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Autore: Ghen    16/04/2018    7 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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9. Il giorno in cui il mondo smise di essere il mondo


Un boato e tutto si era fatto sordo. Non aveva visto nulla, era stato troppo veloce; le faceva male qualcosa ma non sapeva cosa. Era disorientata e quando aveva cercato di rialzarsi da terra era scivolata. Almeno credeva che quella fosse la terra. A tentoni si era messa in piedi e aveva tentato di aprire gli occhi, di capire, di ascoltare. Era appena successo quello che nei fumetti chiamavano fine del mondo.

Aveva iniziato a finire dopo l'arresto di sua zia Astra.
Stava colorando il suo disegno, seduta composta nel banco. In classe era rimasta solo lei e un altro bambino, a qualche banco dietro il suo, che la guardava di sbieco, visibilmente arrabbiato. Quando la maestra aveva aperto la porta della classe, entrambi erano schizzati con la testa in alto, in attesa.
«Kara! Vieni, porta il tuo disegno, è venuta tua madre a prenderti», aveva esclamato la giovane maestra, costringendosi a fare il suo sorriso migliore di fronte a quella incresciosa situazione. Aveva poi detto all'altro bambino che doveva ancora aspettare.
«Il disegno lo lascio qui, tanto lo dovevo regalare a lui e al suo amico Benny», le aveva detto la bambina prima di uscire.
A Kara era bastato guardare il volto di sua madre per impallidire e perdere ogni sicurezza.
«Allora», le aveva detto, avvicinandosi, abbassandosi e guardandola negli occhi. «Cos'è successo?».
Il viso della bambina aveva presto assunto un'aria rammaricata. «È stato Benny Santos, mamma! Lui prendeva in giro la mia amica Nicole perché è caduta e ho fatto come hai detto tu: sono stata calma, gli ho chiesto se poteva smetterla… e anche se mi arrabbiavo perché continuava a ridere, ho contato fino a dieci».
«E allora cos'hai fatto dopo?».
Kara si era distratta, guardando da un'altra parte e poi sbuffando. «Gli ho rotto il naso».
La donna si era alzata e le aveva preso la mano per portarla via, salutando l'insegnante e promettendole che sarebbe stata messa in punizione.
«Non sia troppo dura, sono solo bambini», le aveva risposto la signorina, «Arrivederci, giudice». Dopodiché era rientrata in classe, guardando l'altro bambino, colpevole di aver spinto Kara nel tentativo di difendere il suo amico Benny, e spiegandogli che i suoi genitori non erano ancora arrivati. Si era avvicinata per chiedergli come stava e poi al banco di Kara, prendendo il disegno che aveva lasciato: c'era un buco nel terreno e due personaggi stilizzati stavano di sotto, mentre altri due di sopra, di cui uno, in posa trionfante, aveva un mantello rosso che pendeva dal collo. Sotto erano scritti i loro nomi. Aveva sospirato. «Bambini».
«Pensavo mi ascoltassi, Kara», le aveva ricordato sua madre in auto, alla guida. La donna, capelli mori raccolti in una coda, labbra fini e strette in una smorfia sul viso: non era arrabbiata, quanto più delusa. «Tuo padre ed io non abbiamo lasciato che imparassi a difenderti per fare a botte con i bambini della scuola. Hai già dieci anni, sei grande per capire la differenza», l'aveva guardata con la coda dell'occhio, restando ferma sul volante. Kara era seduta di peso contro il sedile, con sguardo abbattuto. «Non volevi diventare un supereroe? Mi sbaglio, piccola?».
«Non è lo stesso che hai fatto con zia Astra?», aveva domandato dopo qualche attimo, giocando con una pietra in mano, e sua madre si era indurita di colpo, deglutendo.
«Quello che è successo con zia Astra è molto più complicato di così», aveva sospirato, svoltando un angolo. «Vorrei poterti dire tutto, Kara, ma sei ancora-».
«Una bambina», l'aveva interrotta con la voce sulla sua. «Dici sempre che mi devo comportare da grande, ma quando poi lo faccio tu mi ripeti che sono ancora troppo piccola».
