Tarocchi 4
Ciao cari/e,
rieccoci
qui per la chiusura della faccenda.
Ringrazio
sentitamente tutti coloro che sono passati di qui, mi hanno letto o
addirittura mi hanno lasciato un parere!^^
Capitolo
4
Raccolta
lungo i marciapiedi, una piccola folla seguiva con attenzione quello
che stava succedendo intorno alla casa di O’Hanigan.
Il
movimento era iniziato al mattino presto: era arrivato un gruppetto
di poliziotti, che avevano cominciato a girare su e giù
davanti alla
tetra magione scambiandosi commenti. Nessuno era entrato.
Successivamente
erano arrivati due veicoli: un carro chiuso dell’obitorio e
una
carrozza di strada. Dalla seconda era sceso un reverendo con tanto di
paramenti e Sacra Bibbia, che appena messo piede a terra aveva tirato
fuori un fazzoletto inamidato e se l’era premuto su naso e
bocca
con aria disgustata, poi si era guardato intorno con l’aria
di chi
si rende conto di essere sceso dalla carrozza nel posto sbagliato e
non sa come tornarsene indietro.
Dalla
piccola folla un uomo, mani in tasca e cappello calcato in testa,
sprezzante osservò: “Sembra uno che deve farla e
non trova la
latrina.”
Al
suo fianco, un altro brontolò: “E tutte queste
aragoste crude[1],
qui in giro, che vogliono? Non è bene svegliare il cane che
dorme.”
“Già,
eravamo stati tranquilli per un bel po’, e
adesso...”
Sopraggiunse
un altro veicolo, che scaricò un’ulteriore piccola
frotta di
agenti. Gli spettatori rivolsero al gruppetto dei nuovi arrivati
sguardi poco amichevoli.
Un
poliziotto passò lungo la folla e ruvidamente disse:
“Non c’è
niente da vedere. Circolare.”
Fece
un gesto inequivocabile con lo sfollagente.
“Circolare,” ripeté.
Gli
astanti si dispersero. I più audaci si spostarono solo
più
indietro, chi ne aveva la possibilità si affacciò
alle finestre che
davano sulla scena. Gli altri tornarono scontenti alle rispettive
occupazioni.
L’agente
MacLeod spinse il cancello arrugginito, quindi si fece da parte e
disse: “Se volete seguirmi, sergente Kelsey, vi
farò vedere quello
che l’agente Campbell e io abbiamo scoperto.”
L’altro
annuì e si incamminarono lungo il vialetto. Quando furono a
una
certa distanza dai colleghi, disse: “Mi è venuto
il dubbio che tu
fossi ubriaco, quando mi hai raccontato quella storia,
ragazzo.”
“Nossignore,
ero perfettamente sobrio.”
“Intendo
dire: che tu e Campbell abbiate trovato un corpo nascosto in una
stanza ci può stare, in fondo non sarà il primo
crimine che rimane
impunito, ma il resto...”
“Ci
sono correlazioni molto chiare, signore, mi riesce difficile pensare
che siano semplicemente coincidenze. In ogni caso, se volete
seguirmi, vi mostrerò tutto.”
Entrarono
in casa, l’agente vide il sergente Kelsey rabbrividire quando
la
ben nota sensazione di freddo lo colse all’atto di mettere
piede
nell’ingresso. “È una dannata
ghiacciaia,” brontolò con fare
risentito. Abbassò gli occhi sul pavimento. “E
questi segni cosa
sono?”
“È
un pentacolo, signore.”
“Un
pentacolo? Cos'è, roba di magia?”
“Temo
di sì, signore. Abbiate la bontà di seguirmi,
prego.”
“E
quel ritratto?” Kelsey stava indicando la zingara davanti al
carrozzone.
“Credo
che si tratti di Catriona O’Hanigan.”
“Ma
perché ha tutti quei segni intorno?”
MacLeod
tolse il piede dal primo gradino della scala e raggiunse il
superiore. Fissò lo sguardo imperioso e spiritato della
donna. “Qui
ci sono cose che la logica non può spiegare,
signore,” gli disse
in tono tranquillo. “All’inizio ho provato
anch’io a trovare
una ragione scientifica per tutto questo, ma vi renderete conto anche
voi che non esiste. E ora, se volete seguirmi, vi faccio vedere cosa
c’è al piano superiore.”
Arrivarono
su, e subito MacLeod diresse il fascio di luce della lanterna verso
la porta che lui e Campbell avevano scoperto. “È
là, signore,”
disse.
Entrarono.
Il
corpo era ancora dove l’avevano lasciato, le carte nel
frattempo
non si erano mosse. MacLeod si chiese speranzoso se per caso non
fosse bastato l’intervento suo e di Campbell per vanificare
l’incantesimo, un po’ come succedeva quando da
ragazzino toccava
le uova di un nido, e poi chi le aveva deposte percepiva
l’odore
estraneo e non le covava più.
Kelsey
intanto stava osservando le spoglie mummificate con il distacco
dell’abitudine. “Non è la prima vecchia
stecchita che trovo,
ragazzo,” gli disse alla fine dell’ispezione,
“e non vedo il
motivo di fare tanto teatro. Ora chiama su il reverendo Smith e gli
inservienti dell’obitorio e sistemiamo le cose.”
MacLeod
lo fissò sbigottito. “Ma signore...”
mormorò.
“Che
c’è?”
“Ecco…
volete farla portare via e basta? Senza fare nient'altro?”
L’altro
sospirò. “MacLeod, tu sei un bravo ragazzo e
diventerai un agente
coscienzioso, ma devi imparare a non farti prendere
dall’emotività.
Alla vecchia sarà venuto un colpo mentre faceva le carte, e
suo
figlio l’avrà chiusa qui dentro per non pagare i
soldi del
becchino. Considerato che tipo era, non mi stupirebbe
affatto.”
Il
più giovane trasecolò. “Ma signore, e
quelle carte? Non vedete
che sono tutte collegate ai modi in cui gli agenti sono morti? Il
carro, la torre, la ruota...”
“Tu
sei troppo suggestionabile, ragazzo,” lo interruppe Kelsey.
Raccolse le carte, le unì al resto del mazzo e
appoggiò il tutto
sul comodino. “Ecco qui: i tarocchi cattivi non ci sono
più.
Adesso va', in Centrale mi aspettano cose importanti.”
“Ma
signore,” tentò ancora il giovane poliziotto,
“Tutti gli agenti
morti avevano partecipato alla stessa operazione.”
“A
quella e a mille altre. Ora su, da bravo.” Gli
indicò la porta con
fare significativo.
“Sissignore.”
MacLeod
uscì dalla stanza sentendosi un cretino. Aveva fatto muovere
mezzo
posto di Polizia per delle superstizioni da comari? A sentire Kelsey,
sembrava proprio di sì.
Eppure,
anche Campbell la pensava come lui, e non era mica una recluta. I
suoi quasi otto anni di servizio li aveva.
Poco
dopo, una piccola processione composta da lui, l'agente Campbell, il
reverendo e i due becchini che trasportavano una bara da poco prezzo
si mosse verso la casa.
Quando
furono dentro, i necrofori non guardarono né a destra
né a
sinistra. “Dov'è?” chiese soltanto il
più vecchio dei due.
“Al
piano di sopra,” rispose Campbell.
L’altro
si rivolse al proprio collega e severamente gli disse: “Che
non ti
venga in mente di inciampare come l'ultima volta.”
