Era
nato in una tiepida mattina di marzo. Un figlio voluto, in special
modo da sua madre: una giovane intelligente, bella e ambiziosa che
aveva conquistato il posto accanto all'erede dei Luthor. Si diceva
che nonostante Lillian non fosse nata in una famiglia ricca, avesse
l'aristocrazia nell'animo e che fosse stata una di queste cose a
toccare il cuore di Lionel Luthor ai tempi. Si somigliavano, andavano
d'accordo, e che ci fosse amore o meno, come dicevano le malelingue,
i due erano stati destinati. Così com'era destinato a una
vita di
successi il loro bimbo, che avevano chiamato Alexander.
Lex
Luthor era un bambino attento, silenzioso e timido. Prima di
frequentare una scuola privata sapeva già parlare tre
lingue,
risolvere espressioni matematiche da liceo e suonare due
strumenti. I suoi genitori lo avevano preparato a tutto, aveva avuto
gli insegnanti privati migliori che lo avevano seguito passo per
passo per essere il migliore, e lo era, ma se c'era una cosa per cui
non era stato preparato, quello erano i rapporti sociali. Era entrato
a scuola con l'unico scopo di spiccare, ma il suo diventare il
migliore della classe e il ragazzino più lodato degli
insegnanti lo
aveva reso anche il più odiato della scuola. La sua era una
scuola
prestigiosa, non esistevano piantagrane e ognuno di quei ragazzi
voleva emergere, Lex Luthor aveva sbaragliato la concorrenza e lo
avevano preso di mira per questo. Aveva passato il primo anno di
medie a mangiare da solo in un angolo, a doversi aspettare qualche
colpo da chi gli passava vicino, di essere scambiato per la porta
quando giocavano a pallone, perfino dai suoi stessi compagni di
squadra, e di essere picchiato alla fine delle lezioni. Tutti lo
conoscevano, tutti parlavano di lui, tutti lo odiavano;
perché se
non lo odiavano, allora finivano per essere emarginati anche loro.
«Cos'hai
lì?», gli aveva chiesto suo padre un giorno.
L'autista era andato a
prenderlo a scuola e una volta in villa lo aveva guardato un solo
attimo, ma quel solo attimo era stato sufficiente. Si era avvicinato
e gli aveva toccato il viso tastando appena, come avrebbe fatto con
qualcosa di troppo fragile, l'occhio destro tumefatto.
Li
aveva sentiti parlare di quello, la sera a seguire, quando pensavano
che ormai dormisse da un pezzo. Sua madre aveva singhiozzato come non
l'aveva mai sentita, come non pensava neppure ne fosse capace. Poi
l'aveva sentita starnazzare parole d'odio, come invece sapeva che
riusciva a fare benissimo.
«Voglio
andare a parlare con la scuola, ci siamo capiti? Non si devono
nemmeno lontanamente permettere di toccarlo. Incivili piccoli
bastardi. Non sanno contro chi si sono messi».
Suo
padre non era sembrato della stessa opinione. «Siamo stati
ragazzi
anche noi, Lillian, te lo ricorderai. Se andiamo a parlare con la
scuola, sarà preso ancora più di mira».
«È
un bambino, Lionel. Tu lo vedi come un ragazzo, ma ha appena compiuto
undici anni. È timido, non sa socializzare. Se
vedrà che i suoi
genitori sono dalla sua parte, magari…».
«Non
sa socializzare perché ha passato i suoi undici anni a casa
invece
di frequentare la scuola con i coetanei fin da bambino. Ma tu eri
contraria».
«Non
osare dare a me la colpa di quanto sta succedendo! Lex ha ricevuto la
migliore istruzione proprio perché non doveva dipendere da
un
istituto che lo avrebbe distratto con giochi da bambini. E tu non hai
obiettato, mi pare. Certo, se fossi stato più presente
durante
questi anni invece di andarti a divertire altrove, e ti saresti preso
cura di nostro figlio…».
«Ci
sono sempre stato per nostro figlio». Suo padre aveva
lasciato la
stanza e sceso le scale per il salone con passo svelto, chiudendo
lì
la discussione. Si stavano separando, allora ne era già
certo.
L'accusa di sua madre era fondata: Lionel Luthor era ancora
più
assente e aveva iniziato a trattarlo da adulto dai nove anni; e i
giochi con lui erano spariti, erano sparite le favole, erano sparite
le colazioni a base di pancake cucinati da lui. Era quasi sparito lui
dalla sua vita.
La
mattina seguente a quella discussione, l'uomo lo aveva preso da parte
prima che l'autista lo avrebbe accompagnato a scuola, decidendo di
dire al figlio qualcosa che, da lì in avanti, lo avrebbe
accompagnato durante la sua vita.
«Non
puoi farti mettere i piedi in testa. Reagisci ora o continueranno a
farlo per tutta la tua vita. Non gli stessi ragazzi, ma gli stessi
sentimenti, gli stessi motivi. Sapranno che con te potranno
prendersela sempre, come se potessero annusare la tua paura. Ti
perseguiteranno».
«Ma
loro sono più grossi di me».
«Saranno
sempre più grossi, Lex», gli aveva stretto le
spalle piccole e
gracili. «Ma tu sei un Luthor, sei intelligente e capace. Se
non
puoi batterli in un modo, trova un altro per farlo. Trova il tuo
modo».
Spinto
da quelle parole aveva provato a reagire, sferrando un pugno. Dopo
avevano dovuto portarlo in infermeria e chiamare la sua famiglia,
perché lo avevano picchiato più forte. Suo padre
non lo aveva
neppure guardato al rientro, mentre l'autista li riportava a casa.
Era rimasto così deluso.
Alla
fine dell'anno scolastico si era sentito sollevato e pronto per
ricominciare. Nuovo anno, nuove conoscenze. Si sbagliava: i primi
mesi erano la calma che precedeva la tempesta, capendo quanto mai
prima che ciò che gli aveva detto suo padre era vero e che
ci
sarebbe sempre stato qualcuno pronto ad assoggettarlo. Quei colpi e
quelle offese lo stavano lentamente distruggendo. Si sentiva debole,
non voleva più andare a scuola e si sforzava di farlo solo
per non
deludere ulteriormente suo padre perché, anche se lo sentiva
distante, Lex non aveva mai smesso di cercare la sua approvazione. Si
sentiva solo, e vuoto.
Finché
una mattina qualcosa gli frullò per la testa. Doveva
comprare un
nuovo spartito per il piano, così aveva portato a scuola i
soldi da
casa e, dopo aver visto un bulletto prendere i soldi da un altro
bambino, una scintilla era passata per la sua testolina: invece di
dare i soldi ai bulli che lo tormentavano, avrebbe pagato uno di loro
per essere protetto. A cosa serviva sapersi difendere se qualcuno
avrebbe incassato i colpi al posto suo, seppure per soldi? Luis era
un ragazzino di prima media ma grosso almeno due volte lui. Quelli
del suo anno gli stavano ben alla larga: era bastato fargli fiutare
l'offerta di essere pagato un tanto al giorno per metterlo dalla sua
parte. Il tanto al giorno era diventato un tanto alla settimana, poi
al mese; Luis era stato il primo, e poi altri si erano uniti a lui.