La donna aveva fermato l'automobile grigia nel vialetto e Kara era scesa di corsa, spalancando la porta di casa, ignorando suo padre che leggeva un giornale scientifico bevendo caffè, e salendo le scale fino su in camera sua, sbattendo la porta. Lei era entrata dopo qualche minuto e suo marito l'aveva guardata con compassione.
«Come sta l'altro bambino?», le aveva domandato, ma senza distogliere lo sguardo dal giornale.
«Era in infermeria, ma ho parlato con sua madre prima di andarla a prendere: era in lacrime. Dice che suo figlio è solo molto… spontaneo», aveva sottolineato, «Ma sono riuscita a calmarla e a convincerla a non denunciarci».
«Ecco perché sei il miglior giudice di sempre». Si era proteso verso di lei e si erano scambiati un bacio. «E lui è davvero… spontaneo?».
«Oh, non sai quanto… maltratta più bambini e bambine al giorno di quanto faccia compiti in un mese».
«Allora è stata autodifesa», aveva scrollato le spalle, continuando a seguire il giornale.
«Non cominciare».
«Stavo solo supponendo».
«Allora non supporre: non voglio che Kara vada in giro a picchiare la gente, anche se questa si comporta male». Si era seduta su una sedia davanti al marito, dall'altra parte del tavolo, reggendosi la fronte.
Lui finalmente aveva alzato lo sguardo, inarcando le sopracciglia. «Per cosa le abbiamo concesso tutte quelle ore di arti miste?».
«Per difendersi dai veri pericoli, non deve cercarseli. Deve capire la differenza; deve poter fare la differenza».
«Ha solo dieci anni, però. E ha solo cercato di difendere un'amichetta da un bullo a scuola».
«Oggi è un bullo a scuola… Voglio che cresca come una persona consapevole e responsabile», aveva risposto esausta. Si scambiarono un'occhiata. «Insomma, da che parte stai? Mi sembra di sentire parlare Astra. Lei l'ha nominata, in macchina».
Lui si era incupito subito, chiudendo il giornale. «Ah… E com'è andata?».
«Come vuoi che vada, Zor, lei non sa nulla. Sono la madre cattiva che ha condannato la zia in prigione… Come posso spiegare a una bambina di dieci anni che stravede per sua zia che la stessa ha tentato di rapirla? Senza contare tutto il resto…».
Si erano zittiti e la piccola Kara, chiusa in camera sua, non aveva sentito una parola. Seduta sul lettino, guardava fuori dalla finestra con aria assente. Il cielo era pieno di nuvole bianche, ma nonostante le piacesse il sole, era la notte che aspettava con trepidazione, il suo momento della giornata che preferiva. Il perché si nascondeva nelle stelle. Si era alzata, dando un'occhiata al cielo attraverso il suo telescopio. Era stato un regalo di suo padre al suo nono compleanno, ma era con sua zia Astra che lo aveva sempre usato e che aveva imparato tante cose. Si era allontanata subito poiché, lo sapeva, con il giorno non si vedeva nulla. E ora non avrebbe rivisto nemmeno sua zia Astra. L'ultima cosa che aveva di lei era un braccialetto con i pianeti per ciondoli, che amava tanto.
Kara non sapeva perché sua zia era finita in prigione, ma era la persona più buona del mondo e davvero l'unica che riusciva a capirla, mentre sua madre, per quanto fossero identiche di aspetto le due, non si sforzava neppure a farlo. Era arrabbiata e si era seduta di nuovo sul lettino, stringendo i pugni.
«In punizione. Sono in punizione. Va bene, tanto non ho fame», aveva sbottato per sé, con aria dura, «Non mangerò più nulla e non mi reggerò più in piedi, così saranno contenti. Più nulla, nemmeno uno yogurt. O un pezzo di pane. Mi trattano da bambina e mi comporterò da bambina; ho chiuso con queste persone e con il cibo».
«Kara?». Suo padre aveva bussato e poi aperto la porta con uno scatto. «So che sei in punizione, ma vai a fare merenda: abbiamo comprato gli yogurt questa mattina».
Lei lo aveva guardato con aria arrabbiata e lui le aveva sorriso. «Okay», era scesa di corsa dal letto.
