Un
boato e tutto si era fatto sordo. Non aveva visto nulla, era stato
troppo veloce; le faceva male qualcosa ma non sapeva cosa. Era
disorientata e quando aveva cercato di rialzarsi da terra era
scivolata. Almeno credeva che quella fosse la terra. A tentoni si era
messa in piedi e aveva tentato di aprire gli occhi, di capire, di
ascoltare. Era appena successo quello che nei fumetti chiamavano fine
del mondo.
Aveva
iniziato a finire dopo l'arresto di sua zia Astra.
Stava
colorando il suo disegno, seduta composta nel banco. In classe era
rimasta solo lei e un altro bambino, a qualche banco dietro il suo,
che la guardava di sbieco, visibilmente arrabbiato. Quando la maestra
aveva aperto la porta della classe, entrambi erano schizzati con la
testa in alto, in attesa.
«Kara!
Vieni, porta il tuo disegno, è venuta tua madre a
prenderti», aveva
esclamato la giovane maestra, costringendosi a fare il suo sorriso
migliore di fronte a quella incresciosa situazione. Aveva poi detto
all'altro bambino che doveva ancora aspettare.
«Il
disegno lo lascio qui, tanto lo dovevo regalare a lui e al suo amico
Benny», le aveva detto la bambina prima di uscire.
A
Kara era bastato guardare il volto di sua madre per impallidire e
perdere ogni sicurezza.
«Allora»,
le aveva detto, avvicinandosi, abbassandosi e guardandola negli
occhi. «Cos'è successo?».
Il
viso della bambina aveva presto assunto un'aria rammaricata.
«È
stato Benny Santos, mamma! Lui prendeva in giro la mia amica Nicole
perché è caduta e ho fatto come hai detto tu:
sono stata calma, gli
ho chiesto se poteva smetterla… e anche se mi arrabbiavo
perché
continuava a ridere, ho contato fino a dieci».
«E
allora cos'hai fatto dopo?».
Kara
si era distratta, guardando da un'altra parte e poi sbuffando.
«Gli
ho rotto il naso».
La
donna si era alzata e le aveva preso la mano per portarla via,
salutando l'insegnante e promettendole che sarebbe stata messa in
punizione.
«Non
sia troppo dura, sono solo bambini», le aveva risposto la
signorina,
«Arrivederci, giudice». Dopodiché era
rientrata in classe,
guardando l'altro bambino, colpevole di aver spinto Kara nel
tentativo di difendere il suo amico Benny, e spiegandogli che i suoi
genitori non erano ancora arrivati. Si era avvicinata per chiedergli
come stava e poi al banco di Kara, prendendo il disegno che aveva
lasciato: c'era un buco nel terreno e due personaggi stilizzati
stavano di sotto, mentre altri due di sopra, di cui uno, in posa
trionfante, aveva un mantello rosso che pendeva dal collo. Sotto
erano scritti i loro nomi. Aveva sospirato. «Bambini».
«Pensavo
mi ascoltassi, Kara», le aveva ricordato sua madre in auto,
alla
guida. La donna, capelli mori raccolti in una coda, labbra fini e
strette in una smorfia sul viso: non era arrabbiata, quanto
più
delusa. «Tuo padre ed io non abbiamo lasciato che imparassi a
difenderti per fare a botte con i bambini della scuola. Hai
già
dieci anni, sei grande per capire la differenza», l'aveva
guardata
con la coda dell'occhio, restando ferma sul volante. Kara era seduta
di peso contro il sedile, con sguardo abbattuto. «Non volevi
diventare un supereroe? Mi sbaglio, piccola?».
«Non
è lo stesso che hai fatto con zia Astra?», aveva
domandato dopo
qualche attimo, giocando con una pietra in mano, e sua madre si era
indurita di colpo, deglutendo.
«Quello
che è successo con zia Astra è molto
più complicato di così»,
aveva sospirato, svoltando un angolo. «Vorrei poterti dire
tutto,
Kara, ma sei ancora-».
«Una
bambina», l'aveva interrotta con la voce sulla sua.
«Dici sempre
che mi devo comportare da grande, ma quando poi lo faccio tu mi
ripeti che sono ancora troppo piccola».
La
donna aveva fermato l'automobile grigia nel vialetto e Kara era scesa
di corsa, spalancando la porta di casa, ignorando suo padre che
leggeva un giornale scientifico bevendo caffè, e salendo le
scale
fino su in camera sua, sbattendo la porta. Lei era entrata dopo
qualche minuto e suo marito l'aveva guardata con compassione.
