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Autore: Janet Mourfaaill    12/05/2009    7 recensioni
Per quanto ci provasse, non riusciva a svegliarsi del tutto. Era intorpidita, assuefatta, immersa in una scomoda sensazione di malessere, di parziale consapevolezza. Si sentiva come se, durante la notte, si fosse ritrovata a dover camminare per ore scalza, in mezzo a una foresta.
Presa per mano, accompagnata su un altare di pietra, e fatta girare, e girare, e girare.
Inspirò, massaggiandosi le tempie. Ora persino il mal di testa.
Catapultata tra foglie e alberi, tra terra e germogli, acqua e fango, fatta girare, e girare, e girare.
Afferrò violentemente la sciarpa, infuriata con se stessa. Da settimane ormai si svegliava con quella sensazione, con quell’instabilità mentale e fisica, e più si chiedeva il perché meno era in grado di rispondersi.
Sapeva solo che la notte era diventata il suo incubo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Whirled

Whirled

di

Janet Mourfaaill

 

 

 

 

Aveva iniziato a vestirsi in religioso silenzio.

In realtà non aveva minimamente badato a ciò che stava indossando, la mente ancora annebbiata e gli occhi socchiusi.

Fuori il sole illuminava appena, i raggi ancora troppo pallidi per destare anche solo un pensiero.

Dentro, congelava.

Tossì piano, prima di guardare svogliatamente la propria immagine riflessa nello specchio.

Aveva la tipica espressione del bambino appena sveglio, lo sguardo ancora assonnato e le occhiaia pronunciate che quella mattina parevano ancor più evidenti del solito.

Fuori, da qualche parte, si udì il frenetico battito di ali di un gufo, o magari di un corvo.

Non seppe spiegarsi il perché, ma persino un particolare insignificante come quello le trasmise un’enorme tristezza.

Rivolse di nuovo lo sguardo alla finestra, tentando di riprendersi.

Per quanto ci provasse, non riusciva a svegliarsi del tutto. Era intorpidita, assuefatta, immersa in una scomoda sensazione di malessere, di parziale consapevolezza. Si sentiva come se, durante la notte, si fosse ritrovata a dover camminare per ore scalza, in mezzo a una foresta.

Presa per mano, accompagnata su un altare di pietra, e fatta girare, e girare, e girare.

Inspirò, massaggiandosi le tempie. Ora persino il mal di testa.

Catapultata tra foglie e alberi, tra terra e germogli, acqua e fango, fatta girare, e girare, e girare.

Afferrò violentemente la sciarpa, infuriata con se stessa. Da settimane ormai si svegliava con quella sensazione, con quell’instabilità mentale e fisica, e più si chiedeva il perché meno era in grado di rispondersi.

Sapeva solo che la notte era diventata il suo incubo. Panico e rabbia quando, al risveglio, constatava che l’incubo non finiva.

Stanchezza anormale, inspiegabile.

Su per la schiena, nei muscoli delle gambe, delle braccia, nelle dita delle mani, tutt’intorno al collo, persino sotto la pianta dei piedi.

Indossò il mantello, barcollante.

Muschio sotto le dita, ottone brillante di cortecce bagnate. Pioggia o nuvola, vento o calore. Erba fresca tra le caviglie, e ruotare, ruotare, ruotare.

Senza luce, senza vista, senza coscienza.

Luccichio soffuso delle poche stelle affacciate su di lei, tra corse e salite, tra freddo e calore, e vento e calore, torpore.

Erba tiepida sotto le dita, spighe tra le caviglie.

Non riuscì a trattenere un’imprecazione, prima di trascinarsi dietro la solita borsa colma di libri, aprire la porta e sbatterla violentemente, uscendo.

E girare, girare, girare.

 

 

*

 

 

Respiro.

Dopo quasi due minuti di apnea involontaria, si era reso conto che magari era anche il caso di smetterla, e in fretta.

Si massaggiò gli occhi stancamente.

Fuori un acerbo sole mattutino che, altrettanto stancamente, allungava i propri raggi sull’immenso bosco, quasi al volerlo mollemente accarezzare con tiepidi bagni di luce.

Inspirò, tossendo un poco.

Era l’ennesima notte che passava lontano dai sotterranei, e non avrebbe saputo dire quanto ciò gli stesse giovando.

All’inizio era stato quasi divertente.

Perdere e ritrovare la ragione; misterioso, affascinante, un gioco destinato a durare poco, ma non importava, non ancora.

Quando la notte diventa l’unico diversivo, l’ultima carta da giocare perché non si ha altro in mano, e, disperatamente, si punta tutto su uno sporco bluff, alla cieca.

Poi, col tempo, aveva iniziato a risentirne. Esausto, aveva cominciato a sentire il peso di tutte quelle partite, castelli di sabbia su basamenti instabili, circuiti interrotti.

Passò le dita sui pronunciati solchi sotto gli occhi. Tracce violacee di ore prive di sonno, cuscini freddi e letti mai sfiorati per notti e notti.

Sorrise tra sé e sé.

Lo sguardo era di nuovo vagato fuori dall’ampia finestra. Aspro, quel gelido sole, di certo non riscaldava alcunché.

 

 

Quella notte, senza avere reale cognizione del perché, era uscito dal castello.

Faceva freddo. Quel pensiero gli attraversò la mente, distratto, mentre nemmeno si curava di chiudersi il cappotto o di sistemarsi meglio la sciarpa attorno al pallido collo congelato.

Pungente, il vento lo colpiva dritto in viso, arrossandolo.

Lui preferiva restare così, spavaldamente esposto a quegli schiaffi che riuscivano a tenerlo sveglio e  poco lo turbavano, in fondo.

Di nuovo non seppe spiegarsi il perché della direzione che stava inconsciamente prendendo; dritto, contro vento, verso il lago nero.

La notte era silenziosa, quasi angosciante nella sua calma. Draco fissò il cielo, così scuro da confondersi perfettamente con le acque del lago, formando un tutt’uno di un’omogeneità inverosimile.

Gli sembrava di andare incontro a un enorme e indefinito buco nero.

Non c’erano rumori a parte il docile frusciare dell’erba incolta sotto quelle folate intense. Aria così pura che si faticava a respirare. Silenzio così intenso che si faticava a udire.

Aveva le labbra increspate, gli occhi particolarmente chiari a contrastare con quel buio assoluto.

Ormai arrivato alle rive del lago rivolse lo sguardo alle sue acque stagnanti, vaste e assopite.

Sbatté le palpebre velocemente, la vista annebbiata da una visione improvvisa. Aggrottò le sopracciglia.

Sciolti capelli scuri violentemente in preda al vento, una lunga veste chiara e le braccia tremanti lungo i fianchi. I piedi nudi appena bagnati dall’acqua, i palmi delle mani aperti.

