchiuso dietro le sue
palpebre.
*
Inspirò piano, gli
occhi socchiusi e il capo inclinato verso destra.
Come sempre, quando si
ritrovava ad osservarla, in silenzio, durante il suo placido sonno.
Non mosse un passo
verso di lei, rimase vicino alla finestra spalancata, la scopa stretta in mano
– per spiccare il volo, se necessario. Per scomparire in un battito di ciglia
se avesse respirato troppo forte, in un momento di trasporto, tanto da
svegliarla - e il mantello ondeggiante sotto quella fresca brezza notturna.
Lei, per la prima
volta da giorni e giorni – notti, si corresse, amaramente - , sembrava star
dormendo tranquilla.
Ancora non sapeva se
quel segno lo infastidisse o lo rassicurasse.
Non sapeva di cosa sognava quando non
sognava di lui.
Quando,
inconsapevolmente, camminava al suo fianco e ciecamente si lasciava guidare
ovunque o in nessun luogo.
Quando, anche se ad
occhi chiusi, era il suo viso che toccava, era la sua mano che stringeva, erano
le sue spalle che cercava.
Lentamente e in
silenzio, si avvicinò al suo volto. Deglutì a fatica, nell’oscurità, bloccato
da quell’immagine vulnerabile, quasi da bambina.
L’incubo non ha forma, non ha discesa, non
ha perché.
Non ha motivo, e se ce
l’ha non lo si sa.
I polmoni pieni di
altro che non fosse aria, da buttare fuori e riprendere, ansimante, per paura
di morire così, privo di respiro.
Ritratto di una nave
sommersa dalla nebbia.
E il mare è in bianco e nero, e niente è
più sensato.
Ritratto di un
vascello che ha già perso il colore. O forse mai l’ha avuto.
Nella mente l’odore
quasi ubriacante della sua pelle, la freschezza delle sue mani.
Frustrante.
Spesso era arrivato a
chiedersi quando aveva iniziato a coltivare una simile ossessione per quella
ragazza.
Continuò a fissarla,
accompagnando il suo sguardo da quel respiro profondo di chi assapora ogni
cosa.
Gli occhi chiusi.
Erano le cinque del
mattino e quella notte, per la prima volta, la passava al riparo dal vento e
dalle stelle. Dalle foglie e dai tronchi d’albero, dal rumore sferzante delle
corse in mezzo al verde.
Hermione Granger
inspirava ed espirava con costanza, l’espressione serena e il corpo avvolto nelle
coperte.
Incredibile sentire il peso di quei minuti,
inspiegabilmente lunghi in confronto alle scorse ore notturne.
Disagio nel saperla addormentata sul serio. Ferma.
Sdraiata.
Draco Malfoy inspirò a sua volta.
Violento in lui il desiderio di svegliarla e di urlarle
in faccia la sua angoscia.
Il suo disgusto e la sua rabbia, per averla trovata
addormentata per davvero.
Lontana da lui.
Dio, sarebbe impazzito.
Si avvicinò al suo
letto in un silenzio inverosimile.
Sapere strisciare, all’occorrenza.
Socchiuse gli occhi,
inginocchiandosi e scostando appena le tende.
Sorrise amaramente di
fronte alla propria arroganza imperturbabile.
Anche in quel momento,
avrebbe voluto solo attirarla a sé.
Sapere insinuare.
Sentì il suo respiro caldo, costante, e
socchiuse gli occhi costringendosi a mantenere il controllo.
Quanto di più
frustrante e infruttuoso fosse mai arrivato a concepire.
Lì, sotto i suoi
occhi.
Quanto di più
impossibile fosse mai arrivato a volere.
Poggiò le labbra sulle
sue, lentamente, senza indugiare su quella bocca semiaperta più di quanto il
suo stesso ritegno gli concedesse di fare.
Quante volte aveva
abusato di qualcosa, in vita sua. Di qualcuno.
Si odiava, ora, per
oscurare quella parte di sé. Per dimenticarla, quasi vergognato di essa.
Per smentirla, e per
chi?
I capelli chiari le sfiorarono appena la
fronte, e lui rimase immobile curvato su di lei ad osservare quel contatto
minimo, trattenendo il fiato.
Qualcuno che rideva di
lui e di cui lui rideva a sua volta.
Consapevolezza che
rasentava il patetico.
