Chiedo
perdono a tutti i miei lettori e a tutte le mie lettrici, l’Alzheimer
e la forza dell’abitudine mi hanno fatto dimenticare una cosa
importantissima: i ringraziamenti a chi ha la pazienza di sciropparsi
i miei scritti!!
Quindi
sentitamente ringrazio per la cortese attenzione e per i gentili
commenti Saelde_und_Ehre, fiore di girasole, Jordan Hemingway,
morgengabe, Sagas, Dark_sky114, LyaStark, innominetuo, Syila,
miciaSissi, Me91, GothicGaia e Spettro94.
Capitolo 1
Konrad
von Obenstein si terse per l’ennesima volta il sudore dalla faccia.
Il sole picchiava con cattiveria e il caldo era insopportabile.
Si
guardò intorno: tolto suo padre e il loro seguito, il luogo sembrava
completamente disabitato. La cosa peraltro non lo stupiva: ovunque
volgesse lo sguardo, a perdita d’occhio, si estendevano alture
brulle e disseminate di pietre giallicce. Qua e là crescevano
cespugli contorti, dalle foglie dure come cuoio.
All’orizzonte
si vedevano solo le creste frastagliate dei monti, ricoperte da una
vegetazione aspra e scura. L’aria immobile odorava di lentisco e
ginestra.
Staccò
la borraccia dalla sella e bevve un sorso, quindi spronò il cavallo
fino ad affiancarsi al padre. “Manca molto?” gli chiese. Avevano
lasciato San Giovanni d’Acri da non più di due ore, e già gli
sembrava un’eternità.
Si
guardò intorno di nuovo. Era abituato ai boschi solenni delle sue
parti, così fitti che spesso non vi penetrava nemmeno la luce del
sole, alla brezza fresca e odorosa di resina, ai prati di smeraldo
costellati di fiori, alle case a graticcio coi tetti di paglia.
Paragonato
al suo paese, quel luogo gli pareva più inospitale di un girone
dell’inferno.
“Un’altra
ora e ci siamo,” gli giunse la risposta del genitore, distraendolo
bruscamente dalle sue riflessioni.
Konrad
si limitò ad annuire.
“Ci
fermeremo qualche giorno presso il castello dell’Ordine,”
soggiunse poi Ulrich von Obenstein, e il ragazzo notò che sembrava
soddisfatto all’idea.
Purché
non gli venga in mente di lasciarmi qui,
pensò preoccupato. Per seguire il padre nel pellegrinaggio in Terra
Santa aveva dovuto abbandonare le letture di retorica e poesia che
stava frequentando a Norimberga, e la sua intenzione era quella di
riprenderle il più presto possibile, magari addirittura presso la
famosa Università di Bononia. Rimanere in una pietraia arroventata a
combattere contro i nemici di Cristo, peraltro in compagnia di
cavalieri che avevano fatto della rinuncia ai beni terreni la loro
ragione di vita, era l’ultima cosa cui anelava.
Non
era minimamente nei suoi programmi rinunciare ai beni terreni, né ai
piaceri che la vita era in grado di offrire a un uomo di buone
sostanze e fine sentire.
Proseguirono
un altro po’ in silenzio, e dopo l’ennesima curva videro
finalmente il castello di Starkenberg stagliarsi in tutta la sua
imponenza su uno sperone di roccia a picco sulla strada.
Ulrich
von Obenstein fermò il cavallo, quindi nonostante il cappello che
portava si fece ombra con la mano e osservò a lungo la possente
struttura. Infine soddisfatto proferì: “Magnifico. Non è vero,
figliolo?”
“Sì,
padre.”
“Un’opera
superba. Da quando Hermann von Salza è diventato Gran Maestro,
l’Ordine Teutonico è in continua espansione,” disse in tono
soddisfatto. Dopo una pausa, soggiunse: “Spero proprio che mi darà
udienza.”
“Lo
spero anch’io, padre,” sospirò Konrad, al quale le vicende
dell’Ordine interessavano decisamente poco.