Draco deglutì a fatica. Se quel dannato freddo lo rendeva visionario, allora era segno che il suo autocontrollo era definitivamente andato a puttane.

Improvvisamente una folata particolarmente forte gli sfilò la sciarpa dal collo. Lui scattò in avanti, ma quella era già lontana, trascinata via per almeno una decina di metri.

Trattenne un’imprecazione mentre gli correva dietro e malediva quel gelo indecente.

Si fermò, ansimante, dopo averla vista impigliarsi a un ramo di un albero secco affacciato sul lago.

Rimase distante, paralizzato, mentre realizzava di avere davanti agli occhi la visione di poco prima.

Lì, a pochi metri da lui, quelle mani cineree stavano delicatamente afferrando la sua sciarpa, riuscendo miracolosamente a non strapparla. 

Un volto pallido, noto, occhi serrati e un’espressione indecifrabile. Aveva il viso sollevato su di lui, ma non lo guardava.

Sembrava stesse dormendo nella più totale serenità.

Draco sbarrò gli occhi.

- Granger? -

 

 

Strinse il pugno, le unghie conficcate nella pelle, le nocche pallide.

Granger?

Inizialmente non gli era importato.

Non aveva reagito dopo averla vista davanti a sé, quasi incorporea, dominata da un sonno profondo. Da un’apparente infermità.

Si era limitato a fissarla, ammutolito, mentre le prendeva la sciarpa e la guardava allibito rivolgere di nuovo il volto verso il lago.

Il volto bianco come quello di un morto. Se fosse scesa la neve sulla sua pelle, sarebbe parsa carbone.

Il resto della notte l’aveva passato così; semplicemente a guardarla.

Lei se ne stava immobile con gli occhi costantemente chiusi, la bocca increspata dal pallido riflesso di un sorriso.

Si era maledetto, quando, istintivamente, l’aveva avvolta nel proprio mantello; non ci aveva nemmeno pensato, si era avvicinato a lei e l’aveva coperta con foga, per paura di vederla cadere morta sotto il peso congelato di quella notte.

Poi era retrocesso, turbato, e si era ancorato alla corteccia dell’albero alle sue spalle.

Tra le mani ancora quella sciarpa.

La notte seguente era tornato nel medesimo posto, umiliato dalla consapevolezza di starlo facendo per rivederla.

No. Voglio solo starmene da solo. Non c’è altro.

Constatare a metà tra lo stizzito e il sollevato che era lì. Sembrava non aver mosso un solo passo.

Sembrava fosse lì ad aspettarlo.

Appoggiarsi all’albero e tacere. Guardare. Inspirare.

Non aveva fatto altro per le tre notti seguenti. Poco a poco aveva capito di poterle stare a una distanza minima senza turbare il suo sonno perenne.

Notò cose a cui non aveva mai fatto caso.

Aveva la bocca costantemente screpolata. Un piccolo neo sulla parte destra del collo, quasi invisibile – per lui, che mai l’aveva guardata negli occhi a meno di un’intera sala di distanza, mai senza che tra loro ci fossero corridoi gremiti di gente -. Le ciglia lunghe, la fronte più ampia di quella che pensava.

Le mani sempre un po’ rigide, grandi e forti. Dita lunghe e affusolate.

Ai tiepidi spiragli dell’alba le poggiava una mano sulla spalla e la guidava fermamente verso il castello.

Sempre più stupore nel sentire quanto lei fosse docile e arrendevole al suo tocco. Lo seguiva, si affidava a lui, e questo era quanto.

Erano passate ormai quindici notti.

All’imbrunire, ogni volta, non c’era altro a cui pensasse se non a ciò che sarebbe venuto dopo.

Quando poteva fare a meno di luce, quando gli bastava osservare altro che non fosse una brillante distesa di abbagli.

Quando poteva fuggire in silenzio, legato ad altro che non fosse il pensiero di doversi svegliare, prima o poi.

L’aveva presa per mano, allarmato nel vederla addentrarsi nell’acqua.

- No. – Aveva sussurrato, con una dolcezza che ripugnava lui stesso.

Lei si era girata, se avesse avuto gli occhi aperti l’avrebbe guardato con fermezza. L’espressione era dura, implacabile. Draco dovette fare uno sforzo immane per trattenersi dallo strattonarla con forza.

Per vedere cosa c’era in quegli occhi, quando sembravano guardarlo anche da chiusi.

Per capire quanta rabbia sarebbe riuscito a farle provare, una volta destata dal suo sonno.

Per spiare in quei pozzi scuri che Dio solo sapeva quanto potevano adirarlo.

Inspirare, e osservarli dardeggiare confusi, per una volta.

Persi.

L’aveva portata con sé nella foresta, lontana dal lago e dall’acqua. Lei gli stava dietro.

Tra il fitto degli alberi si era fermato a guadarla, angosciato.

Perché era ancora lì? Perché lo seguiva? Cosa faceva tutte le notti? Che cosa aspettava, lì, immobile? Chi?

Aveva sorriso, esausto, nel constatare che lei era in vestaglia da notte. Particolari inutili che con il passare dei giorni prendevano il loro significato.

Le si era avvicinato, esitante, posandole le mani sui fianchi.

Lei, in un sospiro, aveva cominciato a girare su se stessa.

Dominante, passi su altari di pietra, cortecce bagnate sotto i palmi delle mani, corse estenuanti.

Guardare, assorto, respirare freneticamente, devastato dall’affanno, ma non scomporsi e continuare a guardare.

Le pupille dilatate, la fatica nel deglutire, il peso inspiegabile in mezzo al petto.

Un buco insondabile lì, poco più sotto la gola, a squarciargli l’anima in milioni di pezzi.

E guardarla girare, e girare, e girare.

Scacciò quel pensiero scomodo, una smorfia disgustata sul viso.

Improvvisamente si era fatto serio.

Per quanto potesse farlo sentire impotente, crudele, disgustoso.

Non riusciva, per ore e ore, ogni notte, a toglierle gli occhi di dosso.

Succedeva e succedeva, fino a quando, ingiusti, soggiungevano i primi segnali dell’alba. Quando la luce rivendica il proprio potere sulle tenebre, e non c’è sconforto che la impietosisca.

Quando, come ogni volta, si buttava su quella poltrona, e non prendeva sonno perché non c’era muscolo che glielo permettesse.

Pulsava tutto il suo corpo.

La mente più sveglia che mai, che lesta tentava di immagazzinare ogni ricordo della notte passata, con la consapevolezza che sarebbe potuta essere l’ultima.

Si alzò di scatto, nauseato.

Gli succedeva ogni volta, e ogni volta reagiva allo stesso modo.

Socchiuse gli occhi, realmente esausto.