Si rialzò con durezza,
avviandosi alla finestra e volgendo lo sguardo al cielo già più chiaro di poco
prima.
Era una notte senza
vento.
Di nuovo quel sorriso amaro, pesante, che
gli costava esibire anche solo per se stesso, mentre in silenzio com’era
venuto, scompariva dalla stanza.
Era una notte senza
vento.
I said I’ve got no time I have to go,
And I was more right then now I’ll ever know.
He said my heart is faint, will minds regret,
And left him crying next to the chapels steps.
*
- Caspita, Herm.
Sembri un’altra persona. -
Hermione alzò gli
occhi al cielo davanti all’espressione basita di Ron, versandosi del succo di
zucca nella tazza.
- Merito di Madama
Chips. Non fosse stato per lei sembrerei ancora la copia al femminile del Barone
Sanguinario. – Gli rispose, esibendo una smorfia disgustata.
Quello fece spallucce.
– L’ho sempre detto che quella donna è un genio. Voglio dire, fino a ieri
gironzolavi per la scuola come uno spettro. Due goccette di Porio… -
- Polio, Ronald. –
- Sì, insomma, hai
capito. – Bofonchiò lui con un gesto spiccio. – Dicevo, due gocce di Polio e si
è risolto tutto. Aspetta, c’è Harry, vediamo se lo nota anche lui! -
Hermione non disse
nulla, si limitò a bere sommessamente il suo succo.
Quella mattina si era
svegliata e le era parso di rinascere. La cosa strana era che non aveva ancora
capito bene in che modo quella pozione avesse agito sul suo disturbo.
In fin dei conti la
sua non era insonnia, nemmeno lei era in grado di descrivere ciò che aveva
provato per tutto quel tempo, nel sonno.
Una sorta di benessere
e malinconia. Di irrealtà.
Ad ogni risveglio, per un infinitesimale
secondo, aveva in mente la nitida immagine di ciò che le pareva di aver appena
sognato, ma subito dopo tutto svaniva, e non le restavano che acuti dolori su
tutto il corpo.
Tutto sfumava in
rabbia e impotenza.
Durante la giornata
veniva assalita da sprazzi di vaghi ricordi e impressioni, ma nulla aldilà
della sensazione. Del dubbio.
Quando, quella
mattina, aveva spalancato gli occhi e si era resa conto di non serbare altro se
non un genuino senso di assopimento, si era a stento trattenuta dall’urlare di
gioia.
- Cavolo. Bentornata
tra i vivi, Hermione. – Le sorrise Harry prendendo posto accanto all’amico e
rivolgendole il solito sguardo affettuoso.
Lei ricambiò il
sorriso. – Grazie. Spero di restarci almeno fino alla fine dei M.A.G.O. – Disse
poi in un lamento, senza un filo di speranza.
- Ma si è poi capito
cos’è che avevi? – Le chiese Ron, aggrottando le sopracciglia.
Hermione sospirò,
scrollando le spalle. – Stamattina sono passata da Madama Chips per
ringraziarla e per chiederle spiegazioni più accurate. Lei mi ha detto che
spesso questo tipo di antidoti fanno effetto anche sulle persone sonnambule. –
I due ragazzi la
fissarono a bocca aperta.
- Sonnambule? –
Dissero poi, al contempo. – Herm, per i baffi di Merlino, questa è buona! –
Esclamò Ron dando una pacca sulla spalla all’amico, che tossì fuori mezzo
polmone, oltre che una buona parte del porridge.
- Sì, lo so, sembra
assurdo anche a me. Ma solo così si spiegherebbe il dolore tremendo e la
stanchezza. Insomma, da ormai due settimane mi svegliavo e avevo l’impressione
di aver scalato una montagna a piedi nudi. – Rispose lei, stizzita.
Non esagerava; il
disagio provato ogni singola mattina da quasi un mese a quella parte le era
stato fatale. Persino lo studio, che era riuscito a non risentirne in
innumerevoli altre occasioni, aveva avuto un collasso.
E, come tutti
sapevano, per Hermione Granger un Oltre Ogni Previsione in Storia della Magia
rappresentava un vero e proprio lutto psicologico.
Lo sbuffare di Ron
alla vista degli orari scolastici fu velocemente sovrastato da un trillo a dir
poco estatico alle sue spalle.
Lavanda era comparsa
dal nulla, esibendo un sorrisetto soddisfatto e un’espressione decisamente
eccitata.
