Vento dell'Ovest - Capitolo 26
- Capitolo Ventiseiesimo -
Addio
del Vento
Uno degli
insegnamenti più importanti che Molinari ricordava dalla frequentazione della
Scuola Superiore di Polizia era una citazione di Agatha
Christie molto cara al Funzionario d’Ufficio che si era
occupato del suo addestramento: “Un indizio è un
indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”.
E, dopo aver provato la tisana al miele e
camomilla, l’infuso di rabarbaro e zenzero e perfino il
decotto alle bacche di sambuco,
poté confermare che non aveva bisogno di un quarto
tentativo per avere la prova che il caffè era
insostituibile.
Così, rassegnato all’idea che avrebbe deluso le aspettative di sua
moglie, tradendo anche i suoi buoni propositi per il 1988 appena iniziato, il
commissario chiuse la scatola di legno che quella gli aveva
regalato per Natale con un’infinità di
bustine
aromatizzate e la mise nell’ultimo cassetto della sua
scrivania,
pensando a chi potesse rifilarla. D’altra parte, nonostante
avesse capito che le tisane non facevano per lui, gli sarebbe
dispiaciuto gettare via un dono di Angela.
Stava proprio per uscire in corridoio con l’intenzione di
andare al bar a prendersi un bel caffè macchiato, interrompendo
un’astinenza durata oltre una settimana, quando,
nell’aprire la porta, inaspettatamente, si ritrovò
davanti
il questore Saltarini.
«Buonasera, dottore» lo salutò,
riprendendosi subito
dalla sorpresa. «Non aspettavo una sua visita, è
successo
qualcosa di grave, per caso?» aggiunse, perplesso.
«Buonasera a lei, Molinari» rispose quello con un
sorriso
rassicurante, ricambiando il saluto. «Non si preoccupi,
è
stata una decisione... improvvisa.
Stava uscendo?»
«No, avevo solo voglia di fare quattro passi e di prendere un
caffè al bar. Mi fa compagnia?»
«Molto volentieri, ma, prima, se non le dispiace, vorrei discutere con lei di
questioni piuttosto... urgenti»
replicò l’altro, con una breve scrollata di spalle.
Insospettito da tutte quelle reticenze e dall’atteggiamento
alquanto strano del suo superiore, il poliziotto lo guardò
aggrottando appena la fronte, senza ulteriori commenti;
anzi, lo invitò ad accomodarsi e quello, dal canto suo, non
se
lo fece ripetere, prendendo posto su una delle poltroncine antistanti la
scrivania.
Allora, Molinari fece subito per imitarlo, quando venne interrotto
dallo squillo del telefono.
«Risponda pure» lo invitò Saltarini,
indicando
l’apparecchio con la mano aperta, sempre con il solito sorriso
che,
sotto la luce della lampada da tavolo, unica fonte di illuminazione
accesa in quel momento, assunse un’aria inquietante.
Non riuscendo a capire se fosse solo frutto della sua immaginazione o
se davvero il suo interlocutore si stesse prendendo gioco di lui,
l’uomo alzò molto lentamente il ricevitore e,
senza
staccare gli occhi dal questore, lo avvicinò
all’orecchio.
«Qui Molinari».
Ciò che udì subito dopo da un agitatissimo
Tonelli gli
fece immediatamente accapponare la pelle, facendogli arrivare a dubitare che fosse
accaduto sul serio.
«Ma... non è possibile!»
esclamò, sgomento.
«Il direttore del carcere mi aveva assicurato che era una
sistemazione sicura!»
Mentre Molinari si affannava al telefono, sforzandosi di mantenere la
lucidità,
notò con
la coda dell’occhio che Saltarini lo stava fissando molto
attentamente, accavallando poi una gamba sull’altra con le
mani giunte sotto al mento, come se lo stesse studiando.
Quando il suo agente gli ebbe comunicato tutti i
dettagli,
con la gola riarsa, il commissario bofonchiò qualcosa in risposta e chiuse la
chiamata, senza staccare gli occhi dal questore.
Per qualche secondo i due si guardarono in tralice, poi il poliziotto si
schiarì la voce e fece per parlare, ma venne bruscamente
interrotto.
«So già cosa le hanno detto e, se mi permette, le
consiglierei di... lasciar correre» commentò
l’altro, tranquillo, rimettendo entrambi i piedi a terra ed
alzandosi dalla sedia.
Infastidito dall’ennesima pausa del suo superiore, Molinari assottigliò lo sguardo,
ormai
convinto che l’altro fosse fin troppo coinvolto nella
faccenda.
Senza timore delle conseguenze, perciò, appoggiò le mani
sul
ripiano della scrivania ed alzò fieramente la testa.
«Lei sa che questo è un caso che non
può essere semplicemente
archiviato» cominciò, molto
lentamente.
«Perché mi sta chiedendo di ignorare la
necessità
di aprire un’indagine?»
In risposta, Saltarini rimase in silenzio per qualche minuto, al termine dei quali, lasciando basito il suo interlocutore,
scoppiò in una risata sinistra.
Davanti ad una simile reazione, il commissario rimase congelato, faticando
a riconoscere la stessa persona con cui aveva collaborato in tanti
anni. Man mano che prendeva consapevolezza della situazione, nella sua
mente cominciò a vorticare un insieme confuso di pensieri,
nessuno dei quali, però, in grado di aiutarlo a decidere
come
comportarsi in quel momento, soprattutto perché non riusciva
a
capire fino in fondo quanto il questore fosse complice in quella losca
faccenda.
Poi, improvvisamente come aveva iniziato, Saltarini smise di ridere e
riservò all’altro uno sguardo quasi benevolo.
«Molinari,
che ne dice di andare a prendere quel famoso
caffè?» gli
propose, estremamente calmo. «Ovviamente, offro io, quindi
sarebbe davvero scortese rifiutare, non crede?»
La luce delle poche decorazioni del Natale appena trascorso
connotava l’atmosfera con quella malinconia tipica di
gennaio,
mese in cui riprendevano le attività lavorative nel rigore
dell’inverno, senza che, però, ci fosse
più la
prospettiva dell’allegria delle festività a
mitigarlo.
Seduto nell’angolo più nascosto di un piccolo e
cupo bar
di via Capo d’Africa, Molinari scrutava oltre il vetro
leggermente appannato il buio della strada, appena rischiarato dalle
sporadiche luminarie, chiedendosi se sarebbe sopravvissuto a
quell’incontro, poiché aveva capito da un bel
pezzo che il
questore non l’aveva certo invitato lì per cortesia.
«Ha fatto un ottimo lavoro all’Elba, ero sicuro che
non mi
avrebbe deluso» esordì all’improvviso
quello,
prendendo il suo succo d’arancia ed inclinandolo verso di lui prima di berlo, come se volesse brindare alla sua salute.
Richiamato, il commissario si voltò molto lentamente, riservandogli uno sguardo scettico.
«Catturare Navarra era nell’interesse di
tutti».
«Sì, ha perfettamente ragione»
replicò
Saltarini con un sorriso ambiguo, appoggiando il bicchiere sul tavolo.
«Per questo mi
sono assicurato che lei fosse sul posto, quando sarebbe scattata
l’operazione che avrebbe portato all’arresto dello
spagnolo».
«Mi sta forse dicendo che, quando mi ha parlato
dell’Isola
d’Elba come il posto perfetto dove portare mia moglie in
vacanza,
non era solo un consiglio?» ribatté aspramente il
poliziotto.
«Temo di no».
Irritato da quella rivelazione, che lo fece sentire come una marionetta
priva di qualsiasi forma di volontà, Molinari
aggrottò la
fronte e spinse via da sé la tazzina di caffè ancora mezza piena.
Notando quel gesto, il suo superiore cambiò espressione e
sembrò quasi addolcirsi; poi, si sporse verso di lui e, a
bassa
voce, gli confidò: «Vede, Molinari, credo di
sapere come
si sta sentendo: una pedina
in un’immensa scacchiera senza sapere chi sia a fare le
mosse. E,
detto fra noi, è un bene che lei non lo sappia».
A parere del commissario, quella similitudine calzava ancor più della sua, tuttavia
ciò che lo colpì maggiormente fu
l’ammissione
spontanea del questore che, dietro il suo atteggiamento ed il suo operato
c’era, in realtà, qualcuno di ancora
più
importante ed influente.
«Dietro l’arresto di Navarra
c’è molto
più di quello che mi ha detto, non è vero?» domandò, allora, intenzionato a
scoprire una volta per tutte quale fosse la verità.
«È corretto» gli concesse
l’altro, scrollando appena le spalle.
«Quindi, ora potrebbe spiegarmi anche perché la
soffiata e
le prove che incastravano Navarra
come responsabile dei traffici d’armi verso
l’Unione
Sovietica sono spuntate in concomitanza con il rapimento di Beatrice
Tolomei» lo incalzò Molinari, assottigliando lo
sguardo.
Si sentiva lacerato tra la rabbia di essere stato usato a piacimento
da altri e il profondo desiderio di ottenere delle risposte a tutte le
domande che gli affollavano la mente. «Gli stavamo addosso da
mesi senza aver ottenuto
nemmeno un riscontro, poi arriva lei, dottore, tirandole fuori dal
cilindro come se niente fosse... perché
non le ha condivise prima?»
rincarò, incrociando le braccia sul petto ed inclinando la
testa da una parte.
«La verità ha un prezzo, Molinari»
affermò, in risposta, Saltarini, assumendo all’istante
un’espressione
rammaricata. «Lei lo sa, vero?»
«Anche fin troppo bene» ribatté il
poliziotto,
risoluto a non cambiare atteggiamento, poiché non riusciva a
sopportare di essere vissuto nella menzogna così a lungo.
A quel punto, ci fu una lunga pausa, durante la quale si udì
in
lontananza il brusio dei baristi che, approfittando della scarsa
clientela, stavano fumando una sigaretta sulla porta del locale.
L’odore del tabacco si mescolò a quello del
caffè rimasto nella tazzina, creando uno sgradevole connubio
che
nauseò Molinari, già teso per la situazione.
«L’ho portata fuori dal commissariato proprio per
poterle
spiegare alcune cose, ma, per la sua stessa sicurezza, la prego di non chiedere ulteriori
informazioni rispetto a quelle che le darò. Le è chiaro?»
Ancora troppo concentrato sul suo malessere, l’uomo
impiegò qualche secondo per realizzare che il suo
interlocutore
aveva parlato, tant’è che, in un primo momento, rimase a fissarlo
sbattendo le palpebre, per poi riscuotersi e annuire. Con quel cenno,
Saltarini capì che il commissario era in ascolto e, dopo
aver
sospirato brevemente, riprese:
«Navarra è rimasto solo un sospettato
finché non ha
pestato la coda di qualcuno molto in alto. Quando lo spagnolo
è
diventato un intralcio, è diventato necessario
eliminarlo».
«E cosa c’entra questo con il rapimento della signora
Tolomei?»
domandò Molinari, perplesso, dato che ancora faticava a far
combaciare tutti i pezzi di quel confuso mosaico, pur avendo
sospettato fin da subito che dietro alla soffiata su Navarra ci fosse
un regolamento di conti.
«Be’, si sa che i malviventi, messi sotto
pressione,
tendono a fare qualcosa di stupido... che, però,
può
diventare una buona occasione per
arrestarli» gli spiegò il questore, a bassa voce,
come se
temesse che qualcuno che non avrebbe dovuto sentirli fosse nelle
vicinanze. «Si ricorda quando ho insistito per far andare via
quella
ragazza, anche se non aveva finito di deporre? Non volevo semplicemente
coinvolgerla ulteriormente in qualcosa che sarebbe potuto diventare
pericoloso».
«Capisco...» mormorò
l’ufficiale,
adattandosi inconsciamente a quel tono di conversazione insolitamente
basso.
«Sa, mi ha ricordato mia figlia Annalisa,
così giovane, con ancora tutta una vita
davanti...»
proseguì l’altro, mentre gli occhi gli diventavano
improvvisamente lucidi e fu proprio in quell’istante che,
finalmente, Molinari capì l’effettivo
coinvolgimento del
suo superiore: molto probabilmente non aveva agito per suo tornaconto
personale, bensì perché ricattato dal giocatore di scacchi
che doveva aver minacciato di far del male alla
ragazza.
Alla luce di quest’ultima rivelazione, tutta la rabbia che aveva provato nei
confronti dell’altro si attenuò e, anzi, si
ritrovò improvvisamente
a giustificarlo. Infatti, nonostante non avesse figli e fosse fiero
della sua integrità morale, non era del tutto certo che, al
posto del questore, si sarebbe comportato diversamente.
«Che cosa vuole che faccia, allora? Non posso ignorare la
telefonata
ricevuta poco fa» gli chiese, aggrottando la fronte.
«Indaghi, però senza scrostare troppo la
superficie,
faccia ciò che non farebbe in altri casi, si accontenti
delle
apparenze... e metta la parola fine a questa catena di
sangue» lo
supplicò Saltarini, giungendo le mani come in preghiera.
«Lei sa benissimo che il medico legale smentirà
l’ipotesi di suicidio».
«Il medico legale scriverà sul referto autoptico
quello
che io gli dirò» replicò quello,
indurendo lo sguardo. «Mi creda, Molinari, chiudere la
questione senza farsi domande è l’unico modo per
uscirne
tutti
vivi».
In quell’istante, il commissario si rese conto di avere le
mani
pressoché congelate e si domandò tra
sé se fosse a
causa del riscaldamento mantenuto troppo basso per risparmiare,
oppure se fosse ciò che aveva appena udito ad avergli
arrestato
la circolazione.
«Mi tolga un’ultima curiosità...»
avanzò,
incerto su come porre la domanda, mentre si sfregava le nocche contro
la stoffa dei pantaloni, per riscaldarle un po’
«come
faceva a sapere
che Navarra era a Marciana Marina? I collegamenti con Beatrice Tolomei
e Marcello Tornatore erano palesi, certo, ma...»
«Navarra aveva qualcuno di molto vicino che ha fatto a lungo
il
doppio gioco, informandomi su tutti gli spostamenti» rispose
subito l’altro, senza nemmeno fargli finire la domanda.
«La
stessa persona che ha fatto la soffiata e che oggi ha
ottenuto una cella in isolamento».
Sconcertato, il commissario si paralizzò, spalancando gli
occhi per la sorpresa.
«Pablo Cabrera!»
Sorridendo malinconico, Saltarini si curvò sul tavolino,
avvicinandosi a lui.
«Mio caro commissario, lei è sempre stato molto
acuto».
***
Man mano che saliva le scale buie verso il secondo piano del
Caffè del Borgo, Saltarini sentiva le gambe farsi sempre
più pesanti ed un nodo stringergli la gola. Ogni
volta
che aveva un appuntamento con quell’uomo, veniva puntualmente
assalito dall’angosciante dubbio di non riuscire a rimanere vivo
fino
alla fine dell’incontro con la speranza di arrivare al
successivo.
Sapeva che, in quanto funzionario dello Stato, non avrebbe dovuto
cedere alle minacce di quei malviventi che,
all’apparenza, sembravano cittadini per bene, tuttavia era
anche
cosciente del rischio che correva sua figlia, troppo piena di gioia di
vivere per morire brutalmente nel fiore della sua adolescenza.
Arrivato alla fine del corridoio, perciò, bussò alla
porta e, senza
attendere una risposta, l’aprì, trovandosi davanti
due
uomini seduti su eleganti poltroncine a discutere affabilmente, mentre
sorseggiavano un bicchiere di prosecco davanti al camino scoppiettante.
«Buonasera, questore» lo salutò John
Miller, con una
smorfia beffarda, facendo oscillare il vino nel calice.
«Quali
notizie ci porta? Io ed il signor Colonna ci stavamo
proprio chiedendo quando sarebbe arrivato».
«Ho dovuto sistemare ciò che mi ha
chiesto» rispose
in un sussurro Saltarini, la fronte imperlata di sudore e non certo a
causa del
poco calore diffuso nella stanza.
A quel punto, Miller fece segno al socio di andare a chiudere la porta
e
quello ubbidì prontamente, per poi prendere il questore per
un
braccio e trascinarlo verso una terza poltrona disposta davanti alle
altre
due.
«Prego, si sieda» gli intimò il
britannico, con un
tono tutt’altro che amichevole. A quel
punto,
le ginocchia dell’altro cedettero e quello si lasciò
cadere sul
duro cuscino di pelle bordeaux.
«Come è andato il suo colloquio?» lo
incalzò
Colonna, riprendendo posto senza togliergli occhi di dosso.
«H-Ho...» cominciò l’uomo,
tentennante. Poi,
rendendosi conto di avere la voce impastata, si fermò un
attimo
e se la schiarì, prima di proseguire: «Ho parlato
con il
commissario Molinari, convincendolo a chiudere le indagini quanto
prima».
«E non si è insospettito?»
domandò Ascanio, fissandolo con fare dubbioso.
«Molinari ha fiducia in me e non contravverrà agli
ordini» ribatté il questore, cercando di essere il
più
sicuro possibile. «Ma vigilerò comunque sul suo
operato,
intervenendo subito se dovessi notare qualcosa che non va».
«Sa cosa l’aspetta, se così non dovesse
essere» intervenne, allora, Miller con un sottile ghigno.
«Che
cosa ci dice, invece, sulla guardia carceraria che ha collaborato con i
miei sicari?»
Intuendo che il suo interlocutore aveva fretta di avvicinarsi al vero
motivo di quella convocazione, Saltarini si prese il suo
tempo
per capire come dovesse esporre i fatti evitando altre vittime.
«Non appena sarà finita l’indagine,
lascerà
Roma. Mi ha assicurato che, con il lauto compenso che lei gli ha
offerto, sarà ben contento di fuggire alle
Seychelles».
«Molto bene» affermò in risposta il
britannico,
alzandosi dalla sedia e avvicinandosi al tavolino posto sul fondo della
stanza, dove erano appoggiate alcune bottiglie. «So
che si è occupato personalmente anche dei
Landi, assicurandosi il loro silenzio, così come ha fatto
con
Cabrera».
«L’isolamento è la soluzione che
preferiscono molti
detenuti, per la loro stessa tutela, perciò il mio collega di Livorno non ha
battuto ciglio quando gliel’ho proposto» gli
riferì
il questore, mentre quello si versava dell’altro vino, con
un sorriso sadico che gli fece accapponare la pelle.
«A questo punto, direi che il problema è
più che
risolto» intervenne Ascanio, accavallando una
gamba
sull’altra, spostando lo sguardo sul suo socio.
«Navarra
era l’unico che, per vendetta, avrebbe potuto rivelare il suo
segreto, ma ora non ci darà più
problemi».
«Esattamente. Inoltre, ha avuto quello che meritava per aver
tentato di prendermi in giro, negando di aver venduto
le sue armi giocattolo ai sovietici per sabotare la costruzione del
mio
oleodotto in Medio Oriente» considerò il
magnate,
ripercorrendo i suoi passi e tornando a sedersi sulla poltrona.
«Credeva di essere molto
furbo, invece è stato il peggiore idiota che abbia mai
conosciuto... Chi spera di raggirarmi, o peggio, di non ubbidirmi, paga
con la vita!» concluse, finendo in un unico sorso tutto il
prosecco che era rimasto nel bicchiere.
«Come quel povero diavolo che le faceva da
copertura!» aggiunse Colonna, ridendo malvagiamente. «Devo
ammettere
che, quando ho capito come stavano realmente le cose, Lord Carter, ho
trovato il suo piano per depistare i nemici semplicemente
geniale».
Compiaciuto da quel commento, l’industriale piegò
le labbra in una smorfia soddisfatta.
«Io non faccio sconti a chi si mette contro di me e Miller si
era calato eccessivamente
nella parte».
Desiderando solo allontanarsi il prima possibile da quell’essere
mostruoso che lo teneva in pugno, Saltarini si alzò e, dopo
aver
deglutito a vuoto, si fece coraggio e gli chiese: «Lord
Carter,
con me ha finito?»
In risposta, quello gli puntò contro i suoi occhi plumbei e
malvagi che sembravano avere la capacità di leggergli nel
più profondo dell’animo e nutrirsi del terrore che
ispiravano.
«Sì,
per ora, sì. Verrà informato a tempo debito sul
prossimo lavoretto che dovrà svolgere per me»
gli rispose stancamente, congedandolo con un pigro gesto della mano.
«Continui ad eseguire tutti i miei ordini e continueremo ad
andare d’accordo... non vorrei mai che
alla piccola Annalisa succedesse qualcosa di tremendamente
spiacevole».
A quelle parole, il questore sentì il proprio cuore
arrestarsi,
tuttavia, avendo ormai imparato a dissimulare le sue reazioni per la sua stessa
sopravvivenza, atteggiò la sua espressione ad una maschera
di
indifferenza. Quindi, omaggiò i due uomini con un
inchino piuttosto rigido e contenuto e
lasciò la
stanza.
Avvolti nei loro caldi cappotti di panno blu scuro, Marcello e Gerardo
stavano percorrendo una Via della Conciliazione pressoché
deserta, entrambi desiderosi di
rientrare a casa prima di diventare due ghiaccioli, lasciandosi alle
spalle la
cupa sagoma del grande abete natalizio che aveva decorato la piazza,
ormai spoglio e in attesa di essere rimosso, in contrasto con la cupola
di San Pietro, rifulgente nell’oscurità della
sera.
«Sembra che il vento stia cambiando»
osservò il
biondo, alzando gli occhi verso il cielo e aggiustandosi la sciarpa
grigia di cachemire per proteggersi dagli spifferi freddi.
«D’altra parte, l’inverno è
cominciato
già da un pezzo».
L’altro, però, non diede segno d’aver sentito,
anzi,
continuò a camminare con lo sguardo rivolto a terra, immerso
in
chissà quali pensieri; dal canto suo, Marcello non insistette,
giacché aveva notato che il suo amico era piuttosto assente
da
parecchio tempo e, sapendo che sarebbe stato inutile forzarlo a parlare,
stava aspettando che fosse lui a farlo spontaneamente.
E quel momento doveva essere finalmente arrivato perché quello si
arrestò
di colpo proprio accanto al basamento in marmo di uno degli imponenti
lampioni
che illuminavano il marciapiede, dando finalmente voce ai propri
tormenti interiori.
«Mia madre è disperata, dice che se
continuerò
così arriverò al giorno del matrimonio senza il
vestito!» sbottò.
Sorpreso, l’amico si voltò verso di lui, inarcando
appena
un sopracciglio.
«Ecco svelato il motivo per cui sei intrattabile da
giorni!» commentò, vagamente ironico.
In risposta, Gerardo gesticolò nervosamente ed ammise,
frustrato: «Non riesco a trovare il tempo per
organizzarmi...»
«Be’, hai ancora un po’ di tempo, dato che mancano
ancora quattro mesi» gli fece, però, notare, pacatamente,
Marcello, cercando di calmarlo, poiché sapeva bene che
l’amico, quando era sotto pressione, tendeva a perdere molto
facilmente la lucidità. «Inoltre, da
domani, potrai
prenderti
quanti giorni di ferie vorrai, visto che, finalmente, abbiamo concluso
la
trattativa con i clienti svizzeri» aggiunse.
Non del tutto convinto, l’altro sospirò e,
abbastanza
preoccupato, confessò: «A dire il vero, Vittoria
ed io
abbiamo ancora diverse cose da scegliere, a cominciare dalle
bomboniere. Per colpa dei miei impegni, infatti, stiamo andando a
rilento».
Di fronte a tanto scoraggiamento, sentendosi in dovere di spendere
qualche parola di conforto per risollevare il suo migliore amico, il
biondo gli si avvicinò e gli diede una pacca affettuosa sul
braccio.
«Non pensare che ci voglia chissà quanto
per comprare
un abito da cerimonia. Io ho preso il primo che
ho provato!» commentò, con una scrollata
di spalle.
«Be’, grazie tante, è stata Vittoria a
selezionarlo
tra tutti i modelli!»
sbuffò, inaspettatamente, Gerardo, mostrandosi piuttosto
risentito. «E poi, sai bene che non è la stessa cosa, visto
che addosso a te starebbe bene anche un sacco della
spazzatura».
In un primo momento, spiazzato da una reazione simile, Marcello
fissò l’altro con un misto di
incredulità e
sorpresa; tuttavia, si riebbe piuttosto rapidamente e, scoccandogli
un’occhiata inquisitoria, lo apostrofò:
«Perdona la
schiettezza, ma devo proprio dirtelo: sembri una ragazzina
isterica!»
Colpito da quelle parole, l’altro rimase a bocca aperta e
rimase a guardarlo con espressione stralunata.
«Questi continui paragoni tra te e me sono
perfettamente
inutili, perché servono solo ad alimentare le tue
insicurezze»
proseguì il biondo, sempre con tono di rimprovero, cercando al
tempo stesso di non essere troppo severo. Infatti, concluse
dicendo:
«Concentrati, invece, sui tuoi lati positivi... per esempio che
sei la
persona
più buona e leale che conosco e tra le uniche tre che reputo
degne di completa fiducia».
«Le altre due sarebbero Vittoria e Beatrice, per caso?»
domandò Gerardo, sbattendo le palpebre.
«Secondo te?»
Per qualche secondo, tacquero entrambi. Poi, dopo un’attenta
riflessione, quello strinse le spalle e, un po’ imbarazzato,
ammise: «Scusami, mi sono lasciato prendere
dall’agitazione... purtroppo, la verità
è che ho
paura di far sfigurare Vittoria».
«Vi conosco entrambi da una vita e tu sei l’unico
uomo che
la merita, perciò non credo che potresti mai farle fare
brutta
figura» replicò immediatamente l’altro,
deciso.
«Comunque, se pensi che possa aiutarti, per il vestito
chiedi consiglio a
Beatrice. Io non capisco niente di moda e sartoria,
invece lei è bravissima e sarà molto contenta di
darti
una mano» aggiunse, sperando di essergli stato utile.
A quel punto, quello sembrò illuminarsi e mutò
repentinamente espressione, mostrandosi molto sollevato.
«Hai ragione...» mormorò,
soprappensiero. «In
effetti, mi sento abbastanza stupido a non averci pensato prima da
solo».
«Be’, in fondo gli amici servono anche a questo,
non trovi?» osservò Marcello, sorridendo e, di
riflesso, l’amico fece altrettanto.
Quindi, rasserenati,
i due ripresero a camminare, giungendo fino all’incrocio con Via
San Pio X.
«Come sta tuo papà?» chiese
improvvisamente
Gerardo, aspettando che il semaforo diventasse
verde,
così da poter attraversare Ponte Vittorio Emanuele II e
portarsi sull’altra sponda del Tevere, dove avevano
parcheggiato le auto.
«A volte meglio, a volte peggio» spiegò
il biondo,
con una punta di rassegnazione nella voce. «Purtroppo, i
cicli di
chemioterapia lo spossano parecchio. Tuttavia, il lato positivo della
vicenda è che mia madre sta apprezzando le gioie della vita
di
campagna e questo rende mio padre molto felice».
Non riuscendo a trovare una risposta appropriata, l’amico si
limitò ad
annuire. Quella domanda, però, aveva risvegliato in Marcello
le
paure che aveva deciso di tenere confinate per
non vivere bloccato nell’angoscia, ma, anzi, per avere verso
il genitore un atteggiamento propositivo e speranzoso, come lui stesso
aveva chiaramente detto di preferire.
«Ciò che mi spaventa è che i medici non
escludono
ancora il rischio di una ricaduta...» aggiunse, infatti, il
ragazzo in un
sussurro, tremando solo a pronunciare quelle parole.
«Cerca di non pensare al peggio, perché sono
convinto che essere positivo possa essere
d’aiuto sia a lui che a te» lo confortò,
allora, con dolcezza l’altro.
Grato di poter sempre contare sulla preziosa amicizia di Gerardo, il
biondo scosse la testa e, piegando appena le labbra,
commentò: «Sai, credo che tu e Vittoria andrete
molto d’accordo:
entrambi sapete dare ottimi consigli agli altri, ma, quando si tratta
di voi stessi siete un completo disastro».
«Già» ammise l’altro,
sciogliendosi in un sorriso sincero,
contento di condividere quel particolare con la donna che amava.
«A proposito, la prossima volta che tuo papà viene
a Roma
senza dover andare in ospedale, se per lui non è un
problema, a me e
Vittoria farebbe piacere venirlo a trovare».
«Sicuramente ne sarà contento, gliene
parlerò appena lo chiamerò di nuovo»
affermò Marcello, lieto che i suoi amici non perdessero mai
occasione per manifestare il proprio affetto nei confronti di suo padre.
Avevano appena messo piede sul marciapiede del Lungotevere dei
Fiorentini, quando un’elegante berlina nera li
superò, svoltando in Piazza Pasquale Paoli,
esattamente dall’altra parte della strada. Nonostante le
ruote non si fossero ancora completamente fermate,
entrambi gli sportelli posteriori si aprirono e ne uscirono due uomini
più o meno della stessa altezza, i quali si avvicinarono e
si strinsero la mano, come se si stessero salutando. E fu allora che,
sotto la fioca luce dei lampioni, i ragazzi riconobbero due loro
vecchie conoscenze.
«Guarda un po’ chi si vede: Colonna e
Miller!» esclamò Marcello. «Devono
appena aver finito un incontro al Caffè del Borgo».
«A quanto pare, sono diventati inseparabili»
notò Gerardo, sospettoso. «Eppure, fino a qualche
tempo fa si sopportavano a stento».
Concordando con l’amico, il biondo annuì
brevemente e assottigliò lo sguardo, risoluto a non perdersi
nemmeno una mossa di quei due.
«Da quando Carter è morto, Miller sembra molto
contento di
aver preso il suo posto. Sono sempre più convinto
che sia stato lui ad ucciderlo» borbottò.
«Anche se fosse così, non credo che possiamo farci
niente» commentò saggiamente l’altro.
«Accontentiamoci, invece, di non essere più costretti ad
interagire
con lui o con Ascanio».
Tuttavia, Marcello, nel vederli confabulare fitto fitto come stavano
facendo, non riuscì a zittire la sua curiosità, pertanto, senza indugiare oltre,
propose al suo socio: «Approfittiamo del buio e del discreto
traffico per avvicinarci a loro senza farci vedere, che ne dici?»
Altrettanto interessato agli intrallazzi del rivale e del suo nuovo
partner, quello fu subito d’accordo; così, con
molta discrezione, i giovani attraversarono la strada e si appiattirono
contro il muro dell’edificio che faceva angolo, ringraziando
che i due uomini fossero abbastanza vicini da riuscire a
cogliere gli ultimi stralci della loro conversazione.
«È un vero peccato, signor Colonna, che non possa
trattenersi fino a cena. Avrei voluto presentarle alcuni collaboratori
molto influenti» disse Miller, troppo sussiegoso per sembrare
sinceramente rammaricato.
«Conoscerli sarebbe stato molto interessante, ma devo andare
da
mio figlio, perché la baby-sitter ha quasi finito il suo
turno» gli rispose Ascanio, con un tono che confermava la sua
fretta.
«Il moccioso non è ancora
autosufficiente?» domandò, allora, il britannico,
senza celare il proprio disgusto, come se ritenesse che i bambini
piccoli
fossero qualcosa di immondo.
«Ha appena compiuto cinque mesi!»
protestò vivamente Colonna, indignato.
«Non può occuparsene la madre?»
«Quell’alcolizzata non sa badare nemmeno a se
stessa e sono
stato costretto a rinchiuderla in una clinica per convincerla a
disintossicarsi» replicò il ragazzo, con un misto
di compassione e disprezzo. «Anche se è buffo
pensare che, se
non si fosse ubriacata lo scorso Capodanno, a quest’ora non
avrei
nessun erede».
«Le donne non servono a nulla, ma, almeno,
quell’inetta di sua moglie le ha dato un maschio»
osservò Miller, concentrando in poche parole tutta la sua
misogina e arretratezza mentale. «C’è qualche speranza che, un
giorno, potrà essere qualcuno».
«Oh, ma di questo sono certo: mio figlio arriverà
anche più in alto
di me, perché sarà il primo in tutto!» esclamò
l’altro, fomentato. «Per questo
l’ho chiamato Massimo».
Nauseato da quanto udito, Marcello si scambiò
un’occhiata con l’amico, che non tardò ad
esprimere la propria repulsione verso i due, scuotendo schifato la
testa.
In quel momento, si udirono brevi saluti e rumori di portiere che venivano chiuse
con forza, quindi il rombo di un’auto che partiva. A quel
punto, i ragazzi si decisero ad affacciarsi verso la piazza e trovarono
solo Ascanio che, dopo aver lanciato uno sguardo fugace verso Castel
Sant’Angelo, si incamminava in quella direzione.
«Tu sapevi che Maria Luisa si trova in una
clinica?» chiese Gerardo, perplesso, non appena fu certo che
il loro antagonista fosse abbastanza lontano. «Credevo fosse a Montecarlo dai suoi parenti».
«Così ha fatto credere Ascanio» rispose
l’amico, cupo. «Non pensavo che la situazione fosse
così grave».
«Sapere che quel bambino crescerà solo con il
padre mi mette i brividi» considerò
l’altro, contraendo il viso in una smorfia
d’orrore.
«A chi lo dici...» concordò Marcello,
con un piccolo sospiro, pensando all’inevitabile destino del
piccolo Massimo: diventare uguale ad Ascanio, se non addirittura
peggiore.
***
La voce di Beatrice, intenta a ripetere per l’esame
imminente, lo
accolse
non appena imboccò il corridoio che portava in sala da
pranzo e,
inconsciamente, gli fece incurvare le labbra
all’insù.
La trovò, infatti, seduta al tavolo della sala immersa in
diversi libroni, sparsi davanti a lei; ce ne erano anche diversi
piuttosto
consunti, probabilmente presi in prestito dalla Biblioteca Nazionale,
dove spesso la ragazza andava a studiare con le nuove amiche che
aveva conosciuto all’università.
«Ciao, Beatrice»
la salutò, appoggiando una mano sullo schienale della sedia
imbottita e chinandosi su di lei per darle un bacio sulla tempia.
«Com’è andata oggi?»
«Bentornato!» lo accolse con un sorriso lei, dopo
aver alzato la testa nella sua direzione. «Molto bene. A te,
invece?»
«Una giornata tranquilla, come sempre» le rispose,
facendo
spallucce ed evitando di riferirle ciò che aveva appreso su
Maria Luisa, come se fosse un pettegolezzo fresco.
Sicuramente, ci sarebbe stata un’occasione più
consona per
parlarle delle malefatte di Ascanio Colonna.
«Sai, oggi m’ha
chiamato la
Fiammetta e ha detto che,
la
settimana prossima, verrà a Roma con il dottor Costa. Vorrebbero
passare a trovarci»
gli annunciò la ragazza, chiudendo con grazia un
tomo
ingiallito e dalla copertina semi-cadente. «La Sacra Rota1, infatti, sembra ben intenzionata ad annullare il matrimonio con
Giacomo, visto che quella poverina
è stata ingannata e costretta
a sposarlo» spiegò, mettendosi in piedi davanti al
marito.
«Sarebbe anche ora» commentò, in
risposta, Marcello,
aiutandola ad impilare tutti i volumi e i quaderni, mentre lei si
dedicava a rimettere le penne colorate nell’astuccio.
«Con
l’Ottavia, invece, abbiam avviato la cena e
sarà pronta tra poco» aggiunse poi, spostando i libri su un tavolino più basso.
«Molto bene, così ho tempo di dare un’occhiata al
notiziario» affermò lui. Poi, dopo essersi
assicurato che
la moglie non avesse più bisogno del suo aiuto, si
andò a
sedere sul divano, accendendo la televisione. Il telegiornale era
già iniziato da un pezzo, tuttavia a Marcello non dispiacque
aver saltato la rassegna politica e trovarsi già alla
sequenza sui fatti di cronaca locale ed estera.
A quel punto, Beatrice lo raggiunse, accomodandosi sulle sue gambe, e
il giovane le passò istintivamente un braccio intorno alla
vita.
Fu in quell’istante che il giornalista introdusse una notizia
che
li lasciò entrambi esterrefatti: «Questo
pomeriggio, il
noto trafficante d’armi Conrado de
Navarra, arrestato alla fine dell’agosto scorso, è
stato trovato
impiccato nella sua cella del carcere di Rebibbia. Per ora,
l’ipotesi delle autorità è che si
tratti di
suicidio».
Per qualche istante, i due ragazzi rimasero come pietrificati davanti
allo schermo, per poi scambiarsi un’occhiata di puro
sgomento,
mentre, nella mente di Marcello si materializzava
l’inquietante
immagine di Navarra penzolante da una corda attaccata al soffitto, totalmente in contrasto con la personalità dello
spagnolo.
Infatti, per quanto sapesse di non possedere le competenze adatte, non pensava che quello potesse essere incline al
suicidio, soprattutto dopo le minacce che gli aveva sentito indirizzare
a Molinari. Era molto più probabile, invece, che il famoso lui
avesse ordinato la sua morte e, nonostante il giovane odiasse
profondamente Navarra per quello che aveva fatto a sua moglie, nel
figurarsi un’esecuzione capitale per impiccagione,
rabbrividì.
Scuotendo la testa per scrollarsi di dosso quell’orribile
sensazione, allora, si voltò verso la ragazza e vide che era
impallidita.
«Beatrice, stai bene?» le chiese, preoccupato,
accarezzandole teneramente una guancia.
«S-Sì...» balbettò lei,
riprendendosi dallo
shock. Poi si mise in piedi, anche se con qualche
difficoltà.
«Vo’
a controllare la cena...» farfugliò poi, muovendo
qualche passo incerto, confusa.
Preoccupato, il biondo la seguì con lo sguardo
finché non scomparve dal suo campo visivo, poi, tornò a guardare la televisione, ma
senza vederla sul serio, ancora troppo scosso da quello che aveva
sentito. Diverse, infatti, erano le domande che lo tormentavano, anche se, d’altra parte, una
vocina interiore gli suggeriva di dimenticare quanto
prima
l’intera faccenda, poiché c’era
sicuramente dietro
qualcosa che sarebbe stato meglio continuare ad ignorare.
Improvvisamente, un tonfo che sembrava provenire dal
salotto attiguo alla sala da pranzo lo distrasse bruscamente dai suoi pensieri.
«Che cosa è caduto?» chiese a gran voce,
per farsi
sentire dalla moglie. Non ottenendo, però, risposta,
riprovò, chiamandola per nome:
«Beatrice...?»
Insospettito dal persistente silenzio, il giovane, allora, si
alzò e si diresse nell’altra stanza, oppresso da
un brutto
presentimento che, purtroppo, si rivelò fondato quando trovò la ragazza sul
tappeto, svenuta.
«Beatrice!»
Immediatamente, Marcello si precipitò da lei e nello
sfiorarle
la pelle, si rese conto che era fredda. Allora, appigliandosi ai vaghi
ricordi che aveva sulle pratiche di primo soccorso, la
sollevò da terra,
prendendola in braccio, e la portò sul divano, adagiandovela
infine con grande delicatezza.
«Tesoro mio, apri gli occhi...» la
supplicò,
angosciato, stringendole una mano e spostandole i capelli dal volto.
Era già pronto a precipitarsi al telefono per chiamare
un’ambulanza, quando, finalmente, la giovane riprese i sensi.
«Mmm» mugolò, intontita, guardandosi
intorno, spaesata; poi, cercò di mettersi
seduta, ma si bloccò subito. «Mi gira la
testa...»
«Fai piano, non alzarti di scatto» le
sussurrò
Marcello, dolcemente, sorreggendole saldamente la schiena con una mano mentre con l’altra
sistemava meglio i cuscini, per poi aiutarla a distendersi nuovamente.
«Come
son finita sul divano?» chiese lei, frastornata.
«Sei svenuta» le rispose lui, sospirando.
«Ora non muoverti, vado a prepararti acqua e
zucchero».
Non erano passati nemmeno due minuti, che il ragazzo tornò
dalla
cucina reggendo in mano un bicchiere colmo quasi fino
all’orlo.
«Ecco qui, ora bevilo
lentamente» ordinò alla
giovane, porgendoglielo. «Scommetto che non hai pranzato
oggi,
giusto?»
«Sì, ho preso un panino con altre colleghe del corso»
rispose quella, cominciando a sorseggiare la mistura, senza trattenere
una piccola smorfia per il sapore stucchevole.
«Penso che dovresti mangiare qualcosa di più
sostanzioso,
sai?» le fece notare il marito, tra il severo ed il
preoccupato,
sedendosi accanto a lei. «Anche se penso che la notizia di
prima
ti abbia
scossa molto».
Sbattendo le palpebre, Beatrice rimase con il bicchiere a
mezz’aria e lo guardò sorpresa.
«Quale?»
«Quella della morte di Navarra» le
spiegò lui,
perplesso, chiedendosi se fosse possibile che, restando
turbata, avesse già rimosso
quell’informazione.
«Non ti ha suggestionata?»
«Oh, certo
che no, non
son così
impressionabile!» esclamò lei, quasi offesa.
«Non posso dire di esser
contenta,
ma mi sento sollevata che
non possa più darci
fastidio».
Stupito da quell’irritazione, Marcello si limitò
ad
annuire e tacque, non sapendo bene cosa dirle per il timore che si
infervorasse e che potesse avere un altro mancamento. Anche
perché, aveva avuto modo di verificare in prima persona quanto
sua
moglie, se indispettita, potesse essere infiammabile.
«Non son svenuta per quello» ammise, a quel punto, Beatrice in un
sussurro, terminando ciò che restava dell’acqua
zuccherata.
Di fronte ad una rivelazione simile, il ragazzo rimase ancor
più
stupito e, subito, fu assalito dalla tremenda sensazione che la moglie
gli stesse nascondendo qualcosa di importante, proprio come aveva
già fatto suo padre.
«Allora, sai il motivo...» mormorò,
avvertendo una fitta allo stomaco.
«Be’, ecco... sì. Avrei voluto dirtelo
stasera a cena...»
cominciò lei, incerta. «Stamani
sono andata a ritirare le analisi e...»
Alla parola “analisi”, Marcello sentì il
buio calare
su di lui, poiché, ormai aveva imparato ad associare a quel
vocabolo solo angosce e timori.
«Che cos’hai? Perché non mi hai detto niente?» le chiese, allarmato, convinto che la situazione gli
fosse già sfuggita di mano.
«Perché
non ne ero sicura!»
replicò l’altra, senza scomporsi, appoggiando il
bicchiere
vuoto sul tavolino lì accanto. «A volte,
può capitare
che...»
«Beatrice, io sono tuo marito ed esigo sapere sia quando stai
bene che quando stai male!» la interruppe lui, dando uno
stizzito
colpo al cuscino su cui era seduto, infastidito per essere
stato
estromesso da un aspetto importante della vita di sua moglie.
A quel punto, lei lo guardò sbigottita per qualche istante,
prima di scoppiare a ridere.
«Ma no, Marcello,
non son malata!» esclamò, gioiosa. «Sono
solo... incinta!»
Tra i due calò immediatamente il silenzio, che
servì al
giovane per capire cosa gli avesse effettivamente appena detto sua
moglie.
«... incinta?» ripeté, stralunato, come
se, ribadendo il concetto, questo potesse acquisire più significato.
Con un timido sorriso, la ragazza annuì e Marcello,
rigido
come un baccalà, si limitò a fissarla, deglutendo
a
vuoto: c’era un bambino in arrivo... avrebbe avuto un figlio!
A quel pensiero, si ritrovò ad arrossire per la figuraccia
appena fatta con Beatrice, essendosi dimostrato, come suo solito,
incline a trarre conclusioni catastrofiche, anche nei momenti meno
indicati.
«Perché
non dici
niente?» gli chiese l’altra che, notando il suo
mutismo,
s’intristì. «Forse non sei contento?»
Smosso da quel tono ferito, Marcello si voltò verso la
consorte
e, finalmente, dispiegò le labbra in un gran sorriso.
«Ma certo che lo sono...» le disse, prendendola per
i
fianchi e avvicinandola a sé. «È la
gioia
più bella che mi hai dato, dopo aver accettato di
sposarmi» le sussurrò poi, prima di darle un bacio
alquanto appassionato.
In risposta, Beatrice, rasserenata, lo assecondò
con la stessa intensità, sfiorandogli il volto e i ciuffi della
frangia con la punta delle dita.
«So che
sarà molto impegnativo, con
l’università, il lavoro part-time alla merceria e tutto il
resto, però...» considerò, tra un bacio e
l’altro, pensierosa.
«Però, non sei sola. Ti aiuterò io,
visto che è anche
mio figlio» gli fece notare il ragazzo, premuroso,
distaccandosi
da lei quel tanto che bastava per guardarla negli
occhi. «Basterà solo
organizzarsi».
Sorridendo, felice, la giovane appoggiò la propria fronte
contro
quella del marito, lasciandosi coccolare dalle sue carezze.
«Sai già quando nascerà?» le
chiese poi Marcello, desideroso di saperne di più.
«Oh, no, la dottoressa non ha detto molto, voleva prima accertarsi che fossi
davvero incinta» spiegò la moglie, concitata,
torturandosi una ciocca di capelli per sfogare l’agitazione
del
momento. «Inoltre, mi piacerebbe
che
andassimo insieme alla visita, soprattutto alla prima ecografia...»
«Ma certo che andremo insieme, anche io voglio vedere il
nostro
bambino! O bambina, ovviamente» la rassicurò lui, prendendole
la mano
libera e baciandole il dorso. Sapeva bene che, essendo solo l’inizio della gravidanza, si sarebbe visto ben poco,
però era certo che sarebbe stato comunque emozionante.
«La Vittoria
ha detto che
ci siam fatti un regalo di Natale molto originale»
commentò, inaspettatamente, l’altra, non riuscendo
a
nascondere un sorriso divertito. Marcello, però, non appena
udì quel nome, non fu dello stesso avviso.
«Vittoria?»
le
domandò, infatti, augurandosi di aver capito male, pur
sapendo
quanto, purtroppo, fosse poco probabile. «Che cosa
c’entra
lei, esattamente?»
«L’ho incontrata
fuori dal laboratorio analisi, oggi l’era il
suo turno in ospedale» gli raccontò Beatrice,
alzando le spalle con fare innocente.
«Quindi, l’ha saputo prima di me»
osservò il
giovane, infastidito, domandandosi come facesse la sua amica a trovarsi
sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, anche se, forse,
lei avrebbe detto l’esatto contrario.
«Sì. Però, m’ha
promesso che non lo dirà a nessuno, nemmeno a Gerardo,
perché preferisce che siamo noi a dargli la
notizia».
«Eh, certo!» borbottò Marcello, ironico,
inarcando un sopracciglio. «L’importante
è che lo
sappia lei, mentre quel poveraccio è l’unico a non
esserne
al corrente!»
«M’ha
fatto anche
capire che le piacerebbe molto
essere la madrina» aggiunse la ragazza, infine,
sembrando perfino gradire l’idea.
A quel punto, il giovane decise di prendersi un paio di secondi per
calmarsi ed evitare che l’invadenza senza speranza di
Vittoria
gli rovinasse quel bel momento.
«D’accordo, d’accordo»
sospirò,
sforzandosi di non inveire contro l’amica. «Allora,
vorrà dire che inviteremo sia lei che Gerardo domani sera a
cena, così avremo
modo di dirlo anche a lui e chiedergli di fare da padrino al
nascituro».
A Beatrice piacque molto la proposta e fu subito d’accordo,
tuttavia, trovandosi in argomento, il ragazzo pensò bene di
aggiungere: «Per quanto riguarda gli altri, a cominciare da
mia
madre, penso, invece, che possiamo
anche aspettare qualche mese prima di dare
l’annuncio».
«E tuo papà?» chiese istintivamente la
ragazza, aggrottando appena la fronte. «Marcello, sai
bene che è in una situazione... precaria.
Son certa che
saprà mantenere il
segreto».
Messo di fronte a quell’obiezione, il giovane dovette
riconoscere
che sua moglie aveva assolutamente ragione, poiché,
nonostante il signor Giancarlo non sembrasse in imminente pericolo, i
medici non avevano certo taciuto i loro dubbi in merito. Una parte di
Marcello, quella più razionale, infatti, era consapevole del fatto
che il
destino di suo padre fosse in bilico e fu la stessa che in
quell’istante si ricordò di quello che gli aveva
detto
Gerardo poche ore prima.
«Anche perché credo che non avremmo potuto farlo
più contento,
visto che desidera molto un altro nipotino o
nipotina»
considerò il giovane, meditabondo,
augurandosi che, sapere che sarebbe stato presto di nuovo
nonno, avrebbe aiutato l’uomo ad avere una ragione
in
più per farsi forza.
Regalandogli una carezza di conforto, Beatrice, a quel punto, richiamò la
sua attenzione: «A proposito, si deve scegliere
il nome!»
«Di già?» chiese il ragazzo, stupito.
«Non è presto?»
Ma la moglie scosse la testa.
«Be’, possiam cominciare
a farci
un’idea. Anche se, a dirla tutta, questa è
l’unica cosa
che vorrei
tener segreta fino all’ultimo».
Pensando che potesse essere un buon compromesso, il giovane
annuì e, sistemandola meglio tra le proprie braccia, si
preparò ad ascoltare quali opzioni aveva in mente.
«Se dovesse essere una bambina» esordì,
«ti piacerebbe se la chiamassimo Elena, come mia
madre?»
«È un bel nome» confermò
l’altro. «D’altra parte, non la
chiamerei Claudia nemmeno se non ci fosse già
l’altra
nipote».
Soddisfatta per la risposta ottenuta e per la sintonia che
c’era
con il consorte, Beatrice sorrise e proseguì:
«Invece, se
sarà un bambino, che ne dici di...»
Si fermò per un istante, concedendosi un sorriso, e poi si
avvicinò di più a lui, sussurrandogli qualcosa
all’orecchio.
«Ne sei sicura?» chiese Marcello, piacevolmente
colpito.
«Non potrebbe esserci scelta
migliore» decretò lei, serena.
All’improvviso, la finestra sulla parete in fondo si
spalancò e una lieve brezza si insinuò nella
stanza,
giocando con le tende, gonfiandole, e solleticando i cristalli del
lampadario, facendoli tintinnare. Accarezzò anche i due
giovani, scompigliando con dolcezza i loro capelli.
«Eppure, l’ero
convita di averla chiusa!»
esclamò la ragazza, incredula, non riuscendo a capire come
l’anta potesse essersi aperta, soprattutto con un venticello
debole come quello.
«Tranquilla, ci penso io» affermò il
giovane, aiutandola a rimettersi in piedi prima di alzarsi a sua volta.
Una volta che la finestra venne richiusa, il Vento dell’Ovest
seppe che per lui era arrivato il momento
di congedarsi da Marcello e Beatrice e ricominciare il suo viaggio. Come ultimo saluto al parco
di Villa Aurelia, che lo aveva accolto in quella lontana giornata
autunnale, lo percorse in lungo e in largo, facendo vibrare ogni ramo e
vorticare le foglie cadute in terra. Quindi, si librò in
aria,
sempre più in alto, fino alle nuvole, portandole con
sé
verso altri luoghi da esplorare, altre persone da conoscere e nuove
storie da
raccontare.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per seguirmi sempre.
***
[N.d.A]
1. Sacra Rota:
nome popolare per il Tribunale
della Rota Romana,
tribunale ordinario della Santa Sede. Tra le varie
attività, si occupa anche di valutare i casi di richiesta di
annullamento dei matrimoni celebrati secondo il rito cattolico.
***
Devo ammettere che, nell’arco di questi cinque anni, ci sono
stati dei momenti in cui ho temuto che non sarei mai arrivata a questo
punto.
Ho deciso di lasciare questo finale un po’ incompiuto,
soprattutto per la parte poliziesca, perché tra gli anni
‘60 e ‘80 ci sono state moltissime vicende di
cronaca -
anche politica - irrisolte e volevo essere coerente con i tempi.
Come già ho anticipato, questa storia non avrà sequel canonici, tuttavia è vero che Marcello e Beatrice hanno un piccolo ruolo in un’altra
mia
storia, scritta qualche anno fa, e avranno un cameo nel racconto che ho
in cantiere, dove compariranno anche Gerardo e Vittoria.
Come ultimo “promemoria”, vi avviso che
nelle prossime
settimane revisionerò massicciamente i primi due capitoli di
questa storia (le ragioni saranno spiegate a revisione ultimata).
Ringrazio di cuore chiunque mi abbia sostenuta: chi ha letto tutta la
storia, anche silenziosamente;
chi l’ha messa tra le preferite/ricordate/seguite; chi, in
passato, mi ha fatto sapere la sua; chi mi ha
lasciato una recensione allo scorso capitolo (Aven, StormyPhoenix).
Per seguire gli aggiornamenti sui miei prossimi lavori, vi lascio il
solito link alla mia pagina
facebook. Se, invece, volete avere una panoramica di tutte le
trame connesse a questa, troverete sul blog
una sorta di indice.
Grazie mille per essere rimasti fino alla fine e per aver atteso,
pazientato, creduto di poterci arrivare.
Halley
S.C.
P.S.
Come bonus-premio per tutti voi temerari, ho cominciato a lavorare su
alcuni disegni. Gerardo e Vittoria sono solo
da colorare, Marcello e Beatrice sono in realizzazione. Appena finiti,
saranno resi pubblici sulla mia pagina DeviantArt.
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