La sua strategia riguardo il cibo aveva miseramente fallito ma, sapeva bene, non era colpa sua: erano loro ad avere la pessima abitudine di comprare cose che le piacevano e lei non aveva abbastanza forza per non cedere alle tentazioni. Ma non sarebbero riusciti ad averla vinta per tutto, ed ecco perché da quel giorno aveva cominciato a mangiare assumendo l'aria più truce che conosceva.
Erano giorni strani quelli che avevano seguito l'arresto di sua zia Astra… Ancora più del solito, i suoi zii Jor e Lara andavano a casa loro per parlare di cose importanti che riguardavano il lavoro, le dicevano. Zio Jor lavorava con suo padre, erano scienziati, e speravano di cambiare il mondo. Kara sapeva bene che, quando loro dovevano parlare di lavoro, lei doveva restare fuori o in camera sua e non interferire.
«Chissà di cosa stanno parlando», aveva detto Kara esasperata, buttandosi a peso morto sul suo lettino.
«Di Astra», le aveva risposto suo cugino, certo della verità. Aveva subito preso il suo interesse.
«Ma devono parlare di lavoro».
«Di Astra è anche lavoro», rispose saccente, sedendo sul pavimento, ai piedi del letto. Lui aveva già quindici anni, sguardo fermo, capelli neri tirati indietro con il gel, vestito di jeans strappati e scarpe larghe: Kara stava sempre a sentire ciò che diceva Kal poiché lui era il suo esempio. «C'è una cosa che non sai, Kara: tua zia Astra ha fatto danni al suo lavoro che ha messo a soqquadro il lavoro dei nostri genitori».
Lei era scesa dal letto in fretta solo per guardarlo negli occhi azzurri e capire se stesse dicendo davvero la verità. «Ma zia Astra non farebbe mai del male a nessuno».
«Lo ha fatto», aveva detto semplicemente, sollevando le spalle. «Mio padre mi ha raccontato qualcosa: siediti».
La bambina si era seduta immediatamente sul tappeto conscia che se Kal non le avesse raccontato cosa stesse succedendo, non lo avrebbe fatto nessun altro.
«Sai che Astra era un sergente, giusto? Prima dell'arresto». La bambina aveva annuito. «Mio padre ha detto che aveva una missione: infiltrarsi in un gruppo di persone corrotte. Sai che vuol dire? Non doveva fingersi un'altra, ma solo essere lei, sergente, sorella gemella di un giudice, che aveva voglia di farsi qualche soldo in più in modo non proprio legale».
«E ci era riuscita? Chi era questo gruppo?».
«Altri membri della polizia, politici e tipetti del genere. Gente che ricopre alte cariche, o ricca, sai», le aveva risposto, «E sì, c'era riuscita. È questo il punto, Kara: aveva fatto oltre che infiltrarsi in mezzo a loro, era diventata una di loro».
«Non è vero, Kal! Smettila». Kara si era alzata di colpo, corrugando lo sguardo. «Non ci credo».
«È la verità, Kara», aveva detto con un'alzata di spalle, «E se questa è la tua reazione, forse è per questo che non ti dicono nulla».
Pensò che forse un po' avesse ragione, ma non allora. Allora era solo terrorizzata dall'idea che la sua zia preferita stesse facendo qualcosa di tanto sbagliato. Come futuro supereroe, lei sapeva quanto era sbagliato essere delle persone corrotte e aveva il compito di fermarle e consegnarle alla giustizia. Era quello che aveva fatto sua madre, ma non si arrendeva all'idea che sua zia Astra non fosse innocente. Ed era insistentemente innocente anche quando suo cugino rincarò la dose rivelandole che, nella sua posizione, aveva fatto sparire delle prove favorendo un sospettato e, con l'aiuto di suo marito, aveva tentato di corrompere la giuria allo stesso caso. Erano entrambi stati arrestati per questo, aveva detto lui. Era tutto troppo assurdo.
Ricordava fin troppo bene com'era apparsa provata e triste sua zia quando, dopo giorni che era scomparsa, era riapparsa nella sua scuola per parlarle. Si era finta sua madre, le bastava poco per imbrogliare gli insegnanti, ed era andata a prenderla. Era così spaventata di non poterla rivedere mai più e l'aveva abbracciata così forte che per poco non la faceva scoprire.