- Hermionemioddiodeviraccontarmiassolutamentetuttoquellocheèsuccessostanotte.
-
Quella sbatté velocemente le palpebre,
aggrottando le sopracciglia. – Prego? – Scandì, con la massima riluttanza.
Lavanda si sedette al
suo fianco e le rivolse uno sguardo rapito che le parve un tantino esagerato.
Poi le si avvicinò
maggiormente, arrivando quasi a sfiorarle il naso col proprio.
- Ti prego dimmelo, lo
giuro, lo giuro che non ne parlerò ad anima viva! – Sussurrò, reprimendo
a stento l’impazienza. Hermione alzò un sopracciglio, glaciale.
- Lavanda, non ho la
più remota idea di ciò di cui mi stai parlando. – Le rispose secca.
Quella inspirò,
fissandola con enorme disappunto. – Guarda che non ti serve a nulla fare la
finta tonta. Ormai lo sappiamo tutte. -
Harry e Ron, davanti a
loro, avevano preso a fissarle con insistenza.
- Herm? – Chiese il
secondo, lentamente. – Ma che succede? -
Lei rivolse alla
ragazza un’occhiata sprezzante, prima di rispondergli acidamente. – Come ho già
detto, non ne ho idea. Ma pare che Lavanda e gran parte del resto del corpo
studentesco sì, a questo punto non ti resta che chiedere lumi a loro. -
Lavanda la fissò a
bocca aperta. – Ma stai scherzando? – Balbettò poi, esterrefatta.
Hermione inspirò
profondamente. Stava cominciando a spazientirsi sul serio.
- Senti, ho passato
una pessima settimana. Questa mattina era inaspettatamente iniziata nel
migliore dei modi, se sei venuta qui a riportarmi alla dura realtà, ti prego di
farlo almeno dopo pranzo. Ora come ora stai mettendo a dura prova la mia
sopportazione. -
L’altra sbatté
lentamente le palpebre, guardandola come se le avesse parlato in turco. – Non
ci posso credere. Davvero non sai niente? Cioè, era sul tuo letto e tu non ne
sai niente? – La strattonò con forza.
Hermione non ebbe
nemmeno il tempo di risponderle a tono; Harry s’intromise con voce secca. –
Insomma, Lavanda. Hermione è stata malata per due settimane, non è proprio il
momento di assalirla con i soliti pettegolezzi. Vuoi dirci cos’è successo? -
La ragazza deglutì,
guardando i tre con una lentezza quasi patetica. Poi parlò cercando di dare al
proprio tono una vena di dispiacere, ottenendo risultati pietosi visto che ne
scaturiva solo un puro e inconfondibile compiacimento.
- Stamattina io e Calì
siamo uscite dalla camera per ultime, e beh… così, per caso, abbiamo notato che
ai bordi del tuo letto c’era una sciarpa bianca. – Tacque, squadrandoli con un
turbamento in viso assai poco convincente.
La trucidità con cui
Hermione aveva preso a fissarla avrebbe potuto tranquillamente polverizzata da
un momento all’altro. Lavanda, ovviamente.
– Sì. – Masticò. – La mia
sciarpa bianca che ho tutto il diritto di appoggiare sul mio letto
ogniqualvolta ne abbia voglia. Complimenti per essere riuscita a tirare su un
polverone per un’ovvietà del genere. Non credo che al tuo posto sarei riuscita
a fare di meglio. –
Lavanda boccheggiò,
indignata. – Non quella stupida sciarpa! – Esclamò poi, quasi come se
qualcuno l’avesse offesa. Poi alzò gli occhi al cielo, esasperata.
- Sto parlando di una
sciarpa che porta le iniziali D e M in argento. – Disse, e pareva seria. –
Sembra proprio che tu non ne sappia nulla. Ad ogni modo stamattina ti ho vista
vestirti in fretta e furia e in un primo momento ho pensato che l’avessi
ignorata. Invece non l’avevi proprio vista. – Sospirò, estraendo qualcosa dalla
propria borsa e porgendoglielo.
Hermione prese la
candida sciarpa bianca in mano, senza fiatare.
DM.
Lavanda
scrollò le spalle. – A questo punto, è ovvio che lui ha sprecato il suo
tempo. – Poi scosse il capo, amareggiata, prima di girarsi e rivolgere
un’espressione scoraggiata a Calì, che si trovava dall’altra parte del tavolo.