Piegare lievemente la testa, sussurrare qualcosa di incomprensibile anche per se stesso, e fermarla.

Inspirare e assaporare il profumo del vento tra quei capelli, frustrazione ma anche soddisfazione nello stringerla in quella morsa dalla quale non poteva sottrarsi.

Incosciente.

Baciarle la fronte, prenderle la mano, guardarla mentre, come al solito, se ne stava in piedi davanti a lui, gli occhi chiusi e la bocca semiaperta.

E affondare di nuovo lo sguardo sul suo viso, premendole le labbra sul collo, le dita, le guance, le palpebre serrate.

Ancora frustrazione quando il pensiero constatava che quei baci, al risveglio, per lei non sarebbero stati che una remota sensazione.

Forse si sarebbe sentita sporca, strana, violata.

Forse.

Chissà cos’avrebbe visto, la mattina dopo, guardandosi allo specchio.

Chissà se sarebbe riuscita a scorgere tra lo scuro delle proprie pupille tracce del suo sguardo intenso, dei suoi abbracci, delle sue carezze, o anche solo della sua presenza.

Forse.

Era ancora troppo presto, ma sentiva l’esigenza di uscire fuori da lì. Tutti quei pensieri lo stavano facendo impazzire.

Si avvolse la sciarpa nera attorno al pallido collo, le mani fredde e la medesima espressione nervosa di poco prima.

Lasciarle la mano, con riluttanza, dopo averla scortata fino al suo Dormitorio. E guardarla allontanarsi, sempre avvolta da quel triste manto di incoscienza, salire le scale e scomparire dietro quella maledetta porta.

Quasi assordante il silenzio che seguiva quel momento, acuto e perforante.

Violento, lo accompagnava fino al maturare dell’alba, impedendogli di chiudere finalmente gli occhi per abbandonarsi a quello stato ormai così difficile da raggiungere, lontano da pensieri ricorrenti, immerso nel buio mentale.

Sonno profondo, una volta tanto.

E invece se ne stava lì seduto, senza fiatare, fissando inerme il cielo schiarirsi, cullato da quell’ossessionante immagine, sempre la stessa.

Si diresse verso la porta.

Poco più delle sette di mattina, si disse, distrattamente.

Chissà se, fuori, l’odore dell’erba era ancora inebriante, inondato di rugiada.

Bagnata.

Non aveva nemmeno più le forze per scuotere il capo.

Doveva decisamente smetterla.

Occhi vitrei, che guardavano ma non vedevano, mentre dentro di sé pensava solo agli alberi, alle corse, al fiato corto.

Vento tra i capelli, profumo di notte insonne, di nuovo.

Trasalire, mentre ancora una volta si sorprendeva a fissare insistentemente le nuvole.

E gli pareva di vederle girare, e girare, e girare.

 

 

He said to lose my life or lose my love,
That’s the nightmare I’ve been running from.
So let me hold you in my arms a while,
I was always careless as a child.

 

 

*

 

 

 

- Ricordati: solo una goccia prima di andare a dormire, non di più, a meno che tu non voglia svegliarti con la testa fatta a pezzi. -

- Ma certo. Farò attenzione. -

- Io lo uso da anni, ormai. È un antidoto molto comune, strano che tu non lo conosca. -

- Beh, non ne ho mai avuto bisogno, fino ad ora. Però ne avevo sentito parlare. -

- È molto efficace. Anche a me capitava, tempo fa, di fare strani sogni e svegliarmi con una sensazione di disagio. Ma è bastata una goccia di Polio al giorno per porre fine ai miei problemi. -

Hermione annuì, tentando di apparire convinta.

Si trattenne dal replicare, e anzi salutò Madama Chips, la fiala stretta in mano, allontanandosi dall’Infermeria.

Non poteva certo dirle che i suoi non erano strani sogni, e che la sensazione che provava appena sveglia, ogni maledetta mattina, era ben più che disagevole.

Assomigliava più al risveglio dopo un cammino eterno, alla mancanza d’aria dopo una scalata, al dolore sfiancante dopo una corsa cieca, a bocca aperta.

Nella sua testa c’erano confuse immagini che le si presentavano, fugaci e indecifrabili, non appena chiudeva gli occhi.

Non appena si rifugiava dietro al buio delle proprie palpebre.

No, decisamente, Madama Chips non aveva capito che cosa aveva cercato di dirle.

Si rigirò tra le mani la piccola ampollina celeste, assorta.

Il colore del sogno, non dell’incubo.

Sospirò, scoraggiata. D’altronde, però, non le restava altra scelta.

Perché l’incubo non ha colore.

Era ormai sera, e la testa le doleva troppo per permetterle di unirsi agli altri, nella Sala Grande. Rassegnata, s’incamminò verso il Dormitorio femminile Gryffindor, sentendo il peso dei libri aumentare passo dopo passo.

Si gettò sul letto, dolorante. Guardò l’orologio. Erano solo le nove.

Perché l’incubo è un vortice, e dentro vi è tutto e niente. Troppo, e mai abbastanza.

Gemette, contorcendosi sotto le lenzuola, nemmeno badò al mantello che si era dimenticata di togliersi.

Perché l’incubo non salda i debiti, non dà spiegazioni, e non ha colore.

No, non ha colore.

Calma, si disse, asciugandosi il sudore che le stava inondando la fronte.

L’ancora di una nave fantasma. Vele fradice sotto una  pioggia incessante, e, all’improvviso, illuminata da un lampo, l’immagine di una bandiera stracciata.

Sale sparso sulla prua e le onde a devastare, implacabili.

L’incubo che come un’ancora tiene stretto il terrore, si pianta e arresta ogni cosa.

Nave, viaggio, impresa.

Cuore.

Con uno sforzo estremo, afferrò la fiala che aveva appoggiato sul comodino. La fissò per qualche istante, prima di aprirla con quanta più fermezza le fu possibile.

Aprì la bocca, e, accuratamente, lasciò che una goccia le scivolasse sulla lingua.

Nonostante la porzione fosse minima, si stupì all’avvertire nitidamente il forte gusto dell’antidoto.

Sapeva di sale, ma subito notò un fastidioso retrogusto lattiginoso. Non era propriamente salato, in realtà non avrebbe saputo come descriverlo.

Lacrime.

Si distese di nuovo, chiudendo gli occhi.

Nel giro di pochi minuti, cominciò a sentire l’effetto. Si rilassò, le tempie smisero di pulsare, e persino il dolore alle gambe diminuì.

Roteò gli occhi, come nauseata da quel sapore salmastro che continuava ad invaderle la bocca, prima di chiuderli e cadere preda del dilagante buio racchiuso dietro le sue palpebre.