«Come
sta l'altro bambino?», le aveva domandato, ma senza
distogliere lo
sguardo dal giornale.
«Era
in infermeria, ma ho parlato con sua madre prima di andarla a
prendere: era in lacrime. Dice che suo figlio è solo
molto…
spontaneo»,
aveva sottolineato, «Ma sono riuscita a calmarla e a
convincerla a
non denunciarci».
«Ecco
perché sei il miglior giudice di sempre». Si era
proteso verso di
lei e si erano scambiati un bacio. «E lui è
davvero… spontaneo?».
«Oh,
non sai quanto… maltratta più bambini e bambine
al giorno di
quanto faccia compiti in un mese».
«Allora
è stata autodifesa», aveva scrollato le spalle,
continuando a
seguire il giornale.
«Non
cominciare».
«Stavo
solo supponendo».
«Allora
non supporre: non voglio che Kara vada in giro a picchiare la gente,
anche se questa si comporta male». Si era seduta su una sedia
davanti al marito, dall'altra parte del tavolo, reggendosi la fronte.
Lui
finalmente aveva alzato lo sguardo, inarcando le sopracciglia.
«Per
cosa le abbiamo concesso tutte quelle ore di arti miste?».
«Per
difendersi dai veri pericoli, non deve cercarseli. Deve capire la
differenza; deve poter fare la differenza».
«Ha
solo dieci anni, però. E ha solo cercato di difendere
un'amichetta
da un bullo a scuola».
«Oggi
è un bullo a scuola… Voglio che cresca come una
persona
consapevole e responsabile», aveva risposto esausta. Si
scambiarono
un'occhiata. «Insomma, da che parte stai? Mi sembra di
sentire
parlare Astra. Lei l'ha nominata, in macchina».
Lui
si era incupito subito, chiudendo il giornale.
«Ah… E com'è
andata?».
«Come
vuoi che vada, Zor, lei non sa nulla. Sono la madre cattiva che ha
condannato la zia in prigione… Come posso spiegare a una
bambina di
dieci anni che stravede per sua zia che la stessa ha tentato di
rapirla? Senza contare tutto il resto…».
Si
erano zittiti e la piccola Kara, chiusa in camera sua, non aveva
sentito una parola. Seduta sul lettino, guardava fuori dalla finestra
con aria assente. Il cielo era pieno di nuvole bianche, ma nonostante
le piacesse il sole, era la notte che aspettava con trepidazione, il
suo momento della giornata che preferiva. Il perché si
nascondeva
nelle stelle. Si era alzata, dando un'occhiata al cielo attraverso il
suo telescopio. Era stato un regalo di suo padre al suo nono
compleanno, ma era con sua zia Astra che lo aveva sempre usato e che
aveva imparato tante cose. Si era allontanata subito poiché,
lo
sapeva, con il giorno non si vedeva nulla. E ora non avrebbe rivisto
nemmeno sua zia Astra. L'ultima cosa che aveva di lei era un
braccialetto con i pianeti per ciondoli, che amava tanto.
Kara
non sapeva perché sua zia era finita in prigione, ma era la
persona
più buona del mondo e davvero l'unica che riusciva a
capirla, mentre
sua madre, per quanto fossero identiche di aspetto le due, non si
sforzava neppure a farlo. Era arrabbiata e si era seduta di nuovo sul
lettino, stringendo i pugni.
«In
punizione. Sono in punizione. Va bene, tanto non ho fame»,
aveva
sbottato per sé, con aria dura, «Non
mangerò più nulla e non mi
reggerò più in piedi, così saranno
contenti. Più nulla, nemmeno
uno yogurt. O un pezzo di pane. Mi trattano da bambina e mi
comporterò da bambina; ho chiuso con queste persone e con il
cibo».
«Kara?».
Suo padre aveva bussato e poi aperto la porta con uno scatto.
«So
che sei in punizione, ma vai a fare merenda: abbiamo comprato gli
yogurt questa mattina».
Lei
lo aveva guardato con aria arrabbiata e lui le aveva sorriso.
«Okay»,
era scesa di corsa dal letto.