Quella a sua volta diede il via a una catena allarmante di scosse di capo.
Ron e Harry rivolsero
di nuovo l’attenzione su Hermione, che intanto stava fissando con gli occhi
sbarrati la sciarpa.
- Herm? – Chiese Ron
debolmente. – Ma che…? -
- Scusate. Ci vediamo
dopo. -
Si alzò, incurante
delle occhiate stranite dei due, e si avviò verso il portone della Sala Grande.
DM.
Uscì, e il suo
camminare deciso divenne una corsa veloce.
Maledetto.
Svoltò un angolo e
percorse tutto il corridoio. Quando arrivò in fondo rallentò, sebbene di poco,
l’espressione livida.
Davanti a sé un
ragazzo le stava dando le spalle, rivolto verso la grande finestra.
Quando gli fu a pochi
metri di distanza, si arrestò.
- Malfoy. -
Let’s grow old together,
And die at the same time.
Let’s grow old together,
And die at the same time.
- Malfoy. -
Non si era voltato
immediatamente.
Aveva aspettato che
quella parola aleggiasse nell’aria per qualche istante in tutto il suo
disprezzo. Aveva atteso quel particolare momento in cui il fiato corto che si
sentiva alle spalle fosse degenerato in semplice e palese impazienza.
Aveva deglutito e
sbattuto velocemente le palpebre guardando il cielo fuori dalla finestra,
eppure non vedendolo.
Infine, con meditata
lentezza, si era voltato.
Hermione Granger lo
stava fissando altera, il mento al solito sollevato con arroganza, la postura
eretta, gli occhi glaciali, il viso pallido, i pugni stretti.
No.
Non proprio.
Nel pugno destro,
qualcosa di bianco e familiare.
Oh.
Nemmeno un guizzo
nella sua espressione, mentre le restituiva lo sguardo e inarcava un
sopracciglio con molta discrezione. – Granger. – Affermò.
Bene, si erano
presentati. Era già qualcosa.
Quella non disse
nulla, si limitò a sollevare la mano destra, prendendo tra due dita ciò che un
istante prima aveva tenuto stretto fino quasi a strapparlo.
Draco si poggiò contro
il muro, il capo leggermente indietro e gli occhi sempre fissi su di lei, solo
un po’ stanchi.
- Spiegati. -
Fredda,
imperturbabile, non aveva nemmeno perso tempo a porgli domande. Non aveva
minuti da regalare in giro, tanto meno a lui. Si aspettava perciò che
collaborasse e parlasse, in fretta possibilmente, così da poterle permettere
l’assunzione del solito cipiglio disgustato e magari, perché no, anche una
bella crisi isterica.
Il tutto nel giro di
un minuto e mezzo, ovviamente.
C’erano cose a cui
Hermione Granger aveva smesso di prestare la minima attenzione.
Malfoy, col tempo, era
rientrato in quelle cose. Non s’indignava, non rispondeva alle sue
provocazioni, non lo guardava neppure.
Da quasi due anni,
Hermione Granger e Draco Malfoy non si rivolgevano la parola.
Nessun insulto.
Nessuna battuta. Nessuna provocazione. Nessuna discussione. Nessun colpo basso.
Niente.
E ora era lì, di
fronte a lui, a chiamarlo per cognome e a pretendere che lui si spiegasse. Che
la illuminasse.
La cosa aveva un che
di irritante, pensò.
Umiliante.
Si rivolse a lei con
egual freddezza. – È una sciarpa. – Decretò, senza distogliere lo sguardo dal
suo. – Ecco, risolto il mistero. Potevi risparmiarti la fatica di venire fin
qui: persino Fotter e Weasgay, che stanno alla logica come quel deficiente di
Hagrid sta alla decenza, ci sarebbero potuti arrivare. Forse. –
Tacque poi,
massaggiandosi le tempie.
Era stanco. C’erano momenti in cui non
avrebbe avuto bisogno di nulla al di fuori di un letto su cui gettarsi,
abbandonarsi e dormire.
Dormire per davvero.
No, non era stanco.
Era esausto.
Lei appiattì le labbra
e per un momento gli parve di vederla arrossire. La sua espressione restò però
di ghiaccio. – Complimenti per aver rivendicato i tuoi diritti sulla vasta
gamma di insulti a marchio Malfoy, non vedevo l’ora. – Osservò, tagliente. –
Immagino che oltre all’innata propensione all’offendere gratuitamente, tu sia
in grado di leggere. – Piegò la sciarpa in modo da rendere evidenti due
iniziali argentate.