 

 

 

*

 

 

 

Inspirò piano, gli occhi socchiusi e il capo inclinato verso destra.

Come sempre, quando si ritrovava ad osservarla, in silenzio, durante il suo placido sonno.

Non mosse un passo verso di lei, rimase vicino alla finestra spalancata, la scopa stretta in mano – per spiccare il volo, se necessario. Per scomparire in un battito di ciglia se avesse respirato troppo forte, in un momento di trasporto, tanto da svegliarla - e il mantello ondeggiante sotto quella fresca brezza notturna.

Lei, per la prima volta da giorni e giorni – notti, si corresse, amaramente - , sembrava star dormendo tranquilla.

Ancora non sapeva se quel segno lo infastidisse o lo rassicurasse.

Non sapeva di cosa sognava quando non sognava di lui.

Quando, inconsapevolmente, camminava al suo fianco e ciecamente si lasciava guidare ovunque o in nessun luogo.

Quando, anche se ad occhi chiusi, era il suo viso che toccava, era la sua mano che stringeva, erano le sue spalle che cercava.

Lentamente e in silenzio, si avvicinò al suo volto. Deglutì a fatica, nell’oscurità, bloccato da quell’immagine vulnerabile, quasi da bambina.

L’incubo non ha forma, non ha discesa, non ha perché.

Non ha motivo, e se ce l’ha non lo si sa.

I polmoni pieni di altro che non fosse aria, da buttare fuori e riprendere, ansimante, per paura di morire così, privo di respiro.

Ritratto di una nave sommersa dalla nebbia.

E il mare è in bianco e nero, e niente è più sensato.

Ritratto di un vascello che ha già perso il colore. O forse mai l’ha avuto.

Nella mente l’odore quasi ubriacante della sua pelle, la freschezza delle sue mani.

Frustrante.

Spesso era arrivato a chiedersi quando aveva iniziato a coltivare una simile ossessione per quella ragazza.

Continuò a fissarla, accompagnando il suo sguardo da quel respiro profondo di chi assapora ogni cosa.

Gli occhi chiusi.

Erano le cinque del mattino e quella notte, per la prima volta, la passava al riparo dal vento e dalle stelle. Dalle foglie e dai tronchi d’albero, dal rumore sferzante delle corse in mezzo al verde.

Hermione Granger inspirava ed espirava con costanza, l’espressione serena e il corpo avvolto nelle coperte.

Incredibile sentire il peso di quei minuti, inspiegabilmente lunghi in confronto alle scorse ore notturne.

Disagio nel saperla addormentata sul serio. Ferma. Sdraiata.

Draco Malfoy inspirò a sua volta.

Violento in lui il desiderio di svegliarla e di urlarle in faccia la sua angoscia.

Il suo disgusto e la sua rabbia, per averla trovata addormentata per davvero.

Lontana da lui.

Dio, sarebbe impazzito.

Si avvicinò al suo letto in un silenzio inverosimile.

Sapere strisciare, all’occorrenza.

Socchiuse gli occhi, inginocchiandosi e scostando appena le tende.

Sorrise amaramente di fronte alla propria arroganza imperturbabile.

Anche in quel momento, avrebbe voluto solo attirarla a sé.

Sapere insinuare.

Sentì il suo respiro caldo, costante, e socchiuse gli occhi costringendosi a mantenere il controllo.

Quanto di più frustrante e infruttuoso fosse mai arrivato a concepire.

Lì, sotto i suoi occhi.

Quanto di più impossibile fosse mai arrivato a volere.

Poggiò le labbra sulle sue, lentamente, senza indugiare su quella bocca semiaperta più di quanto il suo stesso ritegno gli concedesse di fare.

Quante volte aveva abusato di qualcosa, in vita sua. Di qualcuno.

Si odiava, ora, per oscurare quella parte di sé. Per dimenticarla, quasi vergognato di essa.

Per smentirla, e per chi?

I capelli chiari le sfiorarono appena la fronte, e lui rimase immobile curvato su di lei ad osservare quel contatto minimo, trattenendo il fiato.

Qualcuno che rideva di lui e di cui lui rideva a sua volta.

Consapevolezza che rasentava il patetico.

Si rialzò con durezza, avviandosi alla finestra e volgendo lo sguardo al cielo già più chiaro di poco prima.

Era una notte senza vento.

Di nuovo quel sorriso amaro, pesante, che gli costava esibire anche solo per se stesso, mentre in silenzio com’era venuto, scompariva dalla stanza.

Era una notte senza vento.

 

 

I said I’ve got no time I have to go,
And I was more right then now I’ll ever know.
He said my heart is faint, will minds regret,
And left him crying next to the chapels steps.

 

 

 

*

 

 

 

- Caspita, Herm. Sembri un’altra persona. -

Hermione alzò gli occhi al cielo davanti all’espressione basita di Ron, versandosi del succo di zucca nella tazza.

- Merito di Madama Chips. Non fosse stato per lei sembrerei ancora la copia al femminile del Barone Sanguinario. – Gli rispose, esibendo una smorfia disgustata.

Quello fece spallucce. – L’ho sempre detto che quella donna è un genio. Voglio dire, fino a ieri gironzolavi per la scuola come uno spettro. Due goccette di Porio… -

- Polio, Ronald. –

- Sì, insomma, hai capito. – Bofonchiò lui con un gesto spiccio. – Dicevo, due gocce di Polio e si è risolto tutto. Aspetta, c’è Harry, vediamo se lo nota anche lui! -

Hermione non disse nulla, si limitò a bere sommessamente il suo succo.

Quella mattina si era svegliata e le era parso di rinascere. La cosa strana era che non aveva ancora capito bene in che modo quella pozione avesse agito sul suo disturbo.

In fin dei conti la sua non era insonnia, nemmeno lei era in grado di descrivere ciò che aveva provato per tutto quel tempo, nel sonno.

Una sorta di benessere e malinconia. Di irrealtà.

Ad ogni risveglio, per un infinitesimale secondo, aveva in mente la nitida immagine di ciò che le pareva di aver appena sognato, ma subito dopo tutto svaniva, e non le restavano che acuti dolori su tutto il corpo.

Tutto sfumava in rabbia e impotenza.

Durante la giornata veniva assalita da sprazzi di vaghi ricordi e impressioni, ma nulla aldilà della sensazione. Del dubbio.

Quando, quella mattina, aveva spalancato gli occhi e si era resa conto di non serbare altro se non un genuino senso di assopimento, si era a stento trattenuta dall’urlare di gioia.

- Cavolo. Bentornata tra i vivi, Hermione. – Le sorrise Harry prendendo posto accanto all’amico e rivolgendole il solito sguardo affettuoso.

Lei ricambiò il sorriso. – Grazie. Spero di restarci almeno fino alla fine dei M.A.G.O. – Disse poi in un lamento, senza un filo di speranza.