Alzò gli occhi
sui due agenti e soggiunse: “È caduto per le scale
e ha mollato la
bara. Vi lascio immaginare il resto. C'è da dire che era
ubriaco,
comunque.”
“Non
ero affatto ubriaco,” protestò il primo.
Senza
rispondere, l'altro batté un paio di volte la mano aperta
sulla
cassa e indicò le scale con un cenno della testa.
La
bara cominciò a procedere verso il piano superiore.
A
questo punto, l'agente Campbell si rivolse a Smith: “Dopo di
voi,
reverendo.”
Quando
arrivarono in camera, i due becchini avevano già deposto la
cassa a
lato del letto, e anche loro con la disinvoltura dell'abitudine,
stavano tirando vie le coperte. “Almeno non puzza,”
osservò uno
dei due.
“Già,
e neanche si disfa, visto che è rinsecchita.”
“Quelli
rinsecchiti sono i migliori.”
“Già.”
Per
sollevare il corpo, usarono il lenzuolo sul quale esso giaceva. Lo
deposero nella bara, poi il più giovane chiese:
“Che cosa facciamo
con questo?” Sollevò un lembo di stoffa.
L'altro
gettò un'occhiata significativa alle varie uniformi che
giravano su
e giù e scosse impercettibilmente la testa. Il lenzuolo
ricadde
nella bara.
A
questo punto si avvicinò Kelsey, che diede un'occhiata al
corpo
avviluppato nel percalle e disse: “Una benedizione e poi
chiudiamo,
reverendo.”
Smith
si fece avanti e prese a recitare: “Il Signore è
il mio pastore,
non manco di nulla...[2]”
Tutti
si scoprirono la testa e rimasero ad ascoltare le parole del
reverendo con espressione compunta.
Mentre
l'uomo parlava, MacLeod fece cenno a Campbell di spostarsi. Quando si
furono allontanati di qualche passo, sottovoce gli chiese:
“Adesso
dove la portano?”
“Immagino
al Tower Hamlets.”
“E
lì la seppelliranno?”
“Non
scavano con questo freddo, la metteranno da qualche parte
finché non
si riescono a fare le fosse.”
Si
spostarono in corridoio, e il più giovane chiese:
“Cosa pensi che
succederà?”
Campbell
si strinse nelle spalle. “Non lo so. Niente,
immagino.” Poi, dopo
una pausa: “O almeno lo spero.”
“Dici
che basterà una sepoltura cristiana per fermare la
maledizione?”
“Di
solito funziona così, no?”
Dalla
camera provennero i colpi del martello che inchiodava il coperchio
della cassa. Successivamente uscirono dapprima il sergente Kelsey e
il reverendo Smith, quindi i becchini che trasportavano la bara.
I
due agenti rimasero a guardarla in silenzio. MacLeod avrebbe voluto
avvisare il collega che sentiva ancora invariati sia il freddo
mortale che la sensazione di essere osservato, ma di fronte alla sua
espressione sollevata non ne ebbe il coraggio.
§
Era
mattino presto, e l'agente MacLeod era appena montato di servizio.
Era passata una settimana dagli ultimi eventi, e sembrava che la
signora in lutto non fosse più ricomparsa. Campbell
cominciava ad
avere un'espressione più distesa e Wyndham era leggermente
meno
intrattabile.
Il
poliziotto stava preparando il necessario per uscire di ronda quando
proprio Campbell lo raggiunse nella stanza riservata agli agenti. Era
di un pallore mortale, e aveva la faccia di chi ha appena visto un
fantasma.
Il
più giovane lo fissò stupito e gli chiese:
“Cosa c'è, Charles,
stai male?”
“Lynch
l'ha vista,” esalò lui per tutta risposta. Si
passò fra i capelli
una mano vagamente tremante.
MacLeod
non ebbe nemmeno bisogno di domandare chiarimenti.
“Quando?”
chiese soltanto.
“La
notte scorsa. È arrivata come al solito verso le due e
mezza.”
Il
più giovane deglutì, lo sogguardò
incerto. “Chi...?” osò
chiedere alla fine.
“Il
vecchio Fred.” Poi, notando l'espressione perplessa del
collega,
precisò: “Alfred Taggart, quello che ha cambiato
mestiere.”
“E
lui sta... bene?”
“È
quello che vorrei sapere,” fu la cupa risposta.
Si
scambiarono un'occhiata, poi MacLeod chiese: “Sta nel nostro
distretto?”
“No,
in quello di Rochester Row.”
“Magari
possiamo andare dopo il servizio a sentire se sanno qualcosa, che ne
dici?”
L'altro
emise un sospiro. “Sì, mi sembra l'unica cosa da
fare.”
Uscirono.
Nonostante la stagione, il tempo era sereno e non faceva nemmeno
particolarmente freddo. Ogni tanto si vedevano piccole ghirlande di
agrifoglio o nastri rossi attaccati alle finestre. “Tra un
po' è
Natale,” buttò lì MacLeod.
“Già.”
“A
me piace il Natale, e a te?”
Campbell
esitò un po' prima di rispondere. “Non
particolarmente.”
Il
più giovane lo fissò stupefatto.
“Perché?”
“È
triste, Ally. Mentre chi può si rimpinza di roast beef,
pudding di
prugne e salmone, qui c'è gente che non ha da mangiare
nemmeno una
crosta di pane, e invece di passare la sera a guardare un bel fuoco
che scoppietta nel camino, se ne starà rincantucciata in
qualche
angolo a tremare con addosso pochi stracci. Fai presto a perdere
l'innocenza, quando lavori in un posto come questo.”
L'altro
non rispose. Procedettero per un po', poi riprese il discorso:
“Ma
tu... stai coi tuoi per Natale...” Esitò qualche
secondo, poi con
tono incerto, quasi temendo di venire redarguito per la
libertà che
stava per prendersi, soggiunse: “...Charlie?”
“Penso
che mi farò mettere di servizio.”
“Perché?”
“La
mia famiglia sta troppo lontano.”
Il
più giovane lo fissò con espressione triste.
“Mi spiace.”
L'altro
alzò le spalle. “Ci ho fatto
l'abitudine.”
“Ma
senti... e se vieni da noi per Natale? I miei sarebbero contentissimi
di conoscerti, gli parlo sempre di te.”
L'altro
serrò le labbra mentre la sua espressione si induriva.
“Non credo
sia il caso.”
“Per
favore, Charlie.”
“Ho
già promesso a Kelsey che faccio il giorno di
Natale.”
MacLeod
sospirò avvilito, ma non ebbe il coraggio di ribattere.
Aveva notato
che il collega era teso, e non voleva infastidirlo con un'eccessiva
insistenza.
Mentre
immerso in quei pensieri procedeva al suo fianco lungo il giro di
ronda, si avvicinò un ragazzino con un fascio di giornali
sul
braccio. Tolse da esso una copia, la porse agli agenti e disse:
“Daily Telegraph, signori?”
Il
giovane stava per rifiutare quando si accorse che sulla prima pagina
c'era una fotografia che rappresentava uno spiazzo con due torri ai
lati e uno specchio d'acqua in primo piano.
Trasse
di tasca qualche moneta e la allungò al ragazzino, quindi
prese il
quotidiano e lo osservò. La didascalia dell'immagine
recitava:
Rotten Row, il luogo
in cui si è consumata la tragedia.
Fece
scorrere lo sguardo sulla pagina. Il titolo dell'articolo era: Muore
sbranato dai cani randagi.
