Birthday
Attenzione! Spoiler
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Ti
regalo un sogno
Aveva
fatto irruzione nel suo
ufficio come suo solito senza bussare, sfoggiando una maschera
incazzata che
indossava sempre già di prima mattina.
‹‹Buongiorno››
aveva esordito Erwin,
annoiato davanti ad una pila di fogli, col gomito appoggiato alla
scrivania e la
testa che ciondolava in avanti. Se Levi avesse dovuto ringraziare per
qualcosa sarebbe
stato per la cortesia che gli aveva fatto Erwin di risparmiargli quella
tortura. Sottomettere i mocciosi era sicuramente più
appagante e meno noioso
che scartabellare documenti per tutto il santo giorno.
‹‹Buongiorno
un cazzo›› aveva
ringhiato a denti stretti, lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia
con la
speranza di catturare così la attenzione del Comandante.
Se
quei dannati occhi si fossero
degnati di sollevarsi e incrociare i suoi, anche solo per un istante,
avrebbero
visto la rabbia che covava in segreto da giorni, il desiderio di
rompergli sul
serio quelle gambe e, perché no, magari amputargli anche
l’altro braccio. Se
Erwin avesse alzato gli occhi, invece di guardare quei maledetti fogli
e avesse
guardato lui – una volta, una
soltanto
- si sarebbe reso conto della cazzata che stava per fare. Invece teneva
lo
sguardo basso, come se quella rabbia potesse leggerla su quei fogli,
confusa
tra le righe d’inchiostro.
‹‹I
mocciosi sono impazienti›› aveva
tagliato corto, assottigliando lo sguardo.
‹‹Di
fare cosa?›› Erwin si era
abbandonato lungo lo schienale massaggiandosi la radice del naso,
accrescendo così
il suo nervosismo già ben oltre il limite di sopportazione.
‹‹Di
morire, immagino, visto che
tra un paio di giorni partiremo per Shingashina. O te ne sei forse
dimenticato?›› aveva esultato in silenzio
perché ora aveva la sua più completa
attenzione, ma il sorriso interiore si spense quando lo sguardo stanco
di Erwin
aveva incrociato il suo.
Dal
cortile giungevano gli
schiamazzi dei soldati appena scesi dalle brande che si apprestavano a
completare gli ultimi preparativi prima della partenza. Poteva sentire
le loro fastidiose
risate, forse le ultime che avrebbero riscaldato le pareti della
caserma,
facendolo incazzare non più di quanto facesse Erwin
semplicemente restando in
silenzio.
Parlava
molto, il Comandante, snocciolando
paroloni da aristocratico che molto spesso faticava a comprendere;
un’altra
delle sue tecniche da psicotico, aveva capito col tempo, per camuffarsi
e rovesciare
sul mondo una valanga di stronzate per nascondersi ai suoi occhi.
‹‹Lo
so...›› aveva risposto dopo
un lungo sospiro, distogliendo lo sguardo liquido e troppo stanco anche
solo di
leggere quelle cazzate.
Ed
eccolo lì.
Non
il Comandante.
Non
Erwin Smith.
Semplicemente
Erwin. E basta.
Nei
rari momenti in cui
dismetteva l’uniforme e teneva la bocca chiusa, si lasciava
andare a lunghi sospiri
con cui sembrava liberarsi dei sensi di colpa e del peso di quelle
scelte che
gli avevano sporcato la coscienza; di quell’aria, infetta e
nauseante, che
bruciava i polmoni e lo faceva camminare a schiena dritta. Si gonfiava
come un
pallone, galleggiando tra quelle teste troppo ottuse e troppo stupide
per
capire, ammirare e amare un uomo come lui; che non conoscevano il
prezzo di
stare lì, in cima, a guardare oltre quelle nuvole di
ignoranza in cui quelle
teste gravitavano e oltre cui Erwin si ergeva a guardare per loro; e lo
faceva
sanguinando in silenzio, martoriato, umiliato, deriso da quegli idioti
che non
sarebbero mai stati in grado di vedere oltre il proprio naso e vedere
lui.
Soltanto lui.
Ora,
invece, stava con le spalle
ricurve, sorreggendosi la fronte con l’unica mano rimastagli.
Eccolo,
il vero Erwin: un uomo
stanco e schifato da quell’aria malsana che era costretto a
respirare e che
tuttavia lo teneva in piedi. Stanco di un mondo e di un sogno che lo
stava
consumando, strappandogli via quel poco che di bello c’era
ancora e che era
riuscito a vedere persino lui, Levi, che in quella vita aveva solo
conosciuto
la rassegnazione di essere sempre il solo a tornare.
Guardandolo,
Levi aveva capito
che non sarebbe bastata una vita intera per conoscere Erwin Smith,
figuriamoci
cosa potevano significare sei anni a confronto.