La
sua strategia riguardo il cibo aveva miseramente fallito ma, sapeva
bene, non era colpa sua: erano loro ad avere la pessima abitudine di
comprare cose che le piacevano e lei non aveva abbastanza forza per
non cedere alle tentazioni. Ma non sarebbero riusciti ad averla vinta
per tutto, ed ecco perché da quel giorno aveva cominciato a
mangiare
assumendo l'aria più truce che conosceva.
Erano
giorni strani quelli che avevano seguito l'arresto di sua zia
Astra…
Ancora più del solito, i suoi zii Jor e Lara andavano a casa
loro
per parlare di cose importanti che riguardavano il lavoro, le
dicevano. Zio Jor lavorava con suo padre, erano scienziati, e
speravano di cambiare il mondo. Kara sapeva bene che, quando loro
dovevano parlare di lavoro, lei doveva restare fuori o in camera sua
e non interferire.
«Chissà
di cosa stanno parlando», aveva detto Kara esasperata,
buttandosi a
peso morto sul suo lettino.
«Di
Astra», le aveva risposto suo cugino, certo della
verità. Aveva
subito preso il suo interesse.
«Ma
devono parlare di lavoro».
«Di
Astra è anche lavoro», rispose saccente, sedendo
sul pavimento, ai
piedi del letto. Lui aveva già quindici anni, sguardo fermo,
capelli
neri tirati indietro con il gel, vestito di jeans strappati e scarpe
larghe: Kara stava sempre a sentire ciò che diceva Kal
poiché lui
era il suo esempio. «C'è una cosa che non sai,
Kara: tua zia Astra
ha fatto danni al suo lavoro che ha messo a soqquadro il lavoro dei
nostri genitori».
Lei
era scesa dal letto in fretta solo per guardarlo negli occhi azzurri
e capire se stesse dicendo davvero la verità. «Ma
zia Astra non
farebbe mai del male a nessuno».
«Lo
ha fatto», aveva detto semplicemente, sollevando le spalle.
«Mio
padre mi ha raccontato qualcosa: siediti».
La
bambina si era seduta immediatamente sul tappeto conscia che se Kal
non le avesse raccontato cosa stesse succedendo, non lo avrebbe fatto
nessun altro.
«Sai
che Astra era un sergente, giusto? Prima dell'arresto». La
bambina
aveva annuito. «Mio padre ha detto che aveva una missione:
infiltrarsi in un gruppo di persone corrotte. Sai che vuol dire? Non
doveva fingersi un'altra, ma solo essere lei, sergente, sorella
gemella di un giudice, che aveva voglia di farsi qualche soldo in
più
in modo non proprio legale».
«E
ci era riuscita? Chi era questo gruppo?».
«Altri
membri della polizia, politici e tipetti del genere. Gente che
ricopre alte cariche, o ricca, sai», le aveva risposto,
«E sì,
c'era riuscita. È questo il punto, Kara: aveva fatto oltre
che
infiltrarsi in mezzo a loro, era diventata una di loro».
«Non
è vero, Kal! Smettila». Kara si era alzata di
colpo, corrugando lo
sguardo. «Non ci credo».
«È
la verità, Kara», aveva detto con un'alzata di
spalle, «E se
questa è la tua reazione, forse è per questo che
non ti dicono
nulla».
Pensò
che forse un po' avesse ragione, ma non allora. Allora era solo
terrorizzata dall'idea che la sua zia preferita stesse facendo
qualcosa di tanto sbagliato. Come futuro supereroe, lei sapeva quanto
era sbagliato essere delle persone corrotte e aveva il compito di
fermarle e consegnarle alla giustizia. Era quello che aveva fatto sua
madre, ma non si arrendeva all'idea che sua zia Astra non fosse
innocente. Ed era insistentemente innocente anche quando suo cugino
rincarò la dose rivelandole che, nella sua posizione, aveva
fatto
sparire delle prove favorendo un sospettato e, con l'aiuto di suo
marito, aveva tentato di corrompere la giuria allo stesso caso. Erano
entrambi stati arrestati per questo, aveva detto lui. Era tutto
troppo assurdo.
Ricordava
fin troppo bene com'era apparsa provata e triste sua zia quando, dopo
giorni che era scomparsa, era riapparsa nella sua scuola per
parlarle. Si era finta sua madre, le bastava poco per imbrogliare gli
insegnanti, ed era andata a prenderla. Era così spaventata
di non
poterla rivedere mai più e l'aveva abbracciata
così forte che per
poco non la faceva scoprire.