Si
voltò: Campbell era sbiancato. “È lui,
vero?” disse con voce
atona.
MacLeod
scorse rapidamente il testo. Sembrava che la vittima fosse rientrata
tardi dal pub. Una volta raggiunta la zona di Rotten Row, isolata e
piena di vegetazione, sarebbe stata assalita e sbranata da una muta
di cani. Dappertutto erano state trovate tracce delle bestie, sebbene
i motivi della letale aggressione rimanessero ignoti. Il corpo,
orribilmente sfigurato, era stato identificato solo grazie a un
tatuaggio che risaliva al periodo trascorso sotto le armi.
“Alfred
Taggart,” confermò MacLeod alla fine.
“I
cani, come nella carta,” mormorò Campbell.
“Sbranato dai cani.”
Si appoggiò con la spalla al palo di un lampione.
“Stai
bene, Charlie?” chiese il più giovane.
“Tu
che ne dici?” fu la ruvida risposta.
“Beh,
no. Ovvio che no. Ma senti, ci dev’essere un modo per fermare
questa cosa.”
“E
se non ci fosse?”
“Ci
deve essere,”
L’altro
gli rivolse un pallido sorriso. “Dimenticavo che hai la testa
più
dura della mia.”
“In
certi casi è utile, come vedi.”
Ripresero
a camminare affiancati. Il sole nel frattempo stava cominciando a
coprirsi, l’aria si era fatta fredda e prometteva altra neve.
Passò
una vecchia scarmigliata, con tre cappotti uno sopra l’altro,
che
spingeva una carrozzina malandata con dentro i suoi pochi averi. Si
allontanò borbottando qualcosa di incomprensibile.
“Andiamo
dall’armeno,” disse MacLeod dopo un lungo silenzio.
“Da
chi?”
“Il
libraio. Quello che mi ha detto delle carte. Magari sa darci qualche
informazione utile.”
Campbell
lo fissò, sul volto un’espressione a
metà fra diffidenza e
ottimismo. “Tu credi?”
“Tentare
non costa nulla. È poco lontano dalla nostra zona, possiamo
andarci
anche subito.”
Sembrava
che Kasparian li stesse aspettando. Uscì dal negozio
sorridendo ed
esclamò: “Bentornato, agente MacLeod!”
Poi scrutò l’altro
poliziotto e disse: “Temo di non conoscere il vostro
collega.”
“Lui
è l’agente Charles Campbell.”
“Molto
piacere,” disse il libraio, tendendo la mano.
“Petros Kasparian.
Ma entrate, non restate qui sulla porta.”
Li
condusse all’interno, e come già aveva fatto
quando MacLeod si era
presentato da solo, li invitò a sedere tra malferme pile di
libri.
Offrì loro vino di melagrana.
Campbell
tentò di rifiutare, ma il collega gli fece cenno di non
offendere
l’ospitalità armena.
“Ebbene,
agenti, cosa posso fare per voi?” chiese il libraio, una
volta che
si furono tutti accomodati.
“Ricordate
le carte?” gli chiese MacLeod, “I tarocchi della
Papessa Nera?”
“Certo
che li ricordo. So che c’è stato un po’
di movimento ultimamente
intorno alla casa.”
“Sì,
è stata condotta un’operazione di Polizia
all’interno.”
Il
libraio sogguardò alternativamente i due agenti e chiese:
“C’eravate
anche voi?”
MacLeod
annuì grave.
“E
i tarocchi? Li avete visti?”
“È
proprio di quelli che vorrei parlarvi, signor Kasparian,”
rispose
il giovane poliziotto, “Io temo che siano veramente quelli di
Satana. Oppure sono maledetti.”
L’uomo
lo fissò stupefatto. “State scherzando,
spero.”
“Vorrei
potervi dire di sì, signore, ma quando vi
racconterò quello che è
successo, temo che anche voi mi darete ragione.”
L’altro
scosse la testa. “No, agente, la Scienza è in
grado di spiegare
tutto.”
“Non
quello che sto per narrarvi, signore.”
Alla
fine della storia, Kasparian era comprensibilmente senza parole.
Prese la bottiglia di vino di melagrana e si riempì il
bicchiere
fino all’orlo, quindi fece lo stesso con quelli dei due
agenti, che
nel frattempo si erano vuotati esattamente come il suo. Sebbene
fossero in servizio, i poliziotti non obiettarono.
“Che
cosa ne pensate, signore?” volle sapere MacLeod. Bevve un
cauto
sorso.
L’uomo
aggrottò le sopracciglia e borbottò qualcosa
nella sua lingua,
quindi si alzò e imboccò uno stretto corridoio
ricavato fra due
pareti di libri. Campbell fissò il collega, poi
sollevò il mento
nella direzione in cui era sparito Kasparian e si picchiettò
una
tempia con la punta dell’indice. L’altro scosse la
testa e gli
fece segno di abbassare la mano.
Si
sentiva il rumore di antichi tomi sfogliati e spostati.
“Eccolo
qui,” disse alla fine il libraio. “Eccolo, proprio
quello che
cercavo.”
Si
udirono i passi di ritorno, poi il volto barbuto del vecchio
spuntò
dalla penombra. “Eccolo qui,” ripeté.
Aveva in mano un libro
grande e rilegato in pelle, che dava l’idea di essere molto
antico.
Lo aprì: le pagine erano spesse e coperte di scrittura e
disegni. In
alcuni punti erano strappate o macchiate.
I
due agenti si scambiarono un'occhiata, poi Campbell chiese:
“Che
cos'è?”
“Il
titolo non vi direbbe niente, è un trattato di magia del
diciassettesimo secolo, verosimilmente proveniente dall'Europa
centrale. Per quanto, ribadisco, io sia devoto alla Scienza,
riconosco che ci sono in cielo e in terra anche fenomeni che la
Scienza non può, o forse non può ancora,
spiegare. Qui si parla di
argomenti che potrebbero fare al caso vostro.”
“Ovvero?”
“Oggetti
in grado di incanalare o serbare potere magico, come sembrerebbe il
caso di quel famoso mazzo di tarocchi.”
I
due poliziotti si chinarono sul libro, ma i caratteri parvero loro
del tutto incomprensibili. Si scambiarono un'occhiata e
simultaneamente alzarono sul libraio uno sguardo che esprimeva una
muta domanda.
“È
ebraico,” chiarì Kasparian, “scritto con
la grafia di due secoli
fa. È abbastanza normale che non ci capiate
niente.”
“Cosa
dice?” chiese Campbell.
Il
libraio emise un sospiro e rispose: “Qui c'è
scritto che è
necessario compiere un rituale sull'oggetto. Una volta effettuato
quello, viene eliminato il tramite della persona con il nostro piano
di esistenza.”
“Il
nostro... che?”
“Lascia
perdere,” si intromise MacLeod, “l'importante
è che adesso
sappiamo come liberarci di quella maledetta strega.” Poi,
rivolto
Kasparian: “Vi siamo molto obbligati, signore. Quindi adesso
cosa
dobbiamo fare?”
“Dovete
procurarvi quei tarocchi.”
“Sì,
ma chi sa fare... il rituale? Che rituale, poi?”
“Quando
la Papessa Nera sparì, la gente del quartiere
chiamò una cosiddetta
maga bianca a sigillare
la casa, qualunque cosa significhi. Dovrebbe essere la persona
adatta.”
“Voi
sapete dove trovarla?”
“La
chiamerò per voi.”
