Carissimi,
eccoci
alla seconda parte delle (dis)avventure dei nostri due marines, Clem
e Orange. Ringrazio sentitamente chi mi ha seguito fin qui, e in
particolare ringrazio chi si è fermato a lasciarmi il suo
parere,
ovvero mystery_koopa, Saelde_und_Ehre, John Spangler, Syila,
fiore
di girasole, innominetuo, Nina Ninetta ed Enchalott.
Parte
seconda
Gli
uomini che li tenevano sotto la minaccia delle armi legarono loro i
polsi dietro la schiena con manette autobloccanti in nylon,
stringendo così forte che Orange non riuscì a
trattenere un gemito
di dolore.
“E
state attenti, stronzi!” ringhiò Clem
all’udire il lamento
dell’amico, poi colpì con una testata uno degli
uomini che lo
stavano scortando. Si udì un sonoro crack,
e l’uomo venne sbalzato all’indietro con il sangue
che gli
zampillava dal naso.
Vociando
nella loro lingua, gli altri cominciarono a colpirlo tutti insieme
con i calci dei fucili, cercando di raggiungere la faccia o altre
parti dolorose. Uno provò a dargli una botta nelle palle, ma
si
prese un calcio nello stomaco, e finì a terra rantolando di
dolore.
Al
secondo uomo a terra, gli altri raddoppiarono il loro sforzi.
“Stronzi!” urlò di nuovo Clem, ma fu
comunque costretto a
raggomitolarsi per evitare almeno che gli colpissero il volto. Una
botta sul sopracciglio gli fece vedere tutto nero per qualche
secondo, e quando tornò in grado di capire cosa stava
succedendo si
trovò accasciato alla base di un muro, con i tizi che si
accanivano
su di lui a calci nelle costole.
Uno
gli sputò addirittura addosso.
“Pezzo
di merda!” esclamò il marine. Fece per alzarsi, ma
un ennesimo
calcio nello stomaco lo costrinse a raggomitolarsi per terra con un
rantolo di dolore. “Mi ricorderò di te,”
promise comunque.
Dopo
un po’, gli iracheni spinsero Orange e trascinarono lui in
una
stanza vuota, con due piccole finestre munite di sbarre vicino al
soffitto e il pavimento di cemento.
Clem
si accasciò ansimando sulla dura superficie.
“Stronzi,” ringhiò
con voce roca. Un altro calcio nelle costole lo fece gemere, poi la
porta si chiuse con un tonfo, e si udì lo scatto di numerosi
chiavistelli.
Ci
fu qualche secondo di silenzio, poi Orange, col tono di una banale
constatazione, osservò: “Proprio non ci riesci a
star zitto, eh?”
“Figli
di puttana,” fu la risposta.
“Ah,
Clement, Clement. Eppure li hai fatti anche tu i corsi di
sopravvivenza: in caso di prigionia, quello che si salva è
il gray
man, ovvero quello che
non si fa notare, che scompare nello sfondo.”
“Affanculo
tu e il gray man. Questi stronzi devono morire.”
Piegò la testa
verso la spalla per cercare di asciugarsi sulla maglietta il rivolo
di sangue che gli colava dal sopracciglio.
“Beh,
adesso siamo noi che rischiamo di morire, comunque.”
“Li
ammazzo prima io, quei pezzi di merda.”
Orange
emise un sospiro, poi disse: “Lo sai, alle volte vorrei che
tu
fossi un po’ più ragionevole.”
“E
io invece vorrei che tu la smettessi di prendere sempre tutto come
Bob Marley che si è fatto troppe canne.”
L’altro
alzò le spalle. “Il più delle volte,
incazzarsi non serve a
niente.”
Clem
non rispose, e rimasero in silenzio per un po’. Fuori ormai
faceva
buio, non si sentivano rumori se non quelli lontani della
città. Da
qualche parte, una voce di donna stava chiamando qualcuno.
Passò
un tempo imprecisato, sembrava che il mondo al di fuori di quella
stanza avesse semplicemente cessato di esistere. Con una certa
fatica, Boyle si alzò in piedi e andò ad
appoggiare l’orecchio
alla porta. Rimase in ascolto per un po’, poi disse:
“Io non
sento niente.”
Orange,
che stava sonnecchiando appoggiato alla parete, sollevò lo
sguardo e
chiese: “E quindi?”
“Possiamo
provare a scappare.”
L’altro
scosse la testa. “E come, di grazia? Siamo legati, disarmati
e
chiusi a chiave in una cella con la porta di ferro.”