DM.
Draco le guardò,
totalmente inespressivo.
Era esausto e imperdonabilmente stupido.
- Questa si trovava
nel mio dormitorio, questa mattina. Ed era appoggiato sul mio letto. -
Draco non mancò di
notare quanto il suo disgusto, in quella breve frase, si fosse accentuato.
Umiliante, ancora una volta.
- Stai offendendo la
tua intelligenza, Granger, ammesso che non sia già stata sostituita da tempo
con un massiccio concentrato di boriosità. Ci sono centinaia di persone, in
questa scuola, con quelle iniziali. Credi davvero che due lettere in argento
possano indurmi a inginocchiarmi ai tuoi piedi e a supplicarti perdono? –
Soffiò, con ingannevole calma. Lei strinse il pugno sinistro, e Draco seguì
quel gesto con manifestata ilarità.
- Questa sciarpa è
tua, Malfoy. – Sibilò lei, la voce bassa ma furente. – Lo sanno tutti. Solo tu
sei così egocentrico da girare con qualcosa del genere, inoltre mi è stato
confermato da parecchi. – Completò la frase con un che di infantile che per
poco non lo fecero scoppiare a ridere.
Scosse il capo,
amaramente.
Quanto gli era riuscito naturale tenerla
per sé, nel silenzio, alla sola presenza del buio e del vento incessante.
Quanto gli era costato
vederla, la notte precedente, e doversene andare per la prima volta senza di
lei, ancor prima degli albori.
Quanto gli era
costato.
E ora quanto lo
amareggiava dover fare i conti con la sua persona sveglia, combattiva, quasi
ridicola nella propria alterigia.
Quanto lo ripugnava.
- Ti è stato
confermato da parecchi. – Ripeté, il tono cantilenante. – Hai aperto
un’inchiesta? Mi hai messo i tuoi amici leccapiedi alle calcagna? – Rise, e
nella sua risata non c’era la più remota traccia di divertimento.
Hermione lo fissava
impassibile, le labbra più appiattite che mai. – No. – Rispose soltanto. – Ho
usato il buon senso. E la memoria. – Aggiunse, non senza una certa vergogna.
Draco la guardò, e nei
suoi occhi prese a brillare qualcosa che sicuramente lei non fece nemmeno in
tempo a notare, prima che sparisse in fretta com’era comparsa.
- Dove hai visto quella sciarpa prima d’ora, Granger? –
Le chiese, la voce come intinta in un vaso di miele.
Miele e aceto.
- Dove? – Ripeté,
ancor più sottovoce.
Le era a poco meno di
un soffio.
Lei non si era ancora
scostata e lui aveva la sensazione che non l’avesse fatto solo per sfidarlo.
Sciocca.
And there’s a part of me that still
believes,
My soul will soar above the trees.
But a desperate fear flows through my blood,
That our dead loves buried beneath the mud.
- Dove hai visto
quella sciarpa prima d’ora, Granger? –
Hermione aggrottò
impercettibilmente le sopracciglia.
- Dove? -
Non distavano nemmeno
una manciata di sospiri, e lei non avrebbe mai saputo dire quanto quella
vicinanza la nauseasse e la disgustasse.
Una parte remota della
sua mente le indicò quanto il suo odore le fosse familiare, ma lei era troppo
occupata a sostenere il suo sguardo penetrante per pensare ad altro.
Indietreggiò di due passi, senza smettere di fissarlo.
Dove?
Che razza di domanda era? Tutti l’avevano visto con
quella sciarpa, era una specie di cimelio che si portava dietro da una vita,
convinto che le proprie iniziali su un pezzo di stoffa potessero attribuire
alla sua persona uno spessore che la gente non si prestava certo a dargli.
Incatenata al suo
collo, quasi confondibile con il pallore della sua pelle che attirava molte ma
che su di lei aveva tutt’altro effetto.
Quel bianco che non
aveva nulla di lunare, di mistico.
Quel bianco malato.
Aprì la bocca per
ribattere, quando improvvisamente si accorse che lui le aveva afferrato il
braccio.