- Ma si è poi capito cos’è che avevi? – Le chiese Ron, aggrottando le sopracciglia.

Hermione sospirò, scrollando le spalle. – Stamattina sono passata da Madama Chips per ringraziarla e per chiederle spiegazioni più accurate. Lei mi ha detto che spesso questo tipo di antidoti fanno effetto anche sulle persone sonnambule. –

I due ragazzi la fissarono a bocca aperta.

- Sonnambule? – Dissero poi, al contempo. – Herm, per i baffi di Merlino, questa è buona! – Esclamò Ron dando una pacca sulla spalla all’amico, che tossì fuori mezzo polmone, oltre che una buona parte del porridge.

- Sì, lo so, sembra assurdo anche a me. Ma solo così si spiegherebbe il dolore tremendo e la stanchezza. Insomma, da ormai due settimane mi svegliavo e avevo l’impressione di aver scalato una montagna a piedi nudi. – Rispose lei, stizzita.

Non esagerava; il disagio provato ogni singola mattina da quasi un mese a quella parte le era stato fatale. Persino lo studio, che era riuscito a non risentirne in innumerevoli altre occasioni, aveva avuto un collasso.

E, come tutti sapevano, per Hermione Granger un Oltre Ogni Previsione in Storia della Magia rappresentava un vero e proprio lutto psicologico.

Lo sbuffare di Ron alla vista degli orari scolastici fu velocemente sovrastato da un trillo a dir poco estatico alle sue spalle.

Lavanda era comparsa dal nulla, esibendo un sorrisetto soddisfatto e un’espressione decisamente eccitata.

- Hermionemioddiodeviraccontarmiassolutamentetuttoquellocheèsuccessostanotte. -

Quella sbatté velocemente le palpebre, aggrottando le sopracciglia. – Prego? – Scandì, con la massima riluttanza.

Lavanda si sedette al suo fianco e le rivolse uno sguardo rapito che le parve un tantino esagerato.

Poi le si avvicinò maggiormente, arrivando quasi a sfiorarle il naso col proprio.

- Ti prego dimmelo, lo giuro, lo giuro che non ne parlerò ad anima viva! – Sussurrò, reprimendo a stento l’impazienza. Hermione alzò un sopracciglio, glaciale.

- Lavanda, non ho la più remota idea di ciò di cui mi stai parlando. – Le rispose secca.

Quella inspirò, fissandola con enorme disappunto. – Guarda che non ti serve a nulla fare la finta tonta. Ormai lo sappiamo tutte. - 

Harry e Ron, davanti a loro, avevano preso a fissarle con insistenza.

- Herm? – Chiese il secondo, lentamente. – Ma che succede? -

Lei rivolse alla ragazza un’occhiata sprezzante, prima di rispondergli acidamente. – Come ho già detto, non ne ho idea. Ma pare che Lavanda e gran parte del resto del corpo studentesco sì, a questo punto non ti resta che chiedere lumi a loro. -

Lavanda la fissò a bocca aperta. – Ma stai scherzando? – Balbettò poi, esterrefatta.

Hermione inspirò profondamente. Stava cominciando a spazientirsi sul serio.

- Senti, ho passato una pessima settimana. Questa mattina era inaspettatamente iniziata nel migliore dei modi, se sei venuta qui a riportarmi alla dura realtà, ti prego di farlo almeno dopo pranzo. Ora come ora stai mettendo a dura prova la mia sopportazione. -

L’altra sbatté lentamente le palpebre, guardandola come se le avesse parlato in turco. – Non ci posso credere. Davvero non sai niente? Cioè, era sul tuo letto e tu non ne sai niente? – La strattonò con forza.

Hermione non ebbe nemmeno il tempo di risponderle a tono; Harry s’intromise con voce secca. – Insomma, Lavanda. Hermione è stata malata per due settimane, non è proprio il momento di assalirla con i soliti pettegolezzi. Vuoi dirci cos’è successo? -

La ragazza deglutì, guardando i tre con una lentezza quasi patetica. Poi parlò cercando di dare al proprio tono una vena di dispiacere, ottenendo risultati pietosi visto che ne scaturiva solo un puro e inconfondibile compiacimento.

- Stamattina io e Calì siamo uscite dalla camera per ultime, e beh… così, per caso, abbiamo notato che ai bordi del tuo letto c’era una sciarpa bianca. – Tacque, squadrandoli con un turbamento in viso assai poco convincente.

La trucidità con cui Hermione aveva preso a fissarla avrebbe potuto tranquillamente polverizzata da un momento all’altro. Lavanda, ovviamente.

– Sì. – Masticò. – La mia sciarpa bianca che ho tutto il diritto di appoggiare sul mio letto ogniqualvolta ne abbia voglia. Complimenti per essere riuscita a tirare su un polverone per un’ovvietà del genere. Non credo che al tuo posto sarei riuscita a fare di meglio. –

Lavanda boccheggiò, indignata. – Non quella stupida sciarpa! – Esclamò poi, quasi come se qualcuno l’avesse offesa. Poi alzò gli occhi al cielo, esasperata.

- Sto parlando di una sciarpa che porta le iniziali D e M in argento. – Disse, e pareva seria. – Sembra proprio che tu non ne sappia nulla. Ad ogni modo stamattina ti ho vista vestirti in fretta e furia e in un primo momento ho pensato che l’avessi ignorata. Invece non l’avevi proprio vista. – Sospirò, estraendo qualcosa dalla propria borsa e porgendoglielo.

Hermione prese la candida sciarpa bianca in mano, senza fiatare.

DM.

Lavanda scrollò le spalle. – A questo punto, è ovvio che lui ha sprecato il suo tempo. – Poi scosse il capo, amareggiata, prima di girarsi e rivolgere un’espressione scoraggiata a Calì, che si trovava dall’altra parte del tavolo. Quella a sua volta diede il via a una catena allarmante di scosse di capo.

Ron e Harry rivolsero di nuovo l’attenzione su Hermione, che intanto stava fissando con gli occhi sbarrati la sciarpa.

- Herm? – Chiese Ron debolmente. – Ma che…? -

- Scusate. Ci vediamo dopo. -

Si alzò, incurante delle occhiate stranite dei due, e si avviò verso il portone della Sala Grande.

DM.

Uscì, e il suo camminare deciso divenne una corsa veloce.

Maledetto.

Svoltò un angolo e percorse tutto il corridoio. Quando arrivò in fondo rallentò, sebbene di poco, l’espressione livida.

Davanti a sé un ragazzo le stava dando le spalle, rivolto verso la grande finestra.

Quando gli fu a pochi metri di distanza, si arrestò.