Sua madre si era arrabbiata perché comprava meno spartiti di
quanti
ne comperasse prima, ma non gli importava: finalmente riusciva ad
andare a scuola sereno. I bulli che lo tormentavano a scuola erano
spariti, diventati agnellini pronti al macello. Durante la seconda
media, Lex Luthor era diventato il capo. Eppure, se pensava, o almeno
all'inizio, che diventare il boss della scuola avrebbe risolto tutto,
avrebbe presto scoperto che si sbagliava. Quando i bambini della
scuola diedero una festa, scoprì solo il giorno dopo di non
essere
stato invitato.
Ora
era temuto, forse era il più ricco, e non era di certo
più una
vittima, ma era rimasto solo.
«Non
la voglio qui!», sua madre aveva gridato dalla loro camera da
letto.
Lex
aveva da poco compiuto tredici anni e, come al solito, si ritrovava
ad ascoltare le conversazioni private che non erano affatto private
di sua madre e suo padre. Stavolta aveva centrato il tema del
discorso prima ancora di sentirli iniziare a parlare: l'amante di suo
padre era scomparsa tragicamente e lui era rimasto l'unico tutore in
vita della figlia che aveva avuto con quella donna. Suo padre voleva
portarla a casa, ma Lex sapeva che non sarebbe mai successo
poiché
sua madre era contraria e, se sua madre era contraria, allora non se
ne faceva niente come al solito.
«Non
capisci che andrà a finire in un istituto se non la portiamo
qui?».
«Cosa
vuoi che me importi? Dimmelo, Lionel. Non capisco perché
dovrebbe
interessarmi. L'hai avuta con la tua amante: è morta? Sua
figlia non
è un mio problema».
La
faceva facile, aveva pensato il ragazzino. Lex aveva poi scrollato le
spalle e si era coperto meglio col lenzuolo, cercando di trovare di
nuovo concentrazione per leggere una
seconda volta
L'isola
del Tesoro,
che si stava portando dietro da troppi giorni, ormai.
«È
una Luthor, Lillian».
A
quelle parole era seguito uno strano silenzio e Lex aveva di nuovo
sollevato gli occhi dal libro per ascoltare meglio ciò che
succedeva
al di là del muro. La loro famiglia aveva sempre dato molta
importanza al loro nome: il suo nonno paterno, scomparso quando lui
aveva nove anni, era solito prenderlo da una parte e raccontargli di
quanto contassero per la storia di National City, che doveva essere
orgoglioso di essere uno di loro e che un giorno avrebbe dato il suo
nome ai figli. Così importanti che con la lettera del
cognome,
dovevano portare anche quella del nome: per questo motivo lui era
stato cresciuto come Lex, invece di Alexander. Se suo padre voleva
mettere in crisi Lillian con i suoi principi, quello era il modo
giusto.
«È
una bastarda».
«È
mia figlia», aveva ribattuto lui.
«Va
bene! Va bene!», l'aveva sentita urlare e se l'era immaginata
alzando le braccia con fare nervoso. «Portala qui.
È una Luthor.
Quella bambina troverà in me una madre, ma non pensare che
andrà
bene così: avrà in me una madre, ma io non
avrò mai in lei una
figlia».
Suo
padre era uscito dalla stanza poco più tardi e, avvicinando
l'orecchio alla parete, Lex aveva sentito sua madre piangere. A volte
aveva davvero odiato suo padre. Per quanto sua madre fosse una donna
con un carattere difficile, Lex non aveva mai accettato il fatto che
suo padre l'avesse tradita ed era certo che se anche a lei fingesse
di andar bene, in realtà non le andava bene per niente. Era
normale
che si arrabbiasse ed era normale non volere quella bambina. Una
sorella? Davvero suo padre avrebbe portato una bambina a casa sua che
avrebbe dovuto trattare da sorella? Non era pronto, in special modo
perché lei era il frutto di ciò che aveva
rovinato il rapporto dei
suoi genitori e aveva già deciso che l'avrebbe odiata. Non
sarebbe
stato difficile. Avrebbe fatto rimpiangere a quella bambina il fatto
di non aver desiderato di andare in un istituto. Non avrebbe
condiviso con lei tutto ciò che aveva. Per niente al mondo
lo
avrebbe fatto.
Così,
quando si era ritrovato faccia a faccia con lei pochi pomeriggi
più
tardi, Lex aveva faticato a salutarla. Era piccola, con un nastrino
giallo tra i capelli e indosso un vestitino scialbo, non sembrava una
Luthor. Anche se si chiamava Lena.
«Falle
fare un giro della casa, Lex», gli aveva ordinato suo padre.
Lui
era rimasto dapprima immobile, a guardarla, poi le aveva chiesto di
seguirlo. Fermandosi al piano di sopra, per un attimo pensò
di
buttarla per le scale. Sarebbe stato facile, un incidente poteva
capitare, non avrebbero dato la colpa a lui, o se non altro sua madre
lo avrebbe protetto. Però, un gesto cambiò tutto:
Lena si era
voltata, aveva cercato la sua mano e, dopo averla stretta, aveva
sceso le scale con lui mano nella mano. Lex non ce l'aveva fatta, si
era arreso subito: non a gettarla dalle scale, ma ad odiarla. Era
stato attento che non mettesse male un piede, che si tenesse, e
l'aveva portata giù sana e salva. Lei lo aveva chiamato fratello
quando l'aveva portata fuori, dopo che Lillian li aveva guardati di
malo modo, come se si aspettasse che in fondo un incidente capitasse
davvero.
Lillian
Luthor odiava Lena, Lex lo sapeva. Era riuscita in ciò che
lui non
aveva avuto successo. Tuttavia, crescendo, Lex si era anche reso
conto che sua madre in uno dei suoi propositi aveva fallito: aveva
giurato a se stessa che non avrebbe trovato in Lena una figlia, ma
era successo senza che se ne rendesse conto.
Lena
aveva seguito gli stessi piani scolastici che aveva seguito Lex e
ancor prima di compiere cinque anni aveva imparato a scrivere e
leggere e a suonare uno strumento. Solo che, a differenza del
maggiore, suo padre aveva deciso che avrebbe frequentato le scuole
elementari e Lillian non aveva avuto da replicare. La bambina aveva
seguito una rigida serie di regole ed era stata richiamata la tata
che se n'era andata ai dodici anni di Lex. Se non fosse stato per
lui, era convinto che Lena sarebbe morta di noia prima di avere
l'età
per entrare a scuola.
Eppure,
per quanto le volesse bene, non riusciva a non essere geloso di lei.
Vedere suo padre che ancora le raccontava la favola della buonanotte,
che la portava con lui fuori quando doveva spostarsi per lavoro, che
le faceva dei regali, che al mattino le preparava i pancake lo
mettevano di cattivo umore. Voleva odiarla e non ci riusciva. Era una
delle tante cose che non gli riuscivano.
Lui
canticchiava e lei aspettava col piattino davanti al bancone che la
colazione fosse pronta. Erano insopportabili.
«Ecco
a te, tesoro», le aveva detto una mattina.
«Aspetta, aspetta: le
fragole! Eccole».
Lei
aveva iniziato a mangiare e suo padre aveva alzato lo sguardo e lo
aveva visto lì, impalato che li guardava. Forse doveva
avergli fatto
pena, aveva pensato, come un cucciolo abbandonato.
«Lex,
ne vuoi?».