“Prima
noi tedeschi eravamo disprezzati,” proseguì imperterrito il
genitore, “Templari e Ospitalieri ci trattavano dall’alto in
basso.”
“Ora
non accadrà più, padre,” rispose il ragazzo.
“Certamente!
Guarda che fortezza possente. Ah, se avessi trent'anni di meno...”
Konrad
sorrise. “Che cosa fareste, padre?”
“Entrerei
nell'Ordine, ovviamente.” Si voltò verso di lui con aria di vago
rimprovero. “Mi stupisce che tu non ci abbia mai pensato.”
L'altro
represse un brivido di orrore e con decisione rispose: “Non fa per
me, padre. Preferisco lo studio e la contemplazione.”
“Delle
damigelle,” concluse Ulrich von Obenstein con un sorriso, e il
figlio non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
Nello
stesso momento, sugli spalti del castello due soldati stavano
scrutando la colonna in avvicinamento.
Uno
dei due osservò il gruppo di uomini a cavallo e animali da soma e
disse: “Sono civili di sicuro. Guarda come vanno in giro
sparpagliati.” La voce aveva una vaga nota di disprezzo.
L'altro
annuì. “Lo vedo. Riesci a capire di dove sono?”
“Tedeschi.
Secondo me stanno venendo qui.”
“Quando
al castello c’è il Gran Maestro, c'è più confusione che al
mercato di Ulm. Sarà meglio avvertire il sergente.”
“Vado.”
Il
soldato corse lungo gli spalti e scese nel cortile. Individuò un
uomo imponente, con un mantello grigio sul quale spiccava la croce
nera dell’Ordine. Si fermò davanti a lui e annunciò: “Una
colonna in avvicinamento, sergente!”
L’altro
aggrottò le sopracciglia. “Dove?”
“Lungo
la strada di Acri, sergente.”
“Sono
cristiani?”
Il
soldato assunse un’aria assorta. “Vestono come tali,” rispose
alla fine.
Il
graduato annuì, evidentemente soddisfatto della risposta. “Fammi
vedere,” disse poi.
Insieme
si recarono sugli spalti. La colonna nel frattempo si era fatta più
vicina e già si distinguevano le insegne che esibiva. Il sergente la
seguì con lo sguardo facendosi ombra con la mano, quindi disse: “Due
nobili e il loro seguito. Sicuramente verranno qui.” Rimase un
altro po’ a fissare il gruppetto con espressione vagamente
infastidita, quindi brontolò: “Sarà meglio che vada ad avvisare i
Fratelli Cavalieri.”
Quando
se ne fu andato, i due soldati si scambiarono un’occhiata. Quello
che era andato a chiamare il sergente ghignò e disse: “L’unica
cosa che il vecchio Dorn odia più degli infedeli sono le delegazioni
di pellegrini che vogliono fermarsi al castello.”
L’altro
annuì. “Fanno disordine,” proclamò, imitando la voce possente
del graduato.
Quando
la piccola colonna arrivò alla base dello sperone di roccia su cui
sorgeva Starkenberg, la porta della mura si aprì e da essa uscirono
affiancati due cavalieri. Montavano due grandi destrieri grigi,
portavano l’usbergo e l’elmo, e sul mantello bianco avevano una
croce nera.
Si
fermarono qualche istante a osservarli, poi cominciarono a procedere
al passo lungo la discesa.
Stringendo
gli occhi nella luce forte, Konrad li osservò, trovandoli al tempo
stesso minacciosi e imponenti. Si volse verso il padre e a bassa voce
chiese: “Sono loro?”
“I
Fratelli Cavalieri,” confermò il genitore. “Ne bastano venti per
sbaragliare un esercito.”
Rimasero
in attesa.
I
due continuarono a scendere, gli unici rumori che si udivano, a parte
lo sbuffare di qualche cavallo accaldato, erano lo scalpiccio degli
zoccoli e il tinnire degli usberghi. Arrivarono sulla strada e di
nuovo si fermarono.