Eppure,
non riusciva ad
allontanare il pensiero che per lui avevano significato e continuavano
a
significare ogni cosa.
‹‹Scommetto
che non hai dormito
per un cazzo›› lo aveva apostrofato.
Erwin
si era riscosso mentre un
sorriso amaro era comparso sul volto.
‹‹No.
Non molto, direi››
‹‹Beh,
dovresti… Sembri un
cadavere.››
‹‹Molto
gentile da parte tua
preoccuparti per me››
‹‹Risparmiami
le tue galanterie e
fatti una cazzo di dormita›› aveva risposto
sbrigativo allontanandosi dalla
sedia. A passo svelto aveva aggirato la scrivania piantandosi davanti a
lui.
Era
stufo marcio di quella
situazione. Stufo di ripetergli di fermarsi una buona volta e stare a
guardare
invece di buttarsi nella mischia.
Erwin
aveva alzato lo sguardo,
sfinito anche lui da quel ripetersi all’infinito della stessa
questione. A Levi
non andava giù e lui, semplicemente, non sapeva che farci.
‹‹Perché
non riesci ad accettare
che sei stanco, Erwin? Perché non puoi startene seduto su
una cazzo di sedia e
restarci tutto il giorno mentre noi andiamo a riprenderci il Wall
Maria?››
Sempre
le stesse domande.
‹‹Perché
è giusto così, Levi. Te
l’ho già spiegato.››
Sempre
le stesse risposte.
C’era
tanta stanchezza nel suo
tono di voce ma gli occhi di Levi bruciavano, letteralmente, ogni sua
difesa,
ogni suo tentativo inutile di rimandare la questione.
‹‹Ah
per quella stronzata del
sogno! Ma certo! Vai a farti sbranare dal primo titano che passa solo
per
aprire una maledetta porta!››
‹‹E’
molto di più di una semplice
porta. Lo sai anche tu››
‹‹E’
lo scantinato di uno Jaeger.
A parte polvere e vino di pessima annata, non credo proprio che
troveremo
niente di importante››
Erwin
aveva inarcato un
sopracciglio per la sorpresa di vedere, per la prima volta, le sue idee
sbeffeggiate in quel modo.
‹‹Pensavo
ti fidassi di me››
aveva commentato con una punta di fastidio.
‹‹Certo
che mi fido di te! Ma se
non fidandomi è il solo modo che mi resta di tenerti
rinchiuso qui, allora ben
venga››
Erwin
si era vagamente risentito
di quella affermazione, ma non riusciva comunque a dargli torto. Poteva
leggergli negli occhi quanto, in realtà, gli costasse tirare
avanti con quella
storia del sogno di suo padre e che forse avrebbe ucciso anche lui.
Levi non
l’avrebbe permesso. Aveva fatto e dato troppo: per quella
causa, per
quell’umanità ingrata e ottusa, per la Legione e
per lui che non aveva mai pensato di
meritare niente di tutto ciò che Erwin, in silenzio, gli
aveva regalato.
“Vuoi
un sogno da seguire, Erwin?
Ti regalo il mio! Fingiamo che sia il tuo compleanno e prenditi il mio
dannato
sogno di vederti ancora vivo al mio rientro. Di saperti qui, a leggere
i tuoi
cazzo di rapporti, a stilare piani, a rovesciare governi. Questo
è il mio
sogno, il mio regalo, vedilo come cazzo di pare, ma prendilo,
è tuo. Fanne ciò
che vuoi! O forse non è abbastanza grande quanto il tuo di
sogno? In fondo, il
mio non è nient’altro che un sogno insignificante
e stupido, ma almeno non consuma,
non logora, non uccide il mio sogno. Non ti ho mai regalato niente,
mentre tu
mi hai donato tutto… perciò prendi il mio di
sogno e abbraccialo, ed io
abbraccerò il tuo, anche se l’ho già
fatto e lo rifarei ancora…”
‹‹Che
c’è Levi?››
Era
bastato il suo sguardo a
riportarlo in quello studio, cacciando quel discorso che suonava meglio
dentro
la sua testa che non sulle sue labbra.
‹‹Niente››
si era affrettato a
rispondere per impedire ad Erwin di entrare nei suoi pensieri.
‹‹Notavo che tra
un mese è il tuo compleanno››
Sprezzante,
come sempre, era
ritornato al suo posto accettando la sconfitta; dopotutto, era
l’uomo più forte
dell’umanità solo quando stava fuori da quelle
mura.
‹‹Stai
pensando ad un regalo?››
aveva sorriso, un sorriso nervoso, ma pur sempre un sorriso che gli
aveva
rilassato i muscoli del volto e delle spalle. Per un attimo, per un
breve e
fugace istante, Erwin si era sentito libero delle sue
responsabilità. Glielo
leggeva – eccome se glielo leggeva – in quegli
occhi che non smettevano di
sorridergli in un tacito ringraziamento per aver deposto per primo le
armi.