- Malfoy. -

 

 

 

Let’s grow old together,
And die at the same time.
Let’s grow old together,
And die at the same time.

 

 

 

- Malfoy. -

Non si era voltato immediatamente.

Aveva aspettato che quella parola aleggiasse nell’aria per qualche istante in tutto il suo disprezzo. Aveva atteso quel particolare momento in cui il fiato corto che si sentiva alle spalle fosse degenerato in semplice e palese impazienza.

Aveva deglutito e sbattuto velocemente le palpebre guardando il cielo fuori dalla finestra, eppure non vedendolo.

Infine, con meditata lentezza, si era voltato.

Hermione Granger lo stava fissando altera, il mento al solito sollevato con arroganza, la postura eretta, gli occhi glaciali, il viso pallido, i pugni stretti.

No.

Non proprio.

Nel pugno destro, qualcosa di bianco e familiare.

Oh.

Nemmeno un guizzo nella sua espressione, mentre le restituiva lo sguardo e inarcava un sopracciglio con molta discrezione. – Granger. – Affermò.

Bene, si erano presentati. Era già qualcosa.

Quella non disse nulla, si limitò a sollevare la mano destra, prendendo tra due dita ciò che un istante prima aveva tenuto stretto fino quasi a strapparlo.

Draco si poggiò contro il muro, il capo leggermente indietro e gli occhi sempre fissi su di lei, solo un po’ stanchi.

- Spiegati. -

Fredda, imperturbabile, non aveva nemmeno perso tempo a porgli domande. Non aveva minuti da regalare in giro, tanto meno a lui. Si aspettava perciò che collaborasse e parlasse, in fretta possibilmente, così da poterle permettere l’assunzione del solito cipiglio disgustato e magari, perché no, anche una bella crisi isterica.

Il tutto nel giro di un minuto e mezzo, ovviamente.

C’erano cose a cui Hermione Granger aveva smesso di prestare la minima attenzione.

Malfoy, col tempo, era rientrato in quelle cose. Non s’indignava, non rispondeva alle sue provocazioni, non lo guardava neppure.

Da quasi due anni, Hermione Granger e Draco Malfoy non si rivolgevano la parola.

Nessun insulto. Nessuna battuta. Nessuna provocazione. Nessuna discussione. Nessun colpo basso.

Niente.

E ora era lì, di fronte a lui, a chiamarlo per cognome e a pretendere che lui si spiegasse. Che la illuminasse.

La cosa aveva un che di irritante, pensò.

Umiliante.

Si rivolse a lei con egual freddezza. – È una sciarpa. – Decretò, senza distogliere lo sguardo dal suo. – Ecco, risolto il mistero. Potevi risparmiarti la fatica di venire fin qui: persino Fotter e Weasgay, che stanno alla logica come quel deficiente di Hagrid sta alla decenza, ci sarebbero potuti arrivare. Forse. –

Tacque poi, massaggiandosi le tempie.

Era stanco. C’erano momenti in cui non avrebbe avuto bisogno di nulla al di fuori di un letto su cui gettarsi, abbandonarsi e dormire.

Dormire per davvero.

No, non era stanco. Era esausto.

Lei appiattì le labbra e per un momento gli parve di vederla arrossire. La sua espressione restò però di ghiaccio. – Complimenti per aver rivendicato i tuoi diritti sulla vasta gamma di insulti a marchio Malfoy, non vedevo l’ora. – Osservò, tagliente. – Immagino che oltre all’innata propensione all’offendere gratuitamente, tu sia in grado di leggere. – Piegò la sciarpa in modo da rendere evidenti due iniziali argentate.

DM.

Draco le guardò, totalmente inespressivo.

Era esausto e imperdonabilmente stupido.

- Questa si trovava nel mio dormitorio, questa mattina. Ed era appoggiato sul mio letto. -

Draco non mancò di notare quanto il suo disgusto, in quella breve frase, si fosse accentuato.

Umiliante, ancora una volta.

- Stai offendendo la tua intelligenza, Granger, ammesso che non sia già stata sostituita da tempo con un massiccio concentrato di boriosità. Ci sono centinaia di persone, in questa scuola, con quelle iniziali. Credi davvero che due lettere in argento possano indurmi a inginocchiarmi ai tuoi piedi e a supplicarti perdono? – Soffiò, con ingannevole calma. Lei strinse il pugno sinistro, e Draco seguì quel gesto con manifestata ilarità.

- Questa sciarpa è tua, Malfoy. – Sibilò lei, la voce bassa ma furente. – Lo sanno tutti. Solo tu sei così egocentrico da girare con qualcosa del genere, inoltre mi è stato confermato da parecchi. – Completò la frase con un che di infantile che per poco non lo fecero scoppiare a ridere.

Scosse il capo, amaramente.

Quanto gli era riuscito naturale tenerla per sé, nel silenzio, alla sola presenza del buio e del vento incessante.

Quanto gli era costato vederla, la notte precedente, e doversene andare per la prima volta senza di lei, ancor prima degli albori.

Quanto gli era costato.

E ora quanto lo amareggiava dover fare i conti con la sua persona sveglia, combattiva, quasi ridicola nella propria alterigia.

Quanto lo ripugnava.

- Ti è stato confermato da parecchi. – Ripeté, il tono cantilenante. – Hai aperto un’inchiesta? Mi hai messo i tuoi amici leccapiedi alle calcagna? – Rise, e nella sua risata non c’era la più remota traccia di divertimento.

Hermione lo fissava impassibile, le labbra più appiattite che mai. – No. – Rispose soltanto. – Ho usato il buon senso. E la memoria. – Aggiunse, non senza una certa vergogna.

Draco la guardò, e nei suoi occhi prese a brillare qualcosa che sicuramente lei non fece nemmeno in tempo a notare, prima che sparisse in fretta com’era comparsa.

- Dove hai visto quella sciarpa prima d’ora, Granger? – Le chiese, la voce come intinta in un vaso di miele.

Miele e aceto.

- Dove? – Ripeté, ancor più sottovoce.

Le era a poco meno di un soffio.

Lei non si era ancora scostata e lui aveva la sensazione che non l’avesse fatto solo per sfidarlo.

Sciocca.

 

 

And there’s a part of me that still believes,
My soul will soar above the trees.
But a desperate fear flows through my blood,
That our dead loves buried beneath the mud.

 

 

- Dove hai visto quella sciarpa prima d’ora, Granger? –

Hermione aggrottò impercettibilmente le sopracciglia.

- Dove? -

Non distavano nemmeno una manciata di sospiri, e lei non avrebbe mai saputo dire quanto quella vicinanza la nauseasse e la disgustasse.

Una parte remota della sua mente le indicò quanto il suo odore le fosse familiare, ma lei era troppo occupata a sostenere il suo sguardo penetrante per pensare ad altro. Indietreggiò di due passi, senza smettere di fissarlo.