Ci
fu qualche lungo istante di silenzio, poi Ulrich von Obenstein si
fece avanti e presentò se stesso e il figlio. “Veniamo da Dürnau,
in Franconia,” disse poi. Scrutò indeciso le due figure immobili,
nella speranza di leggere nel loro atteggiamento qualche segno che lo
incoraggiasse a proseguire. “Siamo qui per compiere un
pellegrinaggio,” disse infine.
Uno
dei cavalieri si tolse l’elmo, rivelando il volto di un giovane
dagli occhi chiari. Sulla guancia aveva una cicatrice che scompariva
sotto il bordo del cappuccio di maglia. “Salute a voi,” disse
serio, “Io sono fratello Friedrich e il mio compagno è fratello
Albrecht.” Senza togliersi l’elmo, l’altro cavaliere chinò
appena il capo in segno di saluto.
“Il
Priore di Starkenberg vi offre la sua ospitalità.”
“La
accettiamo volentieri,” rispose Ulrich von Obenstein.
“Allora
seguiteci.”
Senza
aggiungere altro, i fratelli cavalieri fecero girare i destrieri e
presero a percorrere la salita che portava alla fortezza.
Entrarono
in un cortile lastricato, nel quale regnava un ordine scrupoloso. I
due fratelli cavalieri smontarono da cavallo, e subito dei servi
presero gli animali per le redini e li condussero via. Subito dopo
arrivarono gli scudieri, ai quali essi consegnarono gli elmi.
Si
fecero scivolare indietro il cappuccio di maglia con la disinvoltura
di un gesto abituale, si scambiarono qualche parola a bassa voce. Uno
disse qualcosa, l’altro assentì col capo. A Konrad diedero
l’impressione di essere circondati da muri invisibili, che li
separavano da chiunque altro.
Mentre
i servi prendevano in consegna le cavalcature dei pellegrini,
comparve sulla soglia dell’edificio principale un fratello
cavaliere che poteva avere una quarantina d’anni. Era alto e
imponente, con i capelli appena striati di grigio. La sua cotta
d’arme non differiva da quella degli altri se non per un sottile
ricamo d’oro che si sovrapponeva alla croce nera sul petto. Al suo
apparire, i due che li avevano accompagnati si inchinarono
rispettosamente.
Il
nuovo arrivato si fece avanti e disse: “Salute a voi. Io sono
fratello Burkhard, priore di Starkenberg. Vi porgo il benvenuto.”
A
quelle parole, Ulrich von Obenstein rispose: “Vi rendo grazie,
priore. È per noi un grande privilegio essere qui. Abbiamo sentito
parlare molto e bene di questo luogo, ed eravamo ansiosi di vederlo.”
“Per
prima cosa entrate, così potrete riposarvi e bere un po’ d’acqua.”
Condusse
padre e figlio in una sala dal mobilio essenziale, con volte a sesto
acuto sostenute da colonne, nella quale regnava una piacevole
penombra. Da lì proseguirono lungo un corridoio fino a una stanza
grande e arredata con tavoli e panche di legno. In un angolo c’era
un leggio con un libro aperto. Il segnalibro rosso che pendeva dal
volume era l’unica nota di colore dell’ambiente e spiccava con
insolita crudezza.
“Sedete,”
disse il cavaliere. La parola, pronunciata con l’intento di essere
un cortese invito, suonò come un ordine.
Quando
i due ebbero preso posto, a voce più alta chiamò: “Klaus!”
Da
una delle porte arrivò un giovane servo, che si inchinò e disse:
“Priore?”
“Klaus,
porta acqua fresca, frutta e pane per i nostri ospiti.”
Seduto
su una panca, Konrad continuava a pensare alla taverna del Grifo,
dove era solito andare la sera quando era a Norimberga. Avrebbe dato
tutto quel che possedeva per un bel boccale di vino del Reno e un
pasticcio di quelli che sapeva fare Grete, con la cannella e i chiodi
di garofano. Emise un sospiro.