- Lasciami. – Ordinò,
la voce involontariamente stridula. Lui non accennò a farlo, e lei dovette
radunare tutto il suo autocontrollo per non schiantarlo lì, in mezzo al
Corridoio, e lasciarsi indietro lui e la sua risata fredda, quasi inumana.
- Ti ho detto di lasc…
- Aveva tentato di divincolarsi, esibendo il solito tono imperativo, ma la voce
le morì in gola ancor prima di finire la frase.
Dove hai visto quella
sciarpa prima d’ora, Granger?
Hermione sgranò gli occhi.
Una remota luce
soffusa dietro le palpebre serrate; nulla di concreto, di realmente visto e
contemplato, solo un senso di spossatezza e il freddo inaudito di quel vento
autunnale.
Le mani ghiacciate
poco prima di stringere qualcosa di soffice e tiepido, prima di afferrarlo e
memorizzarne la morbidezza, il candore.
Affidarlo ad altre
mani altrettanto fredde, e rivolgersi di nuovo verso quel pallore lontano.
Sentirsi in balia di
quel vento per un tempo infinito, prima di venire coperta e riscaldata,
sfiorata appena dalle medesime dita congelate di poco prima.
Lasciò cadere in terra la sciarpa, respirando a stento.
La mano di Malfoy era
ancora stretta attorno al suo polso, e poteva sentirne la cadaverica freddezza.
Non lo guardava più,
mentre sentiva il sangue nelle vene gelarsi.
Passi veloci, uno dietro l’altro, su terra bagnata e foglie secche.
Respirare l’aria notturna e assorbirne l’acerbità, quella fresca ebbrezza che
racchiudono le ultime ore prima dell’alba.
Sentire una presenza
al proprio fianco ed essere sicura di non cadere nel vuoto; essere presa per
mano e portata chissà dove, girare su se stessa senza accorgersi del passare
degli istanti, dei minuti, delle ore.
Delle notti.
Affidarsi a braccia
sconosciute senza poter far altro e forse da un lato sollevata per non poter
scegliere. La turbolenta sensazione di essere in un sogno accecato e di
muoversi su nuvole di pietra, di fare passi avanti ma di non avanzare
realmente, di avvertire la pioggia ma di non sentirne per davvero il secco
contatto sulla sua pelle.
Sentire di essere
baciata e capirlo per metà, mentre da un lato vi è solo il pensiero di labbra
fresche, e dall’altro l’impulso di fuggire. Sottostare ad abbracci e corse
sfrenate senza reagire, restare in dormiveglia e non capire se lo si vuole o
no.
Svegliarsi la mattina
e maledirsi per aver sognato, pur non ricordandosi che cosa, e gemere per quei
dolori diffusi in tutto il corpo.
Segni confusi e
ottenebrati da un sonno che cammina.
Mettere a fuoco il
proprio dormitorio, e con sgomento rendersi conto di vederlo girare, e girare,
e girare.
- Non posso
assicurarti che si trattasse di sonnambulismo, signorina Granger, tuttavia
viste le tue impressioni e i tuoi disagi, non dovrebbe essere altrimenti. -
- Ma è possibile
risalire a ciò che ho fatto durante quel periodo? Voglio dire, c’è un modo per
sapere che cosa mi è accaduto, ogni notte, per quasi due settimane? – Aveva
chiesto, senza trattenere l’angoscia.
Madama Chips l’aveva
guardata con rammarico, addolcendo i tratti del viso con un sorriso mesto. –
Non posso saperlo, signorina Granger. Certo, potresti ricorrere a migliaia di
antidoti e forse riusciresti anche a risalire alla causa del suo malessere, ma
non lo sapresti mai con certezza. Ciò che la mente elabora durante il sonno è
invalicabile persino dalla magia. Non puoi che sperare in un aiuto della
memoria, in una reminescenza, ecco. -
- Pensa che potrebbe
accadere? – Aveva chiesto, speranzosa.
Madama Chips aveva
annuito, sebbene non troppo convinta. – Sì, potrebbe, in qualsiasi momento. Ma
non ci conterei molto, fossi in te. -
Indietreggiò,
tremante, gli occhi sbarrati.
DM.
Si portò una mano alla
bocca, improvvisamente senza respiro.
- Dove hai visto
quella sciarpa prima d’ora, Granger? -
DM.
Dove?
Lo fissò, e si stupì
nel vederlo ugualmente turbato.