«Kara, dobbiamo andare», le aveva detto e poi, più per lei, sussurrato: «Devi venire con me, ti prego».
La maestra le aveva guardate con un sorriso radioso: «Il vostro rapporto madre-figlia è così meraviglioso, giudice».
Kara aveva annuito e poi preso per mano Astra, salutando tutti e aprendo la porta dell'aula per uscire. «Ero tanto preoccupata», le aveva detto una volta chiusa la porta, abbracciandola di nuovo. «Sei sparita e non sei più tornata». Allora non sapeva che era ricercata dalla polizia. Come poteva…
«Lo so, lo so», l'aveva guardata attentamente negli occhi, carezzandole il viso, «È stata dura stare lontana così tanto da te, non sai quanto, ma sono tornata per questo, per te».
«Per me?».
La donna aveva alzato improvvisamente lo sguardo e poi si era guardata meglio intorno, sentendo dei rumori venire verso di loro, e delle voci, rendendo ancora più evidente alla piccola Kara la sua agitazione. «Adesso devi venire con me, va bene? Non te lo chiederei se non fosse importante, Kara, ma lo è e non devi fare domande».
«Dove andiamo, zia Astra?», aveva domandato ignorando ciò che le aveva chiesto mentre lei si alzava e la trascinava con sé mano nella mano. «Mi stai spaventando».
«Al sicuro», era stata la sua sola risposta.
Camminavano veloci e, dopo aver incrociato lo sguardo di un maestro della scuola che le aveva indicate, Astra aveva iniziato a correre, tirandola dietro. Un gruppo di insegnanti e poliziotti le aveva inseguite e sua madre si era fatta avanti, in mezzo a loro. Così le avevano fermate e, presto, divise. Astra era stata arrestata davanti agli occhi di una Kara in lacrime, trattenuta da un forte abbraccio di sua madre che aveva pensato di calmarla ma non ci era riuscita. A nulla era valse le grida della bambina che dicevano di lasciarla andare.
«Portala via», aveva poi gridato Astra con tutto il fiato che possedeva intanto che la polizia la scortava fuori dall'istituto. «È come ti ho detto, Alura, li hai sfidati e lo faranno! Porta via Kara! Portala via!».
Aveva chiesto spesso a cosa sua zia si riferisse ma nessuno le aveva mai spiegato niente e, in quel momento, per il solo fatto che gliela portarono via senza apparente motivo, non le interessava.
Dalla prigione spedì spesso delle lettere e chiamò altrettanto, ma i loro genitori lasciavano squillare il telefono a vuoto, gettavano via ciò che arrivava da parte sua, e Kara non riusciva a risponderle. Voleva che andassero a trovarla, lo sapeva, ma ogni volta che provava a chiederlo sua madre si gelava e le rispondeva in modo automatico di fare i compiti, anche quando non ne aveva.
Kara sapeva che c'era qualcosa che non andava, nell'aria, che in fondo sembrava spaventare entrambi e lo stesso i suoi zii, i genitori di Kal, ma era troppo arrabbiata con loro per darci il giusto peso. La vita aveva ripreso a girare anche dopo quell'evento, anche se loro tentavano goffamente di andare avanti come se non fosse mai successo. Kara andava a scuola, in palestra, poi a casa. E di nuovo. Era tornata la vecchia routine ma le stava ormai stretta. Durante un allenamento in palestra aveva buttato k.o. una bambina e aveva continuato a colpirla anche se l'incontro era finito ed era stato il maestro a dividerle. Non aveva mai visto Kara tanto aggressiva, sapeva che non era da lei.
«Se c'è una cosa che mi hanno insegnato i fumetti», le disse suo padre una sera, mentre lei era intenta a guardare le stelle attraverso il suo telescopio, «è che i supereroi sono buoni. Sono buoni anche quando la vita si fa dura, anche quando si arrabbiano».
«Non sono arrabbiata», aveva sbuffato, girando la lente. Non si girava come voleva e allora aveva riprovato con più forza, con più forza, e suo padre l'aveva fermata, sistemandogliela lui guidando la sua mano, con gentilezza. La bambina così aveva sospirato, guardandolo appena.