Fissò
di nuovo lo sguardo sul segnalibro, che agitato appena da una lieve
corrente sembrava una sottile lingua di fuoco.
La
voce del priore lo distrasse dalle sue meditazioni: “Vi vedo
pensieroso.”
Konrad
quasi sussultò. “Non sono abituato a questo clima,” rispose.
L’altro
ebbe un lieve sorriso. “Già, vi capisco. Io sono di Lubecca.”
Ulrich
von Obenstein intervenne: “Allora soffrite più di noi con questo
caldo.”
“Ci
ho fatto l’abitudine.”
Tornò
il servo di nome Klaus, con un vassoio su cui si trovavano una
brocca, dei bicchieri, una forma di pane, dei datteri e delle arance.
Il
priore fece cenno al ragazzo di posarlo sul tavolo.
Questi
obbedì, quindi si inchinò e si allontanò. A questo punto Fratello
Burkhard dispose i bicchieri di terracotta davanti agli ospiti e li
riempì d’acqua, poi disse: “Bevete, sarete sicuramente
assetati.”
Konrad
rimpiangeva senza dubbio il vino del Reno, ma di fronte alla tazza di
acqua fresca non si fece pregare: la vuotò in un attimo, poi la posò
con un sospiro soddisfatto. Il priore gliela riempì di nuovo, ed
egli la vuotò con la stessa velocità della precedente.
“Ti
prenderai un malanno,” intervenne il padre.
“Il
malanno lo prendo se non bevo, padre mio,” rispose Konrad,
vagamente ansante per aver tracannato il contenuto del recipiente
tutto d’un fiato.
Per
un po’ rimasero a parlare tra loro nella frescura del refettorio.
Il priore chiese notizie della Germania, rispose alle domande di
Ulrich von Obenstein e in generale spiegò al nobile quali riforme
dell’Ordine stesse portando avanti il Gran Maestro Hermann von
Salza.
Infine,
l’altro chiese: “Sareste così gentile da mostrarci la fortezza,
fratello Burkhard?”
Konrad
represse un sospiro di esasperazione. Esausto e grondante di sudore
dopo la cavalcata sotto il sole, avrebbe di gran lunga preferito
continuare a sedere all’ombra bevendo acqua, in mancanza di vino
fresco, e mangiando datteri, ma già il genitore si era alzato e lo
fissava, certo che anelasse quanto lui a vedere il castello.
A
malincuore, abbandonò la panca.
Il
cavaliere condusse i due attraverso stanze e corridoi, spiegando di
volta in volta quale fosse la funzione dei locali che visitavano.
Videro armerie, magazzini, laboratori di artigiani, scuderie.
“E
qui è dove ci alleniamo,” disse infine fratello Burkhard,
indicando ai due una porta che si apriva sull’esterno. Da essa
provenivano clangore di armi, tramestio e voci.
Konrad
si affacciò: al di là vi erano fantocci di paglia, rastrelliere con
armi di legno o di metallo, scudi, protezioni per il corpo e in
generale tutto quanto era necessario all’esercizio marziale.
C’erano
due cavalieri che combattevano. Per quanto si stessero solo
allenando, il duello era serrato, e i colpi erano portati quasi a
pieno.
Il
ragazzo rimase per un po’ a seguirli con lo sguardo, e così
facendo notò una cosa che lo lasciò stupefatto: possibile che uno
dei due fosse un vecchio? Aveva i capelli candidi. Eppure era alto e
dritto come un abete, aveva spalle larghe, ma soprattutto si muoveva
con una velocità e una potenza che non potevano essere quelle di una
persona anziana.
Si
voltò verso il priore in una muta richiesta di spiegazioni.
L’altro
sorrise e annuì: evidentemente non era nuovo a tali reazioni di
fronte a quel cavaliere. “Quello è fratello Adalrich,” disse
semplicemente.