«Kara,
dobbiamo andare», le aveva detto e poi, più per
lei, sussurrato:
«Devi venire con me, ti prego».
La
maestra le aveva guardate con un sorriso radioso: «Il vostro
rapporto madre-figlia è così meraviglioso,
giudice».
Kara
aveva annuito e poi preso per mano Astra, salutando tutti e aprendo
la porta dell'aula per uscire. «Ero tanto
preoccupata», le aveva
detto una volta chiusa la porta, abbracciandola di nuovo.
«Sei
sparita e non sei più tornata». Allora non sapeva
che era ricercata
dalla polizia. Come poteva…
«Lo
so, lo so», l'aveva guardata attentamente negli occhi,
carezzandole
il viso, «È stata dura stare lontana
così tanto da te, non sai
quanto, ma sono tornata per questo, per te».
«Per
me?».
La
donna aveva alzato improvvisamente lo sguardo e poi si era guardata
meglio intorno, sentendo dei rumori venire verso di loro, e delle
voci, rendendo ancora più evidente alla piccola Kara la sua
agitazione. «Adesso devi venire con me, va bene? Non te lo
chiederei
se non fosse importante, Kara, ma lo è e non devi fare
domande».
«Dove
andiamo, zia Astra?», aveva domandato ignorando
ciò che le aveva
chiesto mentre lei si alzava e la trascinava con sé mano
nella mano.
«Mi stai spaventando».
«Al
sicuro», era stata la sua sola risposta.
Camminavano
veloci e, dopo aver incrociato lo sguardo di un maestro della scuola
che le aveva indicate, Astra aveva iniziato a correre, tirandola
dietro. Un gruppo di insegnanti e poliziotti le aveva inseguite e sua
madre si era fatta avanti, in mezzo a loro. Così le avevano
fermate
e, presto, divise. Astra era stata arrestata davanti agli occhi di
una Kara in lacrime, trattenuta da un forte abbraccio di sua madre
che aveva pensato di calmarla ma non ci era riuscita. A nulla era
valse le grida della bambina che dicevano di lasciarla andare.
«Portala
via», aveva poi gridato Astra con tutto il fiato che
possedeva
intanto che la polizia la scortava fuori dall'istituto.
«È come ti
ho detto, Alura, li hai sfidati e lo faranno! Porta via Kara! Portala
via!».
Aveva
chiesto spesso a cosa sua zia si riferisse ma nessuno le aveva mai
spiegato niente e, in quel momento, per il solo fatto che gliela
portarono via senza apparente motivo, non le interessava.
Dalla
prigione spedì spesso delle lettere e chiamò
altrettanto, ma i loro
genitori lasciavano squillare il telefono a vuoto, gettavano via
ciò
che arrivava da parte sua, e Kara non riusciva a risponderle. Voleva
che andassero a trovarla, lo sapeva, ma ogni volta che provava a
chiederlo sua madre si gelava e le rispondeva in modo automatico di
fare i compiti, anche quando non ne aveva.
Kara
sapeva che c'era qualcosa che non andava, nell'aria, che in fondo
sembrava spaventare entrambi e lo stesso i suoi zii, i genitori di
Kal, ma era troppo arrabbiata con loro per darci il giusto peso. La
vita aveva ripreso a girare anche dopo quell'evento, anche se loro
tentavano goffamente di andare avanti come se non fosse mai successo.
Kara andava a scuola, in palestra, poi a casa. E di nuovo. Era
tornata la vecchia routine ma le stava ormai stretta. Durante un
allenamento in palestra aveva buttato k.o. una bambina e aveva
continuato a colpirla anche se l'incontro era finito ed era stato il
maestro a dividerle. Non aveva mai visto Kara tanto aggressiva,
sapeva che non era da lei.
«Se
c'è una cosa che mi hanno insegnato i fumetti», le
disse suo padre
una sera, mentre lei era intenta a guardare le stelle attraverso il
suo telescopio, «è che i supereroi sono buoni.
Sono buoni anche
quando la vita si fa dura, anche quando si arrabbiano».
«Non
sono arrabbiata», aveva sbuffato, girando la lente. Non si
girava
come voleva e allora aveva riprovato con più forza, con
più forza,
e suo padre l'aveva fermata, sistemandogliela lui guidando la sua
mano, con gentilezza. La bambina così aveva sospirato,
guardandolo
appena.