Allora
sapeva che doveva rifiutare e fingersi superiore, ma…
«Sì». Gli
aveva sistemato un piatto accanto a quello di Lena e poi messo su un
pancake anche per lui. Così erano ricominciate le loro
colazioni,
con sua madre in sottofondo che sgridava il marito che la colazione
poteva prepararla Marielle.
Lena
era stata un'amica ancor prima che una sorella, per Lex. Era l'unica
che non lo reputava uno scemotto, né un bambino ricco a cui
sottrar
qualche soldo, né un vittima da prendere a pugni, oppure un
pericoloso piccolo capo dei bulli della scuola. Era solo Lex. Eppure
si vergognava che l'unica persona che riusciva ad entrare nel suo
cuore era una bambina di cinque anni.
Si
iscrisse sotto consiglio di un suo insegnante in una scuola di judo
in modo che non si fosse sentito più insicuro, frequentando
le
lezioni in concomitanza a quelle extra di piano, che lo odiava ma sua
madre non gli avrebbe mai permesso di mollare, e i tornei di scacchi.
Lui amava gli scacchi e aveva insegnato a sua sorella a giocare; era
rimasto subito così fiero di lei.
«Va
bene. Adesso tocca a te». Lena lo aveva guardato e poi
guardato la
scacchiera, mordendosi il labbro inferiore. Poi aveva alzato una
manina per muovere una pedina e lui l'aveva rimbrottata subito:
«No,
no, non puoi! Te l'ho detto che non puo-», si era bloccato,
lasciandola fare e osservandola. Accidenti, era stata…
«Bravissima», aveva raccontato a sua madre,
«Eccezionale! Non ha
solo imparato a giocare, mi ha battuto per la prima volta; è
veramente eccezionale per una bambina così piccola, deve
poter
giocare anche lei ai tornei».
«No».
«No?
Perché non-».
«Perché
è piccola, e avrà avuto fortuna. E ora smettila
di strillare come
un matto, Lex, ne riparleremo quando sarà più
grande».
Oh,
non aveva atteso che fosse più grande: fortunatamente,
quando si
trattava di Lena suo padre era sempre pronto ad ascoltare e grazie al
lui la iscrisse al suo primo torneo per i bimbi delle scuole
elementari. Era arrivata terza, ma era la bambina più
piccola a
partecipare e, l'anno dopo, aveva vinto il suo primo torneo.
«Perché
non porti mai un amico a casa?», gli aveva chiesto Lena una
notte,
intrufolata in camera di Lex com'era solita fare, mentre i loro
genitori erano convinti dormissero entrambi. Erano seduti a terra su
un tappeto, giocando con qualche peluche a forma di animali.
Lui
aveva abbassato i peluche e l'aveva guardata accigliandosi un po',
come ferito da quell'insolita domanda. «Non ti basto
più?».
«Ovvio
che sì», per poco non gridava e lui le aveva
tappato la bocca,
facendole cenno di fare silenzio. «Ma giochi solo con me e io
a
scuola gioco con molte bambine. Anche alle lezioni di piano».
«Non
mi piacciono le lezioni di piano».
«Non
è vero».
«Sì
che è vero».
«Non
è vero».
«Sì
che è vero! Shh»,
l'aveva sgridata, tappandole di nuovo la bocca. «Non mi
piacciono le
lezioni di piano», aveva ribadito.
«Allora
perché ci vai?».
«Perché
come nostra madre ti costringe a stare seduta a tavola
finché tutti
non hanno finito di mangiare, costringe me ad andarci. Lascia
perdere». Si era intristito, forse troppo.
«Okay…»,
anche lei aveva abbassato i peluche che aveva in mano, guardandone
uno con distrazione. «E non hai un amichetto?».
«No»,
aveva sbottato e poi lanciato una mucca peluche dall'altra parte
della stanza. «Lascia perdere». L'aveva guardata e,
capendo che si
stava intristendo anche lei, aveva provato a cambiare strategia:
«Mi
basti tu».
Lena
aveva subito riso. «Non è vero».
«Sì
che è vero», l'aveva buttata a terra per farle il
solletico.
Non
era vero. Non le bastava affatto, ma voleva convincersi che fosse
così. Al suo quindicesimo compleanno provò lui a
dare una festa, in
modo da non essere escluso, e a dispetto della paura che lo
tormentava erano venuti in molti, ma nessuno aveva festeggiato con
lui e si erano solo goduti la festa, i gonfiabili in giardino, il
clown, lo spettacolo teatrale che aveva ingaggiato sua madre,
rendendosi conto che aveva di nuovo fallito. Era stata Lena, come
avesse capito che la festa non aveva funzionato, ad andare da lui,
trovandolo dietro la porta del bagno e così sedendosi
vicino.
«Tu
sei la mia anima gemella, lo sai?».
«Che
cosa vuol dire?».
«Che
non mi serve nessun altro, se ci sei tu accanto a me».
«Va
bene», aveva risposto la bambina, quasi seienne.
E,
così, la sola amicizia con sua sorella se l'aveva fatta
bastare, se
non altro fino ai diciassette anni. Era un ragazzetto alto, con i
capelli che tornavano sempre sugli occhi e qualche ricciolo, due
brufoli appena pronunciati, curato e dalla pelle lucida. Aveva una
cotta per una sua compagna di classe come tanti giovani della sua
età
e, come tanti giovani della sua età, anche lui non riusciva
a fare
colpo. Per via della fama trascinata fin dalla scuola media e da
quella che lo precedeva che riguarda i suoi genitori, nessuna
ragazzina voleva uscire con lui per paura e nessun ragazzino voleva
essergli amico. Sua madre una volta aveva detto che quando i bulli lo
tormentavano, non sapevano contro chi si erano messi: ora che erano
più grandi, però, il guaio era che lo sapevano.
«Scusami,
ma mia madre ha detto che non posso parlare con te».
«Scusa,
ti ho spinto? Mi dispiace, mi dispiace davvero, non volevo, puoi
perdonarmi?».
«Tu
sei Lex, giusto? I miei non vogliono che parli con te».
«Sei
Lex? Mi dispiace, ma non ho il permesso di frequentarti».
«Sei
quello
lì?
Il Luthor? Tua madre ha fatto licenziare mio padre, stammi alla
larga».
«Lex
Luthor? Emh, scusami, mi hanno chiamata».
«Scusa…
Lex, vero? Ho da fare, adesso. Ci vediamo… o
forse no»,
aveva detto poi, bisbigliando.
Lex
era diventato inavvicinabile.
Naturalmente
aveva provato a parlarne con sua madre quando lei aveva intuito il
suo cattivo umore una volta a casa dal liceo, e aveva presto capito
di aver fatto un terribile errore a confidarsi con lei.
«Ti
stai lamentando perché non riesci a farti degli amici?
Andiamo, Lex,
credevo che non ti interessassero cose come
queste…».
«Certo
che mi interessano», lui aveva aggrottato le sopracciglia,
«Sono
l'unico a non avere nessuno».
«Hai
noi. Non era abbastanza logico? Hai perfino Lena… come
farete ad andare d'accordo non ne ho idea»,
aveva aggiunto a bassa voce, riprendendo a leggere la sua rivista.
«Non
basta».
«Ah,
e così non basta?».
«No!
Voglio qualcuno della mia età, non capisci, qualcuno con cui
uscire
e divertirmi, e giocare, e fare tutte le cose che fanno i ragazzi
normali».