Konrad
aggrottò le sopracciglia. Avrebbe voluto chiedere se per caso era
ammalato, ma il vigore dei suoi movimenti faceva pensare a qualsiasi
cosa tranne la presenza di una malattia. Notò che a parte le guance
arrossate per lo sforzo, era di un pallore quasi diafano, come se il
sole non avesse il potere di scurire la sua carnagione.
“Quanti
anni ha?” chiese semplicemente, senza staccare gli occhi da lui.
“Ventuno.”
“Ma
ha i capelli bianchi.”
“È
nato così.”
Con
la coda dell’occhio, Konrad notò che a quelle parole il padre
aveva mosso la mano come per segnarsi, poi vi aveva rinunciato, forse
temendo di offendere il priore.
I
due si scambiarono un’occhiata.
Il
cavaliere, nel frattempo, stava portando a termine un ennesimo
assalto. Konrad lo vide incalzare l’avversario con forza, parando
senza apparente difficoltà ogni suo attacco, arginando i suoi sempre
più scomporti tentativi di difesa e rispondendo con precisione a
ognuno di essi.
Alla
fine, l’altro cavaliere lasciò cadere l’arma e alzò le mani in
segno di resa.
Il
primo, la spada ancora in posizione di attacco, si immobilizzò. I
due si scambiarono qualche parola che a causa della distanza Konrad
non riuscì a capire, poi quello con i capelli bianchi prese una
brocca, versò da essa un bicchiere d’acqua e lo tese al compagno.
L'altro,
un biondo con i capelli lunghi fino a coprire le orecchie e luminosi
occhi azzurri dall'espressione allegra, lo accettò, ne bevve la metà
e poi lo passò nuovamente al primo, che bevve a sua volta. Si
scambiarono di nuovo qualche parola, Konrad intuì che il cavaliere
con i capelli bianchi stava dicendo all'altro qualcosa sul duello che
avevano appena combattuto.
Il
biondo annuì, riprese la spada e la brandì. L'altro parve
soddisfatto: posò il bicchiere da una parte, raccolse a sua volta
l'arma e si mise in guardia. In breve stavano di nuovo duellando come
se dal loro scontro fossero dipesi i destini della Cristianità in
Terra Santa.
Il
priore per un po' li lasciò fare, poi a voce alta chiamò: “Fratello
Adalrich, fratello Hermann!”
I
due si immobilizzarono. Entrambi abbassarono le spade, si voltarono
verso di lui e si inchinarono rispettosamente.
Konrad
considerò che visto di fronte il cavaliere con i capelli bianchi
aveva un aspetto ancora più inquietante: non solo era candida la
chioma, ma anche le ciglia e le sopracciglia. La pelle era di un
pallore mortale.
In
quel volto bianco, gli occhi grigio bluastri risaltavano in modo
inquietante, e assieme ai lineamenti squadrati gli conferivano un
aspetto severo che metteva quasi a disagio.
Peraltro,
fratello Adalrich era alto almeno quattro dita più del compagno, che
pure era di statura decisamente imponente.
“Fratelli,”
disse il priore, “questi sono pellegrini che provengono dalla
Franconia. Sono il barone Ulrich von Obenstein e suo figlio Konrad.
Saranno nostri ospiti.”
A
quelle parole, il biondo esibì un largo sorriso. “Benvenuti!”
esclamò, “Io sono Hermann von Seebach.” Si guadagnò
un'occhiataccia da parte del priore. “Oppure solo fratello Hermann,
è più pratico. Vi fermerete molto?”
“Si
fermeranno il necessario,” replicò fratello Burkhard.
“Perché
qui ci sono dei bei posti da visitare, magari...”
“Fratello
Hermann.”
Il
giovanotto sorrise imbarazzato e chinò la testa. “Scusate, priore.
Mi faccio sempre prendere dall'entusiasmo.”
L'altro
sorrise a sua volta. “Non fa niente. Continuate ad allenarvi.”
Poi, rivolto agli ospiti: “E ora, voglio mostrarvi la nostra
chiesa.”