«Non
c'è nulla di sbagliato nell'essere arrabbiati, Kara. Ma
voglio
confidarti una cosa: lasciare che la rabbia ti consumi non
farà
altro che rovinare la tua vita. La rabbia è un mostro, Kara,
ed è
dentro di te. Lasci che si alimenti delle cose cattive che provi e ne
crei altre… Ti impedisce di diventare l'adulta splendida che
sei
destinata a diventare». Le aveva sorriso, prendendole il viso
tra le
mani e guardandola negli occhi. «Perché tu sei una
bambina
splendida e non puoi che diventare un'adulta altrettanto
splendida».
«E
allora che cosa devo fare?», aveva chiesto con una smorfia.
«Cosa
ne pensi di sorridere più spesso e prenderti una bella
rivincita? Ti
sembrerà difficile, adesso, ma non c'è medicina
più efficace di un
sorriso. E tu sei la maestra dei sorrisi… Sì,
sì, eccolo lì»,
aveva aggiunto, vedendole spuntare un piccolo sorriso dalle labbra.
Kara lo aveva abbracciato e lui l'aveva stretta forte a sé,
quasi
sul punto di non lasciarla più andare. «Sei forte,
tesoro. Più di
quanto immagini».
Avrebbe
scoperto quanto presto, molto presto.
Quel
pomeriggio era tornata a casa felicissima come non lo era da tempo
poiché a scuola le avevano fatto i complimenti per un
compito
importante per l'anno scolastico, aveva vinto una gara di
velocità e
poi aveva trovato una pietra particolarmente strana, bitorzoluta che
sembrava venire dallo spazio e che avrebbe aggiunto alla sua
collezione. Inoltre, a scuola aveva aiutato un bambino a finire un
disegno e l'insegnante lo aveva detto a sua madre che era andata a
prenderla e che le aveva sorriso orgogliosa.
«Lo
hai aiutato».
Kara
aveva annuito, guardando con attenzione la sua nuova pietra, seduta
nel posto accanto a quello da guida.
«Ecco,
questa sei tu, Kara. Non dimenticare mai chi sei. Hai il proprio
cuore di un eroe, no?».
Era
la cosa più bella che sua madre le avesse mai detto e aveva
arrossito, stringendo la pietra.
Quella
non era una giornata come le altre perché era iniziata
meglio di
tante altre, poteva essere una delle migliori della sua vita, eppure
sembrava infine che la vita avesse solo voluto donarle qualcosa prima
di prenderle tutto.
A
casa c'erano i suoi zii, discutevano come al solito e sua madre le
aveva pregato di uscire a giocare fuori. Era tesa e sudata
all'improvviso, ma Kara era troppo presa dalla scoperta della sua
pietra per darle importanza. Prese Kal e lo portò fuori con
sé. Si
vergognava a fargli vedere di nuovo dopo tempo la sua collezione di
pietre venute dallo spazio perché era cresciuta di due soli
elementi
da mesi e si era messa a giocherellare con il suo bracciale dei
pianeti, con fare nervoso.
«Loro
sono strani», aveva detto Kal senza che lei lo ascoltasse,
mentre
contava i passi sul giardino per ricordare in quale punto aveva
sotterrato le sue pietre. «Sta succedendo qualcosa,
Kara… Mia
madre mi ha tenuto abbracciato per almeno un quarto d'ora,
stamattina. Ho paura che qualcuno li abbia minacciati. Mi stai
ascoltando?».
Lei
aveva tirato fuori la sua nuova pietra dallo zaino, dove l'aveva
nascosta, dissotterrando le altre. «Purtroppo ho solo
queste», lo
aveva guardato e Kal si era abbassato con lei, prendendone due in
mano.
«Sono
carine, ma dubito arrivino dallo spazio», aveva riso,
guardandone
poi un'altra di quelle che lei aveva tirato fuori dalla terra.
«E
questo è un pezzo di vetro levigato dall'acqua, Kara, te
l'ho già
detto», ne sollevò una piccola e lucente,
«L'hai trovato in
spiaggia».
Lei
aveva rumorosamente sbuffato. «Però è
carino…».
«Carino
può essere, ma non è una pietra piovuta dal
cielo».
«E
non fare tanto il saputello o racconterò a tutti i tuoi
amici di
come ti cambiavo il pannolino», aveva riso e lui era
arrossito.