«Non c'è nulla di sbagliato nell'essere arrabbiati, Kara. Ma voglio confidarti una cosa: lasciare che la rabbia ti consumi non farà altro che rovinare la tua vita. La rabbia è un mostro, Kara, ed è dentro di te. Lasci che si alimenti delle cose cattive che provi e ne crei altre… Ti impedisce di diventare l'adulta splendida che sei destinata a diventare». Le aveva sorriso, prendendole il viso tra le mani e guardandola negli occhi. «Perché tu sei una bambina splendida e non puoi che diventare un'adulta altrettanto splendida».
«E allora che cosa devo fare?», aveva chiesto con una smorfia.
«Cosa ne pensi di sorridere più spesso e prenderti una bella rivincita? Ti sembrerà difficile, adesso, ma non c'è medicina più efficace di un sorriso. E tu sei la maestra dei sorrisi… Sì, sì, eccolo lì», aveva aggiunto, vedendole spuntare un piccolo sorriso dalle labbra. Kara lo aveva abbracciato e lui l'aveva stretta forte a sé, quasi sul punto di non lasciarla più andare. «Sei forte, tesoro. Più di quanto immagini».
Avrebbe scoperto quanto presto, molto presto.

Quel pomeriggio era tornata a casa felicissima come non lo era da tempo poiché a scuola le avevano fatto i complimenti per un compito importante per l'anno scolastico, aveva vinto una gara di velocità e poi aveva trovato una pietra particolarmente strana, bitorzoluta che sembrava venire dallo spazio e che avrebbe aggiunto alla sua collezione. Inoltre, a scuola aveva aiutato un bambino a finire un disegno e l'insegnante lo aveva detto a sua madre che era andata a prenderla e che le aveva sorriso orgogliosa.
«Lo hai aiutato».
Kara aveva annuito, guardando con attenzione la sua nuova pietra, seduta nel posto accanto a quello da guida.
«Ecco, questa sei tu, Kara. Non dimenticare mai chi sei. Hai il proprio cuore di un eroe, no?».
Era la cosa più bella che sua madre le avesse mai detto e aveva arrossito, stringendo la pietra.
Quella non era una giornata come le altre perché era iniziata meglio di tante altre, poteva essere una delle migliori della sua vita, eppure sembrava infine che la vita avesse solo voluto donarle qualcosa prima di prenderle tutto.
A casa c'erano i suoi zii, discutevano come al solito e sua madre le aveva pregato di uscire a giocare fuori. Era tesa e sudata all'improvviso, ma Kara era troppo presa dalla scoperta della sua pietra per darle importanza. Prese Kal e lo portò fuori con sé. Si vergognava a fargli vedere di nuovo dopo tempo la sua collezione di pietre venute dallo spazio perché era cresciuta di due soli elementi da mesi e si era messa a giocherellare con il suo bracciale dei pianeti, con fare nervoso.
«Loro sono strani», aveva detto Kal senza che lei lo ascoltasse, mentre contava i passi sul giardino per ricordare in quale punto aveva sotterrato le sue pietre. «Sta succedendo qualcosa, Kara… Mia madre mi ha tenuto abbracciato per almeno un quarto d'ora, stamattina. Ho paura che qualcuno li abbia minacciati. Mi stai ascoltando?».
Lei aveva tirato fuori la sua nuova pietra dallo zaino, dove l'aveva nascosta, dissotterrando le altre. «Purtroppo ho solo queste», lo aveva guardato e Kal si era abbassato con lei, prendendone due in mano.
«Sono carine, ma dubito arrivino dallo spazio», aveva riso, guardandone poi un'altra di quelle che lei aveva tirato fuori dalla terra. «E questo è un pezzo di vetro levigato dall'acqua, Kara, te l'ho già detto», ne sollevò una piccola e lucente, «L'hai trovato in spiaggia».
Lei aveva rumorosamente sbuffato. «Però è carino…».
«Carino può essere, ma non è una pietra piovuta dal cielo».
«E non fare tanto il saputello o racconterò a tutti i tuoi amici di come ti cambiavo il pannolino», aveva riso e lui era arrossito.
«È successo una volta sola», aveva battibeccato, «Era Halloween e dovevi solo aiutarmi, accidenti, mai te l'avessi chiesto».
