Ciao cari/e!
Eccoci
alla fine di questa movimentata avventura tra le sabbie e i talebani.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito fin qui, e in particolare
chi è stato così gentile da lasciarmi un parere, ovvero Enchalott,
John Spangler, mystery_koopa, Saelde_und_Ehre, Syila, Nina Ninetta,
fiore di girasole, innominetuo e New Storytellers.
Parte
terza
Orange
si massaggiò la schiena, indolenzita dall’ennesima botta, poi
puntò la torcia verso il buio della galleria che si apriva davanti a
loro. Scrutò per un po’ quelle misteriose profondità, quindi con
un’alzata di spalle borbottò: “Non ci resta che andare avanti,
direi.”
L’altro
si erse in tutta la sua altezza, arrivando a sfiorare pericolosamente
le pietre della volta. Si guardò intorno aggrottando le
sopracciglia, poi ringhiò: “La fai facile, tu: andiamo avanti.”
Diede un calcio a un sasso, spedendolo a parecchi metri di distanza.
“Andiamo avanti, dove?”
Orange
emise un teatrale sospiro e rispose: “Dove ci porterà il destino,
caro compagno di mille avventure.”
Clem
si sedette con precauzione su un mucchio di pietre, poi disse:
“Piantala di fare l’idiota, Andrej.”
L’altro
ignorò la minacciosa calma del suo tono di voce. Si spolverò
sommariamente l’uniforme e chiese: “Scusa, chi è che ha buttato
una granata all’imboccatura del tunnel?”
“Non
avevamo altra scelta.”
“Ok,
quindi adesso muoviamoci. Da qualche parte porterà, questa
galleria.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Magari è quella di
Miss Tette e ci porta dritti in città.”
Si
mise a camminare con aria svagata, facendo dondolare la torcia qua e
là.
Clem
rimase ostentatamente seduto.
L’altro
fece una ventina di metri, poi si fermò, si voltò e puntò il
fascio di luce nella sua direzione. “Beh?” chiese.
“Fanculo.”
Vaughan
emise un sospiro. “Cos’è, una delle tue solite incazzature
maori? Sbraita piano, però: non vorrei che ci sentissero e capissero
che non siamo crepati.”
“Io
avrò le incazzature maori,” ringhiò l’altro di rimando, “ma
tu non riesci a capire quando è il caso di smettere di fare
l’idiota.”
Orange
annuì grave. “Va bene,” rispose. “Io vado avanti. Tu segui la
luce quando sei a posto. Ricordati solo di non fare troppo casino,
ok?”
“Cosa
vorresti dire,” replicò Boyle, “che non sono capace di
controllarmi come chiunque altro?”
L’altro
lasciò passare qualche secondo, poi rispose: “È inutile che tenti
di farmi incazzare, Clem. Lo sai come sono fatto.” Alzò le spalle
e prese ad allontanarsi lungo il tunnel con andatura molleggiata,
canticchiando: “In
every life we have some trouble, when you worry you make it bouble.
Don’t worry, be happy...”
Boyle
emise un sospiro che sembrava lo sfiato di un capodoglio, e a bassa
voce disse: “Uno di questi giorni lo strozzo...” Poi si alzò e
si dispose a seguirlo, sebbene a debita distanza.
“Senti
un po’, ma ti chiamano Agent Orange perché sei un agente segreto?”
Vaughan
smise di camminare e si voltò verso il compagno. “Come ti viene in
mente una cazzata simile?”
Clem
alzò le spalle. “Di solito, i veri agenti segreti sono quelli di
cui lo diresti meno.”
“Ah,
grazie tante.”
“Allora,
è così?”
“Non
hai vinto, ritenta.”
“Uhm,
dovevo immaginarlo,” brontolò Boyle, quindi riprese a camminare.
Stavano
procedendo ormai da un tempo imprecisato in un tunnel silenzioso, dal
pavimento di terra battuta, con la volta a botte. La struttura, che
doveva essere antichissima, era stata consolidata un po’ alla
meglio in alcuni punti con dei blocchi di calcestruzzo da edilizia.