Si
incamminò verso uno stretto sentiero lastricato.
Mentre
alle loro spalle ricominciava il clangore delle armi, Konrad si
soffermò a pensare ai due cavalieri. Per quanto fossero stati
cortesi, perlomeno uno, aveva avuto di nuovo l'impressione di pareti
invisibili che li separavano dal resto del mondo.
Si
chiese come doveva essere, rinunciare a tutto per seguire i precetti
di Bernardo da Chiaravalle.
Mentre
era immerso in quei pensieri, udì suo padre chiedere al priore: “Per
caso il Gran Maestro è al castello?”
“Sì,
non vedete la bandiera sul mastio?”
Konrad
alzò gli occhi e in effetti vide sventolare il vessillo con la croce
di Gerusalemme nera e oro in campo argento.
Il
barone von Obenstein guardò a sua volta, poi chiese: “Potrei avere
la grazia di parlargli? Anche solo per poco tempo.”
“Il
Gran Maestro è molto impegnato, io temo che...”
“Per
favore. Solo poche parole.”
L'altro
sembrò esitare per qualche istante, poi rispose: “D'accordo,
sentirò se in questi giorni troverà un po' di tempo per voi.”
“Grazie,
sarebbe veramente un grande dono.”
“Faremo
il possibile.”
Proseguirono.
La chiesa, che comparve dietro una svolta, era un'imponente
costruzione realizzata in pietra locale. Lo spessore delle pareti,
l'esiguità delle finestre a sesto acuto e la potenza dei
contrafforti suggerirono a Konrad che fosse stata pensata come
estrema possibilità di difesa in caso di assalto al castello.
“Molto
bella,” apprezzò il barone von Obenstein.
“È
stata terminata meno di dieci anni fa. Una volta questo luogo era
tutto in rovina, è stato l’Ordine a riportarlo all’antico
splendore.”
“Davvero?”
“Il
Gran Maestro l’ha acquistato dalla famiglia De Milly e l’ha fatto
restaurare.” Il priore puntò i pugni sui fianchi e si guardò
intorno con espressione fiera. “Prima si chiamava chateau Montfort,
adesso è Starkenberg.”
“È
una costruzione imponente,” apprezzò il barone. Si rivolse al
figlio: “Non è vero?”
Konrad,
che durante lo scambio non aveva fatto altro che vagheggiare la
frescura che sicuramente doveva regnare all’interno della chiesa,
si limitò ad annuire.
“Molto
bello,” ripeté Ulrich von Obenstein.
Mentre
stavano parlando fra loro, la porta della chiesa si socchiuse e da
essa uscì un cavaliere che poteva essere un po’ più vecchio del
priore. Aveva la barba brizzolata e i capelli dello stesso colore.
Gli occhi castani avevano uno sguardo apparentemente morbido, dietro
il quale si indovinavano però una viva intelligenza e una volontà
adamantina. Vestiva una semplice cotta d’arme con la croce nera
ricamata d’oro, e portava sulle spalle il mantello bianco.
Il
priore si inchinò immediatamente. “Gran Maestro,” disse in tono
rispettoso. Anche i due ospiti gli rivolsero un inchino.
“Non
fate così,” disse il nuovo arrivato con un sorriso, “mi mettete
in imbarazzo. Siamo tutti uguali dinnanzi a Dio.”
I
tre si raddrizzarono, poi il priore disse: “Gran Maestro,
permettetemi di presentarvi il barone Ulrich von Obenstein e suo
figlio Konrad. Arrivano dalla Franconia per compiere un
pellegrinaggio.”
Von
Salza sollevò le sopracciglia in un’espressione piacevolmente
sorpresa. “Dalla Franconia?” ripeté.
Il
barone assentì col capo. “Sì, Gran Maestro.”
L’altro
lo prese familiarmente per una spalla. “Allora, mio caro amico, mi
piacerebbe che mi raccontaste cosa sta succedendo in patria.” Si
rivolse al ragazzo: “A voi non dispiace se mi intrattengo un po’
con vostro padre, Konrad?”