L’aveva tenuta in mano
e odorata. L’aveva stretta a sé.
Con le dita aveva
ricalcato le due iniziali, inconsciamente, silenziosamente.
- Vattene. -
Un nodo alla gola
quando si rese conto che lui le aveva parlato con distacco e si era voltato a
guardare il cielo grigio.
Let’s grow old together
And die at the same time
Let’s grow old together
And die at the same time
Si era voltato ad
osservare le nuvole cariche di pioggia che avevano cominciato a riversarsi sul
vasto prato.
Le aveva detto di
andarsene perché non aveva nulla da dire e nulla da sentire.
Le aveva detto di
andarsene perché gli bastava il suo, di turbamento.
Le aveva detto di
andarsene perché sapeva che lui non ne sarebbe stato in grado.
Ancorato al suolo,
pietrificato.
- Dimmi che non eri
tu. -
Draco esercitò su se
stesso uno sforzo immane per impedirsi di voltarsi ad abbracciarla, con rabbia
e foga, a costo di spezzarle le ossa.
Dimmi che non eri tu.
Aveva parlato con voce
rotta, supplichevole; non c’era traccia di alterigia in quella domanda posta a
metà, non c’era acidità o ripugnanza.
Lei lo stava
supplicando di mentire perché avrebbe preferito morire anziché sapere di aver
passato intere notti tra le sue braccia.
Voleva che mentisse
perché le sue convinzioni non crollassero, una dopo l’altra, ai suoi piedi.
Voleva che mentisse
perché era orgogliosa, e lui, dopotutto, non poteva darle torto.
Inspirò piano, senza voltarsi a guardarla e tuttavia
percependo tutto il suo strazio.
Quando tutto
l’intelletto del mondo non basta a fermare qualcosa che sta al di fuori di un
libro, di una lezione impartita.
Muri da non abbattere
per non far crollare qualcosa di più grande.
Fare i conti con il
sacrificabile e tenersi stretto il resto, perché l’orgoglio è più importante,
è… dannatamente vitale.
Fermarsi con orrore alla vista di due dannate iniziali e chiedere spiegazioni,
chiudersi in una patetica caccia alla logica e rimanere delusi.
Rimanere delusi perché
per una volta, non c’era nulla da prevedere.
Per una volta, era
qualcun altro a sapere quel qualcosa in più.
Draco si voltò e la raggiunse, mentre di nuovo lei lo
guardava come se avesse voluto fare mille passi indietro e scappare via.
Non importava.
Ancorò gli occhi ai
suoi, l’espressione apparentemente neutra e il viso rilassato.
Muscoli tesi e denti
stretti.
Si avvicinò alla sua bocca, socchiudendo le palpebre e
avvertendo il corpo di lei irrigidirsi.
Restò lì, immobile, a
una distanza minima da lei, a un soffio dalle sue labbra.
Continuava a fissarla
mentre una mano le afferrava di nuovo il polso, questa volta con maggior
delicatezza.
Distolse finalmente lo sguardo, mentre si avvicinava al
suo orecchio, sfiorandole appena una guancia.
- Non sarò mai più lontano da te più di quanto non sia
già stato. – Sussurrò, per poi aggiungere, in un sospiro - No. Non ero io. -
Lasciò la stretta,
allontanandosi da lei e oltrepassandola.
Non ero io.
Aveva ancora gli occhi torbidi, mentre svoltava un angolo
e la lasciava sola alle spalle, probabilmente ancora immobile e angosciata.
Toccarla, sussurrarle
all’orecchio e sentire il tepore della sua guancia.
Discese le scale con misurata lentezza, guardando avanti
con risolutezza.
Mentire spudoratamente
per poi ingannare a gesti.
Dopotutto, era pur
sempre Draco Malfoy.
Uscì, ben consapevole che quelle nuvole non avrebbero
portato altro che pioggia. Sull’erba fresca, sulle pietre, la terra, le foglie,
gli alberi, le strade e il lago.
Il lago.
Fuori non c’era nessuno, in quella aspra mattina
autunnale, mentre l’acqua cominciava a scendere velocemente.
Aspirò quell’aria pura e si appoggiò all’albero che ormai
da settimane lo sorreggeva, che fosse notte o che fosse giorno.
Non sarò mai più lontano da te più di quanto non sia
già stato.
Il lago era increspato
dalle violente gocce d’acqua, mentre Draco sentiva di starsi bagnando e sapeva
di non starci prestando attenzione.