Ogni tanto si sentiva uno sgocciolio, e un’infiltrazione d’acqua
scorreva lungo la parete in una traccia verdastra. Disperatamente
assetato, Orange provò a raccoglierne un po’ nel cavo di una mano
e a berla, ma il sapore risultò disgustoso.
“Chissà
dove siamo?” si chiese. Sputacchiò qualcosa che gli era rimasto in
bocca durante il tentativo di assaggio e aggiunse: “Quest’acqua
fa proprio schifo.”
“Come
i fotticapre.”
“Alla
faccia di Miss Tette, stavolta sono d’accordo con te. Lo sai cosa
volevano farci?”
“No,
cosa?”
Orange
raccontò la faccenda del tacchino.
“Quegli
stronzi!” sbraitò Clem scandalizzato. “Perché cazzo non me
l’hai detto quando eravamo là?”
“Sì,
figurati. Come se non ti conoscessi: poi scatenavi l’inferno.”
“Certo
che lo scatenavo! Quegli schifosi! Quei bastardi! Ci volevano
svuotare per il culo e riempire di C4, ma ti rendi conto?”
Orange
alzò le spalle. “Don’t
worry, be happy...” ricominciò
a canticchiare.
Andarono
avanti un altro po’, ognuno assorto nei propri pensieri.
A
un certo punto, la luce della torcia cominciò a ingiallirsi. “Mi
sa che tra un po’ finiamo al buio,” buttò lì Vaughan, come se
non fosse poi un gran problema.
Boyle
osservò la torcia e in tono risentito disse: “Merda, ci mancava
anche questa.” Aggrottò le sopracciglia, poi proseguì: “Questa
non ha le batterie, è una di quelle che si ricaricano con la
corrente.”
“E
quindi?”
“Quindi
è meglio che la spegni e ci teniamo un po’ di riserva di luce per
i momenti critici, perché durerà ancora dieci minuti al massimo.”
“Uhm.”
Orange spense la torcia, e i due si trovarono immersi in tenebre
picee. “E adesso come facciamo?” chiese poi
Dal
buio giunse la voce di Clem: “Strisciamo lungo la parete e
accendiamo la torcia solo ogni tanto, per controllare dove stiamo
andando.”
“Tanto
non rischieremo di sbagliare strada, direi.”
Ricominciarono
a camminare, e andarono avanti per un tempo imprecisato. Dopo un po’,
Orange disse: “Clem?”
Davanti
a lui, la voce del compagno rispose: “Sì?”
“Ci
sono due spermatozoi nel culo di un frocio, e uno dice all’altro:
ma come cazzo si fa a trovare un ovulo in mezzo a tutta questa
merda?”
Seguì
qualche secondo di silenzio, poi Boyle chiese: “Ma ti sembra il
momento di metterti a raccontare barzellette idiote?”
“Era
per sdrammatizzare.”
“Sei
sempre il solito cretino.”
Per
tutta risposta, Orange cominciò a canticchiare:“In
every life we have some trouble, when you worry you make it bouble.
Don’t worry, be happy...”
Notò che l’aria si era fatta
vagamente umida, e si sentiva uno strano odore come di limo.
“E
basta con...” cominciò Clem, ma un attimo dopo si interruppe e
urlò: “Cazzo!”
Ci fu dapprima un breve e
frenetico tramestio, poi, molto più in giù, il rumore di qualcosa
di pesante che cadeva in acqua.
“Clem!”
urlò Vaughan angosciato. “Clem, dove sei?”
Gli rispose un intenso
sciabordare.
“Clem!”
“Porca
puttana!” giunse dal basso.
“Stai
bene? Sei ferito?”
“Ho
perso le armi, mi sono rimaste solo le granate.”
“Ma
tu stai bene?”
“Fammi
luce.”
Orange accese la torcia: la
galleria si interrompeva sul bordo di quella che sembrava un’enorme
cisterna, con un altissimo soffitto a volta sostenuto da colonne.
Lateralmente c’era uno stretto camminamento che sembrava
percorrerne il perimetro, ma la scarsa illuminazione permetteva di
vederne solo la prima parte. Il resto si perdeva nelle tenebre.
La voce di Clem lo richiamò alla
realtà contingente: “Devo trovare un modo di risalire!”
