Sapevatelo. Importanti
rivelazioni sulla Bestia di Dürnau, su Rieducational Channel!
Scusate
se non ho postato ieri, ma è stato un giorno un po’ caotico. Nel
frattempo ringrazio sentitamente chi mi segue e mi commenta, in
particolare Saelde_und_Ehre, fiore di girasole, morgengabe,
LyaStark, molang, innominetuo, miciaSissi, Syila, Crilu_98 e la
nuova maratoneta, che graziosamente si è sciroppata tutti gli
arretrati per giungere fin qui, by a lady.
Grazie
a tutti!!
Capitolo
8
Fratello
Hermann uscì nel cortile del castello. Era prima mattina, e il
piccolo spazio lastricato era ancora completamente in ombra. Le
pietre erano scivolose per l’umidità della notte.
Fuori
c’erano due cavalli già sellati: il suo destriero da guerra e uno
snello palafreno dal manto grigio. Immaginò che il secondo fosse
quello di Konrad von Obenstein.
Si
guardò intorno: a parte lui e un paio di mozzi di stalla, il luogo
era vuoto.
Raggiunse
la propria cavalcatura e cominciò a controllare i finimenti come
faceva ogni volta che doveva montare in sella.
Mentre
era così impegnato, una voce alle sue spalle attirò la sua
attenzione: “Siete pronto a partire, cavaliere?”
Hermann
si voltò. “Buon giorno, barone. Sì, sono pronto, grazie.”
“Il
braccio vi fa ancora male?”
“Non
tanto,” rispose il giovane, ma quando tentò di sollevarlo per
regolare la lunghezza dello staffile, dovette desistere mentre una
smorfia di dolore gli tendeva i lineamenti. “Forse un po’...”
si corresse.
“Siete
fortunato che quel mostro non ve l’abbia strappato. Ho visto il
vostro usbergo: da non credere.”
“Ha
sorpreso anche me.” Il cavaliere fece una pausa, poi a voce più
bassa chiese: “Difenderete Adalrich mentre sono via?”
Il
barone si voltò a fissarlo negli occhi. “Come se fosse mio
figlio.”
“Vi
sono molto obbligato.”
L’altro
scosse la testa. “No, sono io che vi sono obbligato. Avete protetto
i miei contadini a rischio della vostra vita.”
“Era
mio dovere farlo.”
“E
allora vedetela così: è mio dovere di feudatario proteggere le
persone a cui do ospitalità.” Poi, dopo una pausa: “L’usbergo
che vi ho fatto avere vi soddisfa?”
“È
di ottima fattura, barone. È anche più leggero del mio, sebbene non
meno robusto.”
“Spero
che vi servirà bene. Lo portava mio padre in battaglia, è stato
fatto dai migliori artigiani di Norimberga.”
Hermann
stava per rispondere quando una voce chiese: “A proposito di
Norimberga, padre, quando posso tornarci?”
I
due si voltarono: sulla soglia c’era Konrad in abiti da viaggio.
Dava l’idea di essersi alzato poco prima. “Salute a voi,
cavaliere,” disse svogliato. Si sistemò il cappello bordato di
passamaneria dorata.
“Salute,”
rispose neutro fratello Hermann, alzando appena lo sguardo verso di
lui.
Il
ragazzo si fece avanti e in tono meravigliato chiese: “Hai fatto
sellare Habicht, padre?”
“So
che è il tuo preferito.”
Senza
rispondere, il ragazzo montò in sella e fece qualche passo per il
cortile. Anche a quell’andatura, lo snello animale sembrava
letteralmente danzare sul selciato. Frustò l’aria un paio di volte
con la coda e alzò la testa impaziente di mettersi in marcia.
Hermann
gli rivolse uno sguardo. “È il vostro cavallo?” chiese.
“È
un corsiero berbero,”
rispose Konrad orgoglioso.
“È
un bell’animale.”
Detto
questo, anche lui montò in sella, quindi rivolse uno sguardo al
ragazzo, come per invitarlo a partire e a fargli strada.
Con
un sospiro, Konrad spronò il corsiero e uscì dal cortile al
galoppo, sperando di distaccare il più pesante cavallo da guerra.
Cavalcarono
in silenzio per un paio d’ore, ognuno immerso nei propri pensieri,
poi Konrad di punto in bianco chiese: “Da quanto tempo siete
nell’Ordine?”
“Da
quando avevo quattordici anni.”
Il
ragazzo emise un fischio di meraviglia. “Quattordici?”
L’altro
si limitò ad annuire.
“Adesso
quanti anni avete?”
“Venti.”
“Per
i dardi di San Sebastiano! E come fate a godervi la vita?”
“In
modi che voi non apprezzereste.”
Il
giovanotto scosse la testa con l’aria di non capacitarsi della
cosa. Dopo un po’ chiese: “E vi piace?”
“Sì.”
Konrad
si voltò a fissarlo sempre più incredulo. “Davvero?”
Di
nuovo, il cavaliere annuì.
Il
ragazzo si tolse il cappello, scosse la testa facendo ondeggiare ben
curati riccioli castani, quindi si rimise il copricapo. “Ma…
ecco, scusate se ve lo chiedo: che cosa c’è di bello?”
Hermann
gli rivolse un sorriso che aveva una vaga nota ironica, e poi
rispose: “Non credo che vi interesserebbe saperlo.”
Continuarono
a cavalcare in silenzio. Passò un altro po’ di tempo,
attraversarono un villaggio, qualcuno li salutò con la mano, un paio
di bambini li seguirono per un po’. Usciti dal centro abitato, si
imbatterono in una locanda dalla quale scaturivano musica e allegro
vociare. Konrad annusò l’aria con fare rapito, poi disse: “Qui
fanno un magnifico pollo al melograno. Vogliamo approfittarne?”
“Con
permesso, preferirei proseguire.”
“Ma
il pollo...”
“Lo
mangerete un’altra volta. Ora proseguiamo, per favore.”
Il
ragazzo emise un teatrale sospiro di esasperazione, brontolò
qualcosa di indistinto sulla gente che non sapeva godersi la vita,
quindi distaccò il cavaliere di qualche passo e proseguì così per
un po’.
Hermann
si limitò a seguirlo in silenzio, immerso nei suoi pensieri.
Dopo
nemmeno due ore, il ragazzo fermò il cavallo, si voltò verso di lui
e chiese: “Ci riposiamo un po’?” Indicò una radura
ombreggiata.
“No.”
“Come
no? Io sono stanco!”
Il
cavaliere rimase impassibile.
“Devo
riposare.”
“Riposerete
a Marienbrunnen.”
“State
scherzando? Ci arriveremo questa sera.”
“Se
ci fermassimo, arriveremmo ancora più tardi.”
“Se
penso che mio padre avrebbe voluto farmi entrare nell’Ordine, mi
sento male.”
§
Chiuso
in cella, Adalrich girava su e giù nervosamente. Tutta la notte
erano risuonati nell’aria gli ululati della belva infernale.
Il
mostro, qualsiasi cosa esso fosse, aveva imperversato nel paese a suo
piacimento, e l’unico vantaggio dell’accaduto era che a questo
punto l’inquisitore avrebbe dovuto arrendersi di fronte alla prova
della sua innocenza e liberarlo.
Per
l’ennesima volta si chiese ansiosamente dove fosse Hermann, se
stesse bene. Senza dubbio era uscito per combattere il mostro, pur
consapevole del fatto che le armi normali non fossero in grado di
colpirlo.
Mentre
era immerso in quei tormentosi pensieri, un rumore lo fece
sobbalzare: proprio padre Gerold stava entrando, accompagnato
dall’immancabile frate Peter.
Il
sacerdote prese lo sgabello e come sempre si sedette davanti alle
sbarre. “Buon giorno,” salutò in tono ironico, “avete dormito
bene?”
Il
cavaliere si limitò a fissarlo senza parlare.
L’altro
fece un sorrisetto. “Tacete pure, finché potete,” lo irrise.
“La
bestia è tornata,” ringhiò Adalrich per tutta risposta, “l’ho
sentita ululare anche da qui.”
“Forse
vi stava salutando.”
Il
cavaliere aggrottò le sopracciglia. “Che intendete dire?”
“È
la vostra bestia, no? Siete voi che la chiamate e la scatenate sul
paese inerme.”
“Non
dite assurdità. Il mio confratello, piuttosto, sta bene?”
Il
prete accentuò il suo sorriso compiaciuto. Con fare insinuante
domandò: “Come mai ve ne preoccupate tanto? È vostro complice,
per caso? È lui che intrattiene commerci col Demonio in vostra
assenza?”
“E
vi aspettate che vi risponda?”
Padre
Gerold scosse la testa. “No, sono ragionevolmente sicuro che
continuerete a tacere con fare sdegnoso, onde dimostrare quanto siete
disgustato dalle mie ignobili accuse.” Scosse la testa come di
fronte al puntiglio sciocco di un bambino, quindi proseguì: “E
ditemi, come mai vi preoccupate tanto di quel vostro confratello?”
“Apparteniamo
allo stesso Ordine, abbiamo combattuto insieme per anni, è ovvio il
motivo.”
L'altro
annuì. “Concordo, il motivo è ovvio. Sicuramente tra voi c'è un
legame peccaminoso: siete complici nelle opere demoniache, l'avete
appena dimostrato, e chissà, forse anche amanti.”
“Come
vi permettete?” sbottò Adalrich inferocito. Afferrò le sbarre
come se avesse voluto strapparle via.
Il
prete annuì come di fronte a un fenomeno ampiamente previsto e molto
stupido. “Ma sì, ma sì. Fate pure la parte dell'indignato. Lo
vedono tutti che non vi preoccupate altro che di lui, che lo cercate
sempre, che volete sempre stare con lui...”
“Smettetela
con queste insinuazioni infamanti!” lo interruppe il cavaliere. Nel
suo viso bianco, le guance arrossate per l'ira sembravano due
pennellate di sangue.
“Ma
guarda un po': reagite con più veemenza a queste accuse che a quelle
di stregoneria. Non avrete la coda di paglia?”
Fratello
Adalrich non rispose. Rimase a fissarlo con le mani aggrappate alle
sbarre, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo torvo. Il prete notò
che stava ansando leggermente.
“Non
potete accusarmi di nulla,” ringhiò alla fine il cavaliere, “né
di questo, né della vostra supposta stregoneria. Non avete prove, e
non le avete perché semplicemente non esistono.”
L'altro
sollevò le sopracciglia con aria di cortese interesse. Lasciò
passare lunghi istanti di silenzio, infine chiese: “Lo credete
davvero?” Senza attendere la risposta si alzò in piedi e mise le
mani dietro la schiena. Sotto lo sguardo feroce del prigioniero fece
qualche passo su e giù. Infine disse: “Voi nobili cavalieri non
vedete al di là del vostro naso. Avete solo tre concetti in testa,
coraggio, lealtà e onore, il che va benissimo durante una battaglia,
posto che il nemico ragioni allo stesso modo, ma vi rende dei poveri
ingenui in tutte le altre situazioni della vita.”
Fissò
il suo interlocutore, forse aspettandosi una risposta. Come prima,
fratello Adalrich si limitò a fissarlo in silenzio.
“Il
vostro destino è segnato,” proseguì allora il prete, “voi
sarete processato e arso sul rogo come stregone e sodomita. Ma
rassicuratevi: perlomeno il vostro sacrificio, chiamiamolo così,
servirà a rinsaldare in questo feudo il potere di Santa Madre
Chiesa, che in fin dei conti è anche la stessa istituzione che avete
giurato di servire a costo della vita. Non farete nulla di diverso da
ciò che ci si aspetta da voi, alla fine.”
Il
cavaliere rimase impassibile. Con voce di nuovo calma, rispose: “Io
sono innocente da ogni accusa. Dio non vi permetterà di compiere
questo abominio in suo nome.”
L'altro
scosse la testa. “Povero idiota. Coraggio, lealtà e onore: non
capite altro, vero?” Poi, rivolto al frate: “Andiamocene, Peter.
Sarebbe più stimolante parlare con un bue.”
§
Era
l'imbrunire quando finalmente le guglie della chiesa di Marienbrunnen
si profilarono all'orizzonte.
A
quella vista, Hermann spronò il cavallo, facendogli aumentare il
passo.
Dietro
di lui, Konrad disse: “Aspettate, fratello cavaliere. È tutto il
giorno che siamo in sella.”
“Lo
so.”
“Sì,
so che lo sapete. Volevo solo trovare un modo elegante per farvi
notare che sono esausto.” Poi, dopo una pausa: “Questa è
retorica,
per vostra informazione.”
“So
anche questo.”
Il
cavaliere tornò a fissare lo sguardo sul convento. Alle sue spalle
il ragazzo continuava a ciarlare, ma lui non lo sentiva nemmeno:
aveva davanti agli occhi l'obiettivo, e null'altro aveva più
importanza.
“Insomma,
mi ascoltate?” sbottò a un certo punto Konrad, che aveva spronato
il cavallo fino ad affiancarlo.
Fratello
Hermann inspirò profondamente a occhi socchiusi, quindi tirò le
redini e si fermò nel bel mezzo della strada. Si voltò verso il suo
petulante accompagnatore e chiese: “Chi è la persona che amate di
più al mondo?”
Il
giovanotto sbatté gli occhi, perplesso dall'inaspettata richiesta.
“Cosa? E questa che domanda sarebbe?”
“Una
domanda alla quale gradirei una risposta.”
“Mia
madre e mio padre, immagino.” Avrebbe voluto aggiungere qualcuna
delle cameriere della taverna del Grifo, ma non era proprio certo che
facessero parte delle persone che amava di più al mondo.
Il
cavaliere comunque annuì grave, quindi disse: “Ora immaginate che
vostra madre o vostro padre stiano rischiando di essere arsi sul
rogo, e che in questo convento ci sia qualcuno che forse può
aiutarvi a evitarlo. Voi quante pause fareste lungo la strada?”
Konrad
abbassò lo sguardo mordendosi il labbro inferiore, poi lo rialzò e
rispose: “Nessuna, credo. Anzi, farei la strada al galoppo.”
“Mi
capite ora?”
L'altro
annuì. Rimase in silenzio per un po', poi di punto in bianco disse:
“Scusate, cavaliere.”
Hermann
si voltò verso di lui. “Per cosa?”
“Sono
stato un po' sciocco. Scusatemi.”
“Non
fa niente.”
Di
nuovo fra i due calò il silenzio.
Konrad
rimase a fissarlo per un po', ma il cavaliere non aveva occhi che per
il convento. Lo guardava come un assetato avrebbe fissato una polla
d'acqua, o un affamato un'imbandigione.
Vide
anzi le sue mani stringersi sulle redini al punto che le nocche
sbiancarono.
Il
cavallo aumentò ancora l'andatura.
“Aspettate,
cavaliere,” gli disse, ma già l'altro l'aveva distaccato, e ormai
al trotto si stava dirigendo verso l'entrata di Marienbrunnen.
Fu
un frate di mezz'età, pingue e dall'aria pacifica, ad aprire loro il
portone. “Benvenuti, benvenuti!” li accolse, “venite dentro,
stavamo giusto per metterci a tavola. Ma tu sei il piccolo Konrad!
Quanto sei cresciuto? Mi ricordo di te che eri alto così!” Fece un
segno con la mano poco più su della cintura. “E come sta il barone
tuo padre?”
“Bene,
grazie.”
“Ah,
magnifico. Magnifico. Cosa ti porta da queste parti?”
Il
ragazzo indicò Hermann. “Ho accompagnato questo cavaliere.”
Il
frate sembrò accorgersi di lui solo in quel momento. “Un fratello
dell'Ordine!” esclamò gioviale. “Noi amiamo molto l'Ordine,
vedete la bandiera che sventola sul campanile? Croce nera in campo
bianco, se capite quel che voglio dire! Siete venuto per stare un po'
qui con noi? Troverete tanti altri confratelli, sia cavalieri che
sacerdoti.”
Contagiato
dal buonumore del religioso, Hermann non poté fare a meno,
nonostante lo stato d'animo plumbeo, di restituirgli un lieve
sorriso. “Mi piacerebbe molto,” rispose, “ma purtroppo sono qui
per motivi assai poco piacevoli, che vi spiegherò magari in seguito.
Sto cercando un mio confratello anziano di nome Hildebrand.”
“Fratello
Hildebrand? Sarà molto felice di vedervi, ne sono certo.”
“Posso
incontrarlo?”
“Ma
certamente. Lo vedrete nel refettorio assieme a tutti gli altri.”
“No!
Per favore, devo parlargli subito.”
“Ma
la cena sarà pronta fra poco.”
“Adesso.
Per favore.”
Sotto
lo sguardo accorato del giovane, il frate non ebbe cuore di
rifiutare. Gli pose un braccio intorno alle spalle e disse: “Venite
con me, ragazzo mio.” Poi, rivolto a Konrad: “Tu ci aspetti qui,
non è vero? Se hai fame puoi andare da frate Ewald, digli che ti ho
mandato io.”
Si
incamminarono attraverso il cortile. Il posto comunicava un senso di
pace raccolta: vi era una bella chiesa in pietra bianca, circondata
da edifici a graticcio. Nelle aiuole crescevano cespugli di rose e
piante medicinali, alberi da frutto di ogni genere erano in fiore e
nell’aria c’era profumo di miele e pane appena sfornato.
Entrarono
nell’edificio accanto alla chiesa, anch’esso di pietra, e
dall’ingresso percorsero un corridoio, per poi sbucare in un
chiostro al centro del quale si trovava un pozzo coperto di edera.
Tutt’intorno vi erano delle panche.
Nella
scarsa luce del crepuscolo, Hermann vide che su una di esse sedeva
qualcuno che portava il manto bianco dell’Ordine.
Si
avvicinarono ai sedili, poi il frate chiamò: “Fratello
Hildebrand!”
L’altro,
che stava probabilmente meditando, si riscosse e si alzò in piedi.
“Che cosa desideri, fratello Luitpold?”
Hermann,
che si era aspettato un mite vecchietto un po’ curvo, dovette
ricredersi: fratello Hildebrand era alto come lui, ma aveva le spalle
di fratello Adalrich. Il volto dall’espressione decisa, con la
fronte ampia e penetranti occhi grigi, era incorniciato da una
capigliatura di neve che arrivava a lambire le spalle. La folta
barba, che conservava qualche venatura di grigio, gli conferiva
l’aspetto solenne di un patriarca biblico.
L’imponente
vecchio volse nella sua direzione lo sguardo penetrante di un astore.
Il
cavaliere si fece avanti. “Sia ringraziato il Cielo,” non poté
fare a meno di dire. “Per fortuna vi ho trovato.”
L’uomo
sorrise. “Che cosa volete da me, giovane confratello?”
“Dovete
aiutarmi!” esalò Hermann disperato. D’istinto gli prese la mano.
Fratello
Hildebrand sollevò stupito le sopracciglia, quindi rispose: “Calma,
ragazzo mio. Ditemi prima cosa vi sta succedendo.” Gli indicò il
porticato. “Vogliamo passeggiare un po’ mentre mi parlate?”
Hermann
prese a raccontare. Disse tutto, cercando di non tralasciare alcun
particolare. Raccontò della belva, di quello che faceva e di come
fosse apparentemente immune alle ferite che le venivano inferte. “Sia
io che il mio confratello l’abbiamo colpita più volte,” spiegò,
“sempre in pieno e con tutta la forza. Le ferite guarivano a vista
d’occhio.”
Fratello
Hildebrand annuì grave, poi chiese: “Com’era fatta questa
bestia?”
Il
giovane la descrisse, e l’altro aggrottò le sopracciglia con fare
perplesso. “Non è possibile,” borbottò alla fine.
“Cosa,
non è possibile?”
“Questa
bestia. Se è come voi dite, non dovrebbe essere qui.”
Hermann
non poté fare a meno di intravedere un tenue barlume di speranza.
“Domando perdono,” chiese esitante, “voi sapete che cosa sia?”
“Venite
con me,” gli disse l’altro.
Uscirono
dal chiostro, salirono per una rampa di scale e arrivarono a un
vestibolo, dal quale accedettero a una sala immersa ormai
nell’oscurità, ma che si intuiva grande e col soffitto a volta.
Fratello Hildebrand accese un lume, rivelando pareti coperte di libri
dal pavimento al soffitto. Si mosse con sicurezza verso uno scaffale,
quindi estrasse un volume e lo pose sul tavolo che si trovava al
centro della sala. Cominciò a sfogliarlo.
Hermann
si fece avanti incuriosito: il libro era scritto in arabo e mostrava
disegni di animali che lui non aveva mai visto. Riconobbe il cane
infernale. “Ecco, è questo!” esclamò, indicando la figura di un
animale fulvo e picchiettato di nero, dalle orecchie rotonde,
tarchiato, con i quarti posteriori più bassi degli anteriori e una
robusta chiostra di denti.
“Siete
sicuro?”
“Lo
riconoscerei fra mille. È lui, non sbaglio.”
“Iena.”
Hermann
lo fissò con sguardo interrogativo.
“Iena.
È il suo nome.” spiegò fratello Hildebrand. Poi, dopo una pausa:
“E mi dite che l’avete visto trasformarsi in uomo?”
“L’ha
fatto due volte, sotto i miei occhi. La seconda volta ha anche
ripreso la forma animale ed è scappato.”
L’altro
si accarezzò pensoso la barba. “Non è possibile,” mormorò di
nuovo a mezza voce.
“Abbiate
la bontà di spiegarmi, fratello Hildebrand,” disse Hermann dopo un
lungo silenzio. “Continuate a ripetermi che non è possibile, ma
non capisco di cosa stiate parlando.”
L’altro
annuì grave, la sua espressione si era fatta cupa e carica di
preoccupazione. “Avete ragione,” confermò. “Avete il diritto
di sapere, ma non ora. Dovrò parlarvi, ma non è opportuno che lo
faccia mentre regna l’oscurità, questi sono argomenti che non si
possono affrontare al buio. Ora andiamo a prendere il pasto serale e
preghiamo. Domattina vi spiegherò tutto.”
Hermann
sbatté perplesso le palpebre. Si era immaginato una situazione
grave, ma non così
grave. “C’è di mezzo la stregoneria, per caso?” domandò
titubante.
“Domani.
Ora non è bene nominare certe cose.”
§
Il
giovane cavaliere trascorse la notte rigirandosi inquieto nel letto.
Le parole dell’anziano confratello lo avevano messo in uno stato di
tormentosa aspettativa, che si era unito alla preoccupazione per
l’amico rendendola ancora più opprimente.
Che
cosa stava succedendo? Perché non se ne poteva parlare se non alla
luce del giorno?
Si
alzò definitivamente dopo aver tentato invano di dormire, si vestì
e uscì all’aperto. Era ancora buio, sebbene i primi uccelli
cominciassero già a cantare. Scorse i frati che entravano in chiesa
per il mattutino[1] e si unì a loro, ma neppure nel corso della
preghiera riuscì a distogliere la mente dalle preoccupazioni, e le
parole della liturgia gli scivolavano addosso come acqua.
Pensava
ad Adalrich, tanto per cambiare, e costantemente si chiedeva se
stesse bene, e se il barone fosse realmente riuscito a proteggerlo
come gli aveva promesso.
Pensava
anche alle parole di fratello Hildebrand, e non faceva che domandarsi
cosa mai ci potesse essere di così terribile da non poter essere
narrato se non alla luce del sole.
Fu
il tramestio dei frati che uscivano dalla chiesa a distoglierlo dalle
sue ansiose meditazioni.
Riuscì
a incontrare fratello Hildebrand solo dopo la Prima[2]. “Voi volete
sapere,” gli disse l’uomo, fissandolo severo negli occhi.
“Sì,
per favore,” rispose Hermann. “Il mio confratello è in pericolo.
Ogni momento che trascorro lontano da Dürnau potrebbe essere quello
fatale.”
L’altro
annuì grave. “Venite con me,” gli disse alla fine.
Non
tornarono alla biblioteca. Uscirono dal convento e attraversarono un
frutteto bianco e rosa di fiori appena sbocciati, poi si addentrarono
in un boschetto di querce e seguirono per un po’ il corso di un
torrente.
Fratello
Hildebrand si fermò solo quando raggiunsero le rovine di una piccola
cappella ormai coperta di rampicanti. “Ci sono cose che non possono
essere udite da tutte le orecchie,” spiegò.
Hermann
annuì. “Ora mi racconterete del… Iena?” chiese fissandolo con
aspettativa.
“Per
prima cosa devo farvi una domanda: voi conoscete il Corano?”
“Il
libro degli infedeli?”
“Proprio
quello. Mi rifugio nel
Signore dell’alba nascente, contro il male che ha creato, e contro
il male dell’oscurità che si estende, e contro il male delle
soffianti sui nodi, e contro il male dell’invidioso quando
invidia.[3]”
Il
giovane cavaliere rimase per qualche istante in silenzio, quindi
chiese: “E questo cosa significa?”
“Questo
è un versetto del Corano. Anche presso gli arabi – o gli infedeli,
se preferite – c’è chi pratica la magia, e chi se ne serve per
fare del male. Avete mai sentito parlare dei jinn?”
L'altro
scosse la testa.
“I
jinn sono esseri soprannaturali creati da fiamme senza fumo, e
possono essere buoni o cattivi. Si nascondono nelle rovine e nei
luoghi disabitati. I più malvagi di essi sono definiti al-ghūl,
o semplicemente ghul. Essi si muovono di notte. Possono mutare forma
a piacimento, in esseri umani o nell’animale che avete visto,
bevono il sangue, profanano le tombe divorando i cadaveri, ed
emettono spaventosi ululati, in grado di ghiacciare il sangue nelle
vene.”
“È
proprio ciò che fa quella creatura,” mormorò Hermann.
“Esattamente le stesse cose.”
“Inoltre
creano progenie,” continuò l’altro, “contagiano le vittime cui
succhiano il sangue, facendo sì che esse riprendano vita come
versioni minori del ghul, che a differenza di esso, possono venire
uccise anche dalle armi normali.”
“E
quelle a loro volta ne contagiano altre,” concluse il più giovane.
“Proprio
così.”
Hermann
si sedette su un sasso poco lontano. Per un po’ rimase con lo
sguardo rivolto all’acqua che scorreva, quindi sollevò la testa,
fissò il confratello e disse: “Ma la domanda è: come ha fatto ad
arrivare qui un ghul?”
“È
quello che non riesco a spiegarmi. In Terra Santa ho parlato con
sapienti e guerrieri che li hanno combattuti, una volta penso di
averne anche sentito uno ululare, ma qui...”
Il
giovane buttò un sassolino nella corrente e rimase a osservarlo
mentre esauriva la sua inerzia e si mescolava con gli altri ciottoli.
Riandò con la mente all’escursione di qualche mese prima alle
chiese rupestri, rivide la cassa con dentro il corpo. “Com’è
fatto un ghul?” domandò, pregando di sbagliarsi, ma allo stesso
tempo augurandosi che non fosse così.
“Somiglia
a un uomo straordinariamente magro, con la pelle come cuoio conciato.
Veste ricchi abiti ricamati e ha da qualche parte qualcosa, una
fascia, una cintura o altro, tutta annodata. Al posto delle unghie ha
artigli ricurvi, i denti sono lunghi e aguzzi.”
Hermann
si sentì gelare. “Che Dio mi aiuti, fratello,” mormorò dopo un
po’, “siamo stati noi a portarlo qui.”
L’altro
lo fissò stupefatto. “Che stai dicendo, figliolo?” E poiché il
più giovane non rispondeva, lo afferrò per le spalle e lo scosse
con vigore. “Che stai dicendo?” ripeté a voce più alta.
Con
fatica, cercando di mantenere la voce ferma, Hermann gli raccontò
della presunta reliquia di Sant’Atanasio di Alessandria. “L’abbiamo
scortato fin qui, capite?” disse alla fine.
Fratello
Hildebrand annuì grave, poi chiese: “Com’è possibile che un
mostro del genere sia stato scambiato per un santo?”
“Hanno
pensato a un corpo incorrotto. Aveva la croce sul petto e in cintura
una fascia con dei nodi, che è stata scambiata per un cilicio.
Legato al polso aveva una specie di pendente di cristallo di rocca,
nel quale si trovava un cartiglio con scritto in greco Athanasios.”
Il
vecchio rimase in silenzio talmente a lungo che Hermann fu sul punto
di chiedergli se si sentisse male. Alla fine, rialzò la testa e
disse: “Non Athanasios, ma Athanatos, immortale. Poiché non
riuscivano a ucciderlo con le armi normali, hanno pensato di murarlo
dentro quella chiesa, ma lasciando un avviso sulla sua pericolosità.”
“E
noi ce lo siamo portato a casa,” concluse Hermann.
“Proprio
così.”
“Ma
perché ha ripreso vita solo a Dürnau?”
“Di
solito è un sacrificio di sangue che lo sottrae al suo letargo
secolare.”
Seguì
un lungo silenzio, infine il giovane disse: “Avete detto che non si
può uccidere con le armi normali.”
“L’hai
visto con i tuoi occhi, ragazzo.”
“Cosa
lo uccide, allora?”
“Vieni
con me.”
Tornarono
verso il convento. Attraversarono di nuovo il frutteto, questa volta
incrociando frati intenti a svolgere i lavori quotidiani, che li
salutarono rispettosamente al loro passaggio.
Qualche
pollo fuggì chiocciando dinnanzi al loro incedere deciso.
Entrarono
nell’edificio principale. Fratello Hildebrand si procurò una
lanterna, quindi condusse il suo accompagnatore verso la porta dei
sotterranei. Scesero alcune rampe di scale e arrivarono a una stanza
umida e fredda, nella quale nessuno sembrava avere messo piede da
anni. Lì il cavaliere più anziano estrasse dalla tunica una chiave
che teneva assicurata al collo e andò a un baule che si trovava
contro una parete.
Fece
scattare la serratura, quindi sollevò il coperchio. “Vieni a
vedere,” disse, facendo cenno all’altro di raggiungerlo.
Hermann
si avvicinò.
Fratello
Hildebrand estrasse da sotto un mucchio di stoffe un involto oblungo
di pelle legato con delle fettucce, poi lo consegnò al confratello.
“Che
cos’è?” chiese il giovane.
“Guarda
tu stesso.”
Egli
disfece l’involto, rivelando un’arma saracena dal semplice fodero
di metallo ricoperto di pelle. Sollevò lo sguardo interrogativo su
Fratello Hildebrand.
“È
un saif,
o scimitarra, se preferisci. Immagino che ne avrai incontrati
parecchi in Terra Santa.” Fece un cenno col capo. “Guardalo.”
Hermann
lo afferrò, con qualche difficoltà data l’impugnatura stretta, e
poi lo estrasse dal fodero: la lama era decorata con eleganti
caratteri arabi, e lucida come se fosse stata appena forgiata. Il
filo non aveva la più piccola intaccatura.
“È
stato benedetto da un Wali,”
gli spiegò il più anziano, “che sarebbe l’equivalente di uno
dei nostri santi.”
L’altro
vi fece scorrere sopra uno sguardo ammirato, quindi alzò gli occhi
sul confratello e chiese: “E questa ucciderà il ghul?”
“Sarà
in grado di ferirlo.”
Hermann
fece un lieve sorriso. “Se può essere ferito, può anche morire.”
§
Il
barone von Obenstein si affacciò al balcone della sala delle
udienze. Nel cortile era radunata una folla di persone, contadini,
artigiani e donne, composti ma inamovibili.
Alcuni
di essi avevano in spalla falci e forconi, qua e là crepitavano
fiaccole.
“Cosa
volete, buona gente?” chiese il nobile.
Si
fece avanti mastro Norbert, il fabbro, che evidentemente era stato
designato come portavoce. Si tolse il cappello con fare rispettoso,
quindi disse: “Anche questa notte sono state uccise tre persone.”
“Lo
so e me ne dispiace,” rispose il barone. “Stiamo organizzando
cacce tutti i giorni per trovare quella bestia infernale.”
L’altro
annuì, ma era evidente che la spiegazione non lo aveva convinto per
nulla. La folla rimase silenziosa, nessuno accennò ad andarsene.
Infine,
una donna che teneva un figlio in braccio disse: “Dobbiamo stare ad
aspettare che ci prenda uno per uno?”
Un
altro si aggiunse all’invettiva: “La bestia va e viene come
vuole, e se ci chiudiamo in chiesa devasta le nostre case e divora i
nostri morti!”
Dalla
folla cominciò a levarsi una cacofonia di proteste.
Il
barone sopportò per un po’, quindi intimò il silenzio con un
gesto. “Basta così,” disse poi. “Troveremo una soluzione, e
fino a quel momento accoglierò tutti coloro che lo vorranno nelle
sale del castello, dove la bestia non può entrare.”
Il
fabbro scosse la testa. “Con licenza, mio signore, questa non è la
soluzione.”
“Cosa
proponi allora?”
L’uomo
si scambiò un’occhiata con quelli che lo circondavano, più d’uno
gli diede una pacca sulla spalla come per incoraggiarlo. Quella che
doveva essere sua moglie gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
“Quel
cavaliere,” disse allora mastro Norbert.
“Quale
cavaliere?” chiese il barone, fingendo di non aver capito.
“Quello
tutto bianco, mio signore. Padre Caspar ha detto che è un emissario
del Demonio, e che finché non sarà arso sul rogo la bestia
tornerà.”
Un
mormorio di approvazione attraversò la folla.
Il
barone rientrò dal terrazzo e scese nel cortile. Avanzò fino a
trovarsi faccia a faccia con il fabbro, quindi gli chiese: “Che ha
detto padre Caspar?”
L’uomo
tossicchiò imbarazzato. “Ha detto che quel cavaliere è figlio del
Demonio, e che è lui che chiama la bestia, mio signore.”
“Ma
tu l’hai visto combattere, no?”
“Ecco…
mio signore...”
“Sì?”
“Mio
signore, padre Caspar dice che faceva solo finta di combattere,
mentre in realtà segnava le case per farci andare la bestia.”
“E
queste cose padre Caspar come le sa?”
“Gliele
ha dette sua eccellenza, mio signore.”
“Chi?”
La
moglie del fabbro intervenne: “Il prete che viene da Fulda, mio
signore.”
Il
barone annuì grave, poi fece un passo indietro e a voce alta disse:
“Ascoltatemi tutti: d’ora in poi, chi oserà dire che il
cavaliere dell’Ordine Teutonico è un emissario del Demonio sarà
frustato, sono stato chiaro?”
Si
fece avanti Till il gobbo, che in virtù della sua deformità si
permetteva di dire a voce alta cose che molti altri non avevano
nemmeno il coraggio di mugugnare. Fece una grottesca riverenza al
barone e in tono forzatamente lamentoso gli chiese: “Ma allora, mio
signore, se quel cavaliere è innocente, perché continuate a tenerlo
in prigione?”
[1]
preghiera che viene recitata prima del sorgere del sole
[2]
preghiera delle 06.00 del mattino
[3]
Sura Al-Falaq, n.113
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