“Intanto
possiamo provare a liberarci dalle manette.”
“Come
pensi di fare?”
“Coi
denti. Io mordo le tue, e poi tu fai lo stesso con me.”
Orange
emise un sospiro, poi rispose: “Guarda, accetto solo
perché se no
cominci a rompere le palle e non finisci più.” Si
mise in
ginocchio e protese i polsi all’indietro. “Va bene
così?”
L’altro
scrutò un po’ le manette del compagno, piegando la
testa da una
parte e dall’altra come per saggiare quale fosse la posizione
più
comoda per provare a tagliarle coi denti, poi avvicinò la
bocca ai
suoi polsi.
“Non
azzannarmi un braccio,” gli raccomandò Orange.
Clem
riuscì a stringere fra gli incisivi un angolo della
fascetta. Cercò
di mordicchiarlo in vari modi, ma la plastica si rivelò
più dura
del previsto. Si raddrizzò ansante.
“Fatto?”
gli chiese Vaughan. Fece una breve risata.
“Io
farei meno lo spiritoso, se fossi in te, mentre sono messo a pecora e
con le mani legate.”
“E
perché? Anche tu hai le mani legate. Non puoi mica sfoderare
il
minareto.”
“Ma
i piedi sono liberi. Posso sempre darti un calcio nel culo.”
“Certo
che tu sei uno con cui si parla bene, eh, Clem?”
Boyle
si sedette ed emise un sospiro, poi disse: “Sono troppo
dure.”
“Te
l’avevo detto.”
“Un
marine motivato fa qualsiasi cosa. Proviamo a strofinarle sul
pavimento o contro il muro.”
L’altro
emise un sospiro. “E se invece aspettassimo di vedere come si
mettono le cose?”
“Del
tipo? Oh, perbacco, non
ci eravamo accorti che foste due marines americani, andate pure e
scusate tanto, vi avevamo scambiati per ladri di polli?”
Detto
questo, Clem si avvicinò al muro e ne saggiò la
ruvidezza, poi
cominciò a strofinarci contro i polsi legati. Avendo le mani
dietro
la schiena e ormai gonfie per il ristagno del sangue,
l’impresa si
rivelò ben presto impossibile. “Porca
troia,” imprecò
sedendosi. Sulla pittura biancastra della parete erano rimaste tracce
rosse. “Mi serve uno spigolo,” ringhiò
torvo, “non c’è un
cazzo di spigolo in questo posto?”
Orange
si limitò a scuotere la testa.
Dopo
un po’ si udirono dei passi e delle voci dall’altra
parte della
porta. Clem si raddrizzò come un cane che vede il padrone
prendere
il guinzaglio, e cominciò a osservare l’uscio
serrato con uno
sguardo che sembrava volerlo bucare. “Appena entrano io li
carico,”
disse sottovoce. “Tu sta pronto.”
Alle
sue spalle, Orange chiese: “Scusa, pronto a cosa?”
“Approfitti
del casino e passi oltre.”
“E
poi? Una volta che sono passato mi sparano nella schiena. Chi pensi
che ci sia di là, il circolo del bridge?”
Clem
grugnì qualcosa di indistinto.
Subito
dopo si udì il rumore dei chiavistelli che scattavano. Il
marine si
alzò in piedi e si molleggiò sulle gambe come per
prepararsi a
balzare.
“Non
fare l’idiota,” gli ricordò Orange.
“Questi
pezzi di merda mi hanno
sputato addosso!”
Vaughan
emise un lungo sospiro, poi replicò: “Dammi retta,
fa il gray man.
Non far capire agli stronzi quanto sei forte o cosa sai
fare.”
Voleva aggiungere altro, ma la porta si aprì e nel riquadro
comparvero due uomini armati di mitra. Uno di essi disse:
“Faccia
al muro.”
Mentre
i due erano voltati, entrarono nella cella altri uomini. Clem si
sentì afferrare, di nuovo la canna di un’arma gli
si piantò nella
schiena. Il marine si obbligò a non reagire, e si
lasciò spingere
lungo un corridoio scarsamente illuminato.
Da
lì arrivarono a una stanza che era una via di mezzo tra
un’officina
e un laboratorio, nella quale vari uomini lavoravano intorno a
ordigni esplosivi perlopiù di provenienza americana. Una
parte del
locale era chiusa da teli di nylon, dietro i quali si vedevano sagome
in movimento.
Nell’aria
c’era uno strano odore, che mescolava reagenti, fumo di
sigaretta e
qualcosa che ricordava il tanfo acre delle interiora. Da qualche
parte, qualcuno stava canticchiando.