MacLeod
si rialzò in piedi, imitato subito dopo dal collega.
“D'accordo,
signor Kasparian,” disse, “torneremo il prima
possibile con
quelle carte. Per il momento grazie, siete stato molto
gentile.”
“E
grazie anche per il vino,” soggiunse Campbell, “ne
avevo
bisogno.”
§
“E
adesso?” chiese Campbell, allontanandosi a grandi passi dal
negozio
di Petros Kasparian. Teneva le mani allacciate dietro la schiena e lo
sguardo incupito rivolto al marciapiede.
“Beh,
adesso andiamo a prendere quelle maledette carte e le portiamo
all'armeno.”
“E
stiamo a controllare che faccia quel che deve fare. L'hai visto anche
tu quando ne parlava: gli brillavano gli occhi.”
“Cosa
vorresti dire?”
“Che
secondo me non gliene frega niente se un paio di aragoste crude in
più o in meno ci lasciano la pelle, per lui è
importante mettere le
mani su quei dannati tarocchi.” Fece una pausa, poi
soggiunse:
“Quindi Ally, se permetti, io starò a guardare
cosa fa e mi
accerterò che sia veramente la cosa giusta. Altrimenti,
quant'è
vero Dio, prima di crepare glieli brucio assieme a tutto il suo
negozio di carta straccia.”
“Ma
se li bruci, forse non si potrà più sciogliere la
maledizione?”
“Scherzi?
Da che mondo è mondo, queste cose sono sempre state
combattute col
fuoco. Hai presente che fine facevano le streghe?”
“In
effetti...”
“Ecco
perché la faccenda del rituale mi sa di fregatura. Avremmo
dovuto
dare fuoco a quella maledetta casa, invece di chiamare Kelsey.
Comunque, intanto mettiamo le mani su quei dannati tarocchi, poi
vedremo.”
Continuarono
a camminare per un po'. Nel frattempo aveva cominciato a nevicare, e
radi fiocchi fluttuavano lenti verso terra. MacLeod si voltò
verso
il collega e timidamente gli chiese: “Senti... per Natale,
allora?”
“Cosa?”
replicò l'altro senza voltarsi.
“Voglio
dire...” si morse un labbro con fare indeciso. “Ti
va di venire
da noi?”
“Sono
di servizio. Posto che sia ancora vivo, naturalmente.”
“Ma
che stai dicendo?”
“Rimaniamo
solo io e Wyndham. Considerato che oggi è il venti, e che da
qualche
giorno la vecchia non si presenta, direi che tra un po'
toccherà o a
me o a lui.”
L'altro
si trovò involontariamente a deglutire. “Troveremo
un modo,”
disse, quasi più per rassicurare se stesso che il collega.
Raggiunsero
la casa di O'Hanigan. Il cancelletto semiaperto sembrava quasi
invitare la gente all'interno, ma la neve caduta negli ultimi giorni,
perfettamente intatta, faceva capire che gli abitanti del quartiere
si erano mantenuti a rispettosa distanza dalla magione.
MacLeod
in testa, i due percorsero il vialetto e raggiunsero la porta
d'ingresso, che come al solito cedette dolcemente quando venne
abbassata la maniglia.
Fuori
era già freddo, ma l'interno parve a entrambi una
ghiacciaia.
Addirittura il fiato si condensava in nuvole bianche, e sulle
superfici metalliche si stendeva un sottilissimo velo di brina.
“Ci
vorrebbe una candela,” disse Campbell rabbrividendo.
“Non si vede
niente.”
MacLeod
si guardò intorno e ritrovò il mozzicone che
aveva lasciato giorni
prima sul tavolo. “Eccola qui.”
La
accesero, e alla sua luce tremolante notarono che era successo
qualcosa al ritratto della Papessa Nera: sembrava che qualcuno avesse
malamente cancellato con una spugna bagnata tutti i segni che erano
stati tracciati intorno alla cornice. Righe di colore rosso colavano
giù come sangue imbrattando il vetro. “Chi
accidenti ha fatto una
cosa del genere?” disse Campbell, “Non è
entrato nessuno a parte
noi.”
L’altro
aggrottò le sopracciglia, la sensazione di non essere soli
nella
stanza era più intensa che mai. “Muoviamoci,
Charlie,” disse
soltanto, reprimendo un brivido di freddo.
Salirono
rapidi su per le scale. Tutto appariva esattamente come
l’avevano
lasciato, l’armadio era ancora dove lo avevano trascinato
giorni
prima, il suo contenuto anche. La porta della camera da letto era una
voragine oscura che sembrava inghiottire ogni luce.
Di
nuovo, quando si avvicinarono la fiamma si affievolì fin
quasi a
diventare una brace di sigaro. Sebbene l’aria fosse immobile,
MacLeod vi mise intorno la mano a coppa. La candela pian piano
riprese un po’ di vigore.
“Prendiamo
quelle dannate carte e andiamocene,” ringhiò
Campbell, “Questo
posto mi dà i brividi.”
“Sono
sul comodino.”
Entrarono
nella camera, e pur alla scarsa luce si accorsero che le carte erano
sparite.
“Qualcuno
le ha prese,” disse MacLeod.
“Qualcuno,
chi? Hai visto anche tu che non c’erano tracce intorno alla
casa.”
“Allora
è stato qualcuno di quelli che sono entrati qui quando
l’abbiamo
portata via.”
“Controlla
meglio.”
MacLeod
guardò dappertutto, spostò le coperte, si
chinò addirittura a
scrutare sotto il letto, ma delle carte, e della tavoletta sulla
quale esse erano state disposte, non c’era alcuna traccia.
I
due agenti si scambiarono uno sguardo preoccupato. “E
adesso?”
chiese Campbell. Aveva l’espressione del naufrago che vede
l’ultima
scialuppa allontanarsi.
“Non
possono essersi volatilizzate,” disse il più
giovane. Poi, in tono
conciliante, aggiunse: “Ragioniamo: nella casa sono entrati
solo il
reverendo, i nostri colleghi e i due tizi del cimitero.
Basterà
chiedere a costoro, vedrai che a un certo punto salteranno
fuori.”
“Dio
benedica gli ingenui,” sospirò l’altro,
“E pensi che chi le ha
prese te lo venga a dire come se niente fosse?”
“Perché?”
“Gesù,
Ally, perché prendere cose in casa di un morto significa rubare,
e nessuno confessa a un poliziotto di aver rubato.”
“Non
ci avevo pensato,” borbottò MacLeod con
espressione contrita.
“Scusami, Charlie.”
Seguì
qualche secondo di silenzio, infine Campbell disse: “Scusami
tu, è
che questa faccenda mi rende un po’ nervoso.”
§
L’agente
Wyndham si sedette accanto alla stufa e mise i piedi
sull’angolo
della scrivania. Lanciò un’occhiata fuori dalla
finestra: alla
luce dei lampioni, non si vedeva altro che il turbinare furioso della
neve. “È un maledetto schifo,”
brontolò.
Si
stropicciò le mani al calore, poi disse: “Quasi mi
dispiace per i
giovani. Pensa, Dobbins, essere di ronda con questo tempaccio. Ma noi
ai nostri tempi l’abbiamo fatto, e ora tocca a loro.
Giusto?”
Poi, senza attendere risposta: “Ehi, che ne dici di tirare
fuori
quella tua fiaschetta?”
L’interpellato,
che stava sistemando dei rapporti in uno schedario, si voltò
verso
di lui e come al solito rispose: “Ma James, lo sai che non si
può
bere in servizio. E se ci beccano?”
“Lo
voglio proprio vedere, Kelsey che fa un’ispezione alle due di
notte. Cos’hai portato stasera, dello scotch?”
“Sì.”
“Allora
dà qua.” Tese la mano con una certa
imperiosità. Dopo una breve
esitazione, l’altro vi depose il contenitore di metallo e si
diresse verso la porta. “Vado a vedere come procedono le cose
di
là,” annunciò.
“Sì,
vai, così ne resta di più per me.”
L’altro
si spostò nella stanza attigua, quella alla quale avevano
accesso i
cittadini. Anche lì c’era una piccola stufa in un
angolo, e un
paio di scrivanie, alle quali sedevano Woods e Northwood.
“Come
va?” chiese il secondo.
Dobbins
alzò le spalle. “Ne approfittavo per mettere via
delle scartoffie.
Voi?”
“Almeno
con questa neve non c’è nessuno in giro.
È una notte calma.”
“Vuoi
il cambio?”
“Vorrei
un giro dalla tua fiaschetta, se non se la scola tutta Jim.”
Dobbins
alzò le spalle. “Ah, lascialo perdere. Almeno se
beve non viene di
qua a rognare.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Del
resto, posso
capirlo: ormai non ne mancano più molti.”
Northwood
annuì. “Lui e il Jock[3], giusto?”
“Sì,
anche se il Jock era un moccioso, all’epoca.”
“Però
mi dicono che non si è tirato indietro, quando gli hanno
chiesto di
fare la sua parte.”
“Non
vuol dire niente, poveraccio. I mocciosi fanno sempre quello che
dicono i vecchi, lo sai. Ti ricordi quando il povero Jackson
ordinò
al quel ragazzo di buttarsi nel Tamigi per cercare le tracce del
tizio che era scappato a nuoto?”
“Diavolo,
sì. Che risate.” Si appoggiò
all’indietro contro lo schienale e
soggiunse: “Lo tirarono su bagnato come un pulcino.”
L’altro
annuì. “Io mi ricordo ancora Jackson che
sbraitava: e
me lo dici adesso che non sai nuotare, razza di idiota?”
I
due ridacchiarono un po’ al ricordo dell’episodio.
Nel frattempo
li raggiunse Woods con la teiera fumante in mano. “Ne
volete?”
chiese.
“Un
sorso di tè non si rifiuta mai,” rispose Dobbins,
poi rabbrividì
e disse: “Cos’è questo freddo,
all’improvviso?”
“Sembra
di essere in una ghiacciaia,” confermò Northwood.
Si alzò e si
diresse verso la stufa nell’angolo. “Ora controllo
se questo
dannato ferrovecchio sta funzionando a dovere.”
Mentre
Northwood era così impegnato e Woods stava versando il
tè, Dobbins
vide la porta che dava sull’esterno schiudersi lentamente. In
un
silenzio mortale, da essa entrò una vecchia signora in lutto
strettissimo, con uno scialle frangiato e un ampio cappello con la
veletta. Nonostante fuori nevicasse forte, non un fiocco turbava il
nero integrale della sua tenuta. Si avvicinò a passettini,
emettendo di tanto in tanto un sinistro scrocchiare, come di giunture
ferme da molto tempo.
Quando
fu a pochi passi dalla scrivania, disse: “Buona sera. Sto
cercando
l’agente James Wyndham, per favore.”
Dobbins
deglutì come se stesse mandando giù un dado da
due pollici. “Che…
che cosa?” riuscì appena a balbettare. Gli altri
due agenti,
rispettivamente accanto alla stufa e presso lo stipo delle tazze,
erano diventati statue di sale.
“James
Wyndham,” scandì la misteriosa signora. La voce si
sovrappose ai
tre colpi del campanile.
In
quel momento si spalancò la porta che dava sulla stanza
degli
agenti. Nel riquadro c’era proprio l’agente
Wyndham, con lo
sfollagente in mano e lo sguardo spiritato. “Specie di lurida
baldracca!” sbraitò.
Tutti
si girarono stupefatti nella sua direzione.
“Vuoi
ammazzarmi, eh? Ma ti ammazzo prima io!” Il poliziotto stava
per
aggiungere altro, ma il rumore della porta che si richiudeva gli
impedì di continuare.
Wyndham
balzò in avanti, ghermì il pastrano e lo
indossò mentre si
precipitava fuori.
Sparì
nella notte.
Il
primo a riprendersi fu Dobbins. “Bisogna andargli
dietro,” disse
in tono concitato, “è fuori di sé e
mezzo ubriaco. Poi sapete
anche voi come va a finire.”
“Già,”
brontolò Northwood. “Si caccia sicuramente nei
guai.” Raccolse
il pastrano e lo indossò, quindi accese una lanterna.
“Dobs, vieni
anche tu?” chiese.
“Arrivo.”
I
due agenti uscirono. Fuori nevicava forte e c’era un gran
silenzio.
I rumori erano attutiti e la visibilità ridotta al minimo.
L’unica
testimonianza del passaggio di Wyndham era una fila di impronte che
si sovrapponeva a quelle della vecchia e si perdeva con esse nel buio
.
Dobbins
vi avvicinò la lanterna, quindi disse:
“Recuperiamo Jim, prima che
ne combini una delle sue.”
Procedettero
veloci per un po’, seguendo le impronte del collega, poi
cominciarono a sentire un frenetico galoppo di cavalli, accompagnato
da sferragliare di ruote e nitriti.
A
un certo punto dovettero farsi bruscamente da parte per evitare di
essere travolti. Quello che passò era un carro chiuso,
trainato da
due cavalli imbizzarriti con gli occhi spiritati e la schiuma alla
bocca. A cassetta non c’era nessuno.
Il
carro si trascinava dietro una lunga e pesante catena con un gancio
alla fine, che tintinnava rimbalzando sul selciato.
Subito
dopo videro una figura che correva più avanti.
“Eccolo!”
esclamò Dobbins.
Il
carro curvò bruscamente, la catena si tese sotto l'effetto
della
forza centrifuga, si allungò e il gancio
intercettò Wyndham. Fin da
quella distanza, gli altri due agenti sentirono un rumore come di
rami spezzati, poi il collega venne sollevato, si torse in aria e
ricadde in uno spruzzo di neve rossa. Fu trascinato per un
po’, poi
arrivò contro un ostacolo. Si udì un suono
lacerante e il carro
proseguì da solo. I due videro che attaccata al gancio,
saltellante
dietro il veicolo che si allontanava, era rimasta una cosa rossastra,
che a ogni rimbalzo lasciava impronte sanguigne sulla neve fresca.
§
Campbell
aggrottò le sopracciglia e disse: “E tu che ci fai
qui?”
MacLeod
si strinse nelle spalle. “Visto che sei di servizio, ho
pensato di
venire a farti compagnia: ho chiesto un cambio a Gardner.”
“Ma
è Natale.”
“E
allora buon Natale, Charlie.” Mise sulla scrivania un involto
che
fino a quel momento aveva tenuto con ogni cura fra le braccia.
“Questi sono dolci delle nostre parti, li ha fatti mia madre.
Ha
detto che così ti sentirai a casa anche tu.”
“Non
dovevi.”
“Scherzi?
Mi fa piacere.” Aprì il pacchetto, rivelando
biscotti e pasticcini
di varie fogge, poi a voce alta disse: “Ragazzi, venite anche
voi a
mangiare qualche dolce?”
Woods
si avvicinò dubbioso. “Non sarà mica la
vostra robaccia da
montanari, vero?” chiese, scrutando il contenuto
dell’incarto.
Annusò odori misti di cioccolato, cannella e vaniglia.
“Uhm, che
profumino, però. Ne assaggio uno.”
Sparì
il primo biscotto.
A
quel punto Lynch lo raggiunse. Gli diede una scherzosa gomitata e gli
disse: “Fatti in là, se non sai apprezzare la
buona pasticceria.”
Poi, rivolto a MacLeod: “Bravo ragazzo. Forse non sei poi
così
male, per essere una recluta.”
Il
più giovane sorrise. Gli piacevano quei momenti: vi coglieva
spirito
di corpo e cameratismo. C’era quella speciale vicinanza che
derivava dal condividere tutti i giorni la stessa missione e gli
stessi pericoli.
“Prendete
e mangiatene tutti,” disse con una risata, accompagnando le
parole
con un gesto benedicente, poi aprì il pacco in modo che si
vedesse
meglio il suo contenuto.
Dopo
un po’ si voltò verso Campbell, che era
l’unico che non aveva
ancora preso nulla. Stava per dirgli qualcosa, ma l’altro si
allontanò di qualche passo e rimase a fissare fuori dalla
finestra
dandogli le spalle.
MacLeod
gli rivolse un’occhiata, ma prima che potesse decidere di
fare
qualsiasi cosa, la voce di Woods lo richiamò alla
realtà: “Ci
vorrebbe un po’ di tè, ragazzo, se no questa tua
roba delle
Highlands fa fatica a scendere.” Con fare significativo, si
batté
il pugno all’altezza dello sterno, come a mostrare dove si
verificasse l’ostruzione del canale.
“Arriva,”
disse il più giovane.
Preparò
l’infuso e lo portò ai colleghi, che
l’accolsero con gioia. “Ci
vorrebbe solo la fiaschetta di Dobs e poi sarebbe il
paradiso,”
sospirò Lynch.
Woods,
che stava per addentare uno shortbread, abbassò il dolcetto
e
assunse un’espressione triste. “Quando parli della
fiaschetta di
Sam mi viene sempre in mente il povero James.”
“Già,
poveretto. Una fine veramente schifosa.”
MacLeod non disse nulla. Non
aveva visto il corpo di James Wyndham, ma aveva sentito i racconti
degli inorriditi colleghi: il gancio che pendeva dal carro gli si era
piantato sotto il mento per effetto della forza centrifuga, gli aveva
rotto il collo, l’aveva trascinato e alla fine gli aveva
strappato
via la mandibola. La cosa lo aveva colpito per due motivi: il primo
era senz’altro l’orrore di quella fine spaventosa,
ma il secondo
era ancora una volta l’attinenza con l’arcano dei
tarocchi.
La
Forza rappresentava una donna che spacca le mascelle a un leone, e
Wyndham era morto con le mascelle spaccate.
Lanciò
un’occhiata a Campbell, che nel frattempo aveva abbandonato
la
posizione accanto alla finestra per sedere alla scrivania
dall’altra
parte della stanza. Aveva davanti un registro aperto, ma invece di
compilarlo si limitava a tamburellare nervosamente con la penna sulla
pagina bianca.
Lo
vide passarsi l’altra mano fra i capelli, stringendo come se
avesse
voluto strapparseli via.
Versò
due tazze di tè e lo raggiunse.
“È
appena fatto, Charlie,” disse, spingendone una verso di lui.
“Grazie,”
rispose l’altro senza guardarlo.
“Ti
spiace se mi siedo?”
Campbell
si limitò ad alzare le spalle.
MacLeod
prese una sedia e si accomodò. “Che stai
facendo?”
“Niente.”
“Vuoi
che ti porti un paio di shortbread per quel tè?”
L’altro
emise un sospiro. “Ally, per favore...”
Il
più giovane assunse un’espressione costernata.
“Vuoi che me ne
vada?”
“Sì,
per favore. Scusa, ma non sarei molto di compagnia.”
MacLeod
aprì la bocca per replicare, poi ci ripensò,
raccolse la sua tazza
e tornò dagli altri.
§
La
giornata era stata singolarmente tranquilla. Poche persone avevano
turbato la quiete del posto di Polizia, e gli agenti in servizio si
erano limitati a mangiare i dolci, bere tè e fare di tanto
in tanto
qualche giro di ronda nei dintorni.
Il
cielo era coperto, per cui non si vedeva il movimento del sole, ma la
luce stava comunque scemando verso un cupo crepuscolo.
MacLeod
ripercorse per l’ennesima volta tutto ciò che
sapeva sulla
faccenda dei tarocchi.
Per
prima cosa, c’era un collegamento tra le carte estratte e gli
agenti morti, questo era indubitabile. Il modo in cui essi morivano
aveva a che fare con l’immagine delle carte, e sembrava che
il
decesso sopraggiungesse una volta scoperta la carta.
Il
che implicava, visto che gli agenti continuavano a morire, che ci
fosse qualche posto in cui le carte continuavano a venir scoperte una
dopo l’altra.
Si
prese la radice nel naso fra pollice e indice, chiuse gli occhi come
per concentrarsi meglio. Dove potevano essere le carte?
Ciò
che gli venne in mente andava contro ogni logica, ma in effetti in
quella faccenda di logico non c’era molto.
“Vale
la pena di fare un tentativo,” disse a mezza voce alzandosi
in
piedi. Poi, più forte: “Sapete se il Tower Hamlets
è aperto?”
“Oggi
è Natale,” gli rispose Lynch,
“Però se bussi alla porta del
guardiano, puoi farti dare le chiavi. È la
comodità di avere
addosso un’uniforme.”
“Bene,
faccio un salto prima che venga buio.”
“A
fare che?”
“Devo
assolutamente controllare una cosa. Vado e torno.”
Si
infilò il pastrano, raccolse la lanterna e uscì.
Prese
a percorrere a passo svelto le strade innevate. La luce stava calando
rapidamente, e in giro non si vedeva nessuno. Fiochi lampioni
emettevano coni di luce giallastra, che per contrasto rendevano
ancora più oscuro quanto si trovava intorno.
Non
si fece intimidire: man mano che procedeva verso il cimitero,
l’idea
che gli era balenata in mente, e che all’inizio gli era parsa
assurda, si stava facendo sempre più plausibile.
Poco
dopo si stagliò in fondo alla strada, sinistro nella luce
calante,
l’ingresso neogotico del Tower Hamlets, una sorta di frontone
di
cattedrale con guglie e statue dolenti. Il cancello di ferro era
serrato, ma dall’edificio del custode filtrava una debole
luce.
Il
giovane poliziotto si avvicinò alla porta: da dentro
provenivano un
lieve cicaleccio di conversazioni, risa di bambini e gli accordi di
un pianoforte malamente strimpellato.
Bussò
alla porta: i rumori si interruppero, ma non successe altro.
Bussò
più forte.
Passò
un tempo imprecisato. MacLeod stava per bussare ancora, quando da
dentro si udirono un passo strascicato e una voce maschile che
diceva: “Lascia in pace tuo marito almeno il giorno di
Natale,
Edith!”
“Polizia,
signore. Aprite la porta!” ordinò
l’altro per tutta risposta.
“La
Polizia?”
“Sì,
signore. Abbiate la bontà di aprire.”
Seguì
ancora qualche secondo di silenzio, poi il chiavistello
scattò e
l’uscio si schiuse. Nella fessura comparve un volto rubizzo e
adorno di due rispettabili favoriti. Da dietro l’uomo
provenne una
voce femminile: “Chi è, Archibald?”
“È
veramente la Polizia, cara.” Poi, rivolto a MacLeod:
“Scusate per
prima, signore. Pensavo fosse di nuovo la vedova Brewster. Non manca
un giorno, sapete.” Poi, dopo una pausa: “Che cosa
posso fare per
voi?”
“Sono
l’agente Alistair MacLeod,” si presentò
innanzitutto il
poliziotto, poi chiese: “Dove tenete i corpi in attesa di
sepoltura?”
L’altro
trasecolò. “Eh?”
“Un
paio di settimane fa dovrebbero aver portato qui il corpo di una
donna trovato all’interno di una casa chiusa da molti anni.
Catriona O’Hanigan.”
Il
custode annuì. “Ah, quella,” disse.
“Ma certo, agente. Non
l’abbiamo ancora seppellita, è ovvio. Come si fa a
scavare una
tomba con questo freddo? La terra è dura come la pietra,
sapete? E
allora li teniamo nella cripta fino al disgelo. A parte quelli delle
tombe ricche, naturalmente. In quel caso non si può certo
rimandare
il funerale, dico bene?”
“Posso
vedere questa cripta?”
Il
custode si guardò alle spalle e assunse
un’espressione afflitta:
non aveva chiaramente la minima voglia di indossare pastrano e
stivali e uscire per accompagnare un poliziotto in una ghiacciaia
piena di morti. “Non potreste tornare domani?”
propose
speranzoso.
L’altro
fu inamovibile. “No, non posso.”
L’afflizione
del custode si fece più profonda. Dai recessi della casa, la
voce
femminile di prima ripeté: “Ma chi è,
Archibald?” Il tono aveva
una punta di stizza.
“Ti
ho detto che è la Polizia, cara.”
“La
Polizia? Ma è Natale!”
“Facciamo
una cosa,” propose MacLeod, “Datemi la chiave e
spiegatemi dove
trovo la cripta. Io vado, controllo quello che mi serve e poi ve la
riporto. Può andare bene?”
Preso
tra i due fuochi dell’atmosfera familiare e del dovere
civico, il
custode non ebbe che una breve esitazione, poi si staccò
dalla
cintura un mazzo di chiavi e lo tese a Macleod. “Quella lunga
apre
il cancello. Abbiate la bontà di richiuderlo dopo che siete
passato,
se no poi mi trovo chiunque a fare i suoi comodi in mezzo alle tombe.
Quella di fianco apre la cripta, che è alla fine del viale
principale sulla destra, non potete sbagliare. Mettete le chiavi
nella cassetta della posta quando avete finito. E ora, scusatemi ma
devo proprio rientrare.”
Lo
piantò lì su due piedi.
MacLeod
andò al cancello di ferro. Dovette armeggiare parecchio,
prima di
riuscire a far scattare a serratura, quindi per non perdere tempo a
richiuderlo. Lo lasciò solo accostato, più che
altro nel timore di
rimanere poi chiuso dentro.
Facendosi
precedere dal fascio di luce della lanterna, percorse il viale
principale, che appariva come un’inviolata distesa bianca,
lievemente scintillante nei punti dove si era formato più
ghiaccio.
Ai lati si intravedevano monumenti funebri coperti di neve e lapidi
variamente corrose dal tempo. Mausolei si levavano oscuri tra gli
alberi, alcuni con la porta socchiusa in un sinistro invito.
Il
silenzio era tale che all’agente sembrava di riuscire a
sentire il
battito accelerato del proprio cuore.
Finalmente
giunse a uno spiazzo intorno al quale erano disposti alcuni edifici:
vi erano sulla sinistra una chiesa neogotica, di fronte una specie di
grande mausoleo in stile vagamente egizio, con tanto di sfingi
addormentate ai due lati della porta, e finalmente sulla destra un
terzo edificio, dall’aspetto molto più funzionale
e chiuso da una
porta di ferro.
L’agente
si avvicinò, estrasse il mazzo di chiavi, scelse quella che
avrebbe
dovuto aprire la cripta e la inserì nella toppa. La
serratura
scattò, il rumore del meccanismo si riverberò in
decine di echi
metallici.
Tirò
la porta, che cedette cigolando, e proiettò
all’interno il fascio
di luce: vide una specie di ampio vestibolo, sui lati del quale erano
allineati tipici carrelli da cimitero. Nella parete di fronte
c’erano
un largo montacarichi e una scala che scendeva.
Di
sotto c’era un’enorme sala con il soffitto
sostenuto da colonne.
Sui due lati lunghi c’erano scaffali a più piani,
sui quali erano
appoggiate innumerevoli bare, da quelle di legno pregiato ornate di
maniglie di bronzo, a quelle da poco prezzo, messe su alla buona con
assi di recupero.
Il
silenzio di quella lugubre necropoli era così profondo che
faceva
quasi male alle orecchie. MacLeod tossì, e il rumore si
riverberò
sulla volta come un colpo di cannone.
Il
poliziotto mosse qualche cauto passo, facendo girare
tutt’intorno
la luce della lanterna. Si accorse che su ogni bara era appuntato un
cartellino con il nome del defunto e altri dati.
Trovò
alla fine la bara di Catriona O’Hanigan in un angolo, accanto
a una
specie di tavolo di lavoro. Probabilmente donata da qualche
associazione benefica, essa era talmente misera che stava insieme per
miracolo. Evidentemente il guardiano aveva pensato di consolidarla in
qualche modo per evitare che gli si sfasciasse durante la sepoltura.
Si
avvicinò e per un po’ si limitò ad
osservarla. C’erano un paio
di fessure sul lato, da una parte sporgeva un lembo del lenzuolo con
cui avevano avvolto il corpo. Il coperchio era incurvato come se
fosse rimasto per anni in qualche posto molto umido.
L’agente
deglutì e si guardò intorno reprimendo un
brivido. L’idea di fare
quel controllo, che nel rassicurante tepore del posto di Polizia gli
era sembrata così buona, presentava sempre minori
attrattive. Posò
la lanterna sul tavolo, in una posizione dalla quale illuminasse bene
il feretro, quindi prese un piede di porco e lo infilò con
decisione
sotto il coperchio. Fece forza verso il basso.
In
quel silenzio raggelante, lo scricchiolio del legno che cedeva
risuonò come un lamento. Subito dopo il coperchio cadde a
terra con
un rimbombo cupo.
Il
corpo giaceva nella cassa esattamente come era giaciuto nel letto:
ieratico e composto. Le mani scheletrite erano posate sulla tavoletta
di legno, proprio sotto una fila di nove carte, sette delle quali
scoperte.
MacLeod
si fece indietro, indeciso se pregare, scappare o spaccare il cranio
del cadavere con il palanchino che stringeva ancora in mano. Si
accorse di ansimare, il cuore gli batteva come se avesse voluto
scoppiargli nel petto. Si sentiva la bocca più secca di una
manciata
di segatura.
Per
un po’ rimase a fissare la scena impietrito, poi adagio si
fece
avanti. Le carte scoperte erano quelle che aveva già visto,
esattamente nella sequenza in cui le aveva viste la prima volta.
Allungò
una mano tremante verso la prima delle carte coperte e la
sollevò:
la papessa. Anche quella l’aveva già vista.
La
posò e volse lo sguardo verso l’ultima carta
coperta. Era sicuro
che quella non ci fosse quando avevano trovato il corpo.
La
prese e la voltò: la morte.
In
quel momento, dal piano di sopra provenne un poderoso rimbombo
metallico: qualcuno aveva chiuso la porta. MacLeod sussultò
e si
voltò verso la scala, ma un nuovo, spaventoso rumore
comparso alle
sue spalle lo indusse a girarsi di nuovo bruscamente verso la bara.
L’orrore
di ciò che vide minacciò di fargli perdere i
sensi: in un osceno
scrocchiare di giunture irrigidite, il corpo stava sorgendo dalla
cassa. I suoi movimenti, dapprima scoordinati e lenti, si facevano
con inquietante velocità sempre più rapidi e
più precisi.
Volse
verso di lui il volto scheletrito, nel quale le orbite scavate erano
nere voragini di malvagità.
MacLeod
si fece indietro con l’intento di colpirla, essa si
spostò sul
pavimento con la rapidità fluida di un serpente, quindi si
raccolse
e gli si avventò addosso.
Ribaltato
all’indietro dall’impatto, il poliziotto perse la
presa sul piede
di porco, che sferragliò sul pavimento. Annaspando
cercò di farsi
indietro, ma le mani ossute della Papessa Nera gli percorsero
l’uniforme come orrendi, giganteschi ragni, risalirono fino a
circondargli il collo e presero a stringere con forza sovrumana.
Il
giovane agente si divincolò con tutte le sue forze, ma era
come
cercare di togliersi un collare di ferro, che però si stava
inesorabilmente stringendo.
Un
velo nero gli oscurò la vista.
Poi
qualcosa d’improvviso sembrò trarlo dalla melma
nella quale stava
sprofondando: l’aria gli entrò di nuovo in gola,
una luce gli si
proiettò in faccia facendogli sbattere gli occhi.
“Ally!”
esclamò una voce.
“Charles?”
mormorò il giovane agente con voce roca.
“Alzati,
presto!” disse l’altro per tutta risposta. Lo
tirò con urgenza
per un braccio. “Alzati, prima che quello schifo
ritorni.”
Tossendo
e barcollando, MacLeod si alzò. Il corpo si stava
raddrizzando come
una grottesca marionetta.
“Cristo...”
mormorò l’agente.
“Via!
Vattene!” urlò l’altro. Raccolse da
terra il palanchino e si
parò fra lui e il corpo animato. Sotto gli occhi inorriditi
di
MacLeod, Campbell si fece avanti e colpì con tutte le forze
la
Papessa Nera, che però non fece altro che barcollare appena
ed
emettere la sua raschiante, orribile risata. Poi ghermì lo
strumento
che l’agente aveva ancora in mano, glielo strappò
via e glielo
piantò nel petto con tale forza che la punta uscì
dalla schiena.
Prima
che MacLeod potesse fare qualsiasi cosa, la Papessa Nera gli fu
addosso, e di nuovo gli strinse le mani intorno al collo.
Il
giovane si divincolò annaspando, ma presto gli
mancò il fiato, e si
trovò a lottare per mantenere la lucidità.
L’orrendo
teschio chino su di lui, di cui nel buio percepiva solo il candido
ghigno, divenne pian piano una macchia sfocata.
E
poi la Papessa Nera abbandonò la presa, e si fece indietro
emettendo
un urlo raccapricciante. Sebbene ancora stordito, MacLeod
percepì
danzanti bagliori rossastri.
Il
corpo della donna nel frattempo si contorceva sul pavimento, e man
mano si consumava, spargendo intorno una polvere impalpabile.
Sollevò
lo sguardo e vide che dalla bara si stavano levando delle fiamme.
Accanto
alla cassa c’era Campbell, riverso in una pozza di sangue. E
di
fianco a lui, la sua lanterna con il serbatoio dell’olio
aperto.
“Charlie!”
gridò MacLeod. Corse a inginocchiarglisi accanto.
L’altro
schiuse faticosamente gli occhi, tossì facendosi scorrere un
rivolo
di sangue lungo il mento. “Quella là…
è morta?” chiese
faticosamente.
MacLeod
si girò a guardare. “Un mucchio di
cenere.”
“Lo
dicevo che ci voleva… il fuoco.”
“Sì,
avevi ragione.” Si tolse di tasca il fazzoletto, lo premette
sulla
ferita, ma era come cercare di arginare un torrente in piena. Si
guardò intorno: doveva chiamare soccorsi, ma come? Dove?
La
voce flebile di Campbell lo distrasse dalle sue angosciose
meditazioni: “Alla fine avrei fatto meglio ad accettare il
tuo
invito, Ally.”
“Ti
inviterò tante altre volte,” rispose il
più giovane. Una lacrima
gli rotolò lungo la guancia.
“Temo
di no.” Un altro colpo di tosse, che strappò al
ferito una smorfia
di dolore. “Mi dispiace di non aver assaggiato i tuoi
dolci.”
“Mia
madre ne farà altri,” gli assicurò
MacLeod precipitosamente, “li
mangeremo insieme.” Le lacrime continuavano a scendergli
lungo le
guance.
Passò
qualche secondo, scandito solo dal respiro sempre più
faticoso di
Campbell, che alla fine disse: “Ora rimani tu
l’unico Jock di
Whitechapel.”
L’altro
avrebbe voluto dire che non era vero, che presto l’avrebbe
rivisto
in salute, ma riuscì solo a mormorare:
“Insegnerò a questi
Sassenach[4] di che pasta sono fatti i veri scozzesi.” In
quel
momento cominciò a sentire passi e voci, e fasci di luce si
proiettarono fuori dalla tromba delle scale. Sentì Lynch
dire
qualcosa.
Si
chinò su Campbell. “Glielo insegnerò
io,” ripeté, ma l’amico
non rispose. MacLeod lo sollevò, ma era come se qualcosa,
nella
consistenza e nell’abbandono del corpo del compagno, gli
comunicasse che non c’era più niente da fare, che
ormai Charles
Campbell era in un posto dal quale non avrebbe più potuto
richiamarlo indietro.
Svariati
agenti sciamarono nella stanza.
Avrebbe
volentieri continuato a piangere, ma ricordò la promessa che
aveva
appena fato all’amico. Si asciugò gli occhi con la
manica.
“È
tutto finito,” si limitò ad annunciare agli
attoniti colleghi.
[1]
“Raw Lobster”, nomignolo dispregiativo in uso nella
Londra
vittoriana per definire i poliziotti. Fa riferimento al colore delle
uniformi (all’epoca blu/grigio).
[2]
Salmo 23.
[3]
Diminutivo di John con cui gli inglesi definiscono genericamente gli
scozzesi, tipo “Fritz” per i tedeschi o
“Tommy” per gli
inglesi.
[4]
Termine scozzese derivato dal gaelico saussnach (sassone) per
definire gli inglesi.
Piccolo
angolo dell’autore
Inclito
lettore, inclita lettrice,
ora
che siamo arrivati a questo punto, e che mi hai seguito così
fedelmente per i vicoli di Londra e per le case infestate, voglio
ancora una volta ringraziarti, e assicurarti come sempre che senza di
te
(sì, proprio tu che mi stai leggendo) questa storia non
sarebbe mai
esistita.
Grazie
ancora a chiunque mi abbia commentato, ma anche a chi ha messo la
storia in qualche lista o si è anche solo fermato a leggere.
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