L’altro
si affrettò a scuotere la testa. “No. Certo che no, Gran Maestro.”
Von
Salza sorrise. “Torneremo presto.”
Il
giovane annuì. Il Gran Maestro era amico e consigliere
dell’Imperatore Federico II, parlava abitualmente con il papa, era
stato decorato sul campo per il suo valore nell’assedio di
Damietta, eppure sembrava quasi che si stesse scusando con lui perché
intendeva sottrargli il genitore per un’ora. “Aspetterò in
chiesa,” disse.
“Saggia
decisione,” approvò von Salza, “non siete ancora abituato al
caldo di questi luoghi.”
Si
allontanò al fianco di Ulrich von Obenstein.
Konrad
rimase a guardarlo per un po’ mentre camminava lentamente insieme a
suo padre, poi entrò in chiesa.
Dentro
c’era fresco, perlomeno rispetto alla calura esterna, e regnava una
piacevole penombra. Tolta l’eco dei passi sulle volte del soffitto,
l’edificio era immerso nel silenzio. Le strette finestre erano
chiuse da semplici vetri trasparenti e l’altare era di pietra
liscia e senza decorazioni. Gli unici ornamenti si trovavano nei
capitelli delle colonne, che rappresentavano scene di ispirazione
sacra.
Si
sedette su una delle panche e di nuovo ripensò a Norimberga. Si
chiese cosa stessero facendo in quel momento i suoi compagni di
studi. Data l’ora, probabilmente stavano andando tutti alla taverna
del Grifo, alla ricerca di Grete e dei suoi pasticci.
Emise
un sospiro mentre lo stomaco gli ricordava con un brontolio che era
quasi ora di pranzo. Niente pasticci da quelle parti, né tanto meno
belle ragazze. Nessuna lettura di poesia cortese, o di retorica.
Ripensò a Hermann von Salza e gli parve strano che un uomo dall’aria
così fine e intelligente riuscisse ad adattarsi a una vita così
priva di ogni piacere.
Ma
lui mica sta in questo posto dimenticato da Dio, se non è
necessario, disse fra
sé e sé, gira per le
corti, vede luoghi piacevoli, parla con persone erudite.
Il
rumore della porta che si apriva lo distrasse dalle sue
considerazioni.
Si
voltò e vide che stava entrando qualcuno che portava il mantello
bianco dei cavalieri con il cappuccio tirato fin sugli occhi. Guardò
incuriosito il nuovo arrivato, che percorse tutta la navata, quindi
si fermò di fronte all’altare maggiore e si scoprì il capo. A
quel punto Konrad riconobbe il cavaliere dai capelli bianchi.
Nello
stesso momento, questi si accorse di lui e si voltò a fissarlo.
“Fratello…
Adalrich?” chiese il ragazzo, vagamente esitante sotto quello
sguardo truce.
L’altro
si limitò ad annuire.
Konrad
si alzò, fece qualche passo verso di lui. “Combattete molto bene,”
gli disse.
Il
cavaliere gli rivolse un cenno del capo. “Grazie,” rispose poi.
Successivamente tornò a girarsi verso l’altare, dinnanzi al quale
si inginocchiò.
L’altro
rimase per qualche istante a guardarlo. Riusciva difficile pensare
che fosse di carne e sangue come chiunque altro. Sembrava piuttosto
fatto di ghiaccio, o di pietra.
Si
sedette di nuovo sulla panca. Il cavaliere rimase immobile, lo
sguardo fisso alla croce.
Dopo
un po’, Konrad si alzò e rinculò verso la porta cercando di fare
meno rumore possibile. Fuori c’era caldo, ma la presenza di
fratello Adalrich lo metteva talmente a disagio che il sole a picco
gli risultava preferibile. Una volta uscito, si imbatté nel priore.
Questi gli sorrise e gli chiese: “Cercate vostro padre?”