Dove?

Che razza di domanda era? Tutti l’avevano visto con quella sciarpa, era una specie di cimelio che si portava dietro da una vita, convinto che le proprie iniziali su un pezzo di stoffa potessero attribuire alla sua persona uno spessore che la gente non si prestava certo a dargli.

Incatenata al suo collo, quasi confondibile con il pallore della sua pelle che attirava molte ma che su di lei aveva tutt’altro effetto.

Quel bianco che non aveva nulla di lunare, di mistico.

Quel bianco malato.

Aprì la bocca per ribattere, quando improvvisamente si accorse che lui le aveva afferrato il braccio. 

- Lasciami. – Ordinò, la voce involontariamente stridula. Lui non accennò a farlo, e lei dovette radunare tutto il suo autocontrollo per non schiantarlo lì, in mezzo al Corridoio, e lasciarsi indietro lui e la sua risata fredda, quasi inumana.

- Ti ho detto di lasc… - Aveva tentato di divincolarsi, esibendo il solito tono imperativo, ma la voce le morì in gola ancor prima di finire la frase.

Dove hai visto quella sciarpa prima d’ora, Granger?

Hermione sgranò gli occhi.

Una remota luce soffusa dietro le palpebre serrate; nulla di concreto, di realmente visto e contemplato, solo un senso di spossatezza e il freddo inaudito di quel vento autunnale.

Le mani ghiacciate poco prima di stringere qualcosa di soffice e tiepido, prima di afferrarlo e memorizzarne la morbidezza, il candore.

Affidarlo ad altre mani altrettanto fredde, e rivolgersi di nuovo verso quel pallore lontano.

Sentirsi in balia di quel vento per un tempo infinito, prima di venire coperta e riscaldata, sfiorata appena dalle medesime dita congelate di poco prima.

Lasciò cadere in terra la sciarpa, respirando a stento.

La mano di Malfoy era ancora stretta attorno al suo polso, e poteva sentirne la cadaverica freddezza.

Non lo guardava più, mentre sentiva il sangue nelle vene gelarsi.

Passi veloci, uno dietro l’altro, su terra bagnata e foglie secche. Respirare l’aria notturna e assorbirne l’acerbità, quella fresca ebbrezza che racchiudono le ultime ore prima dell’alba.

Sentire una presenza al proprio fianco ed essere sicura di non cadere nel vuoto; essere presa per mano e portata chissà dove, girare su se stessa senza accorgersi del passare degli istanti, dei minuti, delle ore.

Delle notti.

Affidarsi a braccia sconosciute senza poter far altro e forse da un lato sollevata per non poter scegliere. La turbolenta sensazione di essere in un sogno accecato e di muoversi su nuvole di pietra, di fare passi avanti ma di non avanzare realmente, di avvertire la pioggia ma di non sentirne per davvero il secco contatto sulla sua pelle.

Sentire di essere baciata e capirlo per metà, mentre da un lato vi è solo il pensiero di labbra fresche, e dall’altro l’impulso di fuggire. Sottostare ad abbracci e corse sfrenate senza reagire, restare in dormiveglia e non capire se lo si vuole o no.

Svegliarsi la mattina e maledirsi per aver sognato, pur non ricordandosi che cosa, e gemere per quei dolori diffusi in tutto il corpo.

Segni confusi e ottenebrati da un sonno che cammina.

Mettere a fuoco il proprio dormitorio, e con sgomento rendersi conto di vederlo girare, e girare, e girare.

 

 

- Non posso assicurarti che si trattasse di sonnambulismo, signorina Granger, tuttavia viste le tue impressioni e i tuoi disagi, non dovrebbe essere altrimenti. -

- Ma è possibile risalire a ciò che ho fatto durante quel periodo? Voglio dire, c’è un modo per sapere che cosa mi è accaduto, ogni notte, per quasi due settimane? – Aveva chiesto, senza trattenere l’angoscia.

Madama Chips l’aveva guardata con rammarico, addolcendo i tratti del viso con un sorriso mesto. – Non posso saperlo, signorina Granger. Certo, potresti ricorrere a migliaia di antidoti e forse riusciresti anche a risalire alla causa del suo malessere, ma non lo sapresti mai con certezza. Ciò che la mente elabora durante il sonno è invalicabile persino dalla magia. Non puoi che sperare in un aiuto della memoria, in una reminescenza, ecco. -

- Pensa che potrebbe accadere? – Aveva chiesto, speranzosa.

Madama Chips aveva annuito, sebbene non troppo convinta. – Sì, potrebbe, in qualsiasi momento. Ma non ci conterei molto, fossi in te. -

 

 

Indietreggiò, tremante, gli occhi sbarrati.

DM.

Si portò una mano alla bocca, improvvisamente senza respiro.

- Dove hai visto quella sciarpa prima d’ora, Granger? -

DM.

Dove?

Lo fissò, e si stupì nel vederlo ugualmente turbato.

L’aveva tenuta in mano e odorata. L’aveva stretta a sé.

Con le dita aveva ricalcato le due iniziali, inconsciamente, silenziosamente.

- Vattene. -

Un nodo alla gola quando si rese conto che lui le aveva parlato con distacco e si era voltato a guardare il cielo grigio.

 

 

 

Let’s grow old together

And die at the same time

Let’s grow old together

And die at the same time

 

 

 

Si era voltato ad osservare le nuvole cariche di pioggia che avevano cominciato a riversarsi sul vasto prato.

Le aveva detto di andarsene perché non aveva nulla da dire e nulla da sentire.

Le aveva detto di andarsene perché gli bastava il suo, di turbamento.

Le aveva detto di andarsene perché sapeva che lui non ne sarebbe stato in grado.

Ancorato al suolo, pietrificato.

- Dimmi che non eri tu. -

Draco esercitò su se stesso uno sforzo immane per impedirsi di voltarsi ad abbracciarla, con rabbia e foga, a costo di spezzarle le ossa.

Dimmi che non eri tu.

Aveva parlato con voce rotta, supplichevole; non c’era traccia di alterigia in quella domanda posta a metà, non c’era acidità o ripugnanza.

Lei lo stava supplicando di mentire perché avrebbe preferito morire anziché sapere di aver passato intere notti tra le sue braccia.

Voleva che mentisse perché le sue convinzioni non crollassero, una dopo l’altra, ai suoi piedi.

Voleva che mentisse perché era orgogliosa, e lui, dopotutto, non poteva darle torto.

Inspirò piano, senza voltarsi a guardarla e tuttavia percependo tutto il suo strazio.

Quando tutto l’intelletto del mondo non basta a fermare qualcosa che sta al di fuori di un libro, di una lezione impartita.