Lei aveva riso e così aveva riso anche lui quando un suono fine, più un rumore per la verità, come se avesse potuto spaccare l'aria in due aveva preso l'attenzione di entrambi, che si erano alzati.
«Cosa-», lei era subito andata verso la casa, quando lui l'aveva fermata di colpo, afferrandole la manica di un braccio.
«Kara, ferma, non-».
Erano state le sue ultime parole. Quel rumore era esploso e un'onda d'urto li aveva sbalzati per aria tutti e due, buttandoli all'indietro. Violentemente sbattuta a terra, Kara aveva riaperto gli occhi azzurri dopo poco. Sentiva un fischio e nient'altro. Non pensava, non capiva. L'aria era pesante e aveva tossito mentre tentava di rimettersi in piedi, dopo aver scorso suo cugino Kal a terra a poco da lei, svenuto. Era scivolata e si era rialzata di nuovo, cercando di aprire gli occhi più che poteva per via dell'aria tumefatta, non vedendo altro che pezzi, pezzi dappertutto, pezzi di tutto il suo mondo. La casa era distrutta e non c'era altro. Aveva cercato di svegliare Kal ma lui non rispondeva e, quando aveva sentito la mano dietro la nuca di lui diventare calda, aveva scoperto il sangue che aveva perso, lasciandone parecchio sulla pietra sotto, quella che lei aveva portato a casa quel pomeriggio.

Aveva aspettato davanti al suo letto che lui si svegliasse ogni giorno, per settimane. Aveva smesso di chiedere di voler tornare a casa già il secondo giorno, poiché a quel punto era diventato inutile, comprendendo cos'era successo. Le avevano medicato le ferite, l'avevano fatta parlare con tanti e tante dalla polizia agli psicologi di turno, l'avevano vista i vicini che erano andati a trovarla e sua zia Astra le aveva telefonato, e scritto, ma Kara non aveva risposto. Ora che poteva parlare con lei perché era l'unica a restarle oltre Kal, era lei a non voler più avere a che fare con la zia. Era colpa sua, lo sapeva. Quello che era successo era solo colpa di Astra; anche se nessuno aveva risposto alle sue domande perché ritenevano fosse troppo piccola lei sapeva che ne era responsabile. Per quella ragione era andata a prenderla a scuola quella mattina, aveva pensato allora, perché sapeva che sarebbero morti. E che sarebbe morta anche lei.
Un poliziotto le aveva riportato il braccialetto con i pianeti che le era volato via dal polso quel giorno, una delle poche cose rimaste, ma lei non lo aveva più indossato ed era finito in una scatola di cianfrusaglie che l'avrebbero seguita in una nuova casa. L'assistente sociale che si occupava di lei e Kal le aveva detto che una famiglia si era fatta avanti per adottarla ma lei era restia ad allontanarsi da lui, aspettando il suo risveglio, leggendo a voce alta le avventure dei supereroi a fumetti che fin da piccola aveva iniziato a leggere su consiglio del cugino. Loro andavano avanti anche quando succedevano brutte cose e trovavano il modo di rialzarsi, e così sperava che suo cugino trovasse il modo di tornare da lei.
E così era successo.
I suoi occhi azzurri si erano aperti piano, stanchi. L'avevano guardata e Kara aveva riso di gioia, con le infermiere di turno intorno a loro, ma quella gioia si era preso trasformata in un baratro quando fu chiaro che quegli occhi non la riconoscessero. Non poteva parlare, non ci riusciva, ma Kal non la guardava più come prima. Quando più avanti provarono a farlo parlare, lui aveva detto di non conoscere il suo nome né quello della bimba bionda che non lo lasciava un attimo. Era stato un duro colpo per Kara perché aveva perso tutto di nuovo. Ed era stata la sua pietra a farlo.

Li separarono e Kara andò a vivere dai Danvers. All'inizio chiedeva spesso di poter vedere Kal, ma l'assistente sociale che andava a trovarla una volta la settimana, e continuò così per molto tempo, non faceva che ripeterle che era impossibile. Le aveva raccontato che il suo Kal era andato a vivere a Smallville, con una famiglia adottiva come la sua. Che la sua memoria non stava tornando e che forse avrebbe impiegato anni a ricordarsi di lei e di ciò che era successo. Se mai ci fosse riuscito. Era triste, ma non vedeva alternative se non lasciarlo andare per la sua strada, mentre lei tentava di trovare la sua.