“No,
io…” Si morse il labbro inferiore. “C’era un cavaliere che
pregava, non volevo disturbarlo.”
L’altro
annuì consapevole. “Fratello Adalrich, vero?”
Il
ragazzo annuì.
“Non
dovete lasciarvi spaventare,” gli disse.
“Ma
veramente...”
“Suvvia,
ho visto come lo guardavate, e so che effetto fa a chi lo vede per la
prima volta. C’è chi parlerebbe di opera del Demonio, ma di certo
fratello Adalrich non porterebbe la croce sul petto con tanto
entusiasmo, se avesse qualcosa a che fare con il Maligno, non vi
pare?”
“Immagino
di no.”
“È
la spada migliore di Starkenberg.”
“Non
stento a crederlo.”
L’altro
emise un sospiro. “Eppure temo che nella sua vita abbia combattuto
molto più contro i Cristiani che contro gli infedeli. Persino qui in
Terra Santa hanno parlato di stregoneria.” Sorrise fra sé e sé.
“Il Gran Maestro degli Ospitalieri è arrivato addirittura a
insinuare che sia stato grazie ai suoi commerci con il Demonio che
l’Ordine Teutonico è riuscito ad acquisire e restaurare questo
castello. Non l'ha mai detto esplicitamente, è ovvio, ma la voce è
girata.”
Konrad
stava per rispondere quando cominciarono a farsi udire le voci di suo
padre e di von Salza in avvicinamento. “Tutto ciò che mi avete
narrato è del massimo interesse,” stava dicendo il Gran Maestro.
“Sono
solo piccoli fatti della nobiltà locale,” si schermì il barone.
“Spesso
dai piccoli fatti si possono apprendere cose che i grandi eventi non
insegnano.”
Quando
i due si avvicinarono, il ragazzo si inchinò nuovamente in segno di
rispetto. Il Gran Maestro accolse quell’omaggio con un cenno del
capo, ma subito dopo gli pose una mano sulla spalla e lo invitò a
rialzarsi. “Il vostro signor padre mi ha detto che studiate
retorica e poesia a Norimberga,” gli disse.
“È
così,” confermò Konrad.
“E
ditemi, vi piace?”
Nonostante
ogni buon proposito di mantenersi impassibile, al ragazzo si illuminò
il viso. “Oh, sì. Moltissimo.”
“Che
cosa vi piace di quella città?”
Konrad
tacque confuso, nulla di ciò che avrebbe voluto dire era adatto alle
orecchie di un frate combattente.
“Coraggio,
parlate. Non abbiate timore,” lo incoraggiò Hermann von Salza.
“Ecco...”
si decise a dire il ragazzo, certo di essere arrossito fino alla
radice dei capelli, “Ecco, Gran Maestro, ci sono le letture di
eruditi che vengono da tutta Europa, ci sono tanti altri studenti...”
“E
molte taverne,” soggiunse il cavaliere, “Dico bene?”
“Ecco…
sì. Credo che abbiate colto il problema.”
L’uomo
sorrise divertito, quindi si voltò verso il barone von Obenstein e
disse: “Vedete anche voi che vostro figlio non desidera questa
vita. O si è pronti ad abbracciare la regola dell’Ordine con tutto
il cuore, oppure essa diventa una sofferenza insopportabile. Il
giovane Konrad vuole studiare e svagarsi, e l’unico viaggio che
affronterebbe volentieri sarebbe quello per Bononia, dico bene?”
Konrad
annuì, sentendosi stranamente imbarazzato.
Von
Salza con tono tranquillo proseguì: “Il che non vieta comunque che
trascorriate presso di noi qualche giorno, per riposare e prepararvi
alle fatiche del viaggio che vi attende. Permettetemi inoltre di
invitarvi al nostro desco. Vi devo però chiedere di non parlare
durante il pasto: i fratelli cavalieri sono tenuti alla regola del
silenzio ed essa si estende a chiunque sieda a tavola.”
|