Orange illuminò l’acqua, che
era perfettamente trasparente, e dava l’idea di essere anche
piuttosto profonda. Colse sul fondo della cisterna la presenza di un
antico pavimento, con disegni di creature acquatiche. Il fascio di
luce si rifletteva mandando tremolanti riflessi su tutto il soffitto.
“Orange,
ti dai una mossa?”
“Mi
sembra di vedere una scala, là in fondo.” Vaughan puntò l’ormai
fioco fascio della torcia verso una fila di gradini che dal livello
dell’acqua portava verso l’alto.
Boyle la raggiunse a nuoto. “È
gelata,” sbuffò.
“Sì
può bere?”
“Avevo
una sete che avrei bevuto anche la trielina. Ne ho approfittato.”
“Allora
scendo anch’io.”
“Vuoi
farti una nuotata?”
“Devo
bere, quindi vedi di non pisciarci dentro prima di uscire, per
favore.”
“Troppo
tardi.”
“Il
solito stronzo.”
Vaughan aggirò con cautela la
cisterna. Il passaggio era stretto, e in alcuni punti c’erano stati
dei cedimenti strutturali, cosa che lo rendeva ancora meno
praticabile. “Ma farci un parapetto no, vero?” brontolò,
strisciando cauto con la schiena contro il muro.
Clem frattanto stava uscendo
dall’acqua. “Vaffanculo,” ringhiò. “Posto di merda, gente di
merda, guerra di merda. Cazzo!”
La voce andava alzandosi di tono.
“Porca
puttana! Io non ci volevo nemmeno venire, in questo cazzo di paese
pieno di sabbia. Vaffanculo!” L’ultima imprecazione si riverberò
sulle volte del soffitto in migliaia di echi.
Vaughan aspettò che si fosse
ristabilito il silenzio, poi gli chiese: “E che ci fai qui,
allora?”
Clem nel frattempo era riuscito a
raggiungere il livello del tunnel. Si scrollò come un cane, si
strizzò la maglietta e rispose: “Se tu non mi dici perché ti
chiamano Agent Orange, io non ti dico perché sono qui.”
L’altro fece una risatina.
“Spiacente, amico.”
“Lo
sai che sei uno stronzo, Orange?”
La torcia si spense.
“Oh,
no!” si lamentò Vaughan. Azionò due o tre volte l’interruttore,
ma non successe niente.
“È
andata,” disse Clem.
Dopo quel breve intermezzo di
luce, le tenebre sembravano ancora più opprimenti. Orange si mise
carponi per coprire il percorso che lo separava dalla scala della
cisterna, poi scese adagio, un gradino per volta, tastando davanti a
sé per capire se era già arrivato all’acqua oppure no.
Momentaneamente privo della vista, aveva ormai tutti gli altri sensi
letteralmente impazziti: sentiva ogni fruscio, percepiva ogni odore.
Coglieva la diversa consistenza delle pietre del tunnel, che dovevano
essere di arenaria, e dei gradini, che invece erano di marmo. “Chissà
cos’era questo posto,” disse poi, quasi tra sé e sé. Raccolse
un po’ d’acqua nel cavo delle mani e la assaggiò. “Sembra
buona,” disse.
Dall’alto, Clem rispose:
“Magari siamo entrati nelle fogne della città.”
Orange, che per bere più in
fretta si era messo carponi e stava sorbendo l’acqua direttamente
come uno gnu nei documentari sul Serengeti, si immobilizzò e disse:
“Sta’ zitto.”
“Che
c’è, ti sei schifato?”
“No,
sta’ zitto. Non senti niente?”
Dall’alto non giunse risposta,
segno che anche Clem si era messo in ascolto. “Cosa dovrei
sentire?” chiese il marine dopo un po’.
“Non
lo so. Mi è venuto in mente quando mi sono chinato per bere. Ho
pensato alle pecore, e poi ai fottipecore...”
“Fotticapre,”
lo corresse dall’alto Boyle.
“Insomma,
quelli. Siamo scappati dopo aver visto il loro laboratorio e tutto
quanto. Possibile che nessuno ci stia venendo a prendere?”
“Il
tunnel è crollato, prima che possano passarci di nuovo ci vorranno
delle ore.”