«Conoscevo tuo padre, Kara», le aveva detto Jeremiah una delle prime sere da loro. «E anche tuo zio. Ho lavorato con loro, qualche volta. So che è dura, ma se mai volessi parlare di me con loro, puoi farlo. Sono sempre qui per te se vuoi parlare». Nella sua nuova camera che aveva iniziato a condividere con la sua nuova sorella, Jeremiah l'aveva abbracciata e Kara aveva ricambiato. Ma quella discussione non venne mai. Kara aveva tagliato con la sua vita passata e aveva imparato a sorridere di più, aveva accettato ciò che le era successo e ignorato le lettere di Astra che trovavano sempre un modo per andare da lei. Ricordava, ma non poteva lasciare che ciò era successo la consumasse.
«Kara!!». Eliza si era affacciata alla finestra. Era sera e pioveva a dirotto ma la bambina non sentiva: se ne stava seduta sul tetto e guardava avanti, al cielo, bagnata fradicia. Aveva aperto la finestra e stava per dirle di tornare dentro ma, ormai, sapeva che era inutile: era una delle tante cose strane che faceva e non era la prima volta che le diceva di tornare dentro, che puntualmente la ritrovava sotto l'acqua il giorno dopo. Infine aveva deciso di provare a fare una cosa diversa. Si era arrampicata sulla finestra ed era uscita fuori, arrivandole accanto a tentoni, col terrore di scivolare di sotto. L'aveva guardata, immobile e seria, e le aveva liberato il viso da alcuni ciuffi pesanti di capelli, poi se li aveva tolti anche lei, sedendosi e reggendosi le ginocchia. C'era freddo ma non era importante; Kara lo era e aveva bisogno di lei. Era rimasta al suo fianco fino a quando la bambina, senza dire nulla, si era lasciata andare su di lei e così pian piano era riuscita a riportarla dentro.
«Sei come una bambina piovuta dal cielo», le aveva sussurrato in un orecchio, cullandola contro il suo petto.
Sempre allegra e solare, a volte i momenti bui raggiungevano Kara senza preavviso. Capitava, di tanto in tanto, ed era comprensibile. Una mattina, poi, si definì Kara Danvers e capirono che il suo mondo, sì, aveva smesso di essere il mondo un giorno, ma che ne aveva ritrovato uno nuovo un altro giorno, pronto a girare per lei.


***


Kara aprì la porta della loro camera che Megan già dormiva e, come spesso succedeva, la sentiva bofonchiare nel sonno dei bianchi cattivi che stavano arrivando per lei. Era molto creativa poiché da un po' di tempo a quella parte aveva aggiunto ai suoi sogni una guest star d'eccezione: il signor John Jonzz, l'uomo con cui usciva. Anche lui era nero e Kara decise che, di questi sogni tormentati, avrebbe dovuto seriamente parlarle un giorno.
Ripose sul tavolo la busta chiusa che aveva trovato quella mattina nella cassetta delle lettere e si sedette davanti, fissandola per un po'. Anche nel buio, dalla sola luce blu che filtrava dalla finestra più vicina, leggeva bene il nome di Astra e Fort Rozz, la prigione che ancora, dopo tanti anni, la teneva in custodia. Non passava un giorno senza ricevere una sua lettera. Sempre, non si era mai persa d'animo anche se Kara non le aveva mai risposto, nemmeno una volta. Non sapeva neppure cosa ci fosse di importante da scriverle ogni giorno, ma in fondo le interessava poco: non ne aveva mai aperta una e così avrebbe continuato in futuro. Così si alzò e la prese di scatto, aprendo un cassetto del suo armadio e poi una scatola, cercando di infilarla là dentro, in mezzo alle tante altre buste chiuse.