Se c’era qualcosa che
era sempre riuscito a fare, era mantenere le promesse.
Chiuse gli occhi, il capo all’indietro.
Aggrappandosi al caso,
alla speranza e all’illusione, ma ci era sempre riuscito.
Un tuono in lontananza, prima di scivolare giù e sedersi
sulle radici dell’albero e avvertire un vago sentore di nausea, mentre tutto
intorno a lui prendeva a vorticare.
Non le era stato
lontano più di un abbraccio, e lei lo sapeva.
E, in quelle notti,
non c’erano stati sguardi che non destinasse a lei.
Sapeva anche quello.
Prendeva a girare, e
girare, e girare.
He said to lose my life or lose my
love,
That’s the nightmare I’ve been running from.
So let me hold you in my arms a while,
I was always careless as a child.
So let me hold you in my arms a while,
I was always careless as a child.
And there’s a part of me that still believes,
My soul will soar above the trees.
But a desperate fear flows through my blood,
That our dead loves buried beneath the mud.
Let’s grow old together,
And die at the same time.
Let’s grow old together,
And die at the same time.
I said I’ve got no time I have to go,
And I was more right then now I’ll ever know.
He said my heart is faint, will minds regret,
And left him crying next to the chapels steps.
Let’s grow old together,
And die at the same time.
Let’s grow old together,
And die at the same time.
***
Per una volta, e lo
dico sul serio, non mi stupirei se un mio scritto rimanesse senza commenti.
Whirled è, infatti, anche dal mio punto di vista, piuttosto
complesso.
Rileggendo alcune parti
ho alzato gli occhi al cielo, chiedendomi se fosse proprio necessario essere
così assurdamente criptica, e soprattutto chiedendomi perché avessi voluto
affrontare un argomento simile.
Se devo rispondere
sinceramente, non ne ho la più pallida idea.
Da tempo volevo
scrivere una nuova Draco/Hermione, ma le idee, ahimè, scarseggiavano, e il
tempo pure.
Alla fine, senza
pensarci troppo, è uscito fuori Whirled, e devo dire di esserne
piuttosto soddisfatta.
Inizialmente era
partito come il racconto di un sogno ricorrente da parte di Hermione, solo in
seguito ho deciso di farla diventare una vera e propria vicenda, prendendo in
mezzo un suo ipotetico sonnambulismo.
Il fatto che Draco sia
ossessionato da lei non è cosa nuova; l’elemento introdotto, tra l’altro ripreso
anche dal titolo, è proprio questo vorticare continuo tra quasi sogno e momenti
reali, quel senso di spossamento da parte di Hermione una volta svegliata, al
mattino.
L’impressione di esser stata fatta girare su se stessa, per quanto è
esausta e confusa.
Ribadisco: lo so, sono
assolutamente incapace di scrivere qualcosa che non includa il costante
intervento di un vocabolario o di un esperto di geroglifici, ma abbiate
pazienza, posso farci poco e nulla arrivati a questo punto.
Chi capirà e vorrà
farmelo sapere, sarà accolto gloriosamente – beh, più o meno – e ricoperto di
onori e doni divini – anche qui, prendetela filosoficamente, per carità -.
Chi non ci capirà una
sacrosanta acca, beh… sopravvivrà tranquillamente, senza contare che se ne
andrà a dormire con la testa a posto e meno paranoie di quante già non abbia.
Fico, eh?
Scherzi a parte, spero
che questo mio ultimo “sputacchino”, come lo chiamerebbe una mia conoscente a
caso il cui nome non ho intenzione di dire – Francesca Gaudino, Via Paolo Fabbri
14. Cara anch’io ti voglio bene -, venga almeno parzialmente apprezzato.
Non posso dire di
averci sudato sopra o di averci lavorato chissà quanto, però l’impegno c’è
stato.
E la voglia, proprio
tutta tutta tuttissima. Almeno quella, direte voi, giustamente.
Eeeeeeeeeeeeeeeeeeeebbbbeh.
Grazie e a presto,
G.U.P. (Gentile Utenza Perditempo).
Janet.
P.S.: Dimenticavo. La
canzone è dei White Lies, e s’intitola “To Lose my life”.
Ha un testo per me
molto significativo, e anche il pezzo è veramente bello.
Consiglio a tutti di
ascoltarlo.