“Merda,”
mormorò Clem, e chi lo stava spingendo avanti gli
piantò la canna
dell’arma nella schiena. “Sta zitto!”
disse una voce dal tono
aspro.
“Fanculo!”
La
canna dell’arma scomparve, per venire sostituita un attimo
dopo dal
suo calcio, contro la nuca. Clem grugnì di dolore.
“Gray
man,” gli ricordò Orange alle sue spalle, poi
anche lui fu
costretto a tacere nello stesso modo.
Li
fecero salire su un furgone chiuso, che poi si mise in movimento.
Immediatamente,
Clem cominciò a osservare ogni anfratto del cassone in cui
li
stavano trasportando.
“Che
fai?” gli chiese Orange.
L’altro
lo fissò torvo, poi rispose: “Se hanno lasciato
che vedessimo
quella roba, è chiaro che l’intenzione
è quella di farci secchi.”
Questa
volta nemmeno Vaughan trovò nulla da eccepire.
Clem
non aggiunse altro, e ricominciò a ispezionare
l’ambiente. Alla
fine annunciò: “Eccola qui.”
“Cosa?”
“C’è
una vite sporgente, aiutami.”
“Cosa
vuoi fare?”
“Segare
le manette. Comunque, d’ora in poi il filo di kevlar me lo
lego
alle palle.”
Orange
assunse un tono stupito. “Cosa
ti vuoi legare dove?”
“Il
filo di kevlar serve per tagliare le cose. Ho visto un video nel
quale un tizio lo usava proprio per tagliare le manette di
nylon.”
“Io
avrei paura di castrarmi da solo, se lo tenessi dove dici tu.”
“Perché
sei un imbranato. Comunque adesso aiutami, dai.”
Orange
aiutò il compagno per quanto poteva, e nel frattempo si
poneva una
serie di domande: certo, teoricamente sarebbe stata una buona idea
cercare di liberarsi, ma poi? Non sapeva dove li stavano portando,
né
per fare cosa, ma era ben sicuro che non avrebbero aperto il portello
del furgone disarmati.
Il
rumore della plastica che si spaccava lo sollevò da
ulteriori
meditazioni. “Ecco fatto!” esclamò Clem.
Si massaggiò i polsi
con aria trionfante, e come Orange temeva disse: “Adesso
aspetto
quegli stronzi, e appena mettono dentro la testa sono cazzi
loro.”
“E
se mettono dentro la canna di un kalashnikov?”
Clem
lo fissò quasi con degnazione, poi disse: “Sai
dove gliela infilo,
la loro cazzo di canna di kalashnikov?”
La
domanda rimase senza risposta: il furgone rallentò, si
udirono
rumore di metallo che sbatteva e voci, poi la consistenza del fondo
stradale cambiò, divenendo notevolmente più
irregolare.
Clem
alzò di nuovo la testa e aggrottò le
sopracciglia. “Stiamo
rallentando,” disse.
“Già.”
“Vieni
qui, ti libero le mani.”
Orange
gli si avvicinò, ma in quel momento il veicolo si
fermò e il motore
tacque. All’esterno qualcuno disse qualcosa, e
un’altra voce
rispose.
La
chiusura del portellone scattò.
Clem
si tese, lo sguardo fisso sulla lama di luce che andava allargandosi.
Poi si scatenò l’inferno.
Il
marine balzò fuori, si udirono delle urla, una raffica di
mitra,
tramestio, imprecazioni.
Orange
prese in considerazione l’idea di sporgersi per vedere cosa
stava
succedendo, ma valutò più prudente attendere
all’interno del
furgone lo svolgersi degli eventi.
Il
trambusto frattanto continuava, di nuovo ci fu una salva di
imprecazioni di Clem seguita da urla di dolore, questa volta non sue.
Poi
cadde un silenzio sinistro.
Orange
deglutì, e sogguardò il portello accostato,
cercando di capire cosa
stesse succedendo all’esterno. “Clem?”
osò chiamare con voce
sommessa.
Non
gli giunse risposta.
“Clem?”
Il
portello venne aperto del tutto, e nel riquadro comparve un tizio
ossuto, con i capelli neri e la jalabiya. Un vistoso livido gli si
stava formando sullo zigomo.
Questi
gli fece cenno di uscire.