«È
successo una volta sola», aveva battibeccato, «Era
Halloween e
dovevi solo aiutarmi, accidenti, mai te l'avessi chiesto».
Lei
aveva riso e così aveva riso anche lui quando un suono fine,
più un
rumore per la verità, come se avesse potuto spaccare l'aria
in due
aveva preso l'attenzione di entrambi, che si erano alzati.
«Cosa-»,
lei era subito andata verso la casa, quando lui l'aveva fermata di
colpo, afferrandole la manica di un braccio.
«Kara,
ferma, non-».
Erano
state le sue ultime parole. Quel rumore era esploso e un'onda d'urto
li aveva sbalzati per aria tutti e due, buttandoli all'indietro.
Violentemente sbattuta a terra, Kara aveva riaperto gli occhi azzurri
dopo poco. Sentiva un fischio e nient'altro. Non pensava, non capiva.
L'aria era pesante e aveva tossito mentre tentava di rimettersi in
piedi, dopo aver scorso suo cugino Kal a terra a poco da lei,
svenuto. Era scivolata e si era rialzata di nuovo, cercando di aprire
gli occhi più che poteva per via dell'aria tumefatta, non
vedendo
altro che pezzi, pezzi dappertutto, pezzi di tutto il suo mondo. La
casa era distrutta e non c'era altro. Aveva cercato di svegliare Kal
ma lui non rispondeva e, quando aveva sentito la mano dietro la nuca
di lui diventare calda, aveva scoperto il sangue che aveva perso,
lasciandone parecchio sulla pietra sotto, quella che lei aveva
portato a casa quel pomeriggio.
Aveva
aspettato davanti al suo letto che lui si svegliasse ogni giorno, per
settimane. Aveva smesso di chiedere di voler tornare a casa
già il
secondo giorno, poiché a quel punto era diventato inutile,
comprendendo cos'era successo. Le avevano medicato le ferite,
l'avevano fatta parlare con tanti e tante dalla polizia agli
psicologi di turno, l'avevano vista i vicini che erano andati a
trovarla e sua zia Astra le aveva telefonato, e scritto, ma Kara non
aveva risposto. Ora che poteva parlare con lei perché era
l'unica a
restarle oltre Kal, era lei a non voler più avere a che fare
con la
zia. Era colpa sua, lo sapeva. Quello che era successo era solo colpa
di Astra; anche se nessuno aveva risposto alle sue domande
perché
ritenevano fosse troppo piccola lei sapeva che ne era responsabile.
Per quella ragione era andata a prenderla a scuola quella mattina,
aveva pensato allora, perché sapeva che sarebbero morti. E
che
sarebbe morta anche lei.
Un
poliziotto le aveva riportato il braccialetto con i pianeti che le
era volato via dal polso quel giorno, una delle poche cose rimaste,
ma lei non lo aveva più indossato ed era finito in una
scatola di
cianfrusaglie che l'avrebbero seguita in una nuova casa. L'assistente
sociale che si occupava di lei e Kal le aveva detto che una famiglia
si era fatta avanti per adottarla ma lei era restia ad allontanarsi
da lui, aspettando il suo risveglio, leggendo a voce alta le
avventure dei supereroi a fumetti che fin da piccola aveva iniziato a
leggere su consiglio del cugino. Loro andavano avanti anche quando
succedevano brutte cose e trovavano il modo di rialzarsi, e
così
sperava che suo cugino trovasse il modo di tornare da lei.
E
così era successo.
I
suoi occhi azzurri si erano aperti piano, stanchi. L'avevano guardata
e Kara aveva riso di gioia, con le infermiere di turno intorno a
loro, ma quella gioia si era preso trasformata in un baratro quando
fu chiaro che quegli occhi non la riconoscessero. Non poteva parlare,
non ci riusciva, ma Kal non la guardava più come prima.
Quando più
avanti provarono a farlo parlare, lui aveva detto di non conoscere il
suo nome né quello della bimba bionda che non lo lasciava un
attimo.
Era stato un duro colpo per Kara perché aveva perso tutto di
nuovo.
Ed era stata la sua pietra a farlo.