“Certo,
da quella parte. Ma dall’altra?”
Seguì un lungo silenzio, segno
che anche Clem stava ponderando la sinistra eventualità. “Cazzo,”
commentò alla fine.
Orange, che nel frattempo aveva
finito di bere, ritornò su con cautela e chiese: “Dove sei?”
“Qui,
amico.”
Vaughan percepì nel buio il
lieve sbatacchiare metallico delle granate che l’altro era riuscito
a conservare appese al collo. Colse anche un vago residuo di quel
dopobarba che l’altro si ostinava ad applicarsi in quantità
generosissime nonostante sapesse a suo parere di piscio di gatto.
Allungò le mani e incontrò il
suo fisico poderoso. “Beh, che facciamo?” chiese Boyle. Si fece
indietro e disse: “E tocca poco, tu. Cosa sei, frocio?”
“Manteniamo
il silenzio, che ne dici?”
“Ma
senti questo,” protestò Clem risentito. “Chi è che non stai mai
zitto, racconta le barzellette cretine e canta?”
“Va
bene, va bene. Lo facevo per te, comunque.”
“Per
me?”
“Per
intrattenerti.”
“Ringrazia
che è buio e non vedi la mia faccia.”
“Non
ringrazierò mai abbastanza per un dono del genere.”
“Ehi,
come sarebbe a dire?”
La domanda rimase ad aleggiare
nelle tenebre.
I due ripresero la marcia. Clem,
che camminava davanti, si muoveva lento, rigorosamente contro la
parete. Memore dell’esperienza precedente, questa volta tastava col
piede prima di ogni passo, col risultato che procedeva molto più
adagio.
“Senti
niente?” sussurrò dopo un po’ Orange.
Si fermò a orecchie tese. Il
silenzio era così perfetto che riusciva a sentire i battiti del
proprio cuore pulsargli nelle orecchie. Poi iniziò a percepire
qualcosa. Un fruscio lontano, forse l’eco flebile di una voce.
Ragionò rapidamente: le uniche
armi che aveva a disposizione erano delle granate a frammentazione
M67. E le sue mani, ovviamente. Con quelle doveva far fuori i
fotticapre, uscire dal tunnel, aprirsi la strada fino a Camp Courage
e soprattutto evitare che Orange si cacciasse nei guai, cosa che
sicuramente era più difficile delle altre tre messe insieme.
Si
voltò verso il compagno. Non lo vedeva, ovviamente, ma poteva
immaginarne l’espressione svagata, come di un turista che si sta
godendo un bellissimo viaggio nell’Oriente misterioso. Gli vennero
in mente tutte le barzellette che raccontavano sulle bionde svampite,
e si chiese se funzionassero anche per gli uomini. Non che Orange
fosse proprio biondo biondo,
più che altro dava un po’ sul rosso, ma la testa, soprattutto
all’interno, era quella.
O forse era solo un
atteggiamento. Una tattica. Per quanto sembrasse spesso su un altro
pianeta, conoscendolo si capiva che in realtà non era affatto così.
Rallentò, si appiattì
ulteriormente contro la parete. Abituato al buio completo, aveva
l’impressione che le tenebre non fossero più fitte come prima.
Strinse gli occhi. Riusciva a cogliere qualche vago elemento di
quello che lo circondava o era solo un’impressione?
Poi comparve sul soffitto il
pennello di luce di una torcia. L’apparizione fu così improvvisa
che quasi lo fece sussultare. Sentì l’adrenalina entragli in
circolo, e allungò una mano a toccare Orange, come per ricordargli
che non era il momento di fare una cazzata delle sue.
Cercò di elaborare un piano.
Cosa c’era di là? Quanta gente? Con che armi? Si acquattò e
rimase in ascolto.
Il tunnel faceva una specie di
curva a gomito, e oltre quella si sentivano delle voci. Staccò una
granata.
“Vuoi
farci fare la fine dei topi?” gli sussurrò all’orecchio Orange,
che probabilmente lo aveva sentito maneggiare l’ordigno.
“Hai
altre idee?”
“Aspettiamo
un attimo, no? Diamo un’occhiata.”
“Ma
certo, e intanto quelli ci aprono il culo.”
“Non
sanno nemmeno che siamo qui.”
“Pensi
che siano venuti quaggiù per limonarsi di nascosto?” Senza
attendere risposta, tolse la sicura alla granata e la lanciò oltre
la curva.
L’ordigno fece un paio di
rimbalzi, si udirono delle voci, questa volte alte e in tono
concitato, poi ci fu il boato lacerante dello scoppio. Dalla galleria
provennero uno sbuffo di polvere e rumore di pietre che crollavano.
“Andiamo,”
disse conciso Clem. Afferrò il compagno per un braccio e si lanciò
in avanti.
Raggiunsero una stanza con una
scala che andava verso l’alto. Metà del soffitto era crollata, uno
dei muri aveva un grosso buco, oltre il quale si intravedeva un’altra
stanza con dentro scaffali carichi di forniture militari. Sul
pavimento, in mezzo alle macerie, erano rimasti dei corpi. Boyle li
osservò brevemente, poi si chinò a raccogliere un Kalashnikov che
giaceva abbandonato accanto a uno di essi, controllò che fosse
carico e proseguì.
Vaughan si limitò a seguirlo.
Diede a sua volta un’occhiata in giro, individuò un fucile
d’assalto AKM e lo raccolse, ma sapeva che quando Clem cominciava
ad aprirsi la strada a granate, rimaneva poco spazio per altri
interventi.
Seguì il compagno su per la
scala. Questi sparò una raffica di mitra, poi buttò un’altra M67.
Di nuovo crollarono calcinacci, si udì un rantolo di dolore, poi
silenzio.
Una volta su, si guardò intorno:
era giorno, tanto per cominciare, e la luce entrava dalle finestre
dando corpo all’aria che le esplosioni avevano reso caliginosa.
Fuori si vedeva un cortile circondato da edifici di pietra chiara,
con decorazioni di maioliche blu, azzurre e verdi che brillavano al
sole. “Non mi dire che siamo finiti in una moschea,” disse
smarrito, ma prima che Clem potesse rispondergli, cominciarono a
riversarsi nel cortile diversi uomini armati.
I due si appiattirono al suolo,
poi Boyle azzardò un’occhiata fuori, staccò un’altra granata,
la terzultima, dalla sua dotazione e la lanciò. “Ora andiamo,”
disse poi. “Dobbiamo trovare l’uscita di questo posto.”
Attraversarono lo spiazzo
disseminato di corpi, da uno degli edifici provenne una raffica di
mitra che fece rimbalzare loro addosso schegge di pietra del
selciato. Clem rispose al fuoco, poi si buttò ansante contro il
muro. Si teneva una mano sulla coscia, e un rivolo di sangue gli
scorreva tra le dita serrate.
“Sei
ferito?” chiese Orange.
“No,
mi si è rotta la bottiglia di ketchup che tenevo in tasca. Ma che
cazzo di domande fai?”
“Ok,
scusa. Fammi vedere.”
“Non
c’è tempo, dobbiamo andarcene.” Si rialzò con una smorfia di
dolore.
Ripresero a correre, si
infilarono dentro una porta aperta, attraversarono un androne
semibuio e sbucarono in un altro cortile, molto più ampio del
precedente, con il fondo di terra battuta. Da un lato di esso erano
parcheggiati numerosi veicoli sia civili che militari. C’era
addirittura un Humvee americano.
Dall’altro lato c’era un
T-72. Clem fece un sorriso soddisfatto e disse: “Prendiamo quello.”
“Cosa?
Vuoi prendere un carro armato?”
“Improvvisare,
adattarsi e raggiungere lo scopo. Una volta che siamo lì dentro, sai
dove se li possono infilare il loro AK-47 del cazzo?”
“Però
se per caso hanno un RPG facciamo la fine delle anatre pechinesi.”
Senza rispondere, Clem corse
verso il blindato. Nel frattempo si udirono dei clamori alle loro
spalle, e uomini armati si gettarono al loro inseguimento. Raffiche
di mitra cominciarono a crepitare furiosamente, le pallottole
fischiavano tutt’intorno a loro.
Poi Orange sentì un colpo nella
schiena, e sulle prime si chiese stupito come avesse fatto uno degli
inseguitori ad arrivare così vicino da potergli sferrare un pugno.
Improvvisamente sentì che le gambe lo tenevano male, e prima di
essersene reso conto, sentì l’impatto del suolo contro la sua
faccia.
Poi successe qualcos’altro, e
si trovò a ballonzolare come un sacco di patate a circa due metri da
terra. Non sentiva dolore, ma era stanco come se fossero due mesi che
non chiudeva occhio. “Clem...” mormorò.
“Parlami,
Orange. Dimmi qualcosa.”
“Ma...”
Vaughan cercò di articolare una risposta, nonostante si sentisse la
lingua più gonfia che dopo una sbronza di tequila boom-boom e
whiskey. “Ma se mi dici sempre che parlo troppo?”
“Non
ti addormentare!”
“E
chi dorme…” Poi subentrò un barlume di consapevolezza: “Mi
hanno beccato, Clem?”
“Non
è niente, non ti preoccupare,” fu l’immediata risposta. “Starai
bene.”
Ormai il T-72 era vicinissimo.
“Clem,
mi hanno beccato?”
“Ora
ce ne andiamo, Orange. Starai bene.”
“Ma
non sento dolore… perché non sento dolore, se mi hanno beccato?”
“Ecco,
bravo, parla. Non devi dormire, Andy.”
Il marine si sentì appoggiare su
una superficie dura e molto calda. “Ahio,” protestò. “Mi hai
scambiato per un hambuger?”
Udì il rumore di qualcosa di
pesante che sbatteva, poi una gragnola che gli ricordò della ghiaia
tirata contro una lastra di lamiera. “Figli di puttana!” imprecò
Clem.
Poi l’ambiente cambiò, e da
torrido e luminoso, divenne torrido e semibuio. L’aria aveva un
odore di olio e nafta, dappertutto c’erano spigoli che gli si
infilavano nelle parti molli. “Dove siamo?” mormorò, ma un
poderoso rombo di motore coprì la sua voce.
Stabilì che era meglio dormire,
molto meglio. Chiuse gli occhi.
Con fatica, Boyle si ficcò nel
posto del pilota, diede il contatto e il motore partì con un ruggito
assordante. Non aveva mai guidato un carro armato, ma supponeva non
fosse poi molto diverso dal bulldozer di suo zio che guidava da
ragazzino. Afferrò le leve che comandavano i cingoli, tolse il freno
di stazionamento e diede gas.
Il T-72 si lanciò in avanti,
travolgendo qualsiasi cosa si trovasse sul suo percorso. Una jeep
cercò di piazzarglisi davanti, ma gli occupanti furono costretti ad
abbandonarla in tutta fretta prima che finisse sotto i cingoli del
mostro.
Clem diede ancora gas. “Orange,
mi senti?” urlò, ma non gli giunse alcuna risposta. “Orange?”
Una raffica crepitò sulla
blindatura, udì il rumore di qualcosa che veniva stritolato dai
cingoli. Poi si accorse che un uomo armato di RPG si era posizionato
a gambe larghe esattamente davanti a lui. “Merda!” imprecò.
L’altro si pose l’arma sulla
spalla con ostentata calma, tolse la sicura e chiuse un occhio per
prendere la mira. Clem diede gas, il T-72 balzò in avanti sollevando
coi cingoli una nube di polvere giallastra. Il marine fissò il
terrorista, ed ebbe quasi l’impressione di guardarlo dritto negli
occhi, e che anche lui stesse facendo la stessa cosa. Strinse i
denti, ignorando la goccia di sudore che gli scendeva lungo la
tempia. Si lecco le labbra improvvisamente secche e disse:
“D’accordo, figlio di puttana: giochiamo a chi ce l’ha più
duro.”
Fissò lo sguardo sull’uomo che
stava ancora regolando la mira: sarebbe riuscito a passargli sopra o
sarebbe saltato in aria con un missile in faccia?
“Adesso
sarebbe il momento di raccontare una delle tue barzellette, Orange,”
disse, ma l’amico non rispose.
Il missile partì sibilando, Clem
si attaccò con tutte le sue forze a una delle due leve dei cingoli,
e il carro armato compì una sterzata brutale. Il proiettile passò
oltre e andò a impattare contro uno degli edifici, facendolo saltare
in aria.
Il marine riprese il controllo
del T-72 e lo spinse a tutto gas contro il muro di cinta del cortile,
che esplose in un delirio di mattoni, ferri da calcestruzzo e
calcinacci. Atterrò su un cumulo di rifiuti, facendo fuggire una
frotta di ragazzini cenciosi, poi proseguì sobbalzando, non voleva
sapere su che cosa.
Infine si imbatté in un paio di
Abrams in assetto di guerra, probabilmente richiamati da tutto il
casino che aveva fatto.
Si fermò.
Dall’altoparlante di uno dei
due provenne una frase in arabo.
Il marine aggrottò le
sopracciglia interdetto, e non fece nulla.
Passarono alcuni secondi, poi la
frase si ripeté, in tono più perentorio. I cannoni dei due carri
armati brandeggiarono verso di lui.
“Per
quale cazzo di motivo non parlano una lingua civile?” brontolò.
Spense il motore, e all’interno del carro calò un silenzio
sinistro e carico di aspettativa. “Orange?” chiamò, ma di nuovo
non gli giunse risposta. “Orange, qui rischiamo di essere fatti
fuori dai nostri, pensa che fregatura.”
Per la terza volta, echeggiò
l’avvertimento in arabo.
A quel punto, Clem perse la
pazienza, spalancò il portello e saltò in piedi. “E allora!”
sbraitò. “Mi avete scambiato per un fotticammelli?”
§
Sdraiato nel letto dell’ospedale
da campo, la gamba fasciata e appoggiata a un paio di cuscini, Clem
emise un sospiro soddisfatto, poi allacciò le mani dietro la nuca e
disse: “Si dà il caso, Andy, che tu debba al sottoscritto il fatto
di poter ancora usare il tuo tablet o qualsiasi altro prodotto della
tecnologia umana.”
“Un
attimo,” grugnì l’altro, sdraiato nel letto accanto.
“Che
stai facendo?”
Impegnato a digitare
freneticamente, Orange non rispose.
Passarono un paio di minuti, poi
Clem riprovò: “Certo che sei proprio di compagnia, eh?”
Silenzio.
“Quando
non ce n’era bisogno, c’era la fiera delle cazzate, non stavi
zitto un attimo. Adesso che potresti alleviare la lunga e noiosa
degenza del tuo commilitone, non mi guardi neanche. Bell’amico che
sei.”
Finalmente l’altro posò il
tablet, si voltò verso di lui, e in tono premuroso chiese: “Scusa,
stavi parlando?”
“Cazzo,
Orange, tu devi solo ringraziare che non posso alzarmi.”
“Ero
distratto,” fu la candida risposta.
Di nuovo calò il silenzio. Clem
prelevò una rivista di armi dal cassetto del comodino, la sfogliò
lentamente e fece un’orecchia in un paio di pagine, poi la lasciò
cadere sulla coperta e disse: “Sai che ti ho salvato il culo,
Orange? Avevi un buco nella schiena che a momenti ci si vedeva
attraverso.”
L’altro si voltò a fissarlo,
con l’aria di non capire come mai stesse tirando fuori l’argomento.
Clem sorrise astuto e gli chiese:
“Che ne dici, me la merito un po’ di gratitudine?”
Ancora vagamente incerto, l’altro
aggrottò le sopracciglia, poi rispose: “Beh, sì. Certo che sì.”
Il primo annuì soddisfatto.
“Allora potresti finalmente dirmi perché ti chiamano Agent Orange,
mi sembra un prezzo equo.”
Contrariamente a quanto si
aspettava, Vaughan non negò e non cercò di fregarlo con una delle
sue solite paraculate. Fece un tentativo di alzare le spalle con fare
noncurante, cosa che gli strappò una smorfia di dolore, poi lo
avvertì: “Rimarrai delusissimo.”
“Correrò
il rischio.”
Passò un altro lungo silenzio,
come se Orange non riuscisse a decidersi a parlare. Infine si schiarì
la gola e gli chiese: “Conosci il cocktail Agent Orange?”
“Mai
sentito.” Poi, dopo una pausa: “Ti chiamano così perché hai
inventato quel cocktail?”
L’altro scosse la testa. “No,
che schifo. L’Agent Orange è una parte di vodka e due di succo di
carota, servito in un tumbler alto con ghiaccio.”
Clem aggrottò le sopracciglia,
poi solennemente proferì: “È la cosa più disgustosa che abbia
mai sentito.”
L’altro annuì. “Sono
d’accordo. Penso che anche bere il vero Agent Orange farebbe meno
schifo”
“E
allora…?”
“Eravamo
in libera uscita, e non avevamo altro che vodka e succo di carota.
Non ci andava di bere la vodka liscia, per cui...” Ci fu un lungo
silenzio, poi Vaughan in tono cupo disse: “La sbronza peggiore
della mia vita. Quando sono tornato in grado di capire, avevo un
tatuaggio sul culo, delle calze da donna come unico indumento, un
pitone al collo ed ero in un ascensore di Las Vegas.” Altra pausa.
“Solo che avevo cominciato a bere a Parris Island.”
Clem annuì grave. “Capisco.”
“E
da allora, sono rimasto noto come Agent Orange.”
“Sono
esperienze che segnano.”
Passò un altro lungo silenzio,
rotto solo dal lieve brusio di un televisore nella guardiola degli
infermieri, poi Vaughan chiese: “E tu?”
“Io,
cosa?”
“Io
ti ho detto il mio segreto, ora tocca a te dirmi il tuo.”
Clem alzò le spalle. “Niente
di che, in realtà. Non volevo più avere fra i piedi una certa
persona, così sono venuto qui.”
Orange lo fissò scuotendo la
testa. “Ma cambiare casa, no?”
“Mi
sarebbe venuta dietro.” Fece un sorrisetto compiaciuto, poi
soggiunse: “Voglio proprio vederla, a seguirmi qui.”
Mentre stavano parlando, entrò
un soldato che teneva in mano un pacco postale. “Chi è Andrej
Vaughan?” chiese.
Orange sollevò una mano. “Io.”
“Un
pacco per te.”
Gli fece firmate la ricevuta, gli
consegnò l’involto e uscì.
Clem lo fissò incuriosito:
sembrava qualcosa di morbido. “Hai comprato dei vestiti?” gli
chiese.
“Ho
fatto acquisti su eBay.” Strappò la busta e ne estrasse un involto
più piccolo di carta velina bianca.
“Cos’hai
comprato?”
L’altro estrasse l’acquisto:
un velo di seta nera, con dei disegni viola intenso. “Ho visto che
lo vendevano proprio uguale,” disse compiaciuto.
Per un bel po’, Clem rimase
semplicemente a fissarlo incapace di proferire parola, infine chiese:
“Bastava comprarlo su eBay?”
“Beh,
sì. Ne vendono un sacco.”
“E
allora, per quale cazzo di motivo noi siamo andati nel negozio di
quel fotticapre bastardo, se in ogni momento avresti potuto comprare
il fazzoletto per tua nonna su eBay?”
Serafico, Orange rispose: “Volevo
fare un acquisto etnico.”
L’unica cosa che lo salvò, fu
probabilmente che Boyle non riusciva ancora a muoversi a causa della
ferita alla gamba. Questi però in tono sinistro promise: “Giuro
che appena riesco ad alzarmi ti ci annego, in quel cazzo di cocktail
con la carota.”
Orange, che nel frattempo si era
messo in testa il velo, si girò verso di lui e gli chiese: “Che te
ne pare?” Se lo allacciò sotto la gola.
“Mi
pare che potrei ucciderti, per una cosa del genere.”
“Oh,
dai. In fondo abbiamo anche reso un servizio allo Zio Sam, non ci
possiamo lamentare. Canta con me: In
every life we have some trouble, when you worry you make it bouble.
Don’t worry, be happy...”
“Orange,
ti voglio veder annegare in quel cocktail di merda a base di carote!”
“Don’t
worry, be happy...”
“Cazzo!”
sbraitò Clement, con un soprammobile da lancio già saldamente in
mano, ma di fronte al compagno che cantava Bob Marley con il
fazzoletto da nonna russa in testa, nemmeno lui riuscì a rimanere
arrabbiato.
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