Orange
obbedì. Clem era sdraiato faccia a terra, immobile. Il fatto
che
avesse di nuovo i polsi legati faceva supporre che fosse solo
svenuto. Un paio di iracheni erano in piedi e si stavano tamponando
ferite, due o tre erano seduti alla base di un muro, chi tenendosi la
pancia e chi con un braccio penzoloni. Uno giaceva a terra immobile,
e l’angolo innaturale che la testa faceva col resto del corpo
faceva capire che non era semplicemente svenuto.
“Cammina!”
disse un tizio, pungolandolo alla schiena con la canna del mitra. Di
nuovo, Orange non oppose resistenza. A parte guardarlo da lontano,
non poteva fare molto altro per Clem, inoltre voleva che tutta
l’attenzione continuasse a rimanere su di lui e sulla sua
tendenza
a procurare lesioni traumatiche.
Diede
un’occhiata in giro: erano in un edificio antico, fatto di
grossi
blocchi di arenaria chiara. Il vano in cui era parcheggiato il
veicolo che li aveva trasportati, un furgoncino che aveva le insegne
di una pasticceria, era una stanza a pianta quadrata, con il soffitto
a cupola. Il pavimento era fatto di lastre di pietra consumate da
secoli di utilizzo. La porta principale, di un verde sbiadito dal
tempo, con punti di ruggine qua e là, era chiusa da una
catena.
Qualcuno
lo spinse avanti, Orange si limitò ad allungare il passo,
senza
reagire in alcun modo.
Lo
portarono in un’altra stanza, e da lì gli fecero
scendere una
rampa di scale, anch’essa antica e consumata da secoli di uso.
Raggiunsero
un locale quadrato e dal soffitto basso. L’aria era umida, e
vi si
mescolavano odore di muffa e di sostanze chimiche. Lungo le pareti si
aprivano dei vani, alcuni pieni di casse e scatole, altri chiusi da
porte metalliche di fattura moderna. Una delle porte fu aperta, poi
lo spinsero dentro e la richiusero. Si udì lo scatto della
serratura.
Orange
emise un sospiro. Il posto era praticamente buio, e dentro non
c’era
nulla. “Nemmeno un cesso,” disse fra sé
e sé. Non aveva più
l’orologio, né peraltro con le mani legate avrebbe
avuto modo di
guardarlo, ma una cosa era certa: gli scappava disperatamente da
pisciare.
Considerò
l’opportunità di farsela addosso, ma
stabilì di tenerla come
ultima opzione. Stringendo i denti si piegò in avanti, e
cercò di
far scendere i polsi legati sotto il sedere. Quando, sudando e
sbuffando, ebbe raggiunto il suo obiettivo, si lasciò cadere
a
terra. Lì si contorse e si agitò, imponendosi di
ignorare le
fascette che nel frattempo gli stavano tagliando i polsi e la vescica
che gridava pietà, finché non riuscì a
sfilare le gambe e a
passarsi le mani da dietro la schiena a davanti all’addome. A
quel
punto, si concesse di riposarsi per qualche secondo, quindi si
rialzò, raggiunse la porta e pisciò, avendo cura
di dirigere il
getto in modo che filtrasse all’esterno. Nonostante tutta la
situazione, si trattò di un momento di puro piacere.
Una
volta che si fu liberato, perlomeno dalle necessità
fisiologiche,
cominciò a studiare l’ambiente per trovare il modo
di tagliare le
manette e possibilmente anche la corda.
Clem
riprese faticosamente i sensi. Era prono e con le mani legate dietro
la schiena, aveva sete e male dappertutto.
“Orange?” mormorò.
Non
gli giunse risposta.
“Orange!”
Di
nuovo silenzio.
Il
marine si rigirò su un fianco e cercò di capire
dove si trovava:
era tra mura di pietra, su un pavimento che aveva l’aspetto
di
terra battuta. Sembrava che accanto a lui non ci fosse nessuno, e non
si sentiva alcun rumore. L’unica luce proveniva da fessure
tra la
porta e la parete.
Si
alzò pesantemente in piedi e percorse tutto il perimetro
della
stanza, poi si avvicinò alla porta e cercò di
guardare attraverso
le fessure.
Fuori
c’era un laboratorio più grande di quello che
aveva visto in
città. Mentre percorreva con lo sguardo le enormi
quantità di
materiale esplosivo ammucchiato sui tavoli, non poté fare a
meno di
ripensare alle parole di Miss Tette: l’Islam
è amore.
“’Sto
cazzo,” ringhiò a bassa voce.
Mosse
le mani ormai intorpidite, reprimendo una smorfia di dolore. La porta
era una semplice lastra di metallo, chiusa da una serratura. Se
avesse dato un calcio nel posto giusto, con la necessaria forza,
l’avrebbe fatta saltare dai cardini. Magari non al primo
tentativo,
ma al secondo o al terzo era sicuro che l’avrebbe sfondata.