Li
separarono e Kara andò a vivere dai Danvers. All'inizio
chiedeva
spesso di poter vedere Kal, ma l'assistente sociale che andava a
trovarla una volta la settimana, e continuò così
per molto tempo,
non faceva che ripeterle che era impossibile. Le aveva raccontato che
il suo Kal era andato a vivere a Smallville, con una famiglia
adottiva come la sua. Che la sua memoria non stava tornando e che
forse avrebbe impiegato anni a ricordarsi di lei e di ciò
che era
successo. Se mai ci fosse riuscito. Era triste, ma non vedeva
alternative se non lasciarlo andare per la sua strada, mentre lei
tentava di trovare la sua.
«Conoscevo
tuo padre, Kara», le aveva detto Jeremiah una delle prime
sere da
loro. «E anche tuo zio. Ho lavorato con loro, qualche volta.
So che
è dura, ma se mai volessi parlare di me con loro, puoi
farlo. Sono
sempre qui per te se vuoi parlare». Nella sua nuova camera
che aveva
iniziato a condividere con la sua nuova sorella, Jeremiah l'aveva
abbracciata e Kara aveva ricambiato. Ma quella discussione non venne
mai. Kara aveva tagliato con la sua vita passata e aveva imparato a
sorridere di più, aveva accettato ciò che le era
successo e
ignorato le lettere di Astra che trovavano sempre un modo per andare
da lei. Ricordava, ma non poteva lasciare che ciò era
successo la
consumasse.
«Kara!!».
Eliza si era affacciata alla finestra. Era sera e pioveva a dirotto
ma la bambina non sentiva: se ne stava seduta sul tetto e guardava
avanti, al cielo, bagnata fradicia. Aveva aperto la finestra e stava
per dirle di tornare dentro ma, ormai, sapeva che era inutile: era
una delle tante cose strane che faceva e non era la prima volta che
le diceva di tornare dentro, che puntualmente la ritrovava sotto
l'acqua il giorno dopo. Infine aveva deciso di provare a fare una
cosa diversa. Si era arrampicata sulla finestra ed era uscita fuori,
arrivandole accanto a tentoni, col terrore di scivolare di sotto.
L'aveva guardata, immobile e seria, e le aveva liberato il viso da
alcuni ciuffi pesanti di capelli, poi se li aveva tolti anche lei,
sedendosi e reggendosi le ginocchia. C'era freddo ma non era
importante; Kara lo era e aveva bisogno di lei. Era rimasta al suo
fianco fino a quando la bambina, senza dire nulla, si era lasciata
andare su di lei e così pian piano era riuscita a riportarla
dentro.
«Sei
come una bambina piovuta dal cielo», le aveva sussurrato in
un
orecchio, cullandola contro il suo petto.
Sempre
allegra e solare, a volte i momenti bui raggiungevano Kara senza
preavviso. Capitava, di tanto in tanto, ed era comprensibile. Una
mattina, poi, si definì Kara
Danvers
e capirono che il suo mondo, sì, aveva smesso di essere il
mondo un
giorno, ma che ne
aveva ritrovato uno nuovo un altro giorno, pronto a girare per lei.
Kara
aprì la porta della loro camera che Megan già
dormiva e, come
spesso succedeva, la sentiva bofonchiare nel sonno dei bianchi
cattivi che stavano arrivando per lei. Era molto creativa
poiché da
un po' di tempo a quella parte aveva aggiunto ai suoi sogni una guest
star d'eccezione: il signor John Jonzz, l'uomo con cui usciva. Anche
lui era nero e Kara decise che, di questi sogni tormentati, avrebbe
dovuto seriamente parlarle un giorno.
Ripose
sul tavolo la busta chiusa che aveva trovato quella mattina nella
cassetta delle lettere e si sedette davanti, fissandola per un po'.
Anche nel buio, dalla sola luce blu che filtrava dalla finestra
più
vicina, leggeva bene il nome di Astra e Fort Rozz, la prigione che
ancora, dopo tanti anni, la teneva in custodia. Non passava un giorno
senza ricevere una sua lettera. Sempre, non si era mai persa d'animo
anche se Kara non le aveva mai risposto, nemmeno una volta. Non
sapeva neppure cosa ci fosse di importante da scriverle ogni giorno,
ma in fondo le interessava poco: non ne aveva mai aperta una e
così
avrebbe continuato in futuro. Così si alzò e la
prese di scatto,
aprendo un cassetto del suo armadio e poi una scatola, cercando di
infilarla là dentro, in mezzo alle tante altre buste chiuse.