Alla fine, quando aveva compiuto diciotto anni, l'assistente sociale era tornata da lei come richiesto da Eliza Danvers e aveva spiegato a Kara la verità, ogni cosa successa da quel giorno di quando ne aveva soli dieci. Prima dell'arresto di sua zia Astra, sua madre aveva condannato un altro uomo appartenente al gruppo in cui sua sorella si era infiltrata. La corruzione controllava la città in quel periodo, ma era sempre più difficile tirare fuori qualche nome e prove di chi ne faceva parte, quindi quell'arresto aveva suscitato molta risonanza. Si trattava di un commercialista quarantenne: allora, Astra e suo marito avevano provato a dissuadere Alura, la madre di Kara, dal condannarlo perché troppo rischioso. Lui era certo di uscirne pulito e che non avrebbe fatto un giorno di prigione, ma successe. Astra fu beccata nel tentativo di nascondere alcune prove e, si era scoperto dopo, di corrompere una parte della giuria. Dal momento della condanna erano cominciati guai che si intensificarono con l'arresto di Astra e consorte, che erano scappati al loro processo e avevano tentato di rapire la nipote. Qualcuno aveva inviato lettere minacciose alla giudice che erano diventate via via sempre più inquietanti. I genitori di Kara e quelli di Kal avevano cominciato a lavorare con la polizia per scavare a fondo della questione; erano seguiti altri arresti e qualche nome era saltato fuori, ma mentre quell'organizzazione veniva smantellata, una bomba li aveva uccisi. Kara aveva ascoltato ogni parola cercando di restare calma e distante per quanto poteva, anche quando le disse che c'erano stati altri tentativi di ucciderli prima di allora, forse non andati a segno di proposito, col solo tentativo di spaventarli.
Loro non erano sicuri che sarebbero morti, ma temevano sarebbe successo.
Da quel momento, per avere sconti di pena, qualche arrestato coraggioso aveva fatto altri nomi e la polizia aveva trovato prove schiaccianti per portare a termine altri arresti. Da allora tutto era sembrato tranquillizzarsi: il gruppo di potenti era stato distrutto.
La donna disse che sua zia Astra sapeva che si sarebbero vendicati e che aveva tentato di avvertirli e probabilmente di salvarla, rapendola, perché temeva l'avrebbero uccisa, ma a Kara quella parte non interessava. Era colpa sua e niente che poteva dire o fare aveva più importanza. Le voleva bene e lei aveva tradito la sua fiducia e i suoi genitori.
Chiuse la scatola, che restò con il coperchio un po' bombato, e così il cassetto. Udì la vibrazione del suo cellulare sul tavolo e lo raggiunse, leggendo un messaggio.
Da L! a Me
Volevo dirti che ho finalmente capito che persona sei, Kara Danvers: diversa, unica, speciale. Buonanotte.
Kara arricciò le labbra, arrossendo. «Buonanotte, Lena».





























***

Capitolo più corto che porta con sé un po' di dramma… Immaginavate di andare incontro a qualcosa del genere? Eheh, dovevo. Intanto che Kara e Lena si conoscono sempre meglio, di sfondo la trama della storia prende forma.
Che poi ehi, sapevo cosa volevo ottenere, ma in testa avevo così tante informazioni tutte insieme che non so davvero come sia riuscita infine a metterle per iscritto. Ho fatto un minestrone? Probabile XD Spero sia almeno un po' comprensibile.

Cosa ne pensate del gruppo di corrotti in cui Astra si era infiltrata, per poi diventarne davvero membro? Di un Kal quindicenne e saccente? Di Kara che rompe il naso al bullo di turno? :D

Ora. Eravamo rimasti con Lena che invita Kara a cena fuori e con quest'ultima che con un turbinio complicato di pensieri passa dal “oh, mi sono vestita troppo elegante e ora lei penserà che io da questa cena mi aspetti qualcosa di più” al “oh, ma cosa dico, non pensa che io aspetti qualcosa di più, ma è forse proprio lei a volere qualcosa di più”. Ecco, sì, restate sintonizzati su questo canale perché il prossimo capitolo, che sarà pubblicato qui martedì 24, si intitola Mia sorella. O forse no e porterà con sé una piccola svolta.
Ehi, ho detto piccola, eh :P


   
 
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