La
faccenda avrebbe creato un bel po’ di rumore, naturalmente, e
quindi avrebbe richiamato parecchi fotticapre.
La
prima cosa da fare, pensò, era liberarsi le mani.
Arretrò verso la
parete e cominciò a cercare il famoso spigolo su cui
strofinare la
fascetta di nylon.
§
“Credevo
che gli americani fossero un popolo civile.”
Orange,
che stava freneticamente strofinando la fascetta di nylon su
un’asperità del muro, si interruppe.
Si
avvicinò alla porta e vide che vi era stato aperto uno
spioncino. Al
di là c’era un uomo alto e magro, di
mezz’età, con la barba
nera venata di grigio e una jalabiya scura. Questi, dritto in piedi e
con le braccia conserte sul petto, osservava con fare critico la
pozzanghera che si era allargata davanti alla cella.
“È
per non far avvicinare i malintenzionati,” rispose il marine.
“Non
avendo armi, mi sono arrangiato come potevo.”
L’altro
annuì, poi rispose: “Immagino che questo sia un
esempio del vostro
tanto decantato umorismo.”
“Penso
proprio di sì, signor…?”
L’altro
ignorò la domanda. “Sa perché si trova
qui?” chiese poi.
“Aspetto
di apprenderlo da lei.”
“Visto
che tra un po’ morirà, perché non
dirglielo?”
Vaughan
si obbligò a mantenere un tono ironico.
“Già, perché no?”
L’uomo
rivolse lo sguardo verso lo spioncino, poi disse: “Cercavamo
da
tempo un modo per entrare nella base americana, e voi due stupidi
soldati ce ne avete fornito uno perfetto.”
Orange
aggrottò le sopracciglia. “Sarebbe?”
L’altro
emise un sospiro, poi spiegò: “Vede, mi
è capitato qualche volta
di recarmi nel vostro decadente e amorale paese. In una di quelle
occasioni sono stato a Washington, e ho visitato il Vietnam Memorial,
dove celebrate i caduti di una delle vostre guerre
imperialiste.”
Fece una pausa, forse aspettandosi che Orange replicasse, ma il
marine rimase in silenzio. “Una cosa mi ha
colpito,” proseguì
allora l’uomo, “ed è la pervicacia con
cui raccogliete i corpi
dei vostri caduti. Nessuno viene lasciato indietro, giusto?”
A
quel punto rivolse lo sguardo all’interno della cella.
“Giusto,”
rispose Orange.
“Molto
bene. Quindi è plausibile che i corpi di due marines siano
raccolti
e portati all’interno del campo per essere poi inviati in
Patria,
non è vero?”
“Non
lo so,” rispose vago Orange.
“Oh,
non finga di non saperlo. Certo che è
così.”
“Beh,
e quindi? Anche se fosse?”
“Ha
mai sentito parlare del Cavallo di Troia? Qualcuno trova una cosa
interessante e se la porta all’interno delle fortificazioni,
e
poi...” Mimò il gesto di un’esplosione.
Vaughan
non rispose. Cominciava a capire cosa stesse per succedere: aveva
sentito parlare di corpi bomba, ovvero cadaveri che venivano svuotati
degli organi interni e riempiti di esplosivo, ma non aveva mai
pensato di essere a rischio di trasformarsi in uno di essi.
Deglutì
e involontariamente si toccò l’addome.
Guardò
attraverso lo spioncino: l’uomo lo stava fissando, ne
incontrò lo
sguardo grifagno. Si ritrasse verso il fondo della cella,
più che
mai deciso a liberarsi delle manette e cercare un modo per uscire di
lì il prima possibile.
Si
chiese dove fosse Clem, se fosse ancora vivo. Certo doveva starcene
un bel po’ di C4 in un corpo così grande.
“Capiranno
che siamo stati svuotati e ricuciti.”
L’altro
scosse la testa. “Di nuovo chiederò aiuto alla
vostra cosiddetta
cultura per farle capire cosa intendo: lei ha presente cosa succede
al tacchino il giorno del ringraziamento?”
Nonostante
i suoi fermi proponimenti, a quelle parole Orange non riuscì
più a
fare il gray man, e inorridito replicò: “Ci
vorreste svuotare e
riempire di nuovo passando dal culo?”
“Io
mi sarei espresso in termini meno volgari, ma il concetto è
quello.”
“Dal
culo? Ma siete fuori di
testa?”
L’altro
lo fissò con sussiego. “Curioso che di tutto
quello che le ho
detto, sia proprio questo particolare a colpirla
maggiormente.”
“Voi
siete fuori di testa,” ripeté il marine.
“Voi avete dei
problemi.”
“Sono
d’accordo: il principale di essi è la presenza di
soldati
americani sul territorio iracheno.”
Rimasto
solo, Orange per un po’ non fece altro che pensare con orrore
ai
talebani che prima lo svuotavano e poi gli infilavano dentro panetti
di plastico attraverso il culo. Poi, quando riuscì a
raggiungere uno
stato di approssimativa calma, tornò a palpare la parete,
alla
ricerca di asperità particolarmente pronunciate, che gli
consentissero di liberarsi finalmente delle manette.
Mentre
era così impegnato, udì dei rumori
all’esterno. Si affacciò allo
spioncino, che era rimasto aperto, e vide che da uno dei vani che si
affacciavano sulla stanza stava uscendo un uomo. Questi aveva in mano
una torcia elettrica, che spense e appoggiò in una nicchia
del muro
con un gesto che aveva la naturalezza dell’abitudine, poi
scomparve
su per le scale.
La
cosa incuriosì il marine, che ricordava di aver visto
lampadine
funzionanti ovunque.
Si
trovò a rimuginare su quel particolare, così come
sul fatto che la
costruzione in cui si trovava aveva un aspetto molto antico.
Rimpianse di non aver chiesto a quel tronfio farcitore di tacchini
dove si trovassero: era certo che nella sua boria gli avrebbe anche
risposto.
§
Le
manette di nylon cedettero, Boyle dovette fare appello a tutta la sua
forza di volontà per non prorompere in un urlo di trionfo.
Si
massaggiò i polsi e poi aprì e chiuse le mani,
compiacendosi di
come i muscoli si tendevano sui suoi poderosi avambracci.
Si
avvicinò di nuovo alle fessure tra porta e muro e
guardò fuori: nel
laboratorio non c’era nessuno.
Considerò
che doveva essere ormai piena notte, il che significava
essenzialmente che il numero di fotticapre presenti nella struttura
doveva essere al minimo.
Fissò
la porta e assunse l’espressione del toro che si prepara a
caricare, poi arretrò di nuovo, prese tutta la rincorsa che
l’angusta cella gli consentiva e si lanciò come un
treno contro
l’ostacolo.
La
porta letteralmente esplose. La serratura venne strappata via assieme
a tutto il blocco di malta con cui era stata cementata al muro, e
finì nel bel mezzo della stanza. L’anta
sbatté contro la parete
con un rimbombo da fine del mondo.
Clem
uscì di corsa, e mentre tendeva l’orecchio a
eventuali rumori in
avvicinamento, cercò di dare un’occhiata intorno.
Lo colpì un
tavolo d’acciaio come quelli degli obitori, accanto al quale
era
pronto un assortimento dei più comuni strumenti chirurgici.
Aggrottò
le sopracciglia perplesso, poi afferrò tutti i bisturi e se
li ficcò
nella tasca che aveva sulla coscia. Continuò a scrutare in
giro.
Dei
passi in avvicinamento lo richiamarono alla realtà:
abbandonò
l’osservazione e si nascose dietro una colonna.
Arrivò
di corsa un uomo armato di AK-47, che subito si accorse che la porta
della cella era aperta. Si affacciò all’interno e
constatò che
era vuota. Clem si fece avanti, e appena l’uomo si
girò per dare
l’allarme, provvide a spedirlo nel paradiso di Allah
tagliandogli
la gola con uno dei bisturi. Poi raccolse il suo Kalashnikov,
richiuse la cella meglio che poté, con il fotticapre dentro,
e si
allontanò rapido.
Un
poderoso rimbombo metallico costrinse Orange a interrompere il suo
frenetico lavoro di limatura delle manette. Il marine alzò
la testa
e rimase in ascolto, ma non giunsero altri rumori. Si
avvicinò cauto
allo spioncino, cercando di capire cosa stesse succedendo, ma fuori
c'era solo il silenzio corposo della piena notte. La lampadina fioca
che illuminava le scale non mostrava nulla di diverso dal solito.
Pensò
a Clem: l'unico che poteva aver fatto un casino del genere era lui.
Si chiese cosa gli stesse succedendo, e a quel pensiero le sue dita
involontariamente si strinsero sulle due sbarre che chiudevano lo
spioncino.