Alla
fine, quando aveva compiuto diciotto anni, l'assistente sociale era
tornata da lei come richiesto da Eliza Danvers e aveva spiegato a
Kara la verità, ogni cosa successa da quel giorno di quando
ne aveva
soli dieci. Prima dell'arresto di sua zia Astra, sua madre aveva
condannato un altro uomo appartenente al gruppo in cui sua sorella si
era infiltrata. La corruzione controllava la città in quel
periodo,
ma era sempre più difficile tirare fuori qualche nome e
prove di chi
ne faceva parte, quindi quell'arresto aveva suscitato molta
risonanza. Si trattava di un commercialista quarantenne: allora,
Astra e suo marito avevano provato a dissuadere Alura, la madre di
Kara, dal condannarlo perché troppo rischioso. Lui era certo
di
uscirne pulito e che non avrebbe fatto un giorno di prigione, ma
successe. Astra fu beccata nel tentativo di nascondere alcune prove
e, si era scoperto dopo, di corrompere una parte della giuria. Dal
momento della condanna erano cominciati guai che si intensificarono
con l'arresto di Astra e consorte, che erano scappati al loro
processo e avevano tentato di rapire la nipote. Qualcuno aveva
inviato lettere minacciose alla giudice che erano diventate via via
sempre più inquietanti. I genitori di Kara e quelli di Kal
avevano
cominciato a lavorare con la polizia per scavare a fondo della
questione; erano seguiti altri arresti e qualche nome era saltato
fuori, ma mentre quell'organizzazione veniva smantellata, una bomba
li aveva uccisi. Kara aveva ascoltato ogni parola cercando di restare
calma e distante per quanto poteva, anche quando le disse che c'erano
stati altri tentativi di ucciderli prima di allora, forse non andati
a segno di proposito, col solo tentativo di spaventarli.
Loro
non erano sicuri che sarebbero morti, ma temevano sarebbe successo.
Da
quel momento, per avere sconti di pena, qualche arrestato coraggioso
aveva fatto altri nomi e la polizia aveva trovato prove schiaccianti
per portare a termine altri arresti. Da allora tutto era sembrato
tranquillizzarsi: il gruppo di potenti era stato distrutto.
La
donna disse che sua zia Astra sapeva che si sarebbero vendicati e che
aveva tentato di avvertirli e probabilmente di salvarla, rapendola,
perché temeva l'avrebbero uccisa, ma a Kara quella parte non
interessava. Era colpa sua e niente che poteva dire o fare aveva
più
importanza. Le voleva bene e lei aveva tradito la sua fiducia e i
suoi genitori.
Chiuse
la scatola, che restò con il coperchio un po' bombato, e
così il
cassetto. Udì la vibrazione del suo cellulare sul tavolo e
lo
raggiunse, leggendo un messaggio.
Da
L! a Me
Volevo
dirti che ho finalmente capito che persona sei, Kara Danvers:
diversa, unica, speciale. Buonanotte.
Kara
arricciò le labbra, arrossendo. «Buonanotte,
Lena».
Capitolo
più corto che porta con sé un po' di
dramma… Immaginavate di
andare incontro a qualcosa del genere? Eheh,
dovevo. Intanto
che Kara e Lena si conoscono sempre meglio, di sfondo la trama della
storia prende forma.
Che
poi ehi, sapevo cosa volevo ottenere, ma in testa
avevo così
tante informazioni tutte insieme che non so davvero come sia riuscita
infine a metterle per iscritto. Ho fatto un minestrone? Probabile XD
Spero sia almeno un po' comprensibile.
Cosa
ne pensate del gruppo di corrotti in cui Astra si era infiltrata, per
poi diventarne davvero membro? Di un Kal quindicenne e saccente? Di
Kara che rompe il naso al bullo di turno? :D
Ora.
Eravamo rimasti con Lena che invita Kara a cena fuori e con
quest'ultima che con un turbinio complicato di pensieri passa dal
“oh, mi sono vestita troppo elegante e ora lei
penserà che io da
questa cena mi aspetti qualcosa di più” al
“oh, ma cosa dico,
non pensa che io aspetti qualcosa di più, ma è
forse proprio lei a
volere qualcosa di più”. Ecco, sì,
restate sintonizzati su questo
canale perché il prossimo capitolo, che sarà
pubblicato qui martedì 24, si intitola Mia
sorella. O forse no
e porterà con
sé una piccola svolta.
Ehi,
ho detto piccola, eh :P
|