Lei
lo aveva guardato accigliandosi sempre di più, posando la
rivista
sul tavolino del soggiorno. «Mi pare di capire che
l'adolescenza
parli per te, Lex: tu non sei un ragazzo normale, è chiaro
questo?
Perché mai vorresti esserlo? Vuoi uscire e drogarti come
tutti
quelli della tua età? Accomodati. Tuo padre ed io non ti
impediremo
di comportarti come ritieni più adatto, poiché
sappiamo che sei
abbastanza intelligente da sapere cosa è meglio per te, ma
se vuoi
fare il selvaggio, aspettati qualcosa di contro», si era
alzata dal
divano e avvicinata a lui. «Ne subirai le conseguenze
com'è giusto
che sia. Se mai dovessi perdere di vista l'obiettivo dello studio per
queste sciocchezze, lo capirai», gli aveva poggiato una mano
su una
spalla e guardato negli occhi vitrei. «Ti ritieni
insoddisfatto
perché non hai amici? Pensa a quando sarete adulti, quando i
tuoi
coetanei dovranno faticare per trovare un posto e tu avrai la Luthor
Corp pronta per te. Pensaci».
Lui
si era scrollato e lei aveva ingigantito gli occhi. «Non la
voglio
la Luthor Corp! È colpa di ciò che siamo, come
Luthor, se non
riesco a piacere a nessuno».
Lex
non se lo aspettava. Era il primo e unico schiaffo che gli diede sua
madre da sempre. Improvviso, veloce, rumoroso e forte; tanto da far
spaventare perfino lei, quasi sul punto di chiedergli scusa per poi
ripensarci. Lex se n'era andato perché odiava piangere in
pubblico,
proprio come lei.
E
così era lo studio l'unica cosa a cui doveva pensare? E lo
studio
sarebbe stato. Aveva ripreso in mano vecchi progetti a cui stava
lavorando l'estate prima per passare il tempo libero ed era andato
alla Luthor Corp. Si era diretto ad uno dei laboratori, pensava fosse
vuoto, ma poco prima di aprire la porta aveva sentito la voce di suo
padre e si era affacciato alla finestrella, scorgendo lui in
compagnia di quel suo collega. Lex non riusciva a fare a meno di
essere geloso anche di quel giovane uomo, perché perfino lui
riusciva ad ottenere le sue attenzioni: c'era per Lena, c'era per sua
moglie e c'era per il suo lavoro. Lex aveva sbuffato e se n'era
andato, provando con un altro laboratorio. Mesi di lavoro e infine le
sue pillole verdi avevano acquistato anche un buon sapore: usando una
parte della droga che girava in quel periodo, la vertigo, la stessa
che tanto sua madre citava, combinata con lo studio, ciò che
per lei
era l'unica cosa che contava. Sarebbe stato il suo progetto della
vita, pensava, perché avrebbe sempre dovuto mettere cervello
e mani
per migliorare la formula.
«Sai,
io non mi arrabbierei più di tanto se non hai
amici», aveva
esclamato Lena un pomeriggio, poco prima che lui si dirigesse alla
Luthor Corp per lavorare alla formula.
«Ah,
no? E perché mai?». Era facile per lei, pensava,
quando la bambina
riusciva ad avere un sacco di amichette con cui parlare a scuola,
alle lezioni di piano e anche nei tornei di scacchi.
«Sono
adolescenti, Lex: gli adolescenti non sono maturi sufficientemente e
si lasciano condizionare».
Lui
aveva sorriso ma, subito dopo, scosso la testa. «Devi sapere
una
cosa, Lena: la maturità non ha a che fare con
l'età. Una volta si
cresceva prima, giusto? Allora l'ago della maturità pendeva
da
un'altra parte. In linea generale, la maturità resta un
percorso
privato. A volte non si è mai abbastanza grandi per essere
maturi.
Pensaci».
«Mmh…»,
lei aveva stretto gli occhi e passato due dita sul mento. «Va
bene,
hai ragione».
«Ma
certo che ho ragione», le aveva passato una mano sulla testa,
prima
di uscire.
Le
sue pillole diventarono famose proprio nel corso del suo ultimo anno
di liceo. Martin era un ragazzetto nuovo nell'istituto, nuovo in
città, così tanto che dei Luthor non sapeva
niente, se non di
averli già sentiti nominare. Lex era stato incaricato di
fargli fare
il giro della scuola e così, quando lo vide ingerire la
pillola poco
prima del suono della campanella, ne era rimasto affascinato:
«Amico,
cerchi di sballarti prima di lezione? Sei completamente
fuori».
«Trattieni
i tuoi entusiasmi, amico»,
gli rispose cauto, eccitato di aver potuto usare quella parola.
«Questa non serve per sballarsi, ma per aumentare la
concentrazione.
Aiuta lo studio».
«E
funziona?».
Lex
si era sentito gonfiare il petto, orgoglioso di poter dire che era
ovvio che funzionasse avendole create lui stesso.
«Amico,
sai cosa si dice dalle mie parti? Se sei bravo a fare qualcosa,
allora fatti pagare. Io ne compro subito, così mia madre la
smetterà
di darmi dello scansafatiche. E in più mi
sembrerà di sballarmi».
L'idea
di Martin gli era sembrata piuttosto sciocca, ma quando veramente si
era deciso di ordinargliene un sacchetto, tutto prese il via. Si era
sparsa la voce appena Martin aveva migliorato davvero i suoi voti e
molti altri avevano ordinato le pillole verdi per sapere se realmente
funzionavano. Lex Luthor si era adagiato sugli allori: i ragazzi e le
ragazze, ora, andavano da lui, senza dover rincorrere nessuno. Aveva
messo mano alla formula più volte nello stesso periodo;
aveva
cercato di migliorarla quando qualcuno aveva lamentato mal di testa e
aveva preso in prestito ingredienti base di altre droghe sintetiche,
lasciando sempre più la presa sulla vertigo. Finito il liceo
aveva
già cambiato la formula quattordici volte ed eliminato il
fastidioso
effetto dipendenza.
Aveva
clienti, il numero delle sue vendite salivano e il suo nome non
faceva più paura da quando veniva associato alle sue
pillole.
«Devi
uscire anche oggi?». Lena lo aveva guardato con rimprovero;
ormai
passava sempre meno tempo con lei. «Ho un torneo di scacchi,
oggi.
Non puoi mancare, lo sai». La bambina gli si era attaccata a
un
braccio e Lex aveva preso un grosso boccone d'aria, per poi
inchinarsi e sistemarle i capelli dietro le orecchie.
«Tornerò
in tempo per il torneo, vedrai. Quando sarai lì e ti girerai
intorno, mi vedrai già seduto sugli spalti perché
non posso
perdermi nemmeno una tua partita. Te lo prometto».
Lei
lo aveva guardato storcendo un labbro, per poi annuire. «Mmh,
va
bene».
Tuttavia,
era rimasto per la prima volta a chiacchierare con alcuni nuovi
clienti che avrebbero frequentato la sua stessa università e
si era
sentito così bene, così parte di qualcosa, che
aveva finito, per un
po', per dimenticarsi di lei. Aveva guardato l'orologio e si era
sentito in colpa, il suo sguardo si era impallidito tanto che gli
avevano chiesto se avesse perso un appuntamento. «No, no.
Dovrei
andare a un torneo di scacchi della mia sorellina. Ha dieci anni e
conta su di me».
Uno
di loro aveva subito riso. «Anche io ho una sorellina. Sta
sempre
appiccicata, una seccatura».
Lui
aveva ridacchiato meno convinto. «Già. Anche
lei».
Tornato
a casa, Lena non lo aveva neppure guardato. In quel periodo i loro
genitori erano più su di giri del solito e badavano a loro
raramente, tanto che a sostenerla per il torneo era rimasto solo
l'autista.
«Paul
mi ha fatto i complimenti», aveva sbottato, salendo le scale
davanti
al fratello. «Paul»,
aveva rimarcato, «L'autista. Sono arrivata seconda
perché tu non
c'eri».
«Sei
arrivata seconda perché sei bravissima e il vincitore
avrà avuto
fortuna».
«Non
ha avuto fortuna: era bravissimo e tu non facevi il tifo. Contavo su
di te», aveva le lacrime agli occhi, davanti alla porta di
camera
sua.
«Lena,
mi dispiace… Non mancherò più,
davvero, lo prometto».
«Mi
avevi già promesso che ci saresti stato oggi».
Aveva chiuso la
porta e lui aveva sbuffato, prendendo passo per andare nella sua
stanza. Si era sentito in colpa, ma al diavolo, era sempre stato con
lei, ora che finalmente aveva qualcun altro con cui parlare…
Lei
non avrebbe capito, era ancora una bambina, ma lui aveva bisogno di
respirare aria pulita. La loro differenza d'età non si era
mai fatta
pesare così tanto come in quel momento.
Passavano
gli anni e i clienti, aumentati a macchia d'olio tra alcune
università e due licei, erano diventati l'unica
soddisfazione di Lex
Luthor. Certo, le pillole gli avevano conferito un'innegabile
popolarità e le ragazze che facevano le carine con lui, che
volevano
sedersi nel trono al suo fianco, erano diventate parecchie, ma anche
se con alcune di loro era riuscito ad avere contatti e rapporti,
nessuna lo aveva mai veramente toccato al cuore. Sapeva che i suoi
genitori avevano litigato con alcuni vecchi colleghi d'affari e
avevano perso ingenti sbocchi di denaro in poco tempo, così,
colto
da un'insolita fretta, Lionel aveva deciso di iniziare il suo
primogenito al lavoro alla Luthor Corp di Metropolis, approfittando
del fatto che stesse per finire gli studi. Lex non era tanto
distratto come forse credevano i suoi genitori e sapeva benissimo che
erano in affari criminali per anni e che, improvvisamente, avevano
tagliato i contatti. Non sapeva con chi di preciso e certamente
cos'era successo, ma conosceva bene le voci che correvano su di loro
a National City, e in special modo gliene parlavano i suoi clienti
che, da un po' di tempo a quella parte, aveva iniziato a definire
amici. Andando a Metropolis per la Luthor Corp, Lex aveva espanso il
suo territorio e iniziato a vedere anche lì le sue pillole,
seppure
per una sola università. Aveva cambiato la formula tante
volte in
poco tempo dopo che alcuni studenti avevano cominciato a sentirsi
male, cercando di individuare il problema. Lena si era offerta di
aiutarlo, ma lui le aveva espressamente detto che avrebbe risolto il
problema con le sue sole forze. Non riusciva ad ammettere, in
realtà,
che lo stress lo stava mangiando dentro. Gli studenti che lamentavano
di stare male dopo aver ingurgitato le sue pillole stavano diventando
sempre più numerosi, alcuni clienti si erano rifiutati di
pagarlo ed
altri lo avevano insultato dicendo che come Luthor non avrebbero
dovuto fidarsi di lui, che era come la sua famiglia.
«Amici?
Non siamo mai stati amici, Luthor: prendevo solo le tue pillole, ma
adesso che molta gente sta male penso che mi tirerò
indietro. È
tutto qui».
«Non
sono mai stato tuo amico, al massimo cliente, e adesso ho deciso di
smettere».
«Lasciami
in pace, Luthor. Tu e la tua famiglia puzzate di marcio».
Le
parole delle ultime porte in faccia gli erano rimbombate in testa
giorno e notte, mentre lavorava alla formula e mentre tentava di
lavorare alla Luthor Corp a fianco a suo padre. Finalmente stava
passando del tempo con lui e non riusciva a concentrarsi come avrebbe
voluto, continuava a sbagliare e a essere distratto, non riuscendo a
fare altro che deluderlo. A deluderlo ancora proprio come da bambino.
In più, sentiva sua sorella distante come mai prima. Aveva
quattordici anni e non aveva quasi più tempo per lui, tra
studi e
amiche. Lei le aveva.
Lex
si sentiva di nuovo solo, di nuovo incapace, inadeguato a tutto,
anche di riuscire nelle cose più semplici. Aveva iniziato a
soffrire
di attacchi di panico e per questo, ogni mattina prima di dirigersi a
lavoro, si faceva fermare dall'autista in un bar, in modo che potesse
sciogliere la tensione. Era stanco, davvero. Si sedeva lì
davanti al
bancone e ripensava a cosa doveva fare per uscire da quella brutta
situazione. Si rivedeva di nuovo bambino e inchiodato dalla paura in
mezzo alla palestra, con tutti i bambini che cercavano di colpirlo
con un pallone. Anche se era passato tanto tempo da allora, le ferite
non guarivano mai. Non potevano.
Altri
clienti, o amici, dissero di voler interrompere, non riusciva a
sistemare la formula e suo padre gli aveva gridato di restare con lui
con la testa quando lavoravano.
«Scusami,
scusami…», aveva deglutito, passandosi le dita
sulla fronte e
chiudendo pesantemente gli occhi, «sono davvero stressato
e… non
lo so, forse ho bisogno di riposo».
«Pensavo
sapessi tenere meglio la pressione. È evidente che mi
sbagliavo»,
gli aveva ribattuto e Lex si era sentito ferito.
Possibile
che nessuno facesse uno solo sforzo per comprenderlo? Per avvicinarsi
davvero a lui?
«Lena».
Quella sera era tornato a National City poiché aveva bisogno
di
staccare, di passare del tempo con la sua sorellina. Non vedeva l'ora
di vederla e parlare con lei. «Ehi». Aveva aperto
la porta di
camera sua, dopo che aver bussato e chiamarla non erano stati
sufficienti e l'aveva vista che si abbassava le auricolari dalle
orecchie, seduta davanti alla sua scrivania. «Cosa fai?
Disturbo?».
«Sto
studiando», lo aveva guardato con curiosità.
«Credevo che saresti
rimasto a Metropolis».
«No,
sono stanco e volevo solo… vederti».
Lei
aveva addolcito lo sguardo, facendo una smorfia. «Mi
dispiace…
pensavo che non ti avrei visto se non per il fine settimana e sono
sotto con lo studio».
Lui
aveva scosso subito la testa, dicendole che sarebbe stato per
un'altra volta. Si era rifugiato in dependance e si era messo un dvd,
in modo che potesse riposarsi. Almeno aveva ancora se stesso. Ma
poi…
«C'è
un posto anche per me?».
Lena
si era affacciata dalla porta e lui aveva sorriso, annuendo e
facendole il gesto di avvicinarsi. Era ancora lì e solo per
lui.
Aveva sentito il petto scaldarsi di nuovo; la sua anima gemella lo
aveva trovato anche quella volta. Era bello poter ridere e parlare
liberamente con Lena.
«Quindi
adesso ti trasferirai a Metropolis?».
«È
possibile», aveva stretto le labbra con dispiacere.
«Il lavoro
chiama e purtroppo non posso far altro. Ma non subito, insomma, con
il tempo…».
Lena
lo aveva guardato in modo triste. «A te nemmeno piaceva
l'idea di
lavorare per la Luthor Corp».
«No,
non mi piaceva infatti», aveva concordato, sbuffando appena.
«Ma
sono un Luthor, Lena. Siamo Luthor. Non possiamo far altro che
accettarlo».
«Io
non sono proprio una Luthor», aveva sussurrato lei.
Lex
non aveva capito se quella prospettiva per lei era rassicurante o
d'altro canto triste. Una cosa però la sapeva per certo: non
poteva
dirle la verità. Così l'aveva abbracciata
ribadito che come Luthor
non potevano fare altro che accettare il loro destino.
Accettarlo.
Accettarlo e andare avanti. Ma Lex era il primo a non crederci e a
non volerlo accettare. Per questo motivo, non trovando proprio nessun
modo per liberarsi da quella situazione, da quella vita che lo
opprimeva da sempre, aveva manomesso i freni dell'auto. Il suo
autista era palestrato e non aveva pensato nemmeno per un attimo che
non avrebbe potuto farcela, per il resto doveva solo sembrare un
incidente. Era stanco. E Lena, per quanto gli volesse bene, aveva
sempre fatto amicizie e sapeva che non sarebbe rimasta sola. Non
aveva nessun altro e non sarebbe mancato a nessun altro. Naturalmente
aveva fatto male i conti, non valutando che un certo Clark Kent lo
stava pedinando da un po' e che, quel giorno, gli avrebbe salvato la
vita che lui non voleva più.
Clark
Kent era stato il suo raggio di sole in una vita buia. Dopo un po' di
tempo erano diventati amici, veri amici, e tutto aveva ricominciato
ad andare per il verso giusto: aveva modificato la formula e messo in
circolo una nuova partita di pillole verdi più sicure; i
clienti
erano aumentati di nuovo e qualche altro studente che, di tanto in
tanto, stava male non lo spaventata più perché
sapeva che avrebbe
corretto l'errore, che ci sarebbe voluto del tempo, ma che studiando
gli effetti sarebbe riuscito a risolvere il problema. Era fiducioso.
Si sentiva un ragazzo nuovo.
Con
l'aumento della produttività, si era reso disponibile ad
avere una
complice che l'aiutasse a consegnare le pillole verdi. Non che la
conoscesse bene, ma l'amica di sua sorella, che si faceva chiamare
Roulette, sembrava la persona giusta allo scopo: aveva una buona
parlantina, gli studenti già la conoscevano e si faceva
rispettare.
Era così che si erano messi in attività insieme.
Quando
la vedeva, quella ragazza lo affascinava. Sì, certo, c'erano
ben
nove anni di differenza, ma lei lo ammaliava. Ogni volta che apriva
bocca, sembrava che Veronica Sinclair stesse flirtando con lui. Ma
era il suo modo di fare, lo sapeva. Faceva così con tutti.
Anche con
sua sorella. Non era da lui, infatti, che si rifugiava diverse notti
al mese. Come del resto facevano altre ragazze.
Così
non era rimasto sorpreso quando una mattina aveva visto Veronica
uscire dalla camera di Lena. Era presto, saranno state le quattro e
dieci minuti, e gli era venuto appetito passata la notte a rivedere
alcuni dati per la Luthor Corp, invece di dormire. L'aveva vista
uscire quando era già affacciato alle scale, e
così era sceso in
cucina e lei era apparsa a pochi passi dopo di lui, avvolta in una
vestaglia di un verde scuro. Di Lena.
«Il
rosso è il tuo colore».
Lei
aveva alzato le sopracciglia, avvicinandosi al frigo e versandosi una
tazza di latte freddo. «Come, scusami?».
«Non
il verde, dicevo. Il verde, in ogni sua sfumatura, sta bene a Lena.
Lo indossa bene. Ma il tuo colore, invece, è certamente il
rosso».
Riprendeva a masticare una merendina al cioccolato che lei gli
sorrise compiaciuta, dondolandosi un po', dietro al bancone.
«Vedrò
di tenerlo a mente, allora», aveva risposto lei
avvicinandosi,
continuando a bere. «Uomo d'affari, scienziato brillante, ora
ti
intendi di moda: ci sarà qualcosa che non è nelle
tue corde, Lex
Luthor? Sei pieno di sorprese».
Lui
aveva sorriso, forse si era un poco imbarazzato, ma di sicuro non lo
mostrava. «Pensavo lo stesso di te, sai? Piena di sorprese,
come
amica di giorno e amante di notte».
Lei
si era seduta davanti a lui, mettendo una gamba sopra l'altra. La
vestaglia era scivolata da un lato ma Lex aveva guardato appena,
continuando a fissarla, invece, negli occhi a mandorla sicuri e pieni
di sé. «C'è qualcosa che vuoi dirmi,
fratello maggiore?».
«Non
ho intenzione di fare la paternale a Lena, non vedo perché
dovrei
dire qualcosa a te. Non sono affari miei,
però…», aveva finito la
sua merendina e accartocciato la carta, per poi piegarsi il tanto per
appoggiare il peso sulle gambe, guardandola con attenzione,
«però
tieni a mente che è la mia sorellina quella con cui vai a
letto e
che sono una persona un tantino… volubile», aveva
assottigliato le
labbra, accennando un altro sorriso.
Lei
non si era minimamente scomposta ed era una delle cose che
più gli
piacevano di lei. «Tendi a minacciare ogni ragazza, o Jack,
che gira
intorno alla tua sorellina?».
«Solo
quelle che ritengo ne abbiano bisogno».
«Oh»,
aveva abbassato gli occhi e lo aveva scrutato a lungo, nel suo
pigiama a quadri e l'aria dura. «Allora mi ritengo fortunata.
Tienimi d'occhio, fratello maggiore. Sia chiaro che questo non deve
intaccare la nostra collaborazione».
«Affatto.
Ci tengo quanto te», aveva fatto una smorfia lui. L'aveva
tenuta
sotto attento sguardo quando, con movimenti lenti e appena sinuosi,
se n'era andata per tornare da Lena.
Aveva
dormito poco e male e in questo modo, poche ore dopo, l'aveva sentita
andarsene dalla villa. A volte restava per colazione, altre, specie
quando i loro genitori erano in casa, fuggiva via come una ladra alle
prime ore dell'alba. Non sapeva bene perché, ma Veronica
Sinclair
era riuscita a conquistare la sua fiducia per quanto riguardava il
commercio delle pillole, ma non per come girava intorno a Lena.
«Allora…
tra te e Veronica». L'aveva fermata dopo aver pranzato ed era
uscita
fuori in giardino a prendere una boccata d'aria fresca.
«State
insieme?». Lena lo aveva guardato a lungo prima di decidere
di
rispondere:
«Sì
e no».
«Tu
e Jack vi siete lasciati?».
«Sì…
e no».
«Sta
spesso via, non è vero?».
«Sì.
E no».
«Lena».
Lei
aveva sbuffato e si era seduta schiena contro un albero, reggendosi
la gonna e mantenendola pulita dai fili d'erba. Lui si era inchinato,
guardando verso la sala da pranzo solo un attimo, attento che la loro
madre non li stesse spiando. «Jack ed io stiamo passando un
momento
particolare. Non ci siamo lasciati, ma non stiamo nemmeno insieme
come prima. Veronica ed io, invece, ci teniamo…
compagnia», aveva
sussurrato fissando un punto vuoto, giocando a muovere l'erba in
mezzo alle dita di una mano. Infine, presa coraggio, aveva guardato
Lex negli occhi. «Pensi di riprendermi?».
Lui
le aveva preso la mano e l'aveva allontanata dall'erba, stringendola
con le sue mani. «Che razza di fratello maggiore sarei, se
non fossi
dalla tua parte? Stai sperimentando, Lena… Che tu voglia
stare con
Jack, o che scopri di essere omosessuale, ti sosterrò.
Volevo solo
assicurarmi che fosse tutto a posto con Veronica».
«Non
ti piace?».
«No,
al contrario. La ritengo piuttosto sveglia, ma non vorrei ti facesse
del male».
Lena
aveva sorriso, stringendo le sue mani di rimando. «Siamo
amiche,
Lex. E non c'è nient'altro a parte questo e il sesso. Non mi
ferirà
un suo rifiuto o qualcosa del genere».
Lui
aveva annuito, grato della risposta. Era troppo preso dalla sua
sorellina per capire che, in realtà, il suo problema con
Veronica
Sinclair era vederla con lei, e non certo per istinto di protezione.
Avevano smesso di parlarne quando avevano visto arrivare Clark. Aria
smarrita, si era aggirato per il giardino da solo, quando dovevano
avergli detto che lo avrebbero trovato lì. Lena era rimasta
ancora
un po' sull'erba e Lex gli era andato incontro; si erano stretti le
mani e dato così una pacca su una spalla.
«Tutto
a posto?», gli aveva chiesto Clark al suo sguardo perso:
Roulette
era lì.
Era
passata vicino a loro, li aveva salutati con un gesto con la mano e
aveva raggiunto Lena davanti all'albero, intanto che Lex sospirava.
«Sì. Sì, certo».
«Non
mi piace quella ragazza», gli aveva detto lui, quando
entrambi si
erano girati a guardarla.
«Me
lo hai già detto, Clark. È una a posto, non ti
preoccupare». Gli
aveva ridato due pacche sulla schiena ed erano tornati dentro.
Clark
aveva iniziato ad andare spesso a trovarlo; non gli aveva regalato
solo la sua amicizia, ma un nuovo inizio. Forse proprio per questa
ragione non si sarebbe mai aspettato che qualcosa avrebbe potuto
incrinare i loro rapporti.
«Non
lo voglio qui, in questa casa», aveva sentito sua madre dire
a voce
un po' troppo alta quella notte, come tante altre notti prima, e Lex
si era messo ad ascoltare, ancora intento a ricontrollare i dati
della formula delle pillole verdi.
«È
amico di Lex. Parla più piano, Lillian», aveva
sentito suo padre,
«Potrebbe sentirti. Non dovremo parlarne qui».
Troppo
tardi, aveva pensato il ragazzo, dato che erano anni che li ascoltava
come se le pareti fossero state di carta velina. I due erano separati
in casa ormai da un sacco di tempo, eppure quando volevano discutere
tornavano lì, proprio vicino alla sua stanza, nella camera
che era
rimasta a Lillian. Si era avvicinato al muro con l'orecchio teso, per
assicurarsi di non perdersi nulla.
«Gli
ha salvato la vita e gli siamo tutti debitori, ma non voglio che si
avvicini a noi», aveva sbottato sua madre, «Quel
ragazzo non-», si
era fermata ed era seguito un breve silenzio.
«Lex
era così felice di portarlo a casa… Temi nel
conoscerlo? Immagino
come ti faccia sentire, probabilmente come fa sentire me. È
una cosa
che ti spaventa», era seguito un breve silenzio.
«Andiamo, Lillian,
lascia perdere. Puoi farlo? Puoi farlo?», aveva ribadito.
Questa
volta era stata sua madre ad uscire dalla stanza per prima.
Il
giorno dopo, lui e suo padre si erano diretti di nuovo a Metropolis e
Lex non aveva fatto a meno di notare quanto il suo genitore fosse
silenzioso. Aveva aspettato che fossero all'interno dell'azienda,
chiusi in ufficio, per iniziare a parlare:
«Non
ho mai fatto domande quando avete smesso di avere rapporti con
precedenti colleghi di lavoro, quando mi hai chiesto di stare attento
a quella vecchia volpe, ma adesso devo farti delle domande…
papà,
e vorrei che tu sia sincero con me così come io sono sincero
con te:
quanto i vostri precedenti affari erano coinvolti con Clark Kent e la
sua famiglia?».
Lionel
era sbiancato, quella mattina. Mai si sarebbe aspettato quella
domanda, segno che, in fondo, aveva sempre sottovalutato suo figlio.
Non era riuscito a fare a meno di dire la verità, di dirgli
tutto
quanto, chi erano e perché erano morti, dell'esaltazione di
Rhea
Gand, dell'organizzazione, di come non avrebbe potuto dirlo al suo
amico. Lionel si era sfogato. Aveva sottovalutato il suo ragazzo e
ora si era aperto con lui, discutendo insieme di colpe o non colpe,
facendolo arrabbiare ma al tempo stesso rendendolo partecipe di un
grande aspetto della famiglia Luthor.
«Non
vuoi capire, Lex: è la tua eredità. Tuo nonno era
uno dei fondatori
dell'organizzazione; siamo alcune delle radici di National City. E
abbiamo sbagliato ad andare avanti, ci siamo tirati fuori e paghiamo
ogni giorno. E forse dovremo ancora pagare il prezzo più
alto».
Lex
lo aveva guardato immobile; seppure per certi versi disgustato, non
ne era affatto sorpreso e tutto aveva acquistato un senso. Solo a
casa, a Metropolis, era riuscito a sfogarsi lui, da solo, colpendo il
muro. Clark era suo amico e i Luthor erano stati complici di chi gli
aveva rovinato la vita, ne erano quasi responsabili e, forse,
avrebbero anche potuto salvare la sua famiglia. Ci avevano provato,
ma forse non era stato abbastanza. Avrebbero potuto fare di
più,
allora? Si erano avvolti nel silenzio per paura, invece di farsi
avanti. Chi era davvero la sua famiglia? Di quali altri reati si
erano macchiati; quante vite avevano distrutto? Lui era come loro?
Una
cosa, però, la sapeva per certo: avrebbe mantenuto per
sé quelle
informazioni. Avrebbe ingoiato il boccone amaro e sarebbe andato
avanti fingendo di non averne mai saputo niente. Lo avrebbe fatto, in
special modo le avrebbe nascoste a Clark perché non avrebbe
potuto
perdere il suo unico vero amico, non doveva pagare lui il prezzo di
ciò che era accaduto in passato, eppure, un
giorno…
«Cosa
sai tu di cosa mi è successo? Di cosa è successo
alla mia
famiglia?», gli aveva urlato Clark. Aveva scoperto le pillole
che
gli aveva tenuto nascosto e quello…
Lex
aveva sentito una forte fitta alla bocca dello stomaco e gli era
mancata l'aria, ma aveva cercato con tutti i modi di restare
concentrato perché, assolutamente, non voleva perdere Clark
e doveva
restare lucido. A quel punto, una fetta della verità sarebbe
potuta
andare in suo soccorso. «Mi dispiace, Clar-».
«Tieniti
i tuoi dispiaceri! Da quanto lo sai?».
«Qualche
mese. Forse».
«E
in tutto questo tempo non hai pensato di dirmelo? Non hai trovato un
solo momento per parlarmene?».
«Te
ne sto parlando ora», gli aveva detto piano. Aveva cercato di
avvicinarsi a lui e dargli una pacca sulla spalla, ma Clark si era
tirato indietro. «Siamo amici. Non sapevo come dirtelo e
pensavo di
proteggerti, Clark, cerca di capirlo».
Ma
no. Clark non voleva capirlo. Non voleva capirlo esattamente come
tutti gli altri, non era diverso, e forse non erano mai stati davvero
amici. Clark Kent se n'era andato dalla sua vita così
com'era
venuto, portando dietro con sé la nuova vita che gli aveva
presentato, restituendogli solo tristezza e vuoto.
E,
come ogni volta che si sentiva solo, aveva cercato rifugio in sua
sorella. Aveva deciso di trasferirsi definitivamente a Metropolis e
una mattina era andato a trovarla in università per dirle
che
tornando in villa non lo avrebbe trovato. Roulette era sparita e
aveva lasciato il suo lavoro; non gli restava altro. Una ragazza gli
aveva detto che l'avrebbe trovata uscendo dal laboratorio di anatomia
e, una volta lì, affacciandosi alla porta, aveva intravisto
Lena
presa in giro da un ragazzo. Lui le lanciava qualcosa e lei faceva
finta di niente.
«Chi
è quello? Da quanto tempo fa così?».
«Oh,
lascia perdere. È un ragazzo un anno più grande;
ha saputo che farò
due anni in uno e cerca di prendermi in giro», aveva scosso
brevemente la testa, sbuffando. «Per cosa sei
passato?».
Lex
voleva rispondere, ma quel ragazzo era dietro di loro e rideva con il
suo gruppo di amici, facendo pernacchie con la bocca e bofonchiando
di come i Luthor avessero comprato il corpo insegnanti. Non aveva
capito davvero il reale motivo che lo aveva spinto a farlo. Se
davvero quel ragazzo se lo era meritato. Se in lui aveva rivisto gli
anni di prese in giro alle sue spalle. Se non voleva che anche solo
una goccia di ciò che gli era successo capitasse a Lena. Se
perché
frustrato e di nuovo sconfitto dalla vita. Ma lo aveva fatto: era
andato da lui e, senza dirgli nulla, gli aveva sferrato un pugno.
L'inatteso colpo aveva spinto il ragazzo contro il muro e il gruppo
di amici era rimasto paralizzato, indietro, intanto che Lex lo
colpiva ancora. E ancora. Lo aveva gettato a terra e aveva continuato
a colpirlo. Ancora. Ancora. Due insegnanti avevano allontanato Lex da
quel ragazzo o avrebbe finito per massacrarlo. Lena stava gridando;
era una delle tante voci che si erano alzate in pochi attimi. Ma era
tutto sordo e Lex non aveva sentito. Non aveva sentito fino a quella
domanda:
«Ma
sei fuori di testa? Cosa ti prende?». Lena era arrabbiata:
una vena
era comparsa sulla sua fronte, le narici dilatate, gli occhi erano di
ghiaccio, assottigliati.
Lui
si era passato una manica contro il naso, abbozzando appena un
sorriso. «Mi comporto da Luthor…».
Lo
avevano portato via intanto che il ragazzo passava dall'infermeria
all'ospedale. Lillian aveva convinto i genitori della sfortunata
vittima dello sfogo di Lex a non sporgere denuncia e lui si era
trasferito a Metropolis. Lex e Lena non si erano più sentiti
per un
po'.
Ma
se loro non si erano sentiti più, Lex aveva ritrovato
una cara
conoscenza durante le sue prime settimane di vita indipendente a
Metropolis. Veronica Sinclair aveva lasciato l'università e
si era
trasferita anche lei, suo malgrado, proprio da quelle parti.
«I
miei genitori non hanno preso bene il mio abbandono degli studi e mi
hanno tagliato l'accesso alle carte. Sto cercando lavoro e speravo
che un vecchio amico, nonché vecchio capo, potesse
aiutarmi».
Lui
aveva sorriso, decidendo di riprenderla con sé. Aveva
scoperto che
quella ragazza aveva ancora un grande potere su di lui. E
così,
quando lei aveva mostrato interesse nei suoi riguardi, Lex non era
riuscito a fare a meno di ricambiare.
«Ti
devo avvertire, Veronica: non sono qualcuno capace di amare. Se pensi
che vivrai una favoletta al mio fianco, ti sbagli di grosso».
«Se
pensi che vorrò la favoletta, sei tu a sbagliarti di
grosso», gli
aveva sfiorato una guancia e lui aveva chiuso gli occhi come
ammaliato, solo per un attimo. «Anche quando stavo con Lena
non
facevo che guardarti, Lex. Mi sei sempre piaciuto».
Lui
aveva abbozzato un sorriso e poi le aveva stretto i capelli, spinto
delicatamente contro un muro, e aveva appoggiato con foga le proprie
labbra sulle sue. Allora non sapeva per quanto sarebbe durato i loro
rapporto, né gli interessava davvero. Aveva preso Roulette
tra le
braccia e lei si era spinta su di lui, chiudendo le gambe attorno ai
suoi fianchi.
Non
ci sarebbe mai stato del tenero tra loro, Lex ne era sicuro, ma
qualunque cosa li legasse, per lui era più di quanto mai si
sarebbe
aspettato.
«Cosa
fai?». La mattina successiva, Veronica si era alzata dal
letto e,
nuda e scalza, si era affacciata davanti alla porta del bagno
adiacente alla camera da letto, osservando Lex che, davanti allo
specchio, si rasava la testa.
«Do
un segno chiaro a un nuovo inizio», aveva risposto lui, senza
guardarla.
Il
ragazzo incapace era cresciuto e si era svegliato un Luthor.
Eccoci
di ritorno con un capitolo particolare, incentrato sulla mia versione
per questa fan fiction di Lex Luthor. Un Lex inadeguato a tutto,
sconfitto su ogni aspetto, che infine ha accettato la parte
più
oscura di se stesso per andare avanti. Cosa ne pensate?
A
parte questo, abbiamo anche potuto leggere di come Lex e Lena erano
uniti, di cosa ha fatto allontanare i due per un po', dell'importanza
di Clark nella vita di Lex e che nonno Luthor, padre di Lionel, era
uno dei fondatori dell'organizzazione che, tra le altre cose, ha
ucciso i genitori di Kara e Clark.
Considerando
che lunedì ho diversi impegni, ho pensato di pubblicare il
capitolo
in anticipo! Spero sia stato gradito :D
In
ogni caso, il prossimo capitolo arriverà di
lunedì, ahah! Il
capitolo 28 riprende da dove abbiamo lasciato con il 26 e si intitola Il
piano :)
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