‹‹Magari
te l’ho già fatto››
‹‹Sarebbe
la prima volta.
Potrebbe venire a nevicare››
‹‹Non
sarebbe poi tanto male, non
credi?››
Davanti
a lui stava una sedia
vuota e quelle ultime parole pendevano sopra la sua testa come una
condanna.
Era
il 14 di un ottobre lontano,
cupo e freddo. Fuori nevischiava piano; cosa insolita in quel mese
dell’anno,
ma di cose insolite ne erano accadute anche troppe in quegli ultimi
anni, e
aveva finito per non stupirsi più di nulla. Il mondo che
avevano conosciuto non
c’era più, come non c’era più
il Comandante a gustarsi la vista di quel sogno divenuto
realtà.
La
loro realtà, non la sua.
Non
si respirava aria di festa,
nemmeno ora che avevano ottenuto quella meritata libertà,
soltanto la stessa
aria malsana e putrida che Erwin aveva ingoiato per anni e da cui lo
aveva
liberato pensando di fargli un favore. Eppure, tornava ancora
l’immagine di
lui, disteso al suo fianco, con la sua mano a reggere il destino e non
più una
siringa.
Ancora
una volta a scegliere;
ancora una volta a sbagliare; ancora una volta a ricominciare senza
rimpianti.
Ma
non era la stessa cosa ora che
Erwin non era e non sarebbe più stato lì, in
quello studio o altrove a
guidarlo, a vegliarlo o stando semplicemente lì ad
ascoltarlo in silenzio. E
non perché a portarselo via era stato un Titano Bestia, una
caduta da cavallo o
lo squarcio nel fianco ma una scelta. Sua, per giunta: sconsiderata,
azzardata,
inspiegabile scelta di liberarlo da quel mondo infame che voleva
tenerlo
imbrigliato. Il mondo aveva bisogno di vedere i suoi ideali pesare
sulle spalle
di un uomo soltanto. Ed era tutto
più facile quando
qualcun altro si assumeva quella responsabilità di lottare e
sporcarsi le mani.
Finché non aveva deciso che aveva visto abbastanza. Che di sangue ne era stato versato tanto e anche troppo mentre lui stava a guardare e che un uomo non poteva reggere tutto quel peso solo sulle proprie
spalle; ed
Erwin era il tipo di uomo che avrebbe retto il peso del mondo per non farlo
pesare
sugli altri.
Era giunto il momento che il mondo imparasse a sporcarsi
le mani
da solo, come aveva fatto Erwin, come aveva fatto lui e come avevano
fatto i
mocciosi in nome di un’ideale, di un sogno –
assurdo, fantastico e meraviglioso
– e combattesse per se stesso, una volta tanto.
Rimpiangeva
solo che Erwin non
fosse più lì ad ammirare tutto quello che aveva
creato spianando la strada.
Serrò
il pugno guardando la sedia
e quel vuoto desolante che la sua morte aveva lasciato e che non sapeva
come
riempire: un intervallo tra lui e il resto del mondo in cui Erwin si
incastrava
perfettamente.
Angolo
dell’autrice
Non
posso credere di aver
completato questa raccolta. Sono seriamente combattuta
all’idea di concluderla
così, con questo pezzo che mi è costato parecchio
scriverlo. Mi ci è voluto un
po’, da quel fatidico mese di Agosto per metabolizzare quello
che è successo e
dargli una spiegazione. Alla fine mi sono arresa e ho cercato di vedere
Erwin
attraverso gli occhi di Levi, cercando di capire quello che ha fatto,
mettermi
nei suoi panni e muoverlo senza paura di sbagliare. Non è
stato semplice, ma
alla fine eccolo qui, anche se non è un regalo di compleanno
allegro e
purtroppo pieno di angst… Spero mi perdonerete se ricado
sempre nel loop del
lutto.
Vorrei
ringraziare prima di tutto
Auriga ed Ellery per leggere sempre con entusiasmo i miei racconti. Vi
voglio
un bene immenso e questa raccolta è tutta per voi (Anche se
di Eruri qui non ce
n’è manco l’ombra quindi non sforzatevi
troppo a cercarla XD)
Infine,
vorrei ringraziare
Divergente Trasversale per le sue recensioni magnifiche e per quelle
parole che
ogni autrice che bazzica da queste parti, spera sempre di sentirsi dire
una
volta nella vita.
Ringrazio
chi ha letto, chi si è
fermato, chi ha continuato e chi ha apprezzato questa raccolta.
Mi
piacerebbe proseguirla o fare
una raccolta a parte perché mi è tanto caro il
Comandante che non riesco
proprio a dirgli addio.
Un
abbraccio a tutti
Shige
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