Non
che fosse molto religioso, sua nonna aveva provato a portarlo con
sé
in chiesa un paio di volte, ma lui si era invariabilmente
addormentato, e l'avevano mandato fuori perché russava, ma
in quel
momento gli sorse spontanea una preghiera vagamente modellata sulla
celebre invocazione di Conan il Barbaro: “Senti, Dio, non ti
ho mai
pregato fino ad ora, non saprei come farlo. Però so che
questi qua
ti vogliono pisciare in testa, e l'unico in grado di impedirlo
è il
marine Clement Boyle. Per cui, ascolta la mia unica preghiera: fa'
che rimanga sano e salvo. E se non lo aiuti, allora vuol dire che non
te ne frega niente di essere più grosso di Allah.”
Al
piano di sopra si udirono il crepitare di una raffica di mitra,
alcune parole inintelligibili, un forte e chiaro
“Bastardi!”,
altre raffiche e tramestio confuso.
Di
nuovo, Orange si aggrappò alle sbarre dello spioncino
tentando di
guardare fuori, poi riprese a strofinare le fascette di nylon contro
una pietra ruvida. Nel movimento si graffiava spesso anche la pelle
sottile dei polsi, ma si accorse di non sentire alcun dolore.
Intensificò anzi gli sforzi, fregandosene se ad ogni
passaggio
lasciava sul muro tracce rosse.
Poi
sentì un grido belluino: “Orange!”
Il
marine interruppe il suo lavoro e rimase in ascolto.
Il
grido si ripeté: “Orange, amico, dimmi
qualcosa!”
“Sono
qui!” gridò Vaughan a pieni polmoni.
“Qui sotto!”
“Dove?”
“Le
scale!”
Un
attimo dopo sentì un tramestio concitato, e sui gradini
comparve la
poderosa figura di Clem. Il marine imbracciava un Kalashnikov, aveva
una Beretta di provenienza americana infilata nella cintura e un
grappolo di granate a mano M67 appeso al collo.
“Avrò un milione
di fotticammelli dietro al culo!” esclamò.
Si
girò e sparò un paio di raffiche, poi fece cadere
il caricatore
vuoto, ne infilò nell'AK-47 uno pieno e raggiunse la porta
della
cella. “Tutto bene?” s'informò.
“Fammi
uscire, Clem.”
L'altro
si guardò intorno. “E poi dove cazzo
andiamo?”
Dall'alto
provenivano rochi richiami e tramestio.
“Tu
intanto fammi uscire.”
L'altro
si guardò intorno alla ricerca di ispirazione, poi propose:
“Sdraiati a terra faccia in giù in fondo alla
cella, io butto una
granata contro la porta.”
“Sei
scemo? Non ci tengo a ritornare a Camp Courage in una scatola da
scarpe.”
“Sentiamo
la tua idea, allora.”
“Prova
a sparare alla serratura.”
Clem
si tolse il mitra dalla spalla. “Poi non ti lamentare se ti
arriva
qualche pallottola.”
“Meglio
una pallottola che finire spalmato sulle pareti della cella.”
“Esagerato,”
disse l'altro, ma la risposta si perse, coperta dalla raffica del
Kalashnikov. Alcune pallottole fischiarono minacciose e rimbalzarono
contro le pareti, ma la serratura dopo un po' cedette, e Boyle fece
il resto a mani nude. Prese uno dei bisturi e tagliò quello
che
rimaneva delle manette del compagno, poi i due si guardarono intorno
desolati. “Non ci sono uscite,” grugnì
Clem.
“Torniamo
su?”
“Stai
scherzando? Ci sono più fotticammelli che alla Mecca di
venerdì.”
Qualcosa
di rotondo scese rimbalzando sui gradini.
“Cazzo!”
urlò Clem, quindi afferrò il compagno e si
buttò dentro la cella.
L'esplosione
fu così forte che i due si sentirono letteralmente
risucchiare
l'aria dai polmoni. Il mondo si fece dapprima completamente buio, poi
ricomparve una debole luce caliginosa. Sassi e calcinacci rotolarono
dappertutto.
Seguirono
lunghi secondi di silenzio.
Il
primo ad alzarsi fu Clem, che si scrollò di dosso il
pietrisco con
le orecchie che gli fischiavano, si spolverò alla meglio
l'uniforme
sollevando dense nuvole grigiastre e disse: “Che cazzo di
botto.”
Poi si voltò verso il compagno e premurosamente lo estrasse
da sotto
le macerie. “Orange?” chiamò, dandogli
qualche schiaffetto per
rianimarlo. “Orange, sei a posto?”
“Secondo
te?”
biascicò l'altro.
“Dobbiamo
andarcene.”
Ancora
intontito, Vaughan mormorò: “Dove?”
“Da
qualsiasi parte che non sia qui. Tra un po' verranno a vedere se
siamo morti.”
L'esplosione
aveva fatto crollare una parte del soffitto, e fiochi raggi di luce
cadevano dall'alto, delineando i contorni delle cose. Il vano da cui
era uscito l'uomo con la torcia era stato sventrato dall'esplosione,
e il fondo di esso si allungava in un antro buio. “Qui
dentro,”
propose Clem.
Camminarono
per un po' tentoni lungo il muro, poi Clem disse: “La stanza
non
finisce.”
“In
che senso, non finisce?”
“Non
c'è il fondo. Ma quanto cazzo è grande?”
Tenendo
una mano saldamente contro la parete, Orange allungò
l’altro
braccio. Per un po' brancolò nel buio pesto, poi le sue dita
sfiorarono una superficie ruvida. “Mi sa che l'ho
trovato,”
disse.
“Cosa?”
“L’altro
muro, è davanti a noi. Penso che sia un tunnel, sto toccando
le due
pareti.”
Stava
per aggiungere altro, ma in quel momento alle loro spalle
cominciarono a farsi udire delle voci. Erano vari uomini, e parlavano
in arabo. Egli si irrigidì e nel buio cercò di
afferrare qualsiasi
parte di Clem si trovasse a portata di mano, per evitare che partisse
a testa bassa contro gli iracheni in arrivo. Un pennello di luce
spazzò l'imboccatura del cunicolo, si udirono dei passi
cauti sulle
pietre.
Al
pur minimo riverbero della torcia sulle pareti, Orange si
voltò
verso il compagno e gli fece cenno di tacere, poi si
appiattì
ulteriormente. Un sassolino però gli scivolò da
sotto il piede
rotolando via con un lieve rumore.
Il
pennello di luce, che sembrava già diretto altrove,
immediatamente
tornò indietro, e ricominciò a percorrere attento
il vano.
Andò
su e giù due o tre volte, sempre più lento e
indagatore, poi si
udirono dei passi in avvicinamento. Orange sentì che Clem si
svincolava adagio ma inesorabilmente dalla sua presa, e
sperò che
almeno facesse ciò che aveva intenzione di fare in modo
rapido,
pulito ma soprattutto silenzioso. Gli rivolse un'occhiata implorante,
ma nel buio quasi completo l'altro non la colse. Lo vide frugarsi
nella tasca sulla coscia e tirare fuori qualcosa.
Poi
si udirono un lieve tramestio, un rumore vagamente liquido e un
mugolio un po’ gorgogliante. Qualcosa sussultò un
paio di volte
sul pavimento, poi si afflosciò e giacque inerte.
“Raccogli la
torcia,” suggerì Clem sottovoce.
Orange
prese l'oggetto e fece scorrere la luce lungo il muro, che a quel
punto era schizzato di rosso peggio che in un horror sui cannibali:
il fascio si perse nel buio e vi scomparve. “È una
galleria,”
sussurrò il marine.
“Beh,
entriamoci,” disse l'altro.
“Non
sappiamo dove va a finire.”
A
quel punto, si fece udire un richiamo. I due si irrigidirono, Orange
spense la torcia.
Il
richiamo si ripeté più forte, e all'unisono i due
soldati
abbassarono lo sguardo sul cadavere ai loro piedi. Clem
staccò
silenziosamente una granata dal grappolo che portava al collo.
L'altro
gli fece un inorridito cenno negativo, ma il primo tolse la sicura,
mantenendo poi la leva abbassata con la mano.
Dei
passi cominciarono ad avvicinarsi, altre torce fendettero le tenebre.
Infine, delle figure si affacciarono all'imboccatura della galleria.
Orange
si immobilizzò. Clem a quel punto lo afferrò per
la collottola, e
trascinandolo di peso arretrò nel buio. Si udì il
rumore di un
oggetto metallico che rimbalzava, poi sembrò che fosse
arrivata la
fine del mondo: dapprima ci fu un accecante lampo arancione, poi
un’esplosione che li scaraventò a parecchi metri
di distanza,
lasciandoli rintronati e pesti. Con un rombo cupo, la volta della
galleria alle loro spalle crollò.
Quando
la polvere si fu dissipata, i due si voltarono e si accorsero che il
lume del tunnel era completamente ostruito da tonnellate e tonnellate
di pietre.
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