Muri da non abbattere per non far crollare qualcosa di più grande.

Fare i conti con il sacrificabile e tenersi stretto il resto, perché l’orgoglio è più importante, è… dannatamente vitale.

Fermarsi con orrore alla vista di due dannate iniziali e chiedere spiegazioni, chiudersi in una patetica caccia alla logica e rimanere delusi.

Rimanere delusi perché per una volta, non c’era nulla da prevedere.

Per una volta, era qualcun altro a sapere quel qualcosa in più.

Draco si voltò e la raggiunse, mentre di nuovo lei lo guardava come se avesse voluto fare mille passi indietro e scappare via.

Non importava.

Ancorò gli occhi ai suoi, l’espressione apparentemente neutra e il viso rilassato.

Muscoli tesi e denti stretti.

Si avvicinò alla sua bocca, socchiudendo le palpebre e avvertendo il corpo di lei irrigidirsi.

Restò lì, immobile, a una distanza minima da lei, a un soffio dalle sue labbra.

Continuava a fissarla mentre una mano le afferrava di nuovo il polso, questa volta con maggior delicatezza.

Distolse finalmente lo sguardo, mentre si avvicinava al suo orecchio, sfiorandole appena una guancia.

- Non sarò mai più lontano da te più di quanto non sia già stato. – Sussurrò, per poi aggiungere, in un sospiro - No. Non ero io. -

Lasciò la stretta, allontanandosi da lei e oltrepassandola.

Non ero io.

Aveva ancora gli occhi torbidi, mentre svoltava un angolo e la lasciava sola alle spalle, probabilmente ancora immobile e angosciata.

Toccarla, sussurrarle all’orecchio e sentire il tepore della sua guancia.

Discese le scale con misurata lentezza, guardando avanti con risolutezza.

Mentire spudoratamente per poi ingannare a gesti.

Dopotutto, era pur sempre Draco Malfoy.

Uscì, ben consapevole che quelle nuvole non avrebbero portato altro che pioggia. Sull’erba fresca, sulle pietre, la terra, le foglie, gli alberi, le strade e il lago.

Il lago.

Fuori non c’era nessuno, in quella aspra mattina autunnale, mentre l’acqua cominciava a scendere velocemente.

Aspirò quell’aria pura e si appoggiò all’albero che ormai da settimane lo sorreggeva, che fosse notte o che fosse giorno.

Non sarò mai più lontano da te più di quanto non sia già stato.

Il lago era increspato dalle violente gocce d’acqua, mentre Draco sentiva di starsi bagnando e sapeva di non starci prestando attenzione.

Se c’era qualcosa che era sempre riuscito a fare, era mantenere le promesse.

Chiuse gli occhi, il capo all’indietro.

Aggrappandosi al caso, alla speranza e all’illusione, ma ci era sempre riuscito.

Un tuono in lontananza, prima di scivolare giù e sedersi sulle radici dell’albero e avvertire un vago sentore di nausea, mentre tutto intorno a lui prendeva a vorticare.

Non le era stato lontano più di un abbraccio, e lei lo sapeva.

E, in quelle notti, non c’erano stati sguardi che non destinasse a lei.

Sapeva anche quello.

Prendeva a girare, e girare, e girare.

 

 

He said to lose my life or lose my love,
That’s the nightmare I’ve been running from.
So let me hold you in my arms a while,
I was always careless as a child.

So let me hold you in my arms a while,
I was always careless as a child.
And there’s a part of me that still believes,
My soul will soar above the trees.
But a desperate fear flows through my blood,
That our dead loves buried beneath the mud.

Let’s grow old together,
And die at the same time.
Let’s grow old together,
And die at the same time.

I said I’ve got no time I have to go,
And I was more right then now I’ll ever know.
He said my heart is faint, will minds regret,
And left him crying next to the chapels steps.

Let’s grow old together,
And die at the same time.
Let’s grow old together,
And die at the same time.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Per una volta, e lo dico sul serio, non mi stupirei se un mio scritto rimanesse senza commenti.

Whirled è, infatti, anche dal mio punto di vista, piuttosto complesso.

Rileggendo alcune parti ho alzato gli occhi al cielo, chiedendomi se fosse proprio necessario essere così assurdamente criptica, e soprattutto chiedendomi perché avessi voluto affrontare un argomento simile.

Se devo rispondere sinceramente, non ne ho la più pallida idea.

Da tempo volevo scrivere una nuova Draco/Hermione, ma le idee, ahimè, scarseggiavano, e il tempo pure.

Alla fine, senza pensarci troppo, è uscito fuori Whirled, e devo dire di esserne piuttosto soddisfatta.

Inizialmente era partito come il racconto di un sogno ricorrente da parte di Hermione, solo in seguito ho deciso di farla diventare una vera e propria vicenda, prendendo in mezzo un suo ipotetico sonnambulismo.

Il fatto che Draco sia ossessionato da lei non è cosa nuova; l’elemento introdotto, tra l’altro ripreso anche dal titolo, è proprio questo vorticare continuo tra quasi sogno e momenti reali, quel senso di spossamento da parte di Hermione una volta svegliata, al mattino.

L’impressione di esser stata fatta girare su se stessa, per quanto è esausta e confusa.

Ribadisco: lo so, sono assolutamente incapace di scrivere qualcosa che non includa il costante intervento di un vocabolario o di un esperto di geroglifici, ma abbiate pazienza, posso farci poco e nulla arrivati a questo punto.

Chi capirà e vorrà farmelo sapere, sarà accolto gloriosamente – beh, più o meno – e ricoperto di onori e doni divini – anche qui, prendetela filosoficamente, per carità -.

Chi non ci capirà una sacrosanta acca, beh… sopravvivrà tranquillamente, senza contare che se ne andrà a dormire con la testa a posto e meno paranoie di quante già non abbia. Fico, eh?

Scherzi a parte, spero che questo mio ultimo “sputacchino”, come lo chiamerebbe una mia conoscente a caso il cui nome non ho intenzione di dire – Francesca Gaudino, Via Paolo Fabbri 14. Cara anch’io ti voglio bene -, venga almeno parzialmente apprezzato.

Non posso dire di averci sudato sopra o di averci lavorato chissà quanto, però l’impegno c’è stato.

E la voglia, proprio tutta tutta tuttissima. Almeno quella, direte voi, giustamente.

Eeeeeeeeeeeeeeeeeeeebbbbeh.

Grazie e a presto, G.U.P. (Gentile Utenza Perditempo).

 

Janet.

 

P.S.: Dimenticavo. La canzone è dei White Lies, e s’intitola To Lose my life”.

Ha un testo per me molto significativo, e anche il pezzo è veramente bello.

Consiglio a tutti di ascoltarlo.

